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Teoria dei sentimenti morali
Adam Smith

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Content
AVVERTENZA
PARTE I L’APPROPRIATEZZA DELL’AZIONE
SEZIONE I Il senso dell’appropriatezza
CAPITOLO I La simpatia
CAPITOLO II Il piacere della reciproca simpatia
CAPITOLO III La maniera in cui giudichiamo l’appropriatezza O inappropriatezza delle affezioni degli altri uomini, secondo la loro concordanza o dissonanza con le nostre
CAPITOLO IV Continuazione dello stesso argomento
CAPITOLO V Le virtù amabili e rispettabili
SEZIONE II I gradi delle diverse passioni in accordo con l’appropriatezza
INTRODUZIONE
CAPITOLO I Le passioni che derivano dal corpo
CAPITOLO II Le passioni che derivano da una particolare inclinazione o abitudine dell’immaginazione
CAPITOLO III Le passioni asociali
CAPITOLO IV Le passioni sociali
CAPITOLO V Le passioni egoistiche
SEZIONE III Gli effetti della prosperità e dell’avversità sul giudizio degli uomini riguardo all’appropriatezza dell’azione; perché è più facile ottenere la loro approvazione in uno stato piuttosto che nell’altro
CAPITOLO I Nonostante la nostra simpatia per la sofferenza sia generalmente una sensazione più vivace della nostra simpatia per la gioia, normalmente riesce molto meno a eguagliare la forza del sentimento naturalmente provato dalla persona principalmente interessata
CAPITOLO II L’origine dell’ambizione e le distinzioni di rango
CAPITOLO III La corruzione dei nostri sentimenti morali provocata da questa disposizione ad ammirare il ricco e il potente, e a disprezzare o trascurare persone di condizione mediocre o bassa
PARTE II IL MERITO E IL DEMERITO, OVVERO GLI OGGETTI DI RICOMPENSA E PUNIZIONE
SEZIONE I Il senso del merito e del demerito
INTRODUZIONE
CAPITOLO I Tutto ciò che sembra oggetto appropriato di gratitudine sembra meritare ricompensa; tutto ciò che sembra appropriato oggetto di risentimento sembra meritare punizione
CAPITOLO II Gli oggetti appropriati di gratitudine e risentimento
CAPITOLO III Nel caso non si approvi la condotta del benefattore, c’è scarsa simpatia per la gratitudine di chi riceve il beneficio, e, al contrario, nel caso non si disapprovino le ragioni del malfattore, non c’è alcuna simpatia per il risentimento di chi subisce il torto
CAPITOLO IV Riepilogo dei capitoli precedenti
CAPITOLO V Analisi del senso del merito e del demerito
SEZIONE II La giustizia e la beneficenza
CAPITOLO I Confronto tra le due virtù
CAPITOLO II Il senso di giustizia, il rimorso e la coscienza del merito
CAPITOLO III L’utilità di questa costituzione della natura
SEZIONE III L’influenza della fortuna sui sentimenti dell’umanità, con riguardo al merito e al demerito delle azioni
INTRODUZIONE
CAPITOLO I Cause di questa influenza della fortuna
CAPITOLO II L’estensione di questa influenza della fortuna
CAPITOLO III La causa finale di questa irregolarità di sentimenti
PARTE III IL FONDAMENTO DEI NOSTRI GIUDIZI SUI NOSTRI SENTIMENTI E SULLA NOSTRA CONDOTTA, E IL SENSO DEL DOVERE
CAPITOLO I Il principio dell’autoapprovazione e dell’autodisapprovazione
CAPITOLO II L’amore per la lode e per l’esserne degni; il timore del biasimo e dell’esserne degni
CAPITOLO III L’influenza e l’autorità della coscienza
CAPITOLO IV La natura dell’autoinganno e l’origine e l’uso delle regole generali
CAPITOLO V L’influenza e l’autorità delle regole generali della morale, e il loro essere giustamente considerate come le leggi della divinità
CAPITOLO VI In quali casi il senso del dovere debba essere l’unico principio della nostra condotta, e in quali casi debba concorrere con altre motivazioni
PARTE IV L’EFFETTO DELL’UTILITÀ SUL SENTIMENTO DI APPROVAZIONE
CAPITOLO I La bellezza che tutte le produzioni dell’arte ricevono dall’apparenza di utilità, e la grande influenza di questo tipo di bellezza
CAPITOLO II La bellezza che l’apparenza di utilità conferisce ai caratteri e alle azioni degli uomini; fino a che punto la percezione di questa bellezza si possa considerare uno dei principi originari dell’approvazione
PARTE V L’INFLUENZA DELLA CONSUETUDINE E DELLA MODA SUI SENTIMENTI DELL’APPROVAZIONE E DISAPPROVAZIONE MORALE
CAPITOLO I L’influenza della consuetudine e della moda sulle nostre nozioni di bellezza e deformità
CAPITOLO II L’influenza della consuetudine e della moda sui sentimenti morali
PARTE VI IL CARATTERE DELLA VIRTÙ
NTRODUZIONE
SEZIONE I Il carattere dell’individuo, relativamente alla sua influenza sulla propria felicità, ovvero: la prudenza
SEZIONE II Il carattere dell’individuo, relativamente alla sua influenza sulla felicità degli altri
INTRODUZIONE
CAPITOLO I L’ordine in cui la Natura raccomanda gli individui alla nostra cura e alla nostra attenzione
CAPITOLO II L’ordine in cui la Natura raccomanda le società alla nostra beneficenza
CAPITOLO III La benevolenza universale
SEZIONE III Il dominio di sé
CONCLUSIONE DELLA SESTA PARTE
PARTE VII I SISTEMI DI FILOSOFIA MORALE
SEZIONE I
SEZIONE II I diversi resoconti sulla natura della virtù
INTRODUZIONE
CAPITOLO I I sistemi che fanno coincidere la virtù con l’appropriatezza
CAPITOLO II I sistemi che fanno coincidere la virtù con la prudenza
CAPITOLO III I sistemi che fanno coincidere la virtù con la benevolenza
CAPITOLO IV I sistemi licenziosi
SEZIONE III I diversi sistemi che sono stati costruiti riguardo al principio dell’approvazione
INTRODUZIONE
CAPITOLO I I sistemi che deducono il principio di approvazione dall’amor di sé
CAPITOLO II I sistemi che fanno della ragione il principio di approvazione
CAPITOLO III I sistemi che fanno del sentimento il principio di approvazione
SEZIONE IV Il modo in cui i diversi autori hanno trattato le regole pratiche della moralità
 
AVVERTENZA
1. Dalla prima pubblicazione della Teoria dei sentimenti morali, che risale all’inizio dell’anno 1759, mi sono venute in mente alcune correzioni e molte spiegazioni delle dottrine in essa contenute. Ma le varie occupazioni in cui i diversi accidenti della mia vita mi hanno necessariamente coinvolto mi hanno finora impedito di rivedere quest’opera con la cura e l’attenzione che da sempre mi proponevo. Il lettore troverà le principali variazioni che ho operato in questa nuova edizione nell’ultimo capitolo della terza sezione della Parte prima, e nei quattro capitoli della Parte terza. La Parte sesta, così come è presente in questa nuova edizione, è del tutto nuova. Nella parte settima, ho raccolto la maggior parte dei principali passi sulla filosofia stoica, che nelle precedenti edizioni erano sparsi in diverse parti dell’opera. Contemporaneamente, ho cercato di spiegare in modo più esaustivo, e di esaminare più chiaramente, alcune delle dottrine di quella famosa setta. Nella quarta e nell’ultima edizione della stessa Parte, ho raggruppato alcune osservazioni aggiuntive sul dovere e il principio di veracità. Inoltre, in altre parti dell’opera, sono presenti altre variazioni e correzioni di non molta importanza.

2. Nell’ultimo paragrafo della prima edizione della presente opera, dicevo che avrei cercato in un altro trattato di dare un resoconto dei principi generali del diritto e del governo, e dei diversi rivoluzionari mutamenti che essi hanno subito nelle varie età e periodi della società, non solo per quel che riguarda la giustizia, ma per quel che riguarda l’amministrazione civile (police), le finanze e l’esercito, e qualsiasi altra cosa sia oggetto del diritto. Nella Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni ho in parte mantenuto questa promessa, almeno per quel che riguarda l’amministrazione civile (police), le finanze e l’esercito. Ciò che resta, la teoria della giurisprudenza, che progetto da tempo, è un’opera che finora non ho intrapreso perché impedito dalle medesime occupazioni che non mi avevano consentito finora di rivedere l’opera presente. Per quanto sia consapevole che la mia età molto avanzata non mi lasci molte prospettive di riuscire a eseguire quest’opera in modo per me soddisfacente, tuttavia, dal momento che non ho abbandonato del tutto il progetto, e dal momento che voglio continuare a sentirmi obbligato a fare tutto quello che posso, ho lasciato che il paragrafo restasse così com’era quando fu pubblicato più di trent’anni fa, quando non nutrivo alcun dubbio sulla possibilità di eseguire tutto quello che vi era annunciato.


 
PARTE I L’APPROPRIATEZZA DELL’AZIONE

 
SEZIONE I Il senso dell’appropriatezza

 
CAPITOLO I La simpatia
1. Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza degli altri è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato; infatti tale sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo.

2. Dal momento che non abbiamo esperienza diretta di ciò che gli altri uomini provano, non possiamo formarci alcuna idea della maniera in cui essi vengono colpiti in altro modo che col concepire ciò che noi stessi proveremmo nella stessa loro situazione. Nonostante nostro fratello sia sotto tortura, finché ce ne stiamo tranquilli a nostro agio, i nostri sensi non ci informeranno mai di quel che sta soffrendo. Non ci hanno mai condotto, e mai potranno condurci, al di là della nostra persona, ed è solo attraverso l’immaginazione che noi possiamo concepire quali siano le sue sensazioni. E tale facoltà non può aiutarci in questo, altro che col rappresentarci quali sarebbero le nostre sensazioni se fossimo noi al posto suo. Sono solo le impressioni dei nostri sensi, non quelle dei suoi, che le nostre immaginazioni copiano. Con l’immaginazione noi ci mettiamo nella sua situazione, ci rappresentiamo mentre proviamo tutti i suoi stessi tormenti, come se entrassimo nel suo corpo, e diventiamo in una certa misura la sua stessa persona e di qui ci formiamo qualche idea delle sue sensazioni e proviamo persino qualcosa che, nonostante di grado più debole, non è del tutto diverso da esse. I suoi tormenti, quando li abbiamo ricondotti a noi, quando li abbiamo adottati e fatti nostri, cominciano infine a far soffrire anche noi, e così tremiamo e trepidiamo al pensiero di ciò che egli prova. Infatti, come provare dolore o angoscia di qualsiasi genere provoca la più grande sofferenza, così rappresentarci o immaginare di provarlo suscita un certo grado della stessa emozione, in proporzione alla vivacità o alla debolezza della rappresentazione.

3. Che questa sia l’origine del nostro sentimento di partecipazione per la miseria altrui, che questo avvenga tramite un immaginario scambio di posto con chi soffre, che noi arriviamo a concepire ciò che egli prova, o a esserne colpiti, può essere dimostrato attraverso molte ovvie osservazioni, se non si dovesse ritenere abbastanza evidente di per sé. Quando vediamo che la gamba o il braccio di un’altra persona stanno per ricevere un colpo, istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio, e quando il colpo cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi, e ne siamo feriti quanto la vittima. La folla, quando guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi, come vede fare da lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua situazione. Persone di fibra delicata e di debole costituzione lamentano che nel vedere le ferite e le piaghe mostrate dai mendicanti per le strade, tendono a sentire un prurito o una sensazione di fastidio nella corrispondente parte del proprio corpo. L’orrore che concepiscono davanti alla miseria di quei disgraziati colpisce quella zona particolare del corpo in loro più che in ogni altro, poiché tale orrore deriva dal concepire ciò che essi stessi patirebbero se realmente fossero i disgraziati sui quali stanno posando il loro sguardo, e se quella zona particolare fosse effettivamente colpita nella stessa miserabile maniera. La forza stessa di tale concezione è sufficiente, nella loro debole struttura, a produrre quel prurito e quella sensazione di fastidio di cui si lamentano. Uomini di conformazione molto robusta affermano che, guardando degli occhi sofferenti, spesso provano una viva sofferenza nei loro occhi, e anche questo fatto deriva dallo stesso motivo: infatti gli occhi, negli uomini più forti, sono più delicati di quanto non lo sia qualsiasi altra parte del corpo negli uomini più deboli.

4. E non sono solo queste situazioni che creano dolore o sofferenza a far sorgere il nostro sentimento di partecipazione. Qualunque sia la passione che da un qualsiasi oggetto sorge nella persona principalmente coinvolta, un’emozione analoga scaturisce, al pensiero della sua situazione, nell’animo di ogni attento spettatore. La nostra gioia per la liberazione degli eroi delle tragedie o dei racconti fantastici che ci stanno a cuore è sincera come la nostra pena per la loro angoscia, e il nostro sentimento di partecipazione per la loro miseria non è più reale che quello per la loro felicità. Prendiamo parte alla loro gratitudine verso quei fedeli amici che non li hanno lasciati soli nelle loro difficoltà, e condividiamo il loro risentimento contro quei perfidi traditori che li hanno feriti, abbandonati, o ingannati. In ogni passione cui la mente umana è soggetta, le emozioni dello spettatore corrispondono sempre a quelli che, riportando il caso a sé, egli immagina debbano essere i sentimenti della persona che soffre.

5. Pietà e compassione sono parole appropriate per significare il nostro sentimento di partecipazione per la sofferenza altrui. La parola simpatia, nonostante il suo significato fosse forse originariamente lo stesso, ora tuttavia può, senza eccessiva improprietà, essere usata per denotare il nostro sentimento di partecipazione per qualunque passione.

6. In alcune occasioni può sembrare che la simpatia sorga semplicemente dalla vista di una certa emozione in un’altra persona. Le passioni, in alcune occasioni, possono sembrare trasfuse da un uomo a un altro istantaneamente, e prima di qualsiasi conoscenza di ciò che le ha suscitate nella persona principalmente interessata. Ad esempio, la pena e la gioia chiaramente espressi nello sguardo o nei gesti di qualcuno subito colpiscono lo spettatore con un certo grado di una simile emozione dolorosa o piacevole. Un volto sorridente è, per ognuno che lo vede, un oggetto allegro, così come, d’altro canto, è un oggetto triste un’espressione sofferente.

7. Tutto ciò, comunque, non vale universalmente o per ogni passione. Ci sono alcune passioni la cui espressione non suscita alcun genere di simpatia ma, ancor prima di sapere ciò che ha dato loro occasione di manifestarsi, serve piuttosto a disgustarci, e a rendercele ostili. È più facile che il furente comportamento di un uomo in collera ci faccia irritare proprio contro di lui, piuttosto che contro i suoi nemici. Dal momento che non sappiamo cosa lo abbia provocato, non possiamo riportare il suo caso a noi stessi, né rappresentarci nulla di simile alle passioni da esso suscitate. Invece vediamo facilmente qual è la situazione di coloro che sono oggetti della sua collera, e a quale violenza possano essere esposti da un avversario tanto furente. Perciò, prontamente simpatizziamo con il loro timore o risentimento, e siamo immediatamente disposti a schierarci contro l’uomo da cui sembrano così minacciati.

8. Se il solo apparire di pena e di gioia ci infonde qualche grado delle stesse emozioni, ciò accade perché esse ci suggeriscono l’idea generale di una qualche buona o cattiva fortuna accaduta alla persona in cui le osserviamo: per quel che riguarda queste passioni, ciò è sufficiente a provocare una qualche piccola influenza su di noi. Gli effetti della pena e della gioia sono limitati alla persona che prova queste emozioni, e le espressioni di tali emozioni, al contrario delle espressioni di risentimento, non ci suggeriscono l’idea di qualche altra persona per la quale ci preoccupiamo e i cui interessi sono opposti ai suoi. L’idea generale di cattiva o buona fortuna, perciò, crea un certo interessamento per la persona che si è in essa imbattuta, ma l’idea generale della provocazione non suscita alcuna simpatia per la collera di colui che l’ha subita. Sembra che la Natura ci insegni a essere contrari alla condivisione di questa passione e, finché non ne conosciamo la causa, a schierarci piuttosto contro di essa.

9. Anche la nostra simpatia per la pena o la gioia di un altro, prima che veniamo a conoscenza della loro causa, è sempre estremamente imperfetta. Delle lamentazioni generiche, che non esprimono altro che l’angoscia di colui che soffre, creano più una curiosità di indagare sulla sua situazione, insieme a una certa disposizione a simpatizzare con lui, che un’effettiva simpatia del tutto consapevole. La prima cosa che chiediamo è «Che ti è successo?». Finché non riceviamo risposta, nonostante la nostra ansia per la vaga idea della sua disgrazia, e ancor più per il nostro torturarci con congetture su cosa potrebbe essere capitato, il nostro sentimento di partecipazione non è molto profondo.

10. La simpatia, perciò, non sorge tanto dalla vista della passione, quanto dalla vista della situazione che la suscita. Proviamo a volte, al posto di un altro, una passione della quale lui stesso sembra del tutto incapace, perché, quando ci mettiamo nei suoi panni, quella passione sorge in noi dall’immaginazione, nonostante non sorga in lui dalla realtà. Arrossiamo per la sfrontatezza e la rozzezza di un altro, nonostante egli stesso sembri non rendersi conto dell’inappropriatezza del suo comportamento, perché non possiamo evitare di sentire la vergogna di cui ci saremmo coperti se fossimo stati noi a comportarci in una maniera così assurda.

11. Di tutte le calamità a cui la condizione della mortalità espone il genere umano, la perdita della ragione appare, a coloro che abbiano il minimo barlume di umanità, di gran lunga la più terribile, ed essi guardano a quell’ultimo stadio dell’infelicità umana con la più profonda commiserazione. Ma il povero infelice che la vive di persona forse ride e canta, e non si accorge affatto della sua disgrazia. L’angoscia che l’umanità prova a una simile vista, perciò, non può essere il riflesso di qualche sentimento della persona sofferente. La compassione dello spettatore deve sorgere interamente dalla considerazione di ciò che lui stesso proverebbe se fosse ridotto nella stessa infelice situazione, rimanendo, cosa forse impossibile, allo stesso tempo capace di osservarla con la sua attuale ragione e il suo attuale giudizio.

12. Quali sono le sofferenze di una madre, quando sente i lamenti del suo bimbo malato, incapace di esprimere quello che prova? Nel farsi l’idea di ciò che lui soffre, lei collega all’effettiva impotenza del figlio i suoi personali terrori per le oscure conseguenze del male, e forma, con sua grande sofferenza, la più perfetta immagine di miseria e pericolo. Il piccolo, invece, sente solo il male dell’istante, che non può mai essere tanto grande. Riguardo al futuro, egli è perfettamente tranquillo, e nella sua assenza di riflessione e previdenza, possiede un antidoto contro paura e ansietà, i grandi tormenti dell’animo umano, dai quali invano la ragione e la filosofia cercheranno di difenderlo quando diventerà un uomo.

13. Proviamo simpatia anche per i defunti, e, trascurando ciò che è veramente importante nella loro situazione, quello spaventoso avvenire che li attende, siamo commossi soprattutto da quelle circostanze che colpiscono i nostri sensi, ma che non possono avere alcuna influenza sulla loro felicità. È triste, pensiamo, essere privati della luce del sole, essere esclusi dalla vita e dalla conversazione, esser posti nella fredda tomba, preda della decomposizione e dei vermi della terra, non esser più pensati in questo mondo, ma venir cancellati in breve tempo dagli affetti, e persino dalla memoria dei più cari amici e parenti. Sicuramente, pensiamo, non è mai troppo ciò che proviamo per coloro che hanno patito una così terribile sciagura. Il tributo della nostra partecipazione sembra loro doppiamente dovuto, ora che essi corrono il pericolo di essere dimenticati da tutti, e, attraverso i vani onori che rendiamo alla loro memoria, tentiamo, per nostra infelicità, di tenere artificialmente in vita il nostro malinconico ricordo della loro sventura. Il fatto che la nostra simpatia non possa offrir loro alcuna consolazione sembra un’aggiunta alla loro disgrazia, e il pensiero che tutto ciò che possiamo fare è inutile, e che il dispiacere, l’amore e i lamenti degli amici, capaci di alleviare ogni altro dolore, non possono confortarli, serve solo a esasperare la nostra percezione della loro miseria. La felicità dei defunti, tuttavia, certamente non è intaccata da nessuna di queste circostanze, né il pensiero di queste cose può mai disturbare la profonda sicurezza del loro riposo. L’idea di quella tetra e infinita malinconia che la fantasia istintivamente attribuisce alla loro condizione sorge certamente dal fatto che noi colleghiamo al mutamento che si è prodotto in loro la nostra coscienza di quel mutamento, dal fatto che ci mettiamo nella loro situazione, che poniamo, se mi si concede l’espressione, le nostre anime vive nei loro corpi inanimati, e quindi dal fatto che ci rappresentiamo quali sarebbero le nostre emozioni in una tale situazione. È per questa vera e propria illusione dell’immaginazione che la previsione del nostro annullamento ci risulta così terribile, e che l’idea di quelle circostanze, che senza dubbio non possono procurarci dolore da morti, ci rende così tristi da vivi. E di qui deriva uno dei principi più importanti della natura umana, la paura della morte, gran veleno della felicità, ma grande freno per l’ingiustizia umana, il quale, nell’affliggere e mortificare l’individuo, sorveglia e protegge la società.


 
CAPITOLO II Il piacere della reciproca simpatia
1. Ma, quale che sia la causa della simpatia, e il modo in cui può venir suscitata, non c’è nulla che ci faccia più piacere che osservare in altri uomini una partecipazione a tutte le emozioni del nostro cuore, e nulla che ci urti quanto la manifestazione contraria. Quelli che si vantano di dedurre tutti i nostri sentimenti da certi raffinamenti dell’amor di sé provino a dar conto, sulla base dei loro principi, di questo piacere e di questo dolore. L’uomo, essi sostengono, consapevole della propria debolezza e del bisogno che ha dell’assistenza altrui, si rallegra ogni volta che osserva che gli altri fanno propria la sua passione, perché egli è in tal modo sicuro della loro assistenza; si addolora ogni volta che osserva il contrario, perché allora è sicuro della loro opposizione. Ma sia il piacere che il dolore sono sempre sentiti in modo così immediato, e spesso in così frivole occasioni, che sembra evidente che nessuno dei due può esser fatto derivare da una qualsivoglia considerazione di interesse egoistico. Un uomo è mortificato quando, dopo essersi sforzato di divertire la compagnia, si guarda intorno e vede che nessuno tranne lui ride alle sue battute. Al contrario, il divertimento della compagnia è per lui estremamente piacevole, ed egli considera come il più grande degli elogi questa corrispondenza dei loro sentimenti con i suoi.

2. E il suo piacere non sembra derivare interamente dalla maggior vivacità che il suo divertimento può ricevere dalla simpatia con il loro, né il suo dolore dalla delusione che prova nel vedersi privato di tale piacere, nonostante sia l’uno che l’altra, senza dubbio, in qualche misura hanno proprio tale origine. Quando abbiamo letto un libro o una poesia così tante volte che non possiamo più trovare alcun divertimento nel leggerli da soli, possiamo ancora provar piacere leggendoli a un compagno. Per lui, avranno tutta l’attrattiva della novità; noi prendiamo parte alla sorpresa e all’ammirazione che il libro naturalmente stimola in lui, ma che non riesce più a stimolare in noi, consideriamo tutte le idee che presenta più nella luce in cui appaiono a lui, che in quella in cui appaiono a noi, e ci divertiamo per simpatia col suo divertimento, che in tal modo ravviva il nostro. Saremmo invece contrariati se lui non apparisse divertito dal libro, e non riusciremmo più a provar piacere nel leggerglielo. Qui il caso è lo stesso. Il divertimento della compagnia, senza dubbio, ravviva il nostro divertimento, e il loro silenzio, al contrario, senza dubbio ci delude. Ma nonostante questo fatto possa contribuire sia al piacere che ci deriva dall’uno, sia al dolore che proviamo per l’altro, non è affatto l’unica loro causa, e tale corrispondenza o mancata corrispondenza dei sentimenti degli altri con i nostri sembra essere una causa di piacere o di dolore di cui non si può dar conto in questo modo. La simpatia che i miei amici esprimono per la mia gioia potrebbe in realtà procurarmi piacere ravvivando tale gioia; ma la simpatia che essi esprimono per la mia pena non potrebbe procurarmi alcun piacere se servisse solo a ravvivarmi quella pena. La simpatia invece, ravviva la gioia e allevia la pena. Ravviva la gioia, presentando un’altra fonte di soddisfazione, allevia la pena, insinuando nel cuore praticamente l’unica sensazione piacevole che è in grado di ricevere in quel momento.

3. Va osservato, in conformità con quanto precede, che siamo più ansiosi di comunicare ai nostri amici le nostre passioni spiacevoli, piuttosto che quelle piacevoli, che riceviamo ancor più soddisfazione dalla loro simpatia per le prime piuttosto che per le seconde, e che siamo ancor più feriti dalla sua mancanza.

4. Quale sollievo provano gli infelici, quando trovano una persona alla quale possono comunicare la causa della loro sofferenza! Grazie a questa simpatia, sembra che essi si alleggeriscano di una parte della loro angoscia, e non è fuori luogo dire che quella persona la divide con loro. Egli non solo prova una sofferenza dello stesso tipo della loro, ma, come se avesse preso per sé una parte di essa, ciò che egli sente sembra alleviare il peso di ciò che sentono loro. Ma, raccontando le loro sventure, in qualche misura essi rinnovano la loro pena e risvegliano nella loro memoria il ricordo di quelle circostanze che hanno dato occasione alla loro afflizione. Le loro lacrime, di conseguenza, scorrono più di prima, ed essi sono portati ad abbandonarsi alla debolezza della loro sofferenza. Tuttavia, essi provano piacere in tutto questo, e, è evidente, ne ricavano sollievo, perché la dolcezza della simpatia suscitata è più che un compenso per l’amarezza di quella sofferenza, ravvivata e rinnovata proprio per suscitare quella simpatia. Al contrario, l’insulto più crudele che può essere rivolto allo sventurato è non dare importanza alle sue disgrazie. Il non apparire colpiti dalla gioia dei nostri compagni non è altro che mancanza di gentilezza, ma non assumere un contegno serio quando ci raccontano ciò che li affligge è vera e propria inumanità.

5. L’amore è una passione piacevole, il risentimento, spiacevole e di conseguenza non siamo affatto ansiosi che i nostri amici condividano le nostre amicizie, come siamo invece ansiosi che prendano parte ai nostri risentimenti. Possiamo passar sopra al fatto che essi sembrino poco colpiti dalle approvazioni che abbiamo ricevuto, ma perdiamo tutta la nostra pazienza se si mostrano indifferenti alle ingiurie che possiamo aver subito, e non siamo tanto in collera con loro nel caso non condividano la nostra gratitudine, quanto nel caso non simpatizzino col nostro risentimento. Possono facilmente fare a meno di essere amici dei nostri amici, ma difficilmente riescono a evitare di essere nemici di coloro con i quali siamo in disaccordo. Raramente ci risentiamo per la loro ostilità verso i primi, anche se questo può portarci a qualche inopportuno scontro con loro: ma lo scontro diviene serio, se vanno d’accordo con i secondi. Le piacevoli passioni dell’amore e della gioia possono soddisfarci e sollevarci il cuore senza il soccorso di nessun altro piacere; le amare e sofferte emozioni della pena e del risentimento richiedono con più forza la salutare consolazione della simpatia.

6. Dal momento che la persona principalmente coinvolta in qualche evento si compiace della nostra simpatia ed è ferita dalla sua mancanza, così anche noi sembriamo compiaciuti quando riusciamo a simpatizzare con lei, e addolorati quando ne siamo incapaci. Non solo corriamo a congratularci con chi ha avuto successo, ma anche a consolare l’afflitto, e il piacere che troviamo nel conversare con qualcuno col quale possiamo simpatizzare del tutto, in ogni passione del suo cuore, sembra più che compensare il dolore della sofferenza che ci colpisce alla vista della sua situazione. Al contrario, è sempre spiacevole sentire di non poter simpatizzare con lui, e, invece di esser contenti di poterci risparmiare di soffrire per simpatia, ci ferisce scoprire di non poter condividere il suo fastidio. Se sentiamo una persona che si lamenta a gran voce delle sue disgrazie, le quali, però, riconducendo a noi il caso, sentiamo che non produrrebbero un così violento effetto su di noi, siamo impressionati dalla sua pena, e, poiché non possiamo prendervi parte, la chiamiamo pusillanimità e debolezza. Ci provoca malumore, d’altro canto, vedere un altro troppo felice o troppo esaltato per una piccola fortuna che gli è capitata. Siamo lontani anche da questa gioia, e, poiché non possiamo condividerla, la chiamiamo leggerezza o follia. Ci mette di cattivo umore persino se un nostro compagno ride a una battuta più forte o più a lungo di quanto noi riteniamo opportuno, vale a dire più forte o più a lungo di quanto rideremmo noi.


 
CAPITOLO III La maniera in cui giudichiamo l’appropriatezza O inappropriatezza delle affezioni degli altri uomini, secondo la loro concordanza o dissonanza con le nostre
1. Quando le passioni originali della persona principalmente interessata sono in perfetta concordanza con le emozioni simpatetiche dello spettatore, esse necessariamente appaiono a quest’ultimo giuste e appropriate, e adatte ai loro oggetti, e, al contrario, quando, riconducendo il caso a sé, lo spettatore trova che non coincidono con ciò che egli prova, gli appaiono necessariamente ingiuste, inappropriate e inadatte alle cause che le suscitano. Approvare, perciò, le passioni di un altro come adatte ai loro oggetti equivale a osservare che noi simpatizziamo interamente con esse, e non approvarle come tali equivale a osservare che non simpatizziamo interamente con esse. L’uomo che si risente per le ingiurie che sono state rivolte a me, e che osserva che io sono risentito per esse precisamente come lui, necessariamente approva il mio risentimento. L’uomo la cui simpatia accompagna la mia pena non può far altro che ammettere la ragionevolezza della mia sofferenza. Colui che ammira la stessa poesia e lo stesso dipinto da me ammirati e li ammira esattamente quanto me, deve sicuramente riconoscere la giustezza della mia ammirazione. Chi ride per la stessa battuta per cui rido io, e ride insieme a me, non può ragionevolmente negare l’appropriatezza della mia risata. Al contrario, la persona che, in queste differenti occasioni, non prova emozioni simili a quelle che provo io, o non ne prova nessuna che possa reggere il confronto con le mie, non può fare a meno di disapprovare i miei sentimenti sulla base della loro dissonanza con i suoi. Se la mia animosità oltrepassa il limite cui può giungere l’indignazione del mio amico; se la mia pena supera il livello condivisibile dalla sua più tenera compassione; se la mia ammirazione è troppo grande o troppo scarsa per concordare con la sua; se io rido forte e di cuore quando lui non fa altro che sorridere o, al contrario, sorrido solamente quando lui ride forte e di cuore, in tutti questi casi, non appena egli passa dalla considerazione dell’oggetto alla considerazione di come io ne sono colpito, a seconda della maggiore o minore sproporzione tra i suoi sentimenti e i miei, dovrò incontrare un maggiore o minore grado della sua disapprovazione, e in tutte le occasioni i suoi sentimenti sono modelli e le misure con cui egli giudica i miei.

2. Approvare le opinioni di un altro uomo significa far proprie quelle opinioni, e farle proprie significa approvarle. Se gli stessi argomenti che convincono te, convincono me allo stesso modo, necessariamente io approvo le tue convinzioni, e se non mi convincono, necessariamente le disapprovo: non riesco nemmeno a concepire che l’una cosa si dia senza l’altra. Perciò è riconosciuto da tutti che approvare o disapprovare le opinioni degli altri non significa niente di più che osservare il loro accordo o disaccordo con le nostre. Ma il caso è lo stesso riguardo all’approvazione o disapprovazione dei sentimenti o delle passioni degli altri.

3. Esistono, in verità, alcuni casi nei quali sembra che approviamo senza alcuna simpatia o corrispondenza di sentimenti e nei quali, di conseguenza, il sentimento di approvazione sembrerebbe diverso dalla percezione di tale coincidenza. Un po’ di attenzione, tuttavia, ci convincerà che anche in questi casi la nostra approvazione è in ultima analisi fondata su una simpatia o corrispondenza di questo tipo. Darò un esempio riferendomi a situazioni molto frivole, perché in esse i giudizi umani sono meno inclini a essere deviati da sistemi errati. Spesso possiamo approvare uno scherzo, e ritenere la risata della compagnia del tutto giusta e appropriata, nonostante personalmente non ridiamo, perché, forse, siamo di cattivo umore, o siamo distratti da altro. Abbiamo tuttavia imparato dall’esperienza quale tipo di facezia riesca a farci ridere nella maggior parte dei casi, e osserviamo che questa è una di quelle. Approviamo, perciò, la risata della compagnia, e sentiamo che è naturale e adatta al suo oggetto, perché, nonostante non possiamo facilmente prendervi parte a causa dell’umore presente, siamo consapevoli che nella maggior parte delle occasioni ci uniremmo di cuore a essa.

4. La stessa cosa accade spesso riguardo a tutte le altre passioni. Uno sconosciuto ci passa vicino per la strada, mostrando tutti i segni della più profonda afflizione, e ci viene immediatamente detto che ha appena ricevuto la notizia della morte di suo padre. È impossibile che in questo caso noi non approviamo la sua pena. Eppure può spesso accadere, senza alcun difetto di umanità da parte nostra, che, lungi dal prender parte alla profondità della sua sofferenza, a mala pena, sentendo il suo racconto, avvertiamo i primi moti di interessamento. Forse sia lui che suo padre ci sono del tutto sconosciuti, o capita che siamo occupati in altre faccende, e non perdiamo troppo tempo a raffigurarci nell’immaginazione le diverse circostanze che accompagnano la sua angoscia. Tuttavia, abbiamo imparato dall’esperienza che una tale sventura suscita istintivamente un tale grado di sofferenza, e sappiamo che se impiegassimo del tempo a considerare la sua situazione interamente e in tutte le sue parti, senza dubbio simpatizzeremmo più sinceramente con lui. È sulla consapevolezza di questa simpatia condizionale che è fondata la nostra approvazione del suo dolore, anche in quei casi in cui la simpatia di fatto non si verifica; e le regole generali derivate dalla nostra precedente esperienza di ciò cui i nostri sentimenti corrisponderebbero comunemente, corregge, in questa come in molte altre occasioni, l’inappropriatezza delle nostre emozioni presenti.

5. Il sentimento o affezione del cuore, da cui deriva ogni azione, e da cui dipende tutta la sua virtù o il suo vizio, può essere considerato sotto due differenti aspetti, o in due differenti relazioni: primo, in relazione alla causa che lo provoca, o al motivo che gli offre l’occasione; secondo, in relazione al fine che propone o effetto che tende a produrre.

6. Nell’adeguatezza o inadeguatezza, nella proporzione o sproporzione dell’affezione rispetto alla causa o oggetto che la suscita, consiste l’appropriatezza o inappropriatezza, la buona creanza o la malagrazia dell’azione conseguente.

7. Nella natura benefica o dannosa degli effetti cui l’affezione mira, o che tende a produrre, consiste il merito o demerito dell’azione, le qualità per le quali ha titolo a una ricompensa, o merita punizione.

8. In questi ultimi anni, i filosofi hanno considerato accuratamente la tendenza delle affezioni, rivolgendo scarsa attenzione alla loro relazione con la causa che le suscita. Nella vita comune, tuttavia, quando giudichiamo la condotta di una persona e i sentimenti che la guidano, le consideriamo sempre sotto entrambi questi aspetti. Quando biasimiamo in un altro uomo l’eccesso di amore, di pena, di risentimento, non consideriamo solo i disastrosi effetti che queste passioni tendono a produrre, ma anche la futile occasione che le ha determinate. Il valore della sua amata non è poi così grande, la sua sventura non è poi così terribile, la provocazione che ha ricevuto non è poi così grave, affermiamo, da giustificare una passione così violenta. Saremmo stati indulgenti, forse avremmo approvato la violenza della sua emozione, se la causa fosse stata in qualche modo proporzionata.

9. Quando giudichiamo le affezioni in questo modo, come proporzionate o sproporzionate rispetto alla causa che le suscita, è difficile che facciamo uso di una regola o di un canone che non sia la corrispondente affezione in noi stessi. Se, riconducendo a noi il caso, vediamo che i sentimenti provocati dall’affezione coincidono e collimano con i nostri, necessariamente li approviamo come proporzionati e adatti ai loro oggetti, altrimenti, necessariamente li disapproviamo come stravaganti e sproporzionati.

10. Ogni facoltà in un uomo è il metro per giudicare la stessa facoltà in un altro uomo. Giudico la tua vista attraverso la mia vista, il tuo udito attraverso il mio udito, la tua ragione attraverso la mia ragione, il tuo risentimento attraverso il mio risentimento, il tuo amore attraverso il mio amore. Non ho, né posso avere, alcun altro modo per giudicarle.


 
CAPITOLO IV Continuazione dello stesso argomento
1. Possiamo giudicare l’appropriatezza o inappropriatezza dei sentimenti di un’altra persona per mezzo della loro corrispondenza o disaccordo con i nostri, in due diverse occasioni: primo, quando gli oggetti che li suscitano sono considerati senza alcuna particolare relazione con noi stessi o con la persona della quale giudichiamo i sentimenti; oppure, in secondo luogo, quando sono considerati nel loro provocare affezioni in noi o nell’altra persona.

2. I. Riguardo a quegli oggetti che vengono considerati senza alcuna particolare relazione con noi o con la persona della quale giudichiamo i sentimenti, laddove i suoi sentimenti corrispondano interamente ai nostri, diciamo che ha buon gusto e giudizio. La bellezza di una pianura, la grandezza di una montagna, gli ornamenti di un edificio, l’espressione di un ritratto, la struttura di un discorso, la condotta di una terza persona, le proporzioni di diverse quantità e numeri, i vari aspetti che la gran macchina dell’universo eternamente esibisce, con i segreti ingranaggi e con le fonti che li producono, tutti gli oggetti generali della scienza e del gusto sono ciò che noi e il nostro compagno riteniamo non avere particolar relazione con nessuno di noi due. Entrambi li consideriamo dallo stesso punto di vista, e non abbiamo occasione per la simpatia, o per quell’immaginario scambio di situazione da cui essa deriva, per produrre la più perfetta armonia di sentimenti e affezioni riguardo a essi. Se, nonostante ciò, spesso siamo colpiti in modo diverso, ciò dipende o dai gradi diversi di attenzione che i nostri diversi costumi di vita ci consentono di rivolgere alle varie parti di quegli oggetti complessi, o dai diversi gradi di naturale acutezza delle facoltà della mente cui quegli oggetti sono indirizzati.

3. Quando i sentimenti del nostro compagno coincidono con i nostri in cose di questo genere, che sono ovvie e semplici, e nelle quali, forse, non abbiamo trovato una sola persona che si discostasse da noi, nonostante, senza dubbio, dobbiamo approvarle, pure egli non sembra per questo meritare elogio. Ma quando non solo coincidono con i nostri, ma li guidano e dirigono; quando, sviluppandoli, egli si è dedicato a molte cose da noi trascurate, e li ha adattati ai diversi aspetti dei loro oggetti, allora non solo approviamo quei sentimenti, ma restiamo meravigliati e sorpresi per la loro non comune e inattesa acutezza e completezza, e il nostro compagno ci sembra meritevole del più alto grado di ammirazione ed elogio. Infatti, l’approvazione rafforzata dalla meraviglia e dalla sorpresa costituisce il sentimento che propriamente viene denominato ammirazione, la cui espressione naturale è l’elogio. La decisione di colui che giudica la raffinata bellezza preferibile alla rozza bruttezza, o che due più due è uguale a quattro, deve certamente essere approvata dal mondo intero, ma non sarà certamente molto ammirata. Quel che suscita la nostra ammirazione e sembra meritare il nostro elogio è l’acuto e fine discernimento dell’uomo di gusto, che sa distinguere le minime e appena percettibili differenze di bellezza o bruttezza; è la complessa precisione del matematico esperto, che districa con disinvoltura le più aggrovigliate e ingarbugliate operazioni; è il grande leader nel campo della scienza e del gusto, l’uomo che dirige e guida i nostri sentimenti, che possiede talenti talmente estesi e giusti da lasciarci stupiti. Ed è su questo fondamento che si basa la maggior parte della lode concessa alle cosiddette virtù intellettuali.

4. Si potrebbe pensare che sia l’utilità di queste qualità ciò che primariamente ce le raccomanda, e non c’è dubbio che considerarne l’utilità, quando lo facciamo, conferisce loro un nuovo valore. In origine, tuttavia, approviamo il giudizio di un altro uomo non come qualcosa di utile, ma come qualcosa di giusto, accurato, in accordo con la verità e la realtà, ed è evidente che gli attribuiamo tali qualità solo perché lo troviamo in accordo con il nostro. Il gusto, allo stesso modo, viene in origine approvato non in quanto utile, ma in quanto giusto, delicato, e in quanto adatto precisamente al suo oggetto. L’idea dell’utilità di tutte le qualità di questo tipo è chiaramente qualcosa di cui ci occupiamo successivamente, e non è ciò che primariamente le raccomanda alla nostra approvazione.

5. II. Riguardo a quegli oggetti che colpiscono in una particolare maniera noi stessi, o la persona di cui giudichiamo i sentimenti, è da una parte più difficile, e allo stesso tempo molto più importante, mantenere tale armonia e corrispondenza. Il mio compagno non considera in modo naturale la sventura che mi ha colpito o l’offesa che mi è stata fatta dallo stesso punto di vista da cui le considero io. Esse colpiscono molto più da vicino me. Io e lui non le osserviamo dalla stessa posizione, come facciamo con un quadro, una poesia, un sistema di filosofia, e perciò siamo soggetti a esserne colpiti in modo molto diverso. Ma io riesco molto più facilmente a passar sopra alla mancanza di questa corrispondenza di sentimenti quando si tratta di oggetti così indifferenti, che non hanno rapporti né con me, né con il mio compagno, piuttosto che quando si tratta di cose che mi interessano più da vicino, come la sventura che mi è capitata, o l’offesa che ho ricevuto. Finché tu disprezzi quel quadro, quella poesia, o quel sistema di filosofia che io ammiro, non c’è pericolo che ci azzuffiamo per questo. Nessuno di noi due può ragionevolmente essere molto interessato a quelle cose. Si tratta in definitiva di questioni per noi del tutto indifferenti, per cui anche se le nostre opinioni possono essere opposte, le nostre affezioni pur tuttavia possono essere le stesse. Ma è del tutto diverso riguardo a quegli oggetti dai quali tu o io siamo particolarmente colpiti. Nonostante i tuoi giudizi su questioni speculative e i tuoi sentimenti su questioni di gusto siano del tutto opposti ai miei, posso facilmente passar sopra a questa opposizione e, se possiedo un certo grado di equilibrio, posso persino trovare un certo piacere nel conversare con te proprio su questi argomenti. Ma se non provi alcun sentimento di partecipazione per la sventura in cui mi sono imbattuto, o se provi solo un sentimento che non regge minimamente il confronto con la pena che mi affligge, se non provi alcuna indignazione per le offese che ho subito, o se provi solo un’indignazione che non regge minimamente il confronto con il risentimento che mi trascina, non possiamo più discutere su questi argomenti. Diventiamo insopportabili l’uno per l’altro. Non riesco più a tollerare la tua compagnia, né tu la mia. Tu sei disorientato dalla mia violenza e dalla mia passione, io vado in collera per la tua fredda insensibilità e mancanza di sentimento.

6. In tutti questi casi, affinché possa esserci qualche corrispondenza di sentimenti tra lo spettatore e la persona principalmente interessata, lo spettatore deve, prima di tutto, tentare, per quanto può, di mettersi nella situazione dell’altro, e ricondurre a sé anche la più piccola occasione di disagio in cui può imbattersi la persona che soffre. Deve fare interamente proprio il caso del suo compagno, in tutti i suoi più minuti particolari, e sforzarsi di rendere più perfetto possibile quell’immaginario scambio di situazione su cui si basa la sua simpatia.

7. Anche dopo tutto questo, tuttavia, sarà ancora molto difficile che le emozioni dello spettatore riescano a eguagliare l’intensità di quello che prova la persona che soffre. Il genere umano, per quanto sia per natura simpatetico, non concepisce mai, per ciò che è capitato a un altro, quel grado di passione che naturalmente anima la persona principalmente coinvolta. Quell’immaginario scambio di situazione su cui è fondata la simpatia degli esseri umani è solo momentaneo. Il pensiero della propria incolumità, il pensiero che le vere vittime non sono loro, si impone continuamente e, nonostante non impedisca loro di concepire una passione in un certo senso analoga a ciò che prova la persona che soffre, impedisce loro di concepire qualcosa che si avvicini a quello stesso grado di intensità. La persona principalmente coinvolta è consapevole di questo, e nello stesso tempo desidera ardentemente una più completa simpatia. Brama quel sollievo che nessuna cosa gli può offrire, tranne la totale concordia delle affezioni degli spettatori con le sue. La sua unica consolazione sta nel vedere le emozioni dei loro cuori concordare in ogni aspetto con le sue, nelle passioni intense e spiacevoli, ma può sperare di ottenerla solo attenuando la sua passione fino al livello in cui gli spettatori sono in grado di seguirlo. Deve attutire, se mi è concessa l’espressione, l’acutezza del suo tono naturale, per ridurlo all’armonia e alla concordia con le emozioni di quelli che gli sono intorno. Ciò che essi sentono sarà sempre, comunque, diverso per certi rispetti da ciò che sente lui, e la compassione non potrà mai essere uguale al dolore autentico. Infatti, la consapevolezza segreta che lo scambio di situazione, da cui deriva il sentimento simpatetico, non è altro che uno scambio immaginario non solo abbassa il grado di quel sentimento, ma in qualche misura lo modifica nel genere e gli dà una connotazione molto diversa. Questi due sentimenti, tuttavia, possono, è evidente, avere una corrispondenza reciproca sufficiente per l’armonia della società. Per quanto non potranno mai essere unisoni, possono essere concordi, e questo è tutto ciò che è cercato o richiesto.

8. Al fine di produrre questa concordia, la natura, così come insegna agli spettatori ad assumere le condizioni della persona principalmente interessata, allo stesso modo insegna a quest’ultima, in qualche misura, ad assumere quelle degli spettatori. Come essi si pongono di continuo nella sua situazione, e perciò continuamente concepiscono emozioni simili a ciò che egli prova, così egli si pone costantemente nelle loro situazioni, e perciò costantemente concepisce, nei riguardi della propria sorte, un qualche grado di quella freddezza con la quale sa che essi la osserveranno. Come essi costantemente riflettono su cosa proverebbero, se fossero realmente loro a soffrire, così, in modo altrettanto costante, egli è portato a immaginare in che maniera sarebbe colpito se fosse solo uno degli spettatori della propria situazione. Come la loro simpatia li porta a considerarla in qualche misura con gli occhi di lui, così la sua simpatia lo porta a considerarla in qualche misura con i loro occhi, specialmente quando si trova in loro presenza e agisce sotto la loro osservazione: e poiché la passione riflessa, che in tal modo concepisce, è più debole di quella originaria, essa necessariamente riduce l’intensità di quanto egli provava prima di giungere al loro cospetto, prima che cominciasse a comprendere in quale maniera essi ne sarebbero stati colpiti, e a vedere la propria situazione in questa luce franca e imparziale.

9. Perciò, la mente di rado è così turbata al punto che la compagnia di un amico non le possa restituire un certo grado di tranquillità e pacatezza. Nel momento stesso in cui arriviamo in sua presenza, l’animo si calma e si ricompone. Ci viene subito in mente la luce in cui lui osserverà la nostra situazione, e cominciamo anche noi a osservarla nella stessa luce, poiché l’effetto della simpatia è istantaneo. Ci aspettiamo una minore simpatia da un semplice conoscente piuttosto che da un amico: non possiamo far conoscere al primo tutte quelle circostanze particolari che possiamo rivelare al secondo: fingiamo, perciò, una maggiore tranquillità davanti a lui, e ci sforziamo di fissare i nostri pensieri su quegli aspetti generali della nostra situazione che lui è disposto a considerare. Ci aspettiamo una simpatia ancor minore da un pubblico di estranei, e fingiamo, perciò, ancor più tranquillità dinanzi a loro, sforzandoci di attenuare sempre la nostra passione fino a quel punto in cui ci si può aspettare che la particolare compagnia in cui ci troviamo possa condividerla. E questa non è solo una finzione apparente, perché, se siamo del tutto padroni di noi stessi, la presenza di un semplice conoscente ci calmerà davvero, ancor più di quella di un amico, e la presenza di un pubblico di estranei ancor più di quella di un conoscente.

10. La società e la conversazione, perciò, sono i rimedi più potenti per riportare la mente alla sua tranquillità, se in qualsiasi momento l’ha sfortunatamente perduta, così come sono i migliori modi per mantenere quel carattere equilibrato e felice, che è così necessario per la propria soddisfazione e la propria gioia. Gli uomini solitari e speculativi, che tendono a starsene in casa a rimuginare le proprie pene o il proprio risentimento, nonostante possano spesso possedere una maggiore umanità, una maggiore generosità, un più spiccato senso dell’onore, raramente possiedono quell’equilibrio così comune tra gli uomini di mondo.


 
CAPITOLO V Le virtù amabili e rispettabili
1. Su questi due diversi sforzi, quello dello spettatore di entrare nei sentimenti della persona principalmente coinvolta, e quello della persona principalmente coinvolta di attutire le sue emozioni fino a un livello condivisibile dallo spettatore, si fondano due diversi gruppi di virtù. Le virtù miti, gentili, amabili, le virtù della leale condiscendenza e dell’indulgente umanità sono fondate sul primo; le virtù solenni, maestose e degne di rispetto, le virtù dell’abnegazione, della padronanza di sé, di quel dominio delle passioni capace di sottomettere tutti i moti della nostra natura a ciò che la nostra dignità, il nostro onore e l’appropriatezza della nostra condotta richiedono, derivano dall’altro.

2. Come appare amabile chi possiede un animo simpatetico, capace di riecheggiare tutti i sentimenti di quelli con cui conversa, che pena per le loro disgrazie, che si risente per le offese da loro ricevute, e gioisce per la loro buona sorte! Quando riconduciamo a noi stessi la situazione dei suoi compagni prendiamo parte alla loro gratitudine e sentiamo quale consolazione debba loro derivare dalla tenera simpatia di un amico così affezionato. E, per una ragione contraria, come ci appare sgradevole chi possiede un cuore duro e ostinato, che batte solo per se stesso, del tutto insensibile alla felicità o alla miseria degli altri! Anche in questo caso, prendiamo parte al dolore che la sua presenza procura a ogni mortale con cui egli conversa, specialmente se si tratta di infelici e di offesi, con i quali siamo più portati a simpatizzare.

3. D’altro canto, quale nobile grazia e appropriatezza sentiamo nella condotta di quelli che nelle situazioni personali fanno uso di quella memoria e di quella padronanza di sé che rendono degne le passioni, attenuandole fino a un livello tale che gli altri possano prendervi parte. Ci fa indignare quella pena ostentata, che cerca di richiamare la nostra compassione senza alcun ritegno, con singhiozzi, lacrime e lamentele insistenti. Ma proviamo reverenza per quella sofferenza riservata, silenziosa e solenne, che si manifesta solo nel gonfiore degli occhi, nel tremore delle labbra e delle guance e nella distante, ma toccante, freddezza del comportamento nel suo complesso. Una simile sofferenza impone anche a noi lo stesso silenzio. Lo consideriamo con attenzione rispettosa, e controlliamo con ansiosa preoccupazione il nostro comportamento, per timore che qualcosa di inappropriato possa disturbare quella tranquillità così ben costruita, e così difficile da mantenere.

4. L’insolenza e la brutalità della collera, allo stesso modo, quando ci abbandoniamo alla sua furia senza controllo e senza misura, è estremamente detestabile. Ammiriamo invece quel nobile e generoso risentimento che persegue le peggiori offese non con la rabbia della vittima, ma con l’indignazione dello spettatore imparziale; che non si lascia sfuggire né una parola né un gesto all’infuori di quanto dettato da questo sentimento più equilibrato; che mai, nemmeno nel pensiero, cerca peggior vendetta o desidera infliggere punizione peggiore di quella che ogni persona indifferente vorrebbe veder eseguita.

5. Ed è per questo che provare molto per gli altri e poco per noi stessi, trattenere il nostro egoismo, e lasciarci andare alle affezioni benevole costituisce la perfezione della natura umana, ed è l’unica cosa in grado di produrre quell’armonia di sentimenti e passioni nella quale consiste la loro grazia e la loro appropriatezza. Come la grande legge del Cristianesimo è amare il prossimo come noi stessi, così il grande precetto della natura umana è amare noi stessi non più di quanto amiamo il nostro prossimo, o, che è lo stesso, non più di quanto il nostro prossimo è capace di amarci.

6. Si presume che gusto e buon giudizio, considerati come qualità degne di ammirazione, implichino una delicatezza di sentimento e un’acutezza intellettuale non comuni; allo stesso modo, si riconosce che le virtù della sensibilità e del dominio di sé non si trovano nei gradi ordinari di quelle qualità, ma nei gradi non comuni. L’amabile virtù dell’umanità richiede senz’altro una sensibilità che oltrepassa quella comune alla gente rozza e volgare. La solenne ed elevata virtù della magnanimità senza dubbio richiede un grado di dominio di sé di molto superiore a quello che anche il più debole dei mortali è in grado di esercitare. Non c’è abilità nel grado comune delle qualità intellettuali, e allo stesso modo non c’è virtù nel grado comune di quelle morali. La virtù consiste nell’eccellenza, in qualcosa di grande e bello in modo fuori dal comune, e che si pone ben al di là del volgare e dell’ordinario. Le virtù amabili consistono in quel grado di sensibilità che sorprende per la sua squisita e inattesa delicatezza e tenerezza. Le virtù maestose e degne di rispetto consistono in quel grado di dominio di sé che ci lascia attoniti per la sua sorprendente superiorità rispetto alle più ingovernabili passioni della natura umana.

7. Sotto questo rispetto c’è una considerevole differenza tra virtù e semplice appropriatezza, tra le qualità e azioni che meritano di essere ammirate e celebrate e quelle che meritano semplicemente di essere approvate. In molte occasioni, agire con la più perfetta appropriatezza non richiede niente di più di quel comune e ordinario grado di sensibilità e dominio di sé posseduto anche dal più indegno degli uomini, e a volte non è necessario nemmeno questo. Per dare un esempio banale, mangiare quando abbiamo fame, in situazioni normali è certamente giusto e appropriato, e non può non essere approvato come tale da tutti. Tuttavia, niente sarebbe più assurdo che sostenere che si tratta di un atto virtuoso.

8. Al contrario, possiamo frequentemente trovare un considerevole grado di virtù in azioni non perfettamente appropriate, ma che, in occasioni in cui è molto difficile raggiungere la perfezione, vi si avvicinano più di quanto ci si potrebbe aspettare. Questo succede molto spesso nelle situazioni che richiedono un notevole dominio di sé. Ci sono situazioni talmente difficili per la natura umana, che il grado più alto di padronanza di sé, di cui una creatura imperfetta quanto l’uomo può essere dotato, non riesce a soffocare del tutto la voce della debolezza umana, o a ridurre la violenza delle passioni fino a quel livello di moderazione interamente condivisibile dallo spettatore imparziale. Perciò, nonostante in quei casi il comportamento della persona che soffre sia privo di appropriatezza perfetta, può tuttavia meritare un certo elogio, e in un certo senso può persino venir denominato virtuoso. Magari mostra uno sforzo di generosità e magnanimità di cui la maggior parte degli uomini è incapace, e, nonostante manchi di assoluta perfezione, può rappresentare una approssimazione migliore di quella che troviamo o ci aspettiamo comunemente in tali difficili occasioni.

9. In casi di questo genere, quando stiamo decidendo il grado di biasimo o di elogio che sembra dovuto a qualche azione, facciamo di frequente uso di due diversi criteri di riferimento. Il primo è l’idea della completa appropriatezza e perfezione, che in tali difficili situazioni nessuna condotta umana ha mai raggiunto o potrà mai raggiungere, e a paragone della quale le azioni di tutti gli uomini devono apparire sempre biasimevoli e imperfette. Il secondo è l’idea di quel grado di vicinanza o distanza da questa completa perfezione, al quale giungono comunemente le azioni della maggior parte degli uomini. Qualsiasi azione superi tale grado, per quanto possa sembrare lontana dalla perfezione assoluta, sembra meritare elogio, qualsiasi azione non lo raggiunga sembra meritare biasimo.

10. È nello stesso modo che giudichiamo le produzioni di tutte le arti che si rivolgono all’immaginazione. Quando un critico esamina un’opera di qualcuno dei grandi maestri della poesia o della pittura, può talvolta esaminarla avendo in mente un’idea di perfezione tale che né quella né nessun’altra opera umana la raggiungerà mai, e finché il criterio di riferimento sarà quello, non vedrà in quell’opera altro che carenze e imperfezioni. Ma quando arriva invece a considerare il posto che dovrebbe occupare tra le altre opere dello stesso genere, necessariamente la confronta con un criterio di riferimento molto diverso, cioè con il comune grado di eccellenza raggiunto normalmente in questa particolare arte. Quando giudica l’opera con questa nostra misura, spesso gli sembra meritare il più grande elogio, sulla base del fatto che si avvicina alla perfezione molto più della maggior parte delle opere che con essa competono.


 
SEZIONE II I gradi delle diverse passioni in accordo con l’appropriatezza

 
INTRODUZIONE
1. L’appropriatezza di ogni passione suscitata da oggetti particolarmente legati a noi, vale a dire il livello condivisibile dallo spettatore, deve trovarsi in una certa intensità media della passione. Se la passione è troppo acuta o troppo debole, lo spettatore non può prendervi parte. La pena e il risentimento per sventure e offese private possono facilmente, ad esempio, essere troppo acuti, e nella maggior parte degli uomini è così. Allo stesso modo, sebbene sia più raro, possono essere troppo deboli. Chiamiamo l’eccesso debolezza e collera, e il difetto stupidità, insensibilità, mancanza di vigore. Non possiamo prender parte a nessuna di queste passioni, ma restiamo attoniti e confusi nel vederle.

2. Comunque, l’intensità media in cui consiste il grado dell’appropriatezza è diverso nelle diverse passioni. È a un livello alto in alcune, basso in altre. Ci sono passioni che è sconveniente esprimere in modo molto acceso, anche quando viene riconosciuto che non possiamo evitare di provarle in modo molto profondo. E ce ne sono altre che anche quando vengono espresse in modo molto acceso mantengono una certa grazia, anche se non sono passioni delicate. Le prime sono passioni che, per certe ragioni, suscitano poca o nessuna simpatia; le seconde sono passioni che, per altre ragioni, suscitano la più grande simpatia. E se consideriamo tutte le diverse passioni della natura umana, troveremo che sono ritenute decenti o indecenti proprio nella misura in cui gli uomini sono più o meno disposti a simpatizzare con esse.


 
CAPITOLO I Le passioni che derivano dal corpo
1. I. È indecente esprimere a un livello alto le passioni che derivano da una certa situazione o disposizione del corpo, perché non ci si può aspettare che la compagnia simpatizzi con esse, non trovandosi nella stessa disposizione fisica. Un forte appetito, ad esempio, per quanto in molte occasioni sia non solo naturale, ma anche inevitabile, è sempre indecente, e mangiare con voracità è universalmente considerato esempio di cattive maniere. Tuttavia, anche per l’appetito c’è un qualche grado di simpatia. Ci fa piacere vedere i nostri compagni mangiare di gusto, e ci offendono tutte le espressioni di ripugnanza. L’abituale disposizione fisica di un uomo in buona salute fa sì che il suo stomaco stia al passo con il primo atteggiamento e non con l’altro, se mi si concede tale rozza espressione. Riusciamo a simpatizzare con l’angoscia provocata dalla fame, quando ne leggiamo la descrizione nelle cronache di un assedio o di un viaggio per mare. Immaginiamo di trovarci nella stessa sofferta situazione dei protagonisti, e subito ci rappresentiamo la pena, la paura e la costernazione che certamente li sconvolgono. Noi stessi proviamo un certo grado di quelle passioni, e simpatizziamo con quelle persone: ma poiché leggendo la descrizione non ci viene fame, non si può propriamente dire, anche in questo caso, che simpatizziamo con la loro fame.

2. Il caso è lo stesso per quel che riguarda la passione con cui la natura unisce i due sessi. Nonostante sia per natura la passione più violenta, tutte le volte che si esprime in modo intenso è indecente, anche tra persone per le quali il più completo abbandono a essa è riconosciuto perfettamente innocente da tutte le leggi, sia umane che divine. Sembra tuttavia che esista un certo grado di simpatia anche nei riguardi di questa passione. Parlare a una donna come parleremmo a un uomo è inappropriato: ci si aspetta che la compagnia femminile ispiri più gioia, più spensieratezza e più attenzione, e una totale insensibilità per il gentil sesso rende un uomo in una certa misura disprezzabile anche agli stessi uomini.

3. Tale è la nostra avversione per tutti gli appetiti che derivano dal corpo: tutte le loro espressioni intense sono disgustose e spiacevoli. Secondo alcuni filosofi antichi, queste sono le passioni che abbiamo in comune con i bruti e che, non avendo connessione con le qualità tipiche della natura umana, sono per questo al di sotto della sua dignità. Ma vi sono molte altre passioni che abbiamo in comune con i bruti, come il risentimento, l’affetto naturale, e anche la gratitudine, che non per questo appaiono così brutali. La vera causa del particolare disgusto che proviamo per gli appetiti del corpo, quando li vediamo in altri uomini, è che non possiamo prendervi parte. Non appena vengono soddisfatti, l’oggetto che li suscita smette di essere piacevole per la stessa persona che li prova: persino la sua presenza gli diventa a volte ripugnante. Cerca invano l’attrazione che lo trasportava un attimo prima, e ora riesce tanto poco quanto un altro a prender parte alla sua stessa passione. Quando abbiamo finito di desinare, ordiniamo di sparecchiare la tavola, e allo stesso modo tratteremmo gli oggetti dei più ardenti e appassionati desideri, se fossero solo oggetti di passioni che derivano dal corpo.

4. Nella padronanza di tali appetiti del corpo consiste la virtù propriamente detta temperanza. Spetta alla prudenza limitarli all’interno dei confini prescritti dal riguardo per la salute e la fortuna. Ma confinarli all’interno dei limiti richiesti dalla grazia, dall’appropriatezza, dalla delicatezza e dalla modestia è compito della temperanza.

5. II. È per la stessa ragione che gridare per un dolore fisico, per quanto intollerabile esso sia, appare sempre indegno di un uomo e disdicevole. Anche la sofferenza fisica, tuttavia, suscita molta simpatia. Come ho già osservato se vedo che una gamba o un braccio di un’altra persona stanno per essere colpiti, istintivamente mi contraggo e ritiro la mia gamba o il mio braccio; e quando il colpo si abbatte, in qualche misura lo sento e ne sono ferito come la vera vittima. La mia ferita, tuttavia, è senza dubbio estremamente leggera, e per questo, se l’altro grida forte, non potendo condividerlo, non manco mai di disprezzarlo. E lo stesso accade per tutte le passioni che derivano dal corpo: o non suscitano alcuna simpatia, o la suscitano in un grado del tutto sproporzionato alla violenza di ciò che sente la persona che soffre.

6. Per le passioni che derivano dall’immaginazione il caso è del tutto diverso. Lo stato del mio corpo può essere colpito solo in piccola misura dalle alterazioni che avvengono sul corpo del mio compagno. Ma la mia immaginazione è più duttile, e assume più prontamente, se così posso dire, la forma e la configurazione delle immaginazioni di coloro con i quali sono in rapporti familiari. Una delusione d’amore, o quella di un’ambizione, attirerà perciò maggiore simpatia del più grande male fisico. Queste passioni derivano interamente dall’immaginazione. La persona che ha perduto la sua intera fortuna, se è in salute, non sente nulla sul suo corpo. Ciò che egli soffre gli viene solo dall’immaginazione, che gli prospetta perdita di dignità, abbandono da parte dei suoi amici, disprezzo da parte dei suoi nemici, dipendenza, indigenza e miseria che gli piombano addosso. In questo caso simpatizziamo più intensamente con lui, perché le nostre immaginazioni possono più prontamente conformarsi alla sua immaginazione di quanto i nostri corpi non possano conformarsi al suo corpo.

7. La perdita di una gamba può generalmente venir considerata come un danno più grave della perdita di un’amante. Tuttavia, una tragedia che avesse come catastrofe la perdita di una gamba sarebbe ridicola; la perdita di un’amante, invece, per quanto possa apparire una frivola sventura, ha dato a molti lo spunto per buone tragedie.

8. Niente si dimentica più rapidamente del dolore fisico. Quando passa, tutto il tormento che ne derivava finisce, e pensarci non ci disturba più. Noi stessi non riusciamo più a prender parte all’ansia e al tormento che abbiamo provato prima. Una parola fuori luogo da parte di un amico ci provoca un fastidio più durevole. Il tormento che ci procura non termina affatto quando lui finisce di pronunciarla. Quello che primariamente ci disturba non è l’oggetto dei sensi, ma l’idea dell’immaginazione. Dal momento che è un’idea, perciò, a provocare il nostro fastidio, finché il tempo e altri accidenti non l’avranno in qualche misura cancellata dalla nostra memoria, l’immaginazione continuerà ad affliggersi e a infiammarsi al suo pensiero.

9. Il dolore fisico non produce mai una simpatia realmente vivace, a meno che non sia accompagnato dal pericolo. Simpatizziamo con la paura, nonostante non simpatizziamo con il tormento della persona che soffre. La paura, tuttavia, è una passione derivata completamente dall’immaginazione, che raffigura, con un’incertezza e una fluttuazione che accresce la nostra ansia, non ciò che sentiamo realmente, ma ciò che potremmo soffrire da quel momento in poi. La gotta o il mal di denti, nonostante siano molto dolorosi, suscitano molta poca simpatia; malattie più gravi, nonostante siano accompagnate da un dolore molto più debole, ne suscitano moltissima.

10. Alcune persone svengono e si sentono male alla vista di un’operazione chirurgica, e il dolore fisico causato dall’incidere la carne sembra suscitare in loro la più grande simpatia. Ci rappresentiamo in modo molto più vivace e distinto il dolore fisico che deriva da una causa esterna, piuttosto che interna. Riesco difficilmente a farmi un’idea dei tormenti del mio vicino torturato dalla gotta, o dai calcoli, ma ho la più chiara rappresentazione di ciò che deve soffrire per un’incisione, una ferita, una frattura. Tuttavia, la causa principale per cui tali oggetti producono effetti così violenti su di noi è la loro novità. Chi ha assistito a una dozzina di dissezioni e a altrettante amputazioni considera tutte le operazioni di questo tipo con la più grande indifferenza, e spesso con totale insensibilità. Invece, anche se abbiamo letto o visto rappresentare più di cinquecento tragedie, raramente sentiremo un simile calo di sensibilità verso gli argomenti in esse rappresentati.

11. In alcune tragedie greche si tenta di suscitare compassione rappresentando i tormenti del dolore fisico. Filottete grida e sviene al colmo delle sofferenze. Ippolito ed Ercole sono entrambi presentati mentre muoiono sotto le torture più terribili, che persino la forza di Ercole sembra incapace di sopportare. In tutti questi casi, tuttavia, non è il dolore fisico che ci interessa, ma alcune altre circostanze. Non è il piede dolorante, ma la solitudine di Filottete che ci colpisce, e diffonde su quell’affascinante tragedia quella romantica atmosfera selvaggia, così piacevole per l’immaginazione. I tormenti di Ercole e di Ippolito sono interessanti solo perché prevediamo che la loro conseguenza sarà la morte. Se quegli eroi tornassero in salute, riterremmo del tutto ridicola la rappresentazione delle loro sofferenze. Che tragedia sarebbe, quella in cui l’angoscia fosse dovuta a una colica? Tuttavia, non c’è dolore più acuto di quello. I tentativi di suscitare compassione attraverso la rappresentazione del dolore fisico possono esser considerati tra le più grandi infrazioni del decoro di cui il teatro greco abbia dato esempio.

12. La scarsa simpatia che proviamo per il dolore fisico è il fondamento dell’appropriatezza della costanza e della pazienza nel sopportarlo. L’uomo che, sotto le torture più terribili, non cede ad alcuna debolezza, non manda un gemito, non si lascia prendere da nessuna passione che non prenda anche noi, ispira la nostra più grande ammirazione. La sua fermezza lo rende capace di accordarsi con la nostra indifferenza e insensibilità. Ammiriamo e condividiamo del tutto il magnanimo sforzo che egli compie a tale scopo. Approviamo il suo comportamento e, per la nostra esperienza della comune debolezza della natura umana, restiamo sorpresi e ci chiediamo come sia riuscito a comportarsi in modo da meritare approvazione. L’approvazione, unita alla meraviglia e alla sorpresa, e da esse stimolata, costituisce il sentimento propriamente detto ammirazione, la cui espressione naturale è l’elogio, come già osservato.


 
CAPITOLO II Le passioni che derivano da una particolare inclinazione o abitudine dell’immaginazione
1. Anche tra le passioni derivate dall’immaginazione, quelle che traggono origine da una particolare inclinazione o abitudine che essa ha acquisito, nonostante perfettamente naturali, non riscuotono molta simpatia. Le immaginazioni degli altri uomini, non avendo acquisito quell’inclinazione particolare, non possono prendere parte a quelle passioni, ed esse, sebbene si possa riconoscere che in qualche periodo della vita sono pressoché inevitabili, sono sempre in qualche misura ridicole. È questo il caso del forte legame che istintivamente si sviluppa tra due persone di sessi diversi, che hanno a lungo concentrato i loro pensieri l’uno sull’altro. Dal momento che la nostra immaginazione non ha fatto lo stesso percorso di quella dell’innamorato, non possiamo prender parte all’ardore delle sue emozioni. Se un nostro amico è stato offeso, simpatizziamo subito con il suo risentimento, e andiamo in collera con la stessa persona con cui è in collera lui. Se ha ricevuto un favore, prendiamo subito parte alla sua gratitudine, e acquistiamo un alto senso del merito del suo benefattore. Ma se è innamorato, anche se possiamo ritenere la sua passione ragionevole proprio come qualsiasi altra del genere, tuttavia non ci riteniamo mai costretti a provare una passione dello stesso tipo e per la stessa persona per cui la prova lui. La passione appare a tutti, tranne a chi la sente, del tutto sproporzionata rispetto al valore dell’oggetto, e l’amore, sebbene perdonato a una data età, perché sappiamo che è naturale, viene sempre deriso, perché non possiamo prendervi parte. Anche quando viene espresso in modo serio e profondo, appare ridicolo a una terza persona, e per quanto un innamorato possa essere una buona compagnia per la sua amata, non lo è per nessun altro. Anche lui stesso se ne rende conto, e finché si mantiene sobrio si sforza di motteggiare e schernire la propria passione. Siamo disposti ad ascoltarlo solo se il suo atteggiamento è questo, perché noi ne parleremmo solo in questo modo scherzoso. Ci annoia l’amore pesante, pedantesco e sentenzioso di Cowley e Petrarca, che non finiscono mai di esagerare la violenza dei loro legami amorosi, mentre la gaiezza di Ovidio e la galanteria di Orazio sono sempre gradevoli.

2. Ma nonostante non proviamo una vera e propria simpatia per un legame di questo tipo, nonostante non ci avviciniamo nemmeno con l’immaginazione a provare una passione per quella particolare persona, tuttavia, dal momento che abbiamo provato, o possiamo provare passioni dello stesso tipo, subito prendiamo parte a quelle grandi aspettative di felicità che il suo appagamento promette, e anche alla profonda angoscia che la sua delusione fa temere. Non ci interessa come passione, ma come situazione che dà occasione ad altre passioni che ci interessano: speranze, timore, angosce di ogni tipo; come nella descrizione di un viaggio per mare non è la fame che ci interessa, ma l’angoscia che la fame determina. Sebbene propriamente non prendiamo parte al legame amoroso, condividiamo l’attesa di romantica felicità che da esso deriva. Sentiamo quanto sia naturale per la mente, in una certa situazione di rilassatezza e affaticamento dovuto alla violenza del desiderio, anelare serenità e quiete, sperare di trovarla nell’appagamento di quella passione che la turba, e formare l’idea di quella tranquillità e solitudine che l’elegante, tenero e appassionato Tibullo descrive con così grande piacere; una vita come quella che i poeti descrivono nelle Isole Fortunate, una vita di amicizia, libertà, riposo, liberi dal lavoro e da preoccupazioni, e da tutte le turbolente passioni che li accompagnano. Anche scene di questo tipo ci interessano di più quando sono descritte piuttosto come ciò che si spera, che come ciò che si vive. La volgarità della passione che si mescola con l’amore e forse ne è fondamento scompare quando il suo appagamento è lontano e a distanza, ma la rende offensiva, quando viene descritta come qualcosa di immediatamente posseduto. Per questo la passione felice ci interessa molto meno di quella terribile e malinconica. Temiamo per ogni cosa che possa deludere le aspettative naturali e gradevoli, e così prendiamo parte a tutta l’ansia, la preoccupazione e l’angoscia dell’innamorato.

3. Di qui deriva il fatto che in alcune tragedie e racconti moderni questa passione appaia così meravigliosamente interessante. Non è tanto l’amore di Castalio e Monimia che ci attrae ne «L’orfano», quanto l’angoscia che quell’amore causa. L’autore che presentasse i due innamorati in una scena di perfetta sicurezza, mentre si dichiarano il loro reciproco amore, susciterebbe riso e non simpatia. Se mai una scena di questo tipo è presente all’interno di una tragedia, è sempre in una certa misura inappropriata, ed è sopportata non per una qualche simpatia per la passione espressa in essa, ma per una preoccupazione per i pericoli e le difficoltà che verosimilmente, secondo la previsione del pubblico, accompagneranno il suo appagamento.

4. Il riserbo che le leggi della società impongono al gentil sesso, a causa della sua debolezza, rendono questa passione più angosciosa nelle donne, e proprio per questo più interessante. Siamo affascinati dall’amore di Fedra, così come viene descritto nell’omonima tragedia francese nonostante la sua stravaganza e colpevolezza. Anzi, si può dire che proprio quella stravaganza e quella colpevolezza ce lo raccomandino. Il suo timore, la sua vergogna, il suo rimorso, il suo orrore, la sua disperazione diventano per questo più naturali e interessanti. Tutte le passioni secondarie, se mi è concesso chiamarle così, che nascono da una situazione d’amore, diventano necessariamente più furiose e violente, ed è solo con tali passioni secondarie che si può propriamente dire che noi simpatizziamo.

5. Tuttavia, di tutte le passioni che sono così incredibilmente sproporzionate rispetto alla natura del loro oggetto, l’amore è l’unica che anche alle menti più deboli sembra avere in sé qualcosa di gentile o gradevole. Prima di tutto, nonostante possa essere ridicolo, in se stesso non è naturalmente odioso, e nonostante le sue conseguenze siano spesso fatali e terribili, le sue intenzioni sono raramente cattive. E poi, nonostante la passione in se stessa possieda scarsa appropriatezza, ne possiedono in buona misura alcune delle passioni che sempre la accompagnano. Nell’amore c’è una forte mescolanza di umanità, generosità, gentilezza, amicizia, stima, passioni con le quali, per ragioni che spiegheremo immediatamente, abbiamo una forte propensione a simpatizzare, anche se siamo consapevoli che sono in una certa misura eccessive. La simpatia che proviamo per tali passioni rende meno sgradevole la passione che accompagnano, e la sostiene nella nostra immaginazione, nonostante tutti i vizi da cui normalmente è seguita, nonostante in uno dei due sessi conduca necessariamente all’estrema rovina e infamia, e nell’altro, in cui è meno fatale, comporti quasi sempre incapacità di lavorare, disprezzo per la fama, e persino per la semplice reputazione. Nonostante tutto ciò, il grado di sensibilità e generosità che presumibilmente lo accompagna lo rende per molti oggetto di vanità, tanto che essi si mostrano fieri di sembrar capaci di provare un sentimento che non farebbe loro onore, se davvero lo provassero.

6. È per una ragione dello stesso tipo che è necessaria una certa riservatezza quando parliamo dei nostri amici, dei nostri studi, delle nostre professioni. Questi sono argomenti che non ci possiamo aspettare che interessino i nostri compagni nella stessa misura in cui interessano noi. Ed è per mancanza di questa riservatezza che metà dell’umanità è una cattiva compagnia per l’altra. Un filosofo rappresenta una compagnia solo per un filosofo, il membro di un club, solo per la sua piccola cerchia di compagni.


 
CAPITOLO III Le passioni asociali
1. Esiste un’altra serie di passioni le quali, nonostante derivino dall’immaginazione, devono sempre essere attenuate rispetto al livello a cui le innalzerebbe la natura indisciplinata, e questo prima che noi possiamo prendervi parte o considerarle gentili o adeguate. Tali passioni sono l’odio e il risentimento, con tutte le loro diverse modificazioni. Riguardo a tutte queste passioni, la nostra simpatia si divide tra la persona che le prova e quella che ne è oggetto. Gli interessi di queste due persone sono direttamente opposti. Il nostro sentimento di partecipazione per l’una ci fa temere quel che la nostra simpatia per l’altra ci porterebbe a desiderare. Dal momento che si tratta di due persone, ci preoccupiamo per entrambe, e il nostro timore per ciò che l’una potrebbe soffrire attenua il nostro risentimento per ciò che l’altra ha sofferto. Perciò la nostra simpatia per chi ha ricevuto la provocazione necessariamente non riesce a eguagliare la passione che anima lui, non solo per quelle cause generali che rendono tutte le passioni simpatetiche inferiori a quelle originali, ma anche per una causa peculiare, e cioè la nostra opposta simpatia per un’altra persona. Perciò, prima che il risentimento possa diventare cortese e accettabile, deve essere fiaccato e attenuato al di sotto del livello che naturalmente tenderebbe a raggiungere, più di quanto non si faccia per quasi tutte le altre passioni.

2. Gli esseri umani, allo stesso tempo, hanno una profonda percezione delle offese fatte a un altro. Il malvagio, in una tragedia o in racconto, è oggetto della nostra indignazione quanto l’eroe è oggetto della nostra simpatia e del nostro affetto. Detestiamo lago tanto quanto stimiamo Otello, e ci rallegriamo per la punizione dell’uno, quanto ci addoloriamo per l’angoscia dell’altro. Ma sebbene gli esseri umani abbiano un così profondo sentimento di partecipazione per le offese fatte ai loro fratelli, non sempre se ne risentono nella stessa misura in cui lo fa la persona offesa. Il più delle volte, a meno che quest’ultima non sembri mancare di vigore, o essere indulgente solo per paura, maggiore è la sua pazienza, la sua mitezza, la sua bontà, maggiore sarà il loro risentimento contro chi l’ha offesa. A causa del carattere amabile di chi ha ricevuto l’offesa, questa sembra loro ancor più infamante.

3. Tuttavia queste passioni sono considerate come parti necessarie dell’indole umana. Una persona diventa disprezzabile se se ne resta docilmente calma, sottomettendosi agli insulti senza tentare di replicare o di vendicarsi. Non riusciamo a entrare nella sua indifferenza e nella sua insensibilità: chiamiamo meschinità il suo comportamento, e ne siamo irritati quanto dell’insolenza dei suoi avversari. Persino le persone più umili vanno in collera nel vedere un uomo che si sottomette pazientemente ad affronti e maltrattamenti. Quello che vogliono è vedere che questa insolenza provochi risentimento, e che lo provochi nella persona che la subisce. Gli gridano con violenza di difendersi, o di vendicarsi. Se infine la sua indignazione si risveglia, approvano di cuore e simpatizzano con essa. La loro stessa indignazione contro il nemico dell’altro ne risulta ravvivata, ed essi gioiscono nel vedere che egli lo attacca a sua volta e, come se fossero stati loro a ricevere l’offesa, sono realmente soddisfatti della sua vendetta, a meno che non sia eccessiva.

4. L’utilità di tali passioni per l’individuo è riconosciuta, perché rendono pericoloso insultarlo e offenderlo, e la loro utilità per il pubblico è non meno considerevole, come si mostrerà più avanti, nel loro ruolo di controllori della giustizia e dell’equità della sua amministrazione. Tuttavia, in esse c’è qualcosa di sgradevole, che rende il loro manifestarsi in altri uomini oggetto naturale della nostra avversione. L’espressione di collera verso qualcuno dei presenti, se oltrepassa la semplice indicazione che ci rendiamo conto del suo cattivo comportamento, è considerata non solo come un insulto a quella particolare persona, ma come una scortesia verso tutto il gruppo. Il rispetto per i presenti avrebbe dovuto trattenerci dal dar sfogò a un’emozione così violenta e offensiva. Sono gli effetti remoti di queste passioni a essere piacevoli: gli effetti immediati sono un danno per la persona verso cui sono diretti. Ma sono gli effetti immediati, e non quelli remoti, che rendono gli oggetti piacevoli o spiacevoli per l’immaginazione. Un carcere è certamente più utile per il pubblico di quanto non lo sia un palazzo lussuoso, e la persona che pone le fondamenta del primo generalmente è guidata da un più giusto spirito patriottico di chi costruisce il secondo. Ma gli effetti immediati di un carcere, la reclusione dei disgraziati rinchiusi in esso, sono oggetti spiacevoli, e l’immaginazione non perde tempo a delineare quelli remoti, o li vede a una distanza troppo grande per rimanerne molto colpita. Un carcere, perciò, sarà sempre un oggetto spiacevole, e tanto più lo sarà, quanto più sarà idoneo allo scopo cui è rivolto. Un palazzo lussuoso, al contrario, sarà sempre un oggetto piacevole, per quanto i suoi effetti remoti, come favorire il lusso o dare esempio di costumi dissoluti, possano essere scomodi per il pubblico. Ma poiché i suoi effetti immediati, quali la comodità, il piacere e la spensieratezza dei suoi abitanti, sono tutti gradevoli, e suggeriscono all’immaginazione migliaia di piacevoli idee, tale facoltà di solito si sofferma su di esse, e raramente procede nel delineare le sue conseguenze più remote. Le decorazioni raffiguranti strumenti della musica e dell’agricoltura, imitati nella pittura o negli stucchi, costituiscono un comune e piacevole ornamento per i nostri ingressi e i nostri soggiorni. Una decorazione dello stesso tipo, raffigurante strumenti chirurgici, bisturi per dissezioni e amputazioni, seghe per tagliare le ossa, trapani, eccetera, sarebbe assurda e scioccante. Tuttavia, gli strumenti chirurgici sono sempre rifiniti più accuratamente, e generalmente sono più adatti al loro scopo di quanto non lo siano gli strumenti agricoli. Anche il loro effetto remoto, e cioè la salute del paziente, è un oggetto piacevole, ma poiché il loro effetto immediato è dolore e sofferenza, la loro vista ci riesce sempre sgradita. Le armi sono gradevoli, per quanto il loro effetto immediato sembri, allo stesso modo, dolore e sofferenza. Ma in questo caso si tratta del dolore e della sofferenza dei nostri nemici, per i quali non proviamo simpatia. Per quel che riguarda il rapporto che quegli strumenti hanno con noi, essi sono sempre collegati con le gradevoli idee di coraggio, vittoria, onore. Per questo sono ritenuti tra gli elementi più nobili dell’abbigliamento e le loro imitazioni sono considerate tra i più raffinati ornamenti dell’architettura. Il caso è lo stesso per quel che riguarda le qualità della mente. Gli antichi Stoici erano del parere che poiché il mondo era governato dalla provvidenza onnipotente di un Dio saggio, possente e buono, ogni singolo evento dovesse essere considerato come parte necessaria dell’universo, tendente a promuovere l’ordine e la felicità generale del tutto, e che perciò i vizi e le follie dell’uomo giocassero, nell’economia di tale piano, un ruolo tanto necessario quanto la sua saggezza e la sua virtù, e che, per l’eterna arte che trae il bene dal male, fossero creati per tendere ugualmente alla prosperità e alla perfezione del gran sistema della natura. Tuttavia, nessuna speculazione di questo tipo, per quanto profondamente radicata nella mente, potrebbe indebolire la nostra naturale ripugnanza per il vizio, i cui effetti immediati sono così distruttivi e quelli remoti così distanti da non poter essere riconosciuti dall’immaginazione.

5. Il caso è lo stesso per quelle passioni or ora prese in esame. I loro effetti immediati sono così spiacevoli, che persino quando vengono provocate del tutto giustamente, c’è comunque qualcosa di ripugnante in esse. Queste, pertanto, sono le sole passioni le cui espressioni, come ho precedentemente osservato, non ci dispongono a simpatizzare con esse prima che veniamo informati della causa che le suscita. La voce lamentosa dell’infelicità, quando viene udita a distanza, non ci consente di restare indifferenti alla persona dalla quale proviene. Non appena colpisce il nostro orecchio, ci provoca interesse per la sua sorte e, se non si interrompe, ci costringe a correre in suo aiuto. La vista di un aspetto sorridente, allo stesso modo, provoca anche in chi è pensoso un umore gioioso e vivace, che lo dispone a simpatizzare e a condividere la gioia da esso espressa, Egli sente il suo cuore, che prima era contratto per il pensiero e la preoccupazione, e depresso, dilatarsi ed esaltarsi immediatamente. Ma è del tutto diverso per le espressioni di odio e risentimento. La rauca, violenta e stonata voce della collera, quando viene udita a distanza, ci ispira paura e avversione. Non ci fa correre verso di lei, come si corre verso una voce che grida di dolore e angoscia. Le donne e gli uomini dai nervi deboli tremano e vengono sopraffatti dalla paura, nonostante siano consapevoli di non essere loro gli oggetti della collera. Si impauriscono, tuttavia, mettendosi nei panni della persona che lo è. Persino quelli dai cuori più coraggiosi sono turbati, non tanto da impaurirsi, ma abbastanza da andare in collera, perché la collera è la passione che proverebbero nella situazione dell’altra persona. Il caso è lo stesso con l’odio. Le pure espressioni di rancore ispirano odio solo contro chi le manifesta. Entrambe queste passioni sono per natura oggetti della nostra avversione. La loro apparenza spiacevole e violenta non suscita mai, non prepara mai, e spesso anzi disturba, la nostra simpatia. Le espressioni di pena ci impegnano e attirano verso la persona in cui le osserviamo quanto l’odio e il risentimento, finché non ne conosciamo le cause, ci disgustano e distaccano da lei. Sembra sia stata intenzione della Natura che quelle emozioni più rudi e odiose, che separano gli uomini l’uno dall’altro, fossero comunicate più difficilmente e raramente.

6. Quando la musica imita le modulazioni della pena e della gioia ci ispira effettivamente quelle passioni, o almeno un umore adatto a concepirle. Ma quando imita le note della collera, ci ispira timore. La gioia, la pena, l’amore, l’ammirazione, la devozione sono tutte passioni musicali per natura. I loro toni naturali sono tutti tenui, chiari e melodiosi, si esprimono naturalmente in frasi scandite da pause regolari, e per questo si adattano facilmente al ritorno regolare dei corrispondenti motivi di una melodia. Al contrario, la voce della collera e di tutte le passioni simili a essa è stridente e dissonante. Anche le sue frasi sono irregolari, a volte molto lunghe, a volte molto brevi e non scandite da regolari pause. È con difficoltà, perciò, che la musica riesce a imitare qualcuna delle passioni asociali, e quando vi riesce non è delle più gradevoli. Si può fare un intero spettacolo, senza alcuna dissonanza, imitando le passioni sociali e piacevoli. Sarebbe al contrario uno strano spettacolo quello che consistesse interamente nell’imitazione di odio e risentimento.

7. Se le passioni asociali sono spiacevoli per lo spettatore, non lo sono di meno per la persona che le prova. Odio e collera sono i più grandi veleni per la felicità di una mente sana. Lo stesso sentire quelle passioni provoca qualcosa di stridente, discorde, convulso, qualcosa che strazia e sconvolge il cuore, e distrugge del tutto quella calma e quella tranquillità mentale che è così necessaria alla felicità, e che viene favorita più dalle passioni contrarie della gratitudine e dell’amore. Ciò che le persone buone e generose tendono maggiormente a rimpiangere non è il valore di quel che perdono per la perfidia e l’ingratitudine di quelli con i quali vivono: qualsiasi cosa possano aver perso, di solito riescono a essere felici anche senza. Ciò che più li disturba è l’idea della perfidia e dell’ingratitudine rivolta contro di loro, e le passioni discordi e sgradevoli che tale idea suscita rappresentano per loro la parte principale dell’offesa che patiscono.

8 Quante cose sono necessarie per rendere del tutto piacevole la gratificazione del risentimento, e per fare in modo che lo spettatore simpatizzi completamente con la nostra vendetta? Prima di tutto, la provocazione deve essere tale che diventeremmo spregevoli e saremmo esposti a perenni insulti se non ce ne risentissimo in una qualche misura. Le offese più lievi sono sempre tralasciate più facilmente, e non c’è nulla di più disprezzabile di quell’indole ribelle e capziosa che si infiamma a ogni minima occasione di litigio. Dovremmo risentirci più perché mossi dal sentire che il risentimento in quel caso è del tutto giustificato, più perché gli altri se lo aspettano e ce lo richiedono, che perché sentiamo la furia di questa spiacevole passione. Di tutte le passioni di cui la mente umana è capace, questa è quella che richiede da parte nostra un maggior dubbio sulla giustezza, una maggiore attenzione a consultare il senso dell’appropriatezza prima di abbandonarci a essa, e una maggiore considerazione di quali saranno i sentimenti dello spettatore freddo e imparziale. L’unico motivo che può nobilitare le espressioni di questa spiacevole passione è la magnanimità, o un riguardo per il mantenimento del nostro rango e della nostra dignità nella società. Questo motivo deve caratterizzare tutto il nostro stile e il nostro contegno, che devono essere semplici, aperti e franchi, risoluti senza esser presuntuosi ed elevati senza esser insolenti; non solo liberi da petulanza e volgarità, ma generosi, sinceri e pieni di tutti gli adeguati riguardi anche per la persona che ci ha offeso. In breve, dal nostro atteggiamento deve apparire, senza che ci sforziamo ostentatamente di esprimerlo, che la passione non ha soffocato la nostra umanità, e che, se cediamo ai dettami della vendetta, lo facciamo con riluttanza, per necessità, e in seguito a ripetute e gravi provocazioni. Quando il risentimento viene controllato e qualificato in questo modo, si può persino ammettere che sia nobile e generoso.


 
CAPITOLO IV Le passioni sociali


1. Ciò che rende l’intera serie di passioni appena menzionate sgraziate, e, nella maggior parte dei casi, sgradevoli, è il fatto che la nostra simpatia è divisa di fronte a esse. All’opposto, esiste un’altra serie di passioni che quasi sempre vengono rese particolarmente piacevoli e convenienti da una simpatia raddoppiata. La generosità, l’umanità, la gentilezza, la compassione, l’amicizia reciproca e la stima, tutte le affezioni sociali e benevole, quando vengono espresse nell’atteggiamento e nel comportamento, anche nei riguardi di coloro che non sono particolarmente legati a noi, compiacciono quasi sempre lo spettatore indifferente. La sua simpatia per la persona che prova quelle passioni coincide esattamente con la sua preoccupazione per la persona che ne è oggetto. L’interesse che, come uomo, lo spettatore è obbligato ad avere per la felicità di quest’ultima ravviva il suo sentimento di partecipazione per i sentimenti dell’altra persona, le cui emozioni sono impegnate sullo stesso oggetto. Per questo abbiamo sempre una forte disposizione a simpatizzare con le affezioni benevole. Ci appaiono gradevoli in ogni loro aspetto. Prendiamo parte sia alla soddisfazione della persona che le prova, che a quella di chi ne è oggetto. Essere oggetto di odio e di indignazione dà un dolore maggiore di tutto il male che un uomo coraggioso può temere dai suoi nemici; allo stesso modo, la coscienza di essere amato dà a una persona delicata e sensibile una soddisfazione che procura più felicità di tutti i vantaggi che si può aspettare da quell’amore. Quale carattere è così detestabile quanto quello di chi ha piacere di seminare discordia tra gli amici, e di mutare in odio mortale il loro più tenero amore? Tuttavia, in che consiste l’atrocità di questa offesa tanto aborrita? Forse nel privarli dei piccoli favori che avrebbero potuto aspettarsi l’uno dall’altro, se la loro amicizia fosse continuata? Essa consiste nel privarli dell’amicizia stessa, nel derubarli degli affetti reciproci, da cui entrambi ricavavano soddisfazione, nel disturbare l’armonia dei loro cuori, nel porre fine a quel felice scambio che intercorreva prima tra loro. Questi affetti, quell’armonia, questo scambio sono sentiti come più importanti per la felicità di tutti i piccoli servigi che possono derivarne, e questo vale non solo per l’uomo tenero e delicato, ma anche per il volgo più rude.

2. Il sentimento dell’amore è in se stesso gradevole per la persona che lo prova: rilassa e calma l’animo, sembra favorire i moti vitali e promuovere la salute, ed è reso ancor più dilettevole dalla coscienza della gratitudine e della soddisfazione che deve suscitare in chi ne è oggetto. La reciproca considerazione rende gli innamorati felici l’uno dell’altro, e la simpatia per questa reciproca considerazione li rende gradevoli per ogni altra persona. Con quale piacere consideriamo una famiglia nella quale regna amore e stima reciproca, nella quale genitori e figli sono compagni gli uni per gli altri, senz’altra differenza che un rispettoso affetto da una parte, e una benevola indulgenza dall’altra; dove libertà e amorevolezza, scherzi e gentilezze reciproche mostrano che non ci sono opposti interessi a dividere i fratelli, né rivalità per i favori a mettere in disaccordo le sorelle e ogni cosa dà l’idea della pace, dell’allegria, dell’armonia e della contentezza? Al contrario, quanto ci mette a disagio entrare in una casa in cui la contesa mette gli abitanti gli uni contro gli altri, in cui, tra ostentata armonia e compiacenza, sguardi sospetti e improvvisi scatti di passione tradiscono le reciproche gelosie che bruciano dentro di loro, e che sono a ogni momento pronte a mostrarsi improvvisamente, pur attraverso tutte le limitazioni imposte dalla presenza di estranei?

3. Le passioni amabili non sono mai considerate con avversione, anche quando si riconosce che sono eccessive. C’è qualcosa di gradevole anche nelle debolezze dell’amicizia e del sentimento di umanità. La madre troppo tenera, il padre troppo indulgente, l’amico troppo generoso e affezionato forse possono, a volte, a causa della loro natura mite, essere considerati con una certa pietà, nella quale, tuttavia, c’è una commistione di amore, ma non possono mai essere giudicati con odio e avversione, e nemmeno con disprezzo, tranne che dal più brutale e indegno degli uomini. È sempre con sollecitudine, simpatia e gentilezza che li rimproveriamo per il loro stravagante attaccamento. Il carattere che manifesta un’estrema umanità mostra una sorta di impotenza, che ci impietosisce più di ogni altra cosa. Non ha nulla in sé che lo renda sgraziato o spiacevole: soltanto, ci rammarichiamo del fatto che non è adatto al mondo, perché il mondo ne è indégno, e perché espone come una preda la persona che lo possiede alla perfidia e alla falsità, oltre che a migliaia di sofferenze e disagi, da lei meritati meno di chiunque altro e generalmente per lei insopportabili. Con l’odio e il risentimento le cose stanno in modo del tutto diverso. Una persona che mostra una tendenza troppo violenta verso queste detestabili passioni diventa oggetto di timore e repulsione universale, e noi pensiamo che dovrebbe essere scacciata dalla società civile come una bestia selvaggia.


 
CAPITOLO V Le passioni egoistiche
1. Oltre a queste due opposte serie di passioni, quelle sociali e quelle asociali, ce n’è un’altra che occupa quasi un posto di mezzo: non è mai così attraente come a volte lo è l’una, né così odiosa come lo è a volte l’altra. Questa terza serie di passioni è costituita dalla pena e dalla gioia che noi traiamo dal considerare la nostra buona o cattiva fortuna privata. Anche quando sono eccessive, non sono mai così spiacevoli come l’eccessivo risentimento, perché nessuna simpatia opposta può mai farci volgere contro di esse; anche quando sono del tutto adatte ai loro oggetti, non sono mai così piacevoli quanto l’imparziale sentimento di umanità e la corretta benevolenza, perché nessuna doppia simpatia ci può spingere verso di esse. C’è tuttavia questa differenza tra la pena e la gioia: noi siamo generalmente disposti a simpatizzare di più con le piccole gioie e le grandi sofferenze. L’uomo che, per un repentino colpo di fortuna, tutto a un tratto viene innalzato a un livello di vita molto superiore a quello in cui aveva vissuto precedentemente può star certo che le congratulazioni dei suoi amici non sono tutte perfettamente sincere. Una persona divenuta improvvisamente potente, per quanto dotata di gran merito, è generalmente sgradevole, e un sentimento di invidia generalmente ci impedisce di simpatizzare con lei. Se ha un minimo di giudizio se ne rende conto e anziché mostrare esaltazione per la sua buona fortuna, si sforza più che può di soffocare la sua gioia, e di tenere a freno quell’elevazione mentale che i suoi nuovi casi gli ispirano. Ostenta nel vestire la stessa semplicità, e nel comportamento la stessa modestia che gli si addicevano nel suo stato precedente. Raddoppia la sua attenzione per i vecchi amici, e si sforza più che mai di essere modesto, assiduo e compiacente. Questo è il comportamento che noi più approviamo, perché sembra che ci aspettiamo che dovrebbe avere una simpatia per la nostra invidia e per la nostra avversione alla sua felicità, maggiore di quella che abbiano noi per la sua felicità. Raramente egli riesce in tutto questo. Noi sospettiamo che la sua umiltà non sia sincera, e lui diventa insofferente della costrizione. Perciò, generalmente, in poco tempo egli si lascia alle spalle tutti i suoi vecchi amici, tranne alcuni tra i più meschini, che forse possono acconsentire a diventare suoi dipendenti, e non sempre fa nuove amicizie: l’orgoglio dei suoi nuovi conoscenti è ferito nel vederlo loro pari, quanto quello dei vecchi conoscenti è ferito nel vederlo diventato loro superiore, e per rimediare a questa duplice mortificazione è richiesta la più ostinata e perseverante modestia. In genere egli diventa troppo presto insofferente, ed è spinto dal cupo e sospettoso orgoglio dei primi, e dallo sfrontato disprezzo degli altri, a trattare i primi con sdegno e gli altri con protervia, finché alla fine non diventa abitualmente insolente e perde la stima di tutti. Se, come io credo, la parte più importante della felicità umana deriva dalla coscienza di essere amato, questi improvvisi cambiamenti di fortuna contribuiscono raramente alla felicità. È più felice chi avanza gradualmente verso la grandezza, e vi è destinato dagli altri prima ancora di giungervi; chi, quando vi giunge, non manifesta nessuna gioia stravagante, e non provoca gelosie in coloro che vengono eguagliati, né invidie in coloro che vengono superati.

2. Tuttavia gli uomini simpatizzano più prontamente con piccole gioie derivate da cause poco importanti. Nella grande prosperità è conveniente essere umili, ma la nostra espressione di soddisfazione non sarà mai eccessiva in tutte le piccole cose della vita comune, in mezzo ai compagni con cui abbiamo passato la scorsa serata, nel ricevimento tenuto in nostra presenza, in quel che è stato detto e in quel che è stato fatto, in tutti i piccoli frammenti della presente conversazione, in tutte quelle frivolezze che riempiono il vuoto della vita umana. Nulla è più leggiadro dell’abituale allegria che si fonda sempre su un particolare gusto per tutti i piccoli piaceri offerti da comuni avvenimenti. Simpatizziamo subito con questa allegria: ci ispira la stessa gioia, e ci fa apparire ogni inezia nella stessa piacevole prospettiva in cui si presenta alla persona dotata di questa felice disposizione. Per questo la gioventù, la stagione della gaiezza, guadagna facilmente il nostro affetto. Quella propensione alla gioia, che sembra stimolare freschezza, e scintillare dagli occhi di chi è giovane e bello, indipendentemente dal sesso, solleva anche le persone mature verso un umore più gioioso del solito. Esse per un po’ dimenticano i loro malanni e si abbandonano a quelle piacevoli idee ed emozioni da cui sono state a lungo lontane, ma che, quando la presenza di una tale felicità le richiama al loro animo, vi riprendono il loro posto, come dei vecchi conoscenti da cui è stato spiacevole essere separati, e che abbracciano più sinceramente a causa di questa lunga separazione.

3. Per quel che riguarda la pena, le cose stanno in modo del tutto diverso. Le piccole tribolazioni non suscitano simpatia, mentre le afflizioni profonde la suscitano in grande misura. L’uomo che diventa ansioso per ogni piccolo incidente spiacevole; che si sente ferito se il cuoco o il maggiordomo hanno mancato alla più futile regola del loro dovere; che trova tutti i difetti possibili nelle migliori espressioni di buone maniere, rivolte a lui o a qualche altra persona; che si offende se il suo intimo amico non gli ha dato il buongiorno incontrandolo al mattino, o se suo fratello ha canticchiato mentre lui stava raccontando una storia; che viene messo di cattivo umore dal brutto tempo quando si trova in campagna, dalle brutte strade quando è in viaggio, dalla mancanza di compagnia e dalla monotonia dei comuni passatempi quando è in città: un tale uomo, sostengo, nonostante possa avere una qualche ragione per lamentarsi, raramente incontrerà molta simpatia. La gioia è un’emozione piacevole, e alla minima occasione ci abbandoniamo volentieri a essa: perciò simpatizziamo prontamente con la gioia altrui; quando non siamo ostacolati dall’invidia. Ma la pena è dolorosa, e la mente istintivamente fa resistenza e indietreggia di fronte a essa, anche quando si tratta di una sventura nostra. Quel che vorremmo è o non provarla affatto, o liberarcene non appena la proviamo. La nostra avversione per la pena in realtà non ci trattiene dal provarla in occasioni del tutto insignificanti che riguardano noi, ma frena sempre la nostra simpatia in occasioni altrettanto frivole, ma riguardanti altre persone: infatti le nostre passioni simpatetiche sono sempre meno irresistibili di quelle originali. Nell’uomo, oltretutto, è presente una malizia che non solo gli impedisce ogni simpatia per piccoli fastidi, ma li rende in qualche misura divertenti. Di qui il piacere che tutti noi ricaviamo dallo scherno e dalle piccole vessazioni inflitte a chi viene spinto, incalzato e stuzzicato da ogni parte. Gli uomini ben educati nascondono il dolore provocato da un qualunque piccolo incidente, e quelli meglio adatti alla vita sociale trasformano di loro stessa iniziativa tali incidenti in scherno, come sanno che faranno i loro compagni. L’abitudine, acquisita da un uomo di mondo, di considerare come appariranno agli altri le cose che riguardano lui, fa apparire quelle frivole contrarietà sotto la stessa ridicola luce in cui lui sa che gli altri le considererebbero.

4. Al contrario, la simpatia che proviamo per la profonda disgrazia è molto forte e molto sincera. Non occorre darne esempi. Siamo capaci di piangere persino per la rappresentazione simulata di una tragedia. Perciò, se lotti a fatica, travolto da una grande disgrazia, se per qualche straordinaria sventura sei piombato nella povertà, nella malattia, nell’avversità e nella delusione, anche nel caso in cui sia stata in parte colpa tua, generalmente puoi ancora contare sulla più sincera simpatia di tutti i tuoi amici e, finché l’interesse e l’onore lo permettono, anche sulla loro assistenza più premurosa. Ma se la tua sventura non è così grave, se sei stato soltanto un po’ ostacolato nella tua ambizione, se sei solo stato piantato dalla tua amata, o sei solo tormentato da tua moglie, esponi le tue lamentele allo scherno di tutti i tuoi conoscenti.


 
SEZIONE III Gli effetti della prosperità e dell’avversità sul giudizio degli uomini riguardo all’appropriatezza dell’azione; perché è più facile ottenere la loro approvazione in uno stato piuttosto che nell’altro

 
CAPITOLO I Nonostante la nostra simpatia per la sofferenza sia generalmente una sensazione più vivace della nostra simpatia per la gioia, normalmente riesce molto meno a eguagliare la forza del sentimento naturalmente provato dalla persona principalmente interessata
1. La nostra simpatia per la sofferenza è stata maggiormente presa in considerazione della nostra simpatia per la gioia, nonostante non sia più reale di quest’ultima. La parola simpatia, nel suo significato più proprio e primitivo, denota il nostro sentimento di partecipazione alle sofferenze, non ai piaceri, degli altri. Un defunto filosofo ingegnoso e sottile ritenne necessario provare, per mezzo di argomentazioni, che abbiamo una reale simpatia per la gioia, e che l’atto della felicitazione è un principio della natura umana. Nessuno, credo, ha mai ritenuto necessario provare la stessa cosa riguardo alla compassione.

2. Prima di tutto, la nostra simpatia per la sofferenza è in un certo senso più universale che quella per la gioia. Anche se la sofferenza è eccessiva, possiamo comunque provare per essa un certo sentimento di partecipazione. Ciò che sentiamo in questo caso, in verità, non equivale a quella completa simpatia, a quella perfetta armonia e corrispondenza di sentimenti da cui è costituita l’approvazione. Noi non piangiamo, non gridiamo, non ci lamentiamo insieme a colui che soffre. Al contrario, ci rendiamo conto della sua debolezza e della stravaganza della sua passione, e tuttavia spesso siamo molto preoccupati per lui. Ma se non prendiamo interamente parte alla gioia di un altro e non la condividiamo del tutto, non abbiamo alcun genere di considerazione o alcun sentimento di partecipazione per essa. L’uomo che salta e balla, con una gioia sfrenata e insensata, nella quale non possiamo accompagnarlo, è oggetto del nostro disprezzo e della nostra indignazione.

3. Inoltre il dolore, sia fisico sia mentale, è una sensazione più acuta del piacere, e la nostra simpatia per il dolore, nonostante non riesca che in piccola misura a eguagliare ciò che sente chi soffre, è di solito una percezione più vivace e distinta della nostra simpatia per il piacere, nonostante quest’ultima spesso si avvicini di più, come mostrerò immediatamente, alla vivacità naturale della passione originaria.

4. Soprattutto, poi, spesso ci sforziamo di reprimere la nostra simpatia per la sofferenza altrui. Ogni volta che non siamo sotto lo sguardo della persona che soffre, ci sforziamo, nel nostro stesso interesse, di sopprimerla più che possiamo, senza riuscirci sempre. L’opposizione che facciamo e la riluttanza con cui ci arrendiamo a essa ci obbligano necessariamente a prestarle maggiore attenzione. Ma non ci capita mai di opporci in questo modo alla nostra simpatia per la gioia. Nel caso ci sia dell’invidia, non sentiamo mai la minima propensione verso tale simpatia, e se non c’è affatto invidia, le lasciamo via libera senza alcuna riluttanza. Al contrario, dal momento che ci vergogniamo sempre della nostra invidia, spesso fingiamo, e a volte desideriamo realmente, di simpatizzare con la gioia altrui, quando quello spiacevole sentimento ci rende incapaci di farlo. Diciamo di essere contenti per la buona fortuna del nostro prossimo, quando forse nel nostro cuore siamo davvero infelici. Spesso sentiamo una simpatia per la sofferenza, quando vorremmo esserne liberi e spesso non riusciamo a sentirla per la gioia, quando invece saremmo contenti di provarla. Perciò l’osservazione più ovvia che ci viene spontaneo fare è che la nostra propensione a simpatizzare con la sofferenza debba essere molto forte, e la nostra inclinazione a simpatizzare con la gioia molto debole.

5. Nonostante questo pregiudizio, tuttavia, mi spingerò ad affermare che, quando nel caso specifico non vi sia invidia, la nostra propensione a simpatizzare con la gioia è molto più forte che la nostra propensione a simpatizzare con la sofferenza, e che il nostro sentimento di partecipazione per l’emozione piacevole si avvicina molto di più alla vivacità di ciò che è naturalmente sentito dalla persona principalmente interessata di quanto non faccia quello che proviamo per l’emozione dolorosa.

6. Abbiamo una certa indulgenza per quella pena eccessiva che non possiamo condividere interamente. Sappiamo quale prodigioso sforzo sia richiesto prima che la persona che soffre riesca a controllare le sue emozioni fino a una perfetta armonia e concordia con quelle dello spettatore. Anche se non vi riesce, perciò, lo scusiamo facilmente. Ma non abbiamo una tale indulgenza per l’intemperanza della gioia, perché non ci risulta che sia richiesto uno sforzo simile per attenuarla fino a un livello in cui possiamo prendervi parte interamente. L’uomo che riesce a dominare la propria sofferenza nelle più grandi sventure sembra degno della più grande ammirazione; ma colui che, nel pieno della prosperità, riesce nella stessa maniera a padroneggiare la sua gioia sembra difficilmente meritare qualche lode. Siamo consapevoli che c’è una maggiore distanza in un caso che nell’altro tra ciò che è naturalmente sentito dalla persona principalmente interessata e ciò che lo spettatore può interamente condividere.

7. Cosa si può aggiungere alla felicità dell’uomo che è in salute, non ha debiti e ha la coscienza pulita? Per uno in tale situazione, ogni aggiunta di fortuna può giustamente essere giudicata superflua, ed esaltarsi per un simile evento è segno della più frivola leggerezza. Tuttavia, questa situazione può benissimo essere definita come lo stato naturale e ordinario dell’umanità. Nonostante l’attuale miseria e depravazione del mondo, tanto giustamente lamentata, questo è realmente lo stato della maggior parte degli uomini. Perciò la maggior parte degli uomini non può trovare una grande difficoltà nel condividere la felicità che altri provano nel raggiungere una tale situazione.

8. Ma sebbene a questo stato possa essere aggiunto poco, molto ne può essere tolto. Sebbene tra questa condizione e la più alta vetta della prosperità umana l’intervallo non sia altro che un’inezia, tra essa e la più infima profondità della miseria la distanza è immensa e prodigiosa. L’avversità, per questo, necessariamente deprime la mente della persona che soffre fino a condurla al di sotto del suo stato naturale, e questo in misura maggiore di quanto la prosperità non possa condurla al di sopra. Lo spettatore, perciò, deve trovare molto più difficile simpatizzare interamente e andare perfettamente all’unisono con la sua sofferenza, che prendere interamente parte alla sua gioia, e deve allontanarsi molto di più in un caso che nell’altro dal suo naturale e ordinario modo di sentire. È per questo che, nonostante la nostra simpatia per la sofferenza sia spesso una sensazione più pungente della nostra simpatia per la gioia, accade sempre che essa riesca molto meno a eguagliare la forza del sentimento naturalmente provato dalla persona principalmente interessata.

9. Simpatizzare con la gioia è piacevole, e, laddove l’invidia non le si opponga, il nostro cuore si abbandona con soddisfazione ai più alti trasporti di questo delizioso sentimento. Ma condividere la pena è doloroso, ed è sempre con riluttanza che vi prendiamo parte. Quando assistiamo alla rappresentazione di una tragedia, lottiamo più a lungo che possiamo contro la sofferenza simpatetica che lo spettacolo ispira, e diamo sfogo a essa solo alla fine, quando non possiamo più evitarlo: ci sforziamo persino di tenere nascosta la nostra preoccupazione ai nostri compagni. Se versiamo qualche lacrima, la nascondiamo accuratamente, e temiamo che gli spettatori, non prendendo parte a questa eccessiva commozione, la considerino effeminatezza e debolezza. Il miserabile le cui sventure richiamano la nostra compassione sente con quale riluttanza prendiamo parte alla sua sofferenza, e perciò ci presenta la sua pena con timore ed esitazione. Ne soffoca la metà, e, conoscendo la durezza di cuore degli esseri umani, si vergogna di dar sfogo a tutta la sua afflizione. Diverso il caso dell’uomo che si dà alle gozzoviglie nella gioia e nel successo. Se l’invidia non ci spinge contro di lui, egli si aspetta la nostra più completa simpatia. Non teme, perciò, di annunciarsi con grida di esultanza, fidando che saremo sinceramente disposti a condividerlo.

10. Perché dovremmo vergognarci più di piangere che di ridere in pubblico? Possiamo spesso avere reali occasioni di fare sia l’una che l’altra cosa, ma sentiamo sempre che verosimilmente gli spettatori ci accompagneranno più nell’emozione piacevole che in quella dolorosa. È sempre meschino lamentarsi, anche quando siamo oppressi dalle più terribili calamità. Ma l’esultanza della vittoria non è sempre sconveniente. La prudenza, in verità, ci consiglierebbe di mostrare la nostra prosperità con più moderazione, insegnandoci a evitare l’invidia che proprio quell’esultanza, più di ogni altra cosa, è adatta a suscitare.

11. Considerate come sono sincere le acclamazioni della folla che non mostra invidia verso i superiori nel caso di un trionfo o dell’ottenimento di una carica pubblica, e come invece, normalmente, è posata e moderata la loro pena nell’assistere a un’esecuzione. La nostra sofferenza a un funerale generalmente non è altro che ostentata serietà, ma la nostra allegria a un battesimo o a un matrimonio viene sempre dal profondo del cuore, senza alcuna ostentazione. In questa, e in tutte le simili occasioni gioiose, la nostra soddisfazione, nonostante non sia così durevole, è spesso altrettanto vivace quanto quella delle persone principalmente interessate. Tutte le volte che ci rallegriamo sinceramente con i nostri amici, cosa che, tuttavia, per disgrazia dell’umana natura, non facciamo che raramente, la loro gioia diventa letteralmente la nostra gioia, siamo, per quel momento, felici quanto lo sono loro, il nostro cuore si gonfia e trabocca di vero piacere, la gioia e il compiacimento brillano nei nostri occhi e animano ogni tratto della nostra espressione e ogni gesto del nostro corpo.

12. Ma, al contrario, quando ci doliamo insieme ai nostri amici per le loro afflizioni, quanto poco sentiamo a paragone di quel che sentono loro? Ci sediamo accanto a loro, li guardiamo, e mentre ci raccontano i particolari della loro sventura li ascoltiamo con serietà e attenzione. Ma mentre la loro narrazione è a ogni momento interrotta da quelle naturali esplosioni di passione, che spesso sembrano quasi sopraffarli, quanto siamo lontani, con le nostre emozioni, dal tenere il passo con i loro trasporti? Allo stesso tempo, possiamo renderci conto che la loro passione è naturale, e che non è maggiore di quella che sentiremmo noi al loro posto. Possiamo anche rimproverarci intimamente della nostra mancanza di sensibilità, e magari, per questo, spingerci verso una simpatia artificiale, che però risulta sempre leggera e transitoria, e di solito svanisce per sempre non appena ci allontaniamo dalla stanza. Sembra che la natura, quando caricò ciascuno delle proprie sofferenze, ritenne che fossero sufficienti, e perciò non pretese che noi condividessimo quelle altrui più di quanto fosse necessario ad alleviarle.

13. A causa di questa fiacca sensibilità per le afflizioni altrui, la grandezza d’animo in mezzo alle grandi disgrazie appare sempre divinamente amabile. Ha un comportamento signorile e gentile chi riesce a mantenere il suo buonumore in mezzo a tanti piccoli guai. Ma sembra superiore ai mortali chi riesce a sopportare nella stessa maniera le più terribili calamità. Sentiamo quale immenso sforzo è richiesto per tacitare quelle violente emozioni che naturalmente agitano e distraggono coloro che si trovano nella sua situazione. Siamo sorpresi di scoprire che riesce a dominarsi del tutto. La sua fermezza, allo stesso tempo, coincide interamente con la nostra insensibilità: egli non esige da noi quel vivo grado di sensibilità che scopriamo, con rincrescimento, di non possedere. Tra i suoi sentimenti e i nostri esiste la più perfetta corrispondenza, e per questo il suo comportamento mostra la più perfetta appropriatezza. Oltretutto è un’appropriatezza che, per la nostra esperienza della debolezza della natura umana, non avremmo potuto ragionevolmente aspettarci che egli conservasse. Restiamo meravigliati e stupiti per la forza della mente capace di uno sforzo così nobile e generoso. Il sentimento di completa simpatia e approvazione, unito e animato da meraviglia e sorpresa, costituisce ciò che propriamente si chiama ammirazione, come abbiamo rilevato più di una volta. Catone, circondato da nemici, impossibilitato a resistere, disprezzando di sottomettersi a essi e costretto, per gli orgogliosi principi di quell’epoca, alla necessità di autodistruggersi, non indietreggiò di fronte alla sua sciagura, non supplicò, con la voce lamentevole degli sventurati, quelle miserevoli lacrime simpatetiche che siamo sempre così restii a versare, ma, al contrario, si armò di virile coraggio e, un momento prima di eseguire la sua fatale risoluzione, con la solita tranquillità, dette tutti gli ordini necessari per la salvezza dei suoi amici. Seneca, il predicatore dell’imperturbabilità, sostiene che anche gli stessi dèi potrebbero osservare con piacere e ammirazione un simile comportamento.

14. Ogni volta che nella vita comune ci imbattiamo in esempi di grandezza d’animo così eroica ne restiamo sempre estremamente colpiti. Siamo più disposti a piangere per coloro che si comportano in questo modo, non mostrando quello che sentono, piuttosto che per coloro che danno libero sfogo a tutte le debolezze della sofferenza, e in simili casi la pena simpatetica dello spettatore sembra superare la passione della persona principalmente interessata. Gli amici di Socrate piangevano, mentre lui beveva la pozione fatale, mostrando la più gioiosa e allegra tranquillità. In simili casi, lo spettatore non fa alcuno sforzo per acquisire la sua sofferenza simpatetica, e non ha motivo di farne. Non teme di essere trasportato verso qualcosa di stravagante e inappropriato, piuttosto si compiace della sensibilità del proprio animo, e la asseconda con compiacimento e autoapprovazione. Perciò indulge volentieri alle più malinconiche considerazioni che gli vengono in mente sulle disgrazie dei suoi amici, per i quali forse non ha mai sentito prima tanto profondamente una passione così tenera e triste. Ma per la persona principalmente interessata è del tutto diverso. Per quanto possibile, deve distogliere lo sguardo da ciò che nella sua situazione è terribile e spiacevole. Teme che un’attenzione troppo seria per tali circostanze potrebbe provocarle un’impressione così violenta da non consentirle di mantenersi nei limiti della moderazione, o di provocare la completa simpatia e approvazione degli spettatori. Perciò fissa i suoi pensieri solo sulle circostanze gradevoli: l’elogio e l’ammirazione che sta per meritare con il suo eroico comportamento. Sentire di esser capace di uno sforzo così nobile e generoso, sentire che in questa terribile situazione può ancora agire come vorrebbe lo anima e lo trascina con gioia, rendendolo capace di sopportare quella trionfante gaiezza che sembra esultare nella vittoria sulle sventure che ha ottenuto.

15. Al contrario, appare sempre in qualche misura vile e disprezzabile chi si sprofonda nella sofferenza e nell’abbattimento per qualsiasi disgrazia personale. Non riusciamo a provare per lui quel che lui prova, e che forse nella sua situazione proveremmo anche noi: perciò lo disprezziamo, forse ingiustamente, se si può considerare ingiusto un sentimento cui siamo irresistibilmente determinati dalla natura. La debolezza della sofferenza non appare mai piacevole sotto nessun riguardo, tranne quando sorge da ciò che sentiamo per altri, più che da ciò che sentiamo per noi stessi. Un figlio, alla morte di un padre indulgente e rispettabile, può dar sfogo al dolore senza timore di esser molto biasimato. Il suo dolore si fonda principalmente su una sorta di simpatia per il suo genitore defunto, e noi partecipiamo facilmente a questa tenera emozione. Ma se dovesse cedere alla stessa debolezza per qualsiasi sventura personale, non incontrerebbe una simile indulgenza. Se dovesse ridursi in miseria e in rovina, se dovesse essere esposto ai più terribili pericoli, se anche dovesse esser condotto alla forca e versasse una singola lacrima, perderebbe per sempre il suo onore agli occhi dell’umanità più valorosa e generosa. La loro compassione per lui sarebbe comunque molto forte e sincera, ma, non eguagliando la sua debolezza eccessiva, non consentirebbe loro di perdonare l’uomo capace di esporsi in questo modo agli occhi del mondo. Il suo comportamento susciterebbe in loro più vergogna che sofferenza, e il disonore che egli ha attirato su di sé apparirebbe come la circostanza più deplorevole nella sua sventura. Come disonorò la memoria dell’intrepido duca di Biron, che così spesso aveva sfidato la morte sul campo, il fatto che egli pianse sul patibolo, quando vide in che stato era caduto, e ricordò il favore e la gloria da cui l’aveva fatto precipitare così sfortunatamente la sua avventatezza!


 
CAPITOLO II L’origine dell’ambizione e le distinzioni di rango
1. È per il fatto che gli uomini sono disposti a simpatizzare più completamente con la nostra gioia che con la nostra sofferenza, che noi facciamo sfoggio delle nostre ricchezze e nascondiamo la nostra povertà. Nulla è così mortificante come essere obbligati a esporre la nostra miseria alla vista del pubblico, e sentire che, nonostante la nostra situazione sia esposta agli occhi di tutta l’umanità, nessun mortale arriva a concepire per noi la metà di quel che patiamo. Anzi, è soprattutto per questo riguardo verso i sentimenti dell’umanità, che inseguiamo la ricchezza ed evitiamo la povertà. Infatti, a che scopo è diretta tutta la fatica e l’affanno di questo mondo? Qual è il fine dell’avarizia e dell’ambizione, della ricerca del benessere, del potere, del predominio? Forse soddisfare i bisogni naturali? Il salario del più umile lavoratore può soddisfarli: riesce a fornire cibo e abiti, il conforto di una casa e di una famiglia. Se esaminiamo attentamente la sua economia domestica, scopriamo che egli spende gran parte del salario in comodità, che si possono considerare come generi superflui, e che, in occasioni straordinarie, può persino destinarne una parte a vanità e raffinatezze. Allora, qual è la causa della nostra avversione per la sua situazione, e perché quelli che sono cresciuti nei ranghi superiori della vita dovrebbero considerare peggio della morte l’essere ridotti a vivere, anche senza fatica, dello stesso semplice vitto, ad abitare sotto lo stesso umile tetto, ed essere vestiti dello stesso modesto abbigliamento? Credono che il loro stomaco stia meglio, o il loro sonno sia più profondo in un palazzo piuttosto che in una capanna? È stato così spesso osservato il contrario, che non c’è nessuno che lo ignori. Ma allora, da dove deriva quell’emulazione che attraversa tutti i diversi ranghi umani, e quali sono i vantaggi che ci proponiamo con il grande fine della vita umana, che chiamiamo miglioramento della nostra condizione? Essere osservato, ricevere attenzioni, esser considerato con simpatia, compiacimento e approvazione sono tutti i vantaggi che ce ne derivano. È la vanità che ci interessa, non il benessere o il piacere. Ma la vanità è sempre fondata sul credere di essere oggetto di attenzione e approvazione. L’uomo ricco si vanta delle proprie ricchezze, perché sente che naturalmente attirano su di lui l’attenzione del mondo, e che gli uomini sono disposti ad accompagnarlo in tutte quelle piacevoli emozioni che la sua situazione gli procura tanto facilmente. A questo pensiero il suo cuore sembra gonfiarsi e allargarsi, ed egli è fiero della sua ricchezza più per questo motivo che per tutti gli altri vantaggi che essa gli offre. L’uomo povero, al contrario, si vergogna della sua povertà. Sente che essa lo pone fuori dalla vista degli altri, o che se gli altri lo prendono minimamente in considerazione, difficilmente hanno un qualche sentimento di partecipazione per la miseria e l’angoscia che egli patisce. Egli viene mortificato in entrambi i casi, perché, sebbene essere ignorato o essere disapprovato siano due cose del tutto diverse, tuttavia, come l’oscurità ci tiene lontano dalla luce dell’onore e dell’approvazione, sentire di non esser preso in considerazione necessariamente attenua la più gradevole speranza, e delude il più ardente desiderio della natura umana. L’uomo povero va e viene senza che nessuno lo noti, e quando si trova in mezzo alla folla è al buio come nel suo tugurio. Le umili preoccupazioni e le dolorose cure dalle quali è occupato non divertono coloro che vivono nella dissoluzione e nei piaceri. Essi distolgono da lui i loro occhi, e se la gravità della sua angoscia li costringe a guardarlo, è solo per respingere un così sgradevole oggetto. I fortunati e i superbi si stupiscono per l’insolenza dei miserabili che osano presentarsi davanti a loro, senza curarsi che l’umile aspetto della loro miseria possa disturbare la serenità della loro felicità. L’uomo raffinato e di rango, al contrario, è al centro dell’attenzione di tutti. Tutti sono ansiosi di guardarlo e di provare, almeno per simpatia, quella gioia e quell’esultanza naturali nella sua situazione. Le sue azioni sono oggetto della pubblica attenzione. Difficilmente una sua parola o un suo gesto restano ignorati. In una grande assemblea è lui la persona sulla quale tutti dirigono gli occhi, è verso di lui che le passioni di tutti si rivolgono in attesa, sperando di ricevere quel movimento e quella direzione che egli è capace di imprimere. E se il suo comportamento non è del tutto assurdo, egli ha a ogni istante l’opportunità di coinvolgere gli altri, e di rendersi oggetto di osservazione e di partecipazione per tutti quelli che lo circondano. È questo ciò che ci porta a invidiare la grandezza, nonostante i limiti che impone, nonostante la perdita di libertà che l’accompagna; è questo ciò che, agli occhi dell’umanità, compensa tutta quella fatica, tutta quell’ansia, tutte quelle mortificazioni sopportate nel cercare di raggiungerla e tutto il piacere, l’agio e la sicurezza che vengono perduti per sempre una volta che l’abbiamo raggiunta.

2. Quando consideriamo la condizione del potente, in quei colori illusori in cui l’immaginazione tende a dipingerla, ci appare come l’idea astratta di uno stato perfetto e felice. È esattamente lo stato che delineiamo come fine di tutti i nostri desideri, quando sogniamo a occhi aperti o fantastichiamo. Perciò abbiamo una particolare simpatia per la soddisfazione che provano quelli che si trovano in un tale stato. Approviamo tutte le loro inclinazioni e assecondiamo tutti i loro desideri. Pensiamo che sia un peccato che qualcosa possa rovinare o corrompere una situazione così piacevole. Arriviamo persino ad augurarci che siano immortali perché ci sembra difficile accettare che la morte possa infine porre termine a un così perfetto godimento. È crudele, pensiamo, che la natura li forzi a scendere dai loro gradi elevati a quell’umile ma ospitale dimora preparata per tutte le sue creature. «Viva per sempre il re!» è l’augurio che, secondo il costume orientale, faremmo a tutti i monarchi, se l’esperienza non ce ne mostrasse l’assurdità. Ogni disgrazia che accade loro, ogni offesa che viene loro rivolta, suscita nell’animo dello spettatore una compassione e un risentimento dieci volte più forte di quelli che avrebbe provato per altri uomini. Sono solo le disgrazie dei re che offrono materia alle tragedie. Sotto questo riguardo, somigliano alle disgrazie degli innamorati. Le sventure dei re e degli innamorati sono le situazioni che più ci interessano a teatro, perché, malgrado tutto quello che la ragione e l’esperienza ci dicono, i pregiudizi dell’immaginazione attribuiscono a questi due stati una felicità che è maggiore di ogni altra. Disturbare, o porre un termine a questo perfetto piacere ci sembra la più atroce delle offese. Il traditore che cospira contro la vita del suo sovrano è considerato un mostro peggiore di qualsiasi assassino. Tutto il sangue innocente versato nelle guerre civili ha provocato minore indignazione della morte di Carlo I Stuart. Qualcuno estraneo alla natura umana, vedendo l’indifferenza degli uomini verso la miseria dei loro inferiori, e il rincrescimento e l’indignazione che provano verso le sventure e le sofferenze dei loro superiori, sarebbe portato a pensare che per le persone di rango più alto il dolore debba essere più straziante e le convulsioni della morte più terribili che per le persone di stato più umile.

3. Su questa disposizione dell’umanità a condividere tutte le passioni del ricco e del potente è fondata la distinzione in ranghi e l’ordine della società. La nostra reverenza per i superiori deriva più spesso dalla nostra ammirazione per i vantaggi della loro situazione, che da qualche personale attesa di benefici dalla loro buona volontà. I loro benefici non possono estendersi che a pochi, ma le loro fortune interessano praticamente tutti. Siamo ansiosi di assisterli nel completamento di un sistema di felicità che somiglia così da vicino alla perfezione, e desideriamo servirli solo per riguardo verso di loro, senza altra ricompensa che la vanità o l’onore di renderli obbligati nei nostri confronti. E la nostra deferenza verso i loro desideri non è fondata principalmente o del tutto su di una considerazione dell’utilità di tale sottomissione, o dei vantaggi che ne derivano per l’ordine sociale. Anche quando l’ordine della società sembra richiedere che ci opponiamo a loro, difficilmente riusciamo a farlo. Il fatto che i re siano i servitori del popolo, che si debba loro obbedire o resistere, che vadano deposti o puniti come detta la pubblica convenienza è la dottrina della ragione e della filosofia, ma non la dottrina della natura. La Natura ha voluto insegnarci a sottometterci a loro per semplice riguardo nei loro confronti, a tremare, a chinarci di fronte al loro alto stato, a considerare il loro sorriso come una ricompensa sufficiente a ripagare ogni servigio e a temere il loro dispiacere come la più severa di tutte le mortificazioni, anche se non ne dovesse derivare altro male. Trattarli come uomini qualsiasi, ragionare e discutere con loro in situazioni ordinarie richiede una tale risoluzione, che pochi ne sono capaci, a meno che non siano sostenuti da una familiarità o una conoscenza intima. I motivi più forti, le passioni più furiose, paura, odio, e risentimento, sono appena sufficienti a bilanciare questa nostra naturale tendenza a rispettarli, e la loro condotta deve, giustamente o ingiustamente, aver suscitato il più alto grado di tutte quelle passioni, prima che la maggior parte delle persone possa esser spinta a opporsi loro con la violenza, o a desiderare di vederli puniti o deposti. Anche quando il popolo è spinto fino a questo punto, è pronto ad addolcirsi in ogni momento, e ricade facilmente nel suo abituale stato di deferenza verso coloro che considera per abitudine i suoi naturali superiori. Non riesce a sopportare la mortificazione del proprio sovrano; presto la compassione prende il posto del risentimento, vengono dimenticate tutte le provocazioni passate, rinascono i vecchi principi lealisti, e tutti corrono a restaurare l’autorità distrutta degli antichi padroni con la stessa violenza con cui essi l’avevano contrastata. La morte di Carlo I Stuart causò la restaurazione della famiglia reale. La compassione per Giacomo II Stuart, catturato dalla plebaglia mentre fuggiva per mare, se non ha impedito la Rivoluzione, l’ha fatta procedere con maggiore difficoltà.

4. I grandi si rendono conto della facilità che hanno nell’acquistare la pubblica ammirazione, o credono che anche per loro, come per gli altri uomini, sia il risultato del sangue e del sudore? Quali sono le significative doti per mezzo delle quali al giovane nobiluomo viene insegnato a sostenere la dignità del suo rango, e a esser degno della superiorità sui suoi concittadini, alla quale è stato innalzato dalla virtù dei suoi antenati? Per mezzo della cultura, dell’industriosità, della pazienza, dell’abnegazione, o di altre virtù? Dal momento che tutte le sue parole, tutti i suoi movimenti sono seguiti con attenzione, egli impara ad avere abitualmente riguardo per ogni aspetto del suo comportamento ordinario, e si sforza di compiere ogni minimo gesto con la più precisa appropriatezza. Dal momento che sa di essere osservato, ed è consapevole di quanto gli altri siano disposti a secondare tutti i suoi desideri, egli si comporta normalmente con tutta la libertà e la fierezza che gli derivano da queste certezze. La sua aria, le sue maniere, il suo comportamento, tutto sottolinea quell’elegante e aggraziato senso di superiorità cui difficilmente possono giungere quelli nati in stati sociali inferiori. Queste sono le arti con cui egli cerca di sottomettere più facilmente gli uomini alla sua autorità, e di dirigere le loro inclinazioni a proprio piacimento, restando raramente deluso. Queste arti, sostenute dal rango e dalla potenza, sono normalmente sufficienti a governare il mondo. Luigi XIV, per la maggior parte del suo regno, fu considerato come il modello più perfetto di grande principe, non solo in Francia, ma in tutta Europa. Ma quali furono i talenti e le virtù che gli consentirono di raggiungere questa alta reputazione? La giustizia scrupolosa e inflessibile delle sue azioni, gli immensi pericoli e difficoltà tra cui le svolgeva, o l’instancabile e inesorabile applicazione con cui le perseguiva? La sua grande cultura, il suo acuto giudizio, o il suo eroico valore? Non fu nessuna di queste qualità. Ma era il principe più potente d’Europa, e di conseguenza occupava il più alto rango tra i monarchi, e quindi, scrive il suo storico, «superava tutti i suoi cortigiani per la grazia del suo aspetto e per la regale bellezza dei suoi tratti. Il suono della sua voce, nobile e toccante, raggiungeva gli animi intimiditi dalla sua presenza. Aveva un’andatura e un portamento che potevano adattarsi solo a lui e al suo rango, e che in ogni altra persona sarebbero stati ridicoli. L’imbarazzo che suscitava in coloro che gli parlavano lusingava la sua segreta soddisfazione di sentirsi superiore. Quando un vecchio ufficiale, confuso e impacciato nel chiedergli un favore, tanto da non riuscire a concludere il suo discorso, gli disse “Signore, vostra maestà, credetemi, non tremo così davanti ai vostri nemici”, non ebbe difficoltà a ottenere quel che chiedeva». Le frivole qualità di questo principe, sostenute dal suo rango, e senza dubbio anche da un certo grado di altre doti e virtù, che comunque non erano superiori alla media, gli fecero acquistare la stima della sua epoca, e un buon grado di rispetto anche da parte dei posteri. Sembra che ai suoi tempi e in sua presenza nessun’altra virtù potesse avere alcun merito, a paragone delle sue. La cultura, l’abilità, il valore, la benevolenza venivano umiliate fino a perdere ogni dignità di fronte alle virtù di Luigi XIV.

5. Ma l’uomo di rango inferiore non deve tentare di distinguersi con doti di questo tipo. La cortesia è la virtù dei grandi, e non farebbe onore a nessun altro. Il damerino che imita i loro modi di fare, e cerca di farsi notare per il suo comportamento appropriato, è disprezzato due volte, per la sua stupidità e la sua presunzione. Per quale motivo un uomo che nessuno si degna di guardare dovrebbe preoccuparsi di come alzare la testa, o di come tenere le braccia camminando in una stanza? Certamente tutte queste sue attenzioni sono superflue, e sottolineano che egli ha un concetto di sé che nessun altro mortale può condividere. Le principali caratteristiche nel comportamento di un uomo comune dovrebbero essere la modestia e la semplicità, unite a quel tanto di trascuratezza compatibile con il rispetto per gli altri. Se mai dovesse sperare di distinguersi, dovrebbe farlo attraverso virtù più importanti. Dovrebbe assumere dei domestici per eguagliare i potenti, ma non ha altri fondi per pagarli che il lavoro delle sue braccia e l’attività della sua mente. Perciò è questo ciò che deve coltivare: deve acquisire un’alta qualificazione nella sua professione, e una grande laboriosità nell’esercitarla. Deve essere paziente nel lavoro, risoluto nel pericolo, forte nelle difficoltà. Deve manifestare pubblicamente queste doti attraverso la difficoltà, l’importanza, e contemporaneamente il buon giudizio delle sue azioni, e attraverso l’applicazione severa e inflessibile con cui le compie. Probità e prudenza, generosità e franchezza devono caratterizzare il suo comportamento in tutte le occasioni ordinarie, ed egli deve, allo stesso tempo, essere ansioso di impegnarsi in tutte quelle situazioni in cui sono richiesti grandi talenti e grandi virtù per agire appropriatamente, ma che riservano grandi elogi a chi riesce a comportarsi con onore. Con quale impazienza l’uomo dotato di iniziativa e ambizione, e scontento della propria situazione, cerca qualche occasione per distinguersi! Non disdegna nulla che glielo permetta. Guarda con soddisfazione persino alla prospettiva di una guerra con lo straniero, o di una lotta civile, e con intimo trasporto e piacere, al di là della confusione e dello spargimento di sangue che le accompagnano, scorge la probabilità che si presentino le occasioni che desiderava per attirare su di sé l’attenzione e l’ammirazione dell’umanità. L’uomo d’alto rango, al contrario, la cui gloria consiste nell’appropriatezza del comportamento ordinario, soddisfatto dall’umile celebrità che questa può procurargli, e non desiderando acquistarne altra, è poco propenso ad angosciarsi per cose che si possono ottenere solo con difficoltà e preoccupazione. Il suo grande trionfo è far figura a un ballo; aver successo in un intrigo galante è la sua grande impresa. Detesta tutti i disordini pubblici, non per amore dell’umanità, poiché i potenti non considerano mai loro simili i loro inferiori, e nemmeno per mancanza di coraggio, perché raramente è carente in questo, ma per coscienza di non possedere nessuna delle virtù richieste in tali situazioni, nelle quali la pubblica attenzione gli sarebbe sicuramente sottratta da altri. Può anche capitare che desideri esporsi a qualche pericolo limitato, o fare una campagna militare, per essere alla moda. Ma trema di orrore al pensiero di qualunque situazione che richieda un continuo e lungo sforzo di pazienza, laboriosità, forza d’animo e applicazione mentale. Non troveremo quasi mai queste virtù in persone d’alto rango. Per questo, in tutte le forme di governo, persino nelle monarchie, gli uffici più alti e tutti i rami dell’amministrazione sono generalmente riservati a uomini di rango medio e basso, che si sono fatti strada con la propria laboriosità e la propria abilità, nonostante gli ostacoli frapposti dalla gelosia e dal risentimento di tutti gli uomini di rango superiore, che non mancano di disprezzarli e invidiarli, per poi chinarsi meschinamente di fronte a loro, come vorrebbero che il resto dell’umanità facesse nei loro stessi riguardi.

6. È la perdita di questo facile dominio sui sentimenti dell’umanità ciò che rende così insopportabile la caduta da una situazione di grandezza. Si racconta che, quando la famiglia del re di Macedonia venne fatta sfilare nel trionfo di Paolo Emilio, contese al suo conquistatore l’attenzione del popolo romano, commosso da tanta disgrazia. La vista dei piccoli principi, incoscienti della loro situazione per la tenera età, riempì gli spettatori di sofferenza e compassione, in mezzo al tripudio e ai pubblici festeggiamenti. Il re veniva subito dopo, e sembrava confuso e attonito, e privato di ogni sentimento a causa della sua grande sventura. Dopo di lui, sfilavano i suoi amici e i suoi ministri. Camminando, gettavano lo sguardo sul loro sovrano decaduto, e a quella vista scoppiavano in lacrime. Il loro comportamento dimostrava che essi non pensavano alle proprie sventure, presi com’erano dall’enormità di quelle del loro re. I fieri Romani, al contrario, lo guardavano con disprezzo e indignazione, considerando indegno di compassione un uomo tanto meschino da sopportare di continuare a vivere in una situazione così sciagurata. Ma in cosa consisteva quella terribile sciagura? Da quel momento, secondo quanto narrano gli storici, avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni sotto la protezione di un popolo potente e compassionevole, in uno stato invidiabile, di abbondanza, agio, comodità e sicurezza, dal quale nulla poteva farlo decadere. Ma non sarebbe stato più circondato dall’ammirata folla degli sciocchi, degli adulatori e dei domestici che prima prestavano attenzione a ogni suo gesto. Non sarebbe più stato al centro degli sguardi delle masse, e non avrebbe più avuto il potere di rendersi oggetto del loro rispetto, della loro gratitudine, del loro amore, della loro ammirazione. Le passioni dei popoli non sarebbero più state modellate dai suoi desideri. Era questa l’insopportabile sciagura che privava il re di ogni sentimento, che faceva dimenticare ai suoi amici le loro sventure, e che impediva ai fieri Romani di comprendere come un uomo potesse essere tanto meschino da sopravviverle.

7. «L’amore» sostiene Lord Rochfaucault «è seguito di solito dall’ambizione, ma l’ambizione non viene quasi mai seguita dall’amore.» Una volta che l’ambizione ha preso possesso dell’animo, non ammette né rivali né successori. Per coloro che hanno goduto di pubblica ammirazione, o anche per coloro che hanno solo sperato di raggiungerla, ogni altro piacere svanisce o passa in secondo piano. Di tutti i politici ritiratisi dalla vita pubblica, che per propria tranquillità hanno cercato di superare l’ambizione e di disprezzare gli onori che non avrebbero più potuto ottenere, quanti ci sono riusciti? Quasi tutti passano il tempo nella più apatica e insulsa indolenza, afflitti dal pensiero della propria insignificanza, incapaci di interessarsi alle faccende della vita privata, senza alcun divertimento che non sia il parlare della loro precedente grandezza, e senza alcuna soddisfazione, tranne l’affaccendarsi in qualche vano progetto di riconquistarla. Se sei deciso a non barattare mai la tua libertà con la fastosa servitù di una corte, se vuoi vivere libero, tranquillo e indipendente, c’è forse solo una strada per rispettare questa virtuosa decisione: non entrare mai in quel luogo da cui pochi sono stati capaci di tornare; non farti prendere dal vortice dell’ambizione; non metterti mai a confronto con i signori della terra, che hanno già monopolizzato l’attenzione di mezza umanità prima di te.

8. Nell’immaginazione degli uomini è di grandissima importanza trovarsi in una situazione che attira la simpatia e l’attenzione generale. E così la posizione, il grande oggetto del contendere per le mogli dei consiglieri comunali, è lo scopo di metà delle fatiche della vita umana, ed è causa di tutti i tumulti e le agitazioni, di tutti i saccheggi e le ingiustizie provocate dall’avarizia e dall’ambizione. La gente sensata, si dice, disprezza la posizione, vale a dire che disprezza di sedere a capotavola, e non si interessa di chi viene messo in risalto da sciocche circostanze che facilmente perdono il loro peso. Ma nessun uomo disprezza il rango, la raffinatezza, la preminenza, a meno che non sia molto al di sopra o molto al di sotto del livello ordinario della natura umana; a meno che la saggezza e la vera filosofia non lo sostengano nella convinzione che ha poca importanza essere effettivamente seguito o approvato, se l’appropriatezza della sua condotta lo rende oggetto adeguato di approvazione; o a meno che, al contrario, non sia così abituato alla propria meschinità, così sprofondato nell’indifferenza, da dimenticare del tutto il desiderio di superiorità.

9. Diventare l’oggetto naturale di gioiose felicitazioni e di simpatetiche attenzioni da parte degli altri è la circostanza che conferisce splendore allo stato di prosperità. All’opposto, non c’è nulla che renda ancora più scuro il buio dell’avversità come sentire che le nostre sventure non sono oggetto del sentimento di partecipazione, ma del disprezzo e dell’avversione dei nostri simili. È per questo che non sempre le disgrazie più terribili sono quelle più difficili da sopportare. Spesso è più mortificante mostrare in pubblico piccoli guai, che gravi sventure. I primi non suscitano simpatia, ma le altre, pur non potendo suscitare qualcosa di paragonabile all’angoscia della persona che soffre, fanno sorgere tuttavia una compassione molto forte. I sentimenti degli spettatori, in quest’ultimo caso, sono meno elevati di quelli della persona sofferente, ma il loro sentimento di partecipazione, sebbene imperfetto, l’aiuta a sopportare la sua infelicità. Un gentiluomo si sentirebbe più mortificato di apparire in un’allegra riunione coperto di stracci e di sporcizia, piuttosto che di sangue e ferite. Quest’ultima situazione attirerebbe la pietà dei presenti, l’altra non provocherebbe altro che il loro riso. Il giudice, ordinando che un criminale venga messo alla gogna, lo disonora più che se lo avesse condannato al patibolo. Il grande sovrano che alcuni anni fa bastonò uno dei suoi generali lo ricoprì irreparabilmente d’infamia. La punizione sarebbe stata minore se lo avesse trapassato con una pallottola. Secondo le leggi dell’onore, è un disonore essere colpiti con un bastone, mentre non lo è, per ovvie ragioni, essere trafitti da una spada. Le punizioni lievi, quando sono inflitte a un gentiluomo, per il quale il disonore è il più grande di tutti i mali, arrivano a essere considerate le peggiori, presso un popolo compassionevole e fiero. Per questo vengono universalmente risparmiate a persone di rango elevato, e la legge, che non si fa scrupolo di privarli della vita, rispetta quasi sempre il loro onore. Flagellare una persona di un ceto elevato, o metterla alla gogna, per un qualsivoglia crimine, è una brutalità della quale nessun governo europeo è capace, tranne quello russo.

10. Un uomo valoroso non diventa disprezzabile se viene condotto al patibolo, lo diventa invece se viene messo alla gogna. Il suo comportamento nella prima situazione gli può procurare universale stima e approvazione. Nessun tipo di comportamento può renderlo apprezzabile nell’altra. La simpatia degli spettatori, nel primo caso, lo sostiene e lo salva dalla vergogna, dal sentimento insopportabile di essere solo nella propria infelicità. Nell’altro caso non c’è simpatia o, se c’è, non è rivolta al suo dolore, che è del tutto trascurabile, ma alla sua consapevolezza di non suscitare simpatia con il suo dolore. La simpatia è rivolta alla sua vergogna, non alla sua sofferenza. Quelli che lo compatiscono arrossiscono, e chinano la testa per lui. Lui si china allo stesso modo, e si sente irreparabilmente degradato dalla punizione, più che dal crimine commesso. Al contrario, l’uomo che muore risoluto mostra lo stesso impavido contegno di chi lo guarda a testa alta, con stima e approvazione. Se il crimine commesso non lo priva del rispetto degli altri, non sarà certo la punizione a farlo. Non ha il dubbio che la sua situazione sia oggetto di disprezzo o di derisione, e può appropriatamente assumere un’aria di trionfo ed esultanza, oltre che di perfetta serenità.

11. «I grandi pericoli» dice il cardinal de Retz «hanno le loro attrattive, perché c’è una certa gloria da raggiungere, anche in caso di fallimento. Ma i pericoli modesti non hanno altro che aspetti orribili, perché in questo caso il mancato successo è sempre accompagnato dalla perdita della reputazione.» La sua massima ha lo stesso fondamento di quel che abbiamo appena osservato riguardo alle punizioni.

12. La virtù umana è superiore al dolore, alla povertà, al pericolo e alla morte, e non servono nemmeno le sue manifestazioni più elevate per giungere a disprezzare tutto questo. Ma anche la virtù più ferma può venir meno quando la miseria viene esposta all’insulto e alla derisione, quando viene messa in mostra, quando diventa bersaglio di denigrazione. Paragonati al disprezzo dell’umanità, tutti gli altri mali esteriori sono facilmente sopportabili.


 
CAPITOLO III La corruzione dei nostri sentimenti morali provocata da questa disposizione ad ammirare il ricco e il potente, e a disprezzare o trascurare persone di condizione mediocre o bassa
1. Questa disposizione ad ammirare, e quasi a venerare, il ricco e il potente, e a disprezzare, o come minimo trascurare, persone di condizione mediocre o bassa, nonostante sia necessaria a stabilire e mantenere la distinzione in ranghi e l’ordine della società, è allo stesso tempo la grande e più universale causa di corruzione dei nostri sentimenti morali. I moralisti di tutte le epoche hanno lamentato il fatto che la ricchezza e la grandezza siano spesso considerate col rispetto e l’ammirazione dovuti solo alla saggezza e alla virtù, e che alla povertà e alla debolezza sia spesso, del tutto ingiustamente, riservato quel disprezzo, i cui soli oggetti appropriati sono il vizio e la follia.

2. Desideriamo sia di essere rispettabili che di essere rispettati. Temiamo sia di essere disprezzabili che di essere disprezzati. Ma, una volta entrati nel mondo, scopriamo presto che la saggezza e la virtù non sono affatto gli unici oggetti rispettati, e che il vizio e la follia non sono gli unici oggetti disprezzati. Vediamo spesso le rispettose attenzioni del mondo rivolte in modo più deciso verso il ricco e il potente, piuttosto che verso il saggio e il virtuoso. Vediamo frequentemente i vizi e le follie dei potenti molto meno disprezzate di quanto non lo siano la povertà e la debolezza degli innocenti. Meritare, acquistare, e godersi il rispetto e l’ammirazione dell’umanità sono i grandi oggetti dell’ambizione e dell’emulazione. Ci si presentano due diverse strade, che conducono entrambe verso questo oggetto tanto desiderato: una è rappresentata dalla cura della saggezza e la pratica della virtù; l’altra è rappresentata dall’acquisizione di ricchezza e grandezza. Si presentano alla nostra emulazione due diversi caratteri: quello superbo, ambizioso e dichiaratamente avido, e quello umile, modesto, equo e giusto. Ci sono offerti due diversi modelli, due diverse immagini secondo le quali possiamo foggiare il nostro carattere e il nostro comportamento, l’uno più vistoso e scintillante nelle colorazioni, l’altro più corretto e bello nei contorni; l’uno che si impone all’attenzione di ogni sguardo vagante, l’altro che attira a mala pena l’attenzione di qualcuno, tranne quello del più sollecito e accorto osservatore. Sono principalmente i saggi e i virtuosi, un gruppo scelto, sebbene, temo, ridotto, i reali e costanti ammiratori della saggezza e della virtù. La gran massa degli uomini è composta da chi ammira e adula, spesso, cosa straordinaria, in modo disinteressato, la ricchezza e la grandezza.

3. Il rispetto che nutriamo per la saggezza e la virtù è senza dubbio diverso da quello che proviamo per la ricchezza e la grandezza, e non serve grande acume per cogliere la differenza. Ma, nonostante questa differenza, questi due sentimenti si somigliano profondamente. In alcune caratteristiche particolari sono senza dubbio diversi, ma nell’apparenza generale sembrano talmente uguali che osservatori disattenti rischiano di scambiare l’uno per l’altro.

4. A parità di merito, non c’è quasi nessuno che non rispetti più il ricco e il potente che il povero e l’umile. La maggior parte degli uomini ammira più la presunzione e la vanità del primo che il reale e fondato merito del secondo. Sostenere che la mera ricchezza e la mera potenza, astratte dal merito e dalla virtù, meritino il nostro rispetto si accorda difficilmente con una buona morale, o persino, forse, con il linguaggio corretto. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che lo ottengono praticamente sempre, e che possono, perciò, esser considerati, in qualche rispetto, i suoi oggetti naturali. Senza dubbio queste posizioni elevate possono venir degradate dal vizio e dalla follia, ma deve trattarsi di un vizio e di una follia molto gravi, perché la degradazione sia completa. La depravazione di un uomo di classe viene considerata con molto meno disprezzo e avversione rispetto a quella di un uomo di condizione media. In quest’ultimo, una singola trasgressione alle regole di temperanza e appropriatezza offende comunemente più di quanto non lo faccia il loro costante e dichiarato disprezzo in un uomo di classe.

5. Nelle condizioni di vita medie e basse, la via della virtù e quella della fortuna, almeno di quella fortuna che uomini di quelle condizioni possono ragionevolmente aspettarsi, sono, in molti casi felicemente, quasi le stesse. In tutte le professioni medie e basse, è raro che le reali e solide abilità professionali, unite a condotta prudente, giusta, decisa e moderata, possano fallire. Le abilità professionali riescono a volte a prevalere anche in caso di condotta scorretta; tuttavia, abitualmente l’imprudenza, l’ingiustizia, la debolezza, o la depravazione oscurano sempre, fino ad avvilire del tutto, le più splendide abilità professionali. Gli uomini che vivono in condizioni medie e basse, inoltre, non possono mai essere abbastanza potenti da porsi al di sopra della legge, che deve necessariamente incutere loro un certo rispetto, almeno per quel che riguarda le principali regole di giustizia. Il successo di queste persone, inoltre, dipende quasi sempre dal favore e dalla buona opinione dei loro vicini e dei loro simili, che raramente si ottengono senza una condotta regolare. Perciò, il buon vecchio proverbio secondo cui l’onestà è la miglior politica, in tali situazioni mantiene il suo valore. In tali situazioni, perciò, possiamo generalmente aspettarci un notevole grado di virtù, e fortunatamente per i buoni costumi della società, queste sono le situazioni più comuni tra gli uomini.

6. Nelle condizioni di vita superiori, sfortunatamente la situazione non è sempre questa. Alle corti dei sovrani, nei salotti dei potenti, dove il successo e le promozioni non dipendono dalla stima di uomini preparati e nostri pari, ma dal capriccioso e sciocco favore di superiori ignoranti, presuntuosi e superbi, troppo spesso l’adulazione e la falsità prevalgono sul merito e sull’abilità, e l’arte di piacere vale più dell’arte di servire. In tempi di quiete e pace, quando la burrasca è lontana, il principe o il potente non pensano che a divertirsi, e arrivano persino a credere di non aver bisogno di nessuno, o di poter contare su quelli che li divertono al momento del bisogno. Comunemente, le grazie esteriori e le frivole doti di quegli esseri insulsi detti uomini alla moda sono ammirate più delle solide e virili virtù di un guerriero, di uno statista, di un filosofo, di un legislatore. Tutte le virtù più nobili e maestose, le virtù adatte alle adunanze pubbliche, al senato, al campo di battaglia, sono tenute nel massimo disprezzo e vengono derise dagli adulatori insolenti e insignificanti che sono normalmente in vista in tali società corrotte. Quando il duca di Sully fu convocato da Luigi XIII per dare il suo consiglio in una situazione di grave emergenza, vide tutti i beniamini del re e i cortigiani sussurrare tra loro, e deridere il suo aspetto trasandato. «Tutte le volte che il padre di Vostra maestà mi faceva l’onore di consultarmi», disse l’anziano guerriero e statista, «ordinava ai buffoni di corte di ritirarsi in anticamera».

7. Dalla nostra tendenza ad ammirare e, di conseguenza, a imitare il ricco e il potente, deriva il fatto che essi riescono a lanciare delle mode, e a guidarle. Il loro abito è l’abito alla moda; il linguaggio che usano nel conversare è lo stile alla moda; il loro atteggiamento e la loro condotta delineano il comportamento alla moda. Sono alla moda persino i loro vizi e le loro follie, e la maggior parte degli uomini sono orgogliosi di imitarli e di somigliare a loro proprio in quelle qualità che li disonorano e degradano. Ci sono uomini vanitosi che spesso si danno arie di depravazione, pur non approvandola e non essendone davvero colpevoli. Desiderano essere lodati per qualcosa che nemmeno loro considerano degna di lode, e si vergognano delle virtù fuori moda che a volte coltivano in segreto, nutrendo per esse una venerazione reale. Ci sono uomini ipocriti, sia nel coltivare la ricchezza e la grandezza, che nel coltivare la religione e la virtù: a fingere nel primo caso sono i vanitosi, nel secondo gli astuti. L’uomo vanitoso assume l’aspetto esteriore e l’opulento modo di vita dei suoi superiori, senza considerare che tutto ciò che in quell’aspetto e in quel modo di vita è degno di lode deriva tutto il suo merito e la sua appropriatezza dall’essere adatto a quella situazione e quella disponibilità finanziaria che essi richiedono, e che può facilmente sostenere la spesa necessaria. Spesso un uomo povero reputa come una sua gloria l’esser creduto ricco, senza considerare che i doveri (se a tali follie si può attribuire un appellativo tanto venerabile) che la reputazione gli impone lo ridurranno presto sul lastrico, rendendolo più povero di prima rispetto a quelli che ammira e imita.

8. Per raggiungere questa situazione invidiata, i candidati alla fortuna troppo spesso abbandonano i sentieri della virtù, perché sfortunatamente la via che conduce all’una e quella che conduce all’altra seguono a volte direzioni del tutto opposte. Ma l’uomo ambizioso si illude che, quando sarà nella splendida situazione verso la quale avanza, avrà così tanti mezzi per ottenere il rispetto e l’ammirazione dell’umanità, e sarà capace di agire con un’appropriatezza e grazia tali, che il lustro della sua condotta coprirà del tutto, o cancellerà, la sporcizia dei passi che l’hanno condotto al successo. In molti governi, i candidati alle cariche più alte sono dei fuorilegge, e, se riescono a raggiungere l’oggetto della loro ambizione, non temono di essere chiamati a render conto dei mezzi con i quali l’hanno ottenuto. Perciò spesso cercano di soppiantare ed eliminare quelli che si oppongono o sono di ostacolo sulla via della loro grandezza, e questo non solo con la frode e la falsità, le ordinarie e volgari arti dell’intrigo, ma a volte anche con i più tremendi crimini, come omicidi, assassinii, ribellioni e guerre civili. Di solito falliscono più spesso di quanto non abbiano successo, e comunemente non ottengono nient’altro che la vergognosa punizione dovuta ai loro crimini. Ma sebbene occorra loro molta fortuna per ottenere la grandezza che desiderano, quando la raggiungono ne restano sempre delusi. Ciò che l’ambizioso realmente persegue non è la tranquillità e il piacere, ma sempre l’onore, di questo o quel genere, sebbene spesso un onore inteso in modo sbagliato. Ma l’onore della sua posizione elevata appare, sia a lui che agli altri, sporcato e corrotto dall’abiezione dei mezzi attraverso cui l’ha raggiunto. Per quanto si possa sforzare di cancellare dalla sua memoria e da quella degli altri il ricordo di ciò che ha fatto, abbondando in prodighe spese, abbandonandosi agli eccessi di ogni sregolato piacere (misera risorsa delle indoli distrutte), impegnandosi con solerzia in pubblici affari, distinguendosi in guerra, tuttavia quel ricordo non cessa mai di inseguirlo. Invoca invano gli oscuri e tetri poteri della dimenticanza e dell’oblio. Si ricorda di quel che ha fatto, e sa che anche gli altri se ne ricordano. In mezzo ai vistosi fasti della più ostentata grandezza, in mezzo alla venale e vile adulazione del potente e del dotto, in mezzo alle più innocenti, ma più folli, acclamazioni della gente comune, in mezzo a tutto l’orgoglio della conquista e al trionfo della guerra vinta, egli è ancora segretamente seguito dalle furie vendicatrici della vergogna e del rimorso; e, mentre la gloria sembra circondarlo da ogni lato, nella sua immaginazione egli vede la sporca e lugubre infamia che lo segue veloce, pronta a ogni istante a coglierlo alle spalle. Persino il grande Cesare, pur avendo mostrato coraggio nel fare a meno della scorta, non riuscì a fare a meno dei suoi sospetti: il ricordo di Farsalo lo ossessionava ancora, e lo seguiva. Quando, su richiesta del Senato, ebbe la generosità di perdonare Marcello, disse all’assemblea che era al corrente delle cospirazioni in corso contro la sua vita, ma che, dal momento che aveva vissuto abbastanza a lungo, sia per la natura che per la gloria, era contento di morire, e che perciò disprezzava ogni complotto. Forse è vero che per la natura aveva vissuto abbastanza. Ma l’uomo che si sentiva oggetto di un risentimento così implacabile da parte di coloro dai quali sperava di ottenere il favore, e che ancora sperava di poter considerare amici, aveva certamente vissuto troppo per la vera gloria, o per tutte le gioie che poteva mai sperare di ottenere dall’amore e dalla stima dei suoi simili.


 
PARTE II IL MERITO E IL DEMERITO, OVVERO GLI OGGETTI DI RICOMPENSA E PUNIZIONE

 
SEZIONE I Il senso del merito e del demerito

 
INTRODUZIONE
1. Esiste un’altra serie di qualità attribuite alle azioni e alla condotta degli uomini, distinte dalla loro appropriatezza o inappropriatezza, dal loro essere opportune o sgarbate, e che sono gli oggetti di un distinto tipo di approvazione e disapprovazione: sono il merito e il demerito, le qualità per cui ricompensiamo o puniamo.

2. Si è già osservato che il sentimento o affezione dell’animo, da cui ogni azione deriva e dal quale dipende l’intera sua virtù o il suo vizio, può esser considerato sotto due aspetti, o in due diverse relazioni: primo, in relazione alla causa od oggetto che lo suscita, secondo, in relazione al fine che si propone o all’effetto che tende a produrre. Si è osservato inoltre che dall’adeguatezza o inadeguatezza, dalla proporzione o sproporzione dell’affezione rispetto alla causa od oggetto che la suscita dipende l’appropriatezza o inappropriatezza dell’azione conseguente, il suo essere opportuna o sgarbata. Si è osservato infine che dagli effetti benefici o malvagi che l’affezione si prefigge o tende a produrre dipende il merito o il demerito, il valore o disvalore dell’azione cui essa dà occasione.

Nella prima parte di questo discorso, è stato spiegato in cosa consista il nostro senso dell’appropriatezza o inappropriatezza delle azioni; spiegheremo ora in cosa consista il nostro senso del loro merito o demerito.


 
CAPITOLO I Tutto ciò che sembra oggetto appropriato di gratitudine sembra meritare ricompensa; tutto ciò che sembra appropriato oggetto di risentimento sembra meritare punizione
1. Ci deve quindi sembrare meritevole di ricompensa quell’azione che sembra l’appropriato e approvato oggetto di quel sentimento che più immediatamente e direttamente ci spinge a ricompensare, o a fare del bene a un altro. E, allo stesso modo, deve sembrarci meritevole di punizione quell’azione che sembra l’appropriato e approvato oggetto di quel sentimento che più immediatamente e direttamente ci spinge a punire, o a far del male a un altro.

2. Il sentimento che più immediatamente e direttamente ci spinge a ricompensare è la gratitudine; quello che più immediatamente e direttamente ci spinge a punire è il risentimento.

3. Ci deve quindi sembrare meritevole di ricompensa quell’azione che sembra l’appropriato e approvato oggetto di gratitudine, come, d’altra parte, deve sembrarci meritevole di punizione quell’azione che sembra l’appropriato e approvato oggetto di risentimento.

4. Ricompensare è ricambiare, remunerare, restituire del bene in cambio del bene ricevuto. Anche punire è ricambiare, remunerare, sebbene in una diversa maniera: è restituire del male in cambio del male ricevuto.

5. Oltre alla gratitudine e al risentimento, ci sono altre passioni che suscitano il nostro interesse per la felicità o la miseria altrui, ma nessuna ci incita altrettanto direttamente a essere gli strumenti dell’una o dell’altra. L’amore e la stima che derivano dalla familiarità e dall’abituale approvazione ci conducono necessariamente a provar piacere per la buona fortuna dell’uomo che è oggetto di tali piacevoli emozioni, e, di conseguenza, a desiderare di dare una mano per favorirla. Tuttavia, il nostro amore è del tutto soddisfatto anche se la buona fortuna di quell’uomo dovesse verificarsi senza il nostro intervento. Tutto ciò che per amore desideriamo è di vederlo felice, indipendentemente da chi sia stato l’autore della sua prosperità. Ma la gratitudine non viene soddisfatta in questo modo. Se la persona verso la quale siamo molto in obbligo è resa felice senza il nostro contributo, per quanto la cosa possa farci piacere, non soddisfa la nostra gratitudine. Finché non abbiamo personalmente ricompensato quell’uomo, finché non siamo stati noi gli strumenti della sua fortuna, ci sentiamo ancora in debito con lui per i suoi servigi passati.

6. Allo stesso modo, l’odio e l’avversione che derivano dall’abituale disapprovazione spesso ci porterebbero a provare un maligno piacere per la sventura dell’uomo che, per la sua condotta e il suo carattere, provoca in noi una passione così dolorosa. Ma, nonostante l’avversione e l’odio ci rendano insensibili a ogni simpatia, e talvolta ci facciano persino gioire per l’angoscia di un altro, tuttavia, se non c’è risentimento, se né noi né i nostri amici abbiamo ricevuto una grave provocazione personale, queste due passioni non ci fanno desiderare di essere noi stessi gli artefici di quell’angoscia. Anche se fossimo al sicuro da eventuali punizioni, preferiremmo che gli fosse procurata per altre vie. Per qualcuno che è dominato da un odio violento, sarebbe forse piacevole venire a sapere che la persona che aborriva e detestava è morta in un incidente. Ma se avesse il minimo barlume di giustizia (e potrebbe ancora averlo, nonostante l’odio non favorisca questa virtù), sarebbe molto addolorato di essere stato lui, anche se involontariamente, la causa di quella disgrazia. Anche il solo pensiero di avervi contribuito volontariamente lo sconvolgerebbe ancora di più. Rifiuterebbe con orrore anche la sola immaginazione di un progetto tanto esecrabile, e se riuscisse a immaginare di esser capace di una tale enormità, comincerebbe a considerarsi nella stessa odiosa luce in cui aveva considerato la persona che era oggetto della sua avversione. Ma per quanto riguarda il risentimento, le cose stanno in maniera molto diversa: se la persona che ci ha offeso gravemente, per esempio assassinando nostro padre o nostro fratello, dovesse poco dopo morire per una febbre, o anche esser messo a morte per qualche altro crimine, questo potrebbe placare il nostro odio, ma non soddisferebbe il nostro risentimento. Il risentimento non ci spinge solo a desiderare che egli sia punito, ma che sia punito per mano nostra, e proprio per quella particolare offesa fatta a noi. Il risentimento non può essere pienamente gratificato, a meno che il colpevole non solo soffra a sua volta, ma soffra per quel particolare male che noi abbiamo ricevuto da lui. Deve essere spinto a pentirsi e a dispiacersi proprio per quell’azione, tanto che altri, per timore di ricevere la stessa punizione, possano esser terrorizzati di macchiarsi dello stesso delitto. La naturale gratificazione di questa passione tende spontaneamente a produrre tutti gli scopi politici della punizione: la correzione del criminale e l’esempio per il pubblico.

7. La gratitudine e il risentimento, perciò, sono i sentimenti che più immediatamente e direttamente ci spingono a ricompensare e punire. Deve perciò sembrarci meritevole di ricompensa colui che sembra l’appropriato e approvato oggetto di gratitudine, e meritevole di punizione colui che sembra l’appropriato e approvato oggetto di risentimento.


 
CAPITOLO II Gli oggetti appropriati di gratitudine e risentimento
1. Essere appropriato e approvato oggetto di gratitudine o risentimento non può voler dire altro che essere l’oggetto di quella gratitudine e di quel risentimento che naturalmente sembra appropriato e viene approvato.

2. Ma queste due passioni, come tutte le altre passioni della natura umana, sembrano appropriate e vengono approvate quando il cuore di ogni spettatore imparziale simpatizza del tutto con esse, quando ogni testimone indifferente prende parte interamente a esse e le condivide.

3. Perciò appare meritevole di ricompensa colui che per una o più persone è l’oggetto naturale di una gratitudine per la quale ogni cuore umano è disposto a battere, e che perciò approva; e, d’altro canto, appare allo stesso modo meritevole di punizione colui che per una o più persone è l’oggetto naturale di un risentimento che ogni uomo ragionevole è pronto a far proprio, e con il quale è pronto a simpatizzare. Sicuramente, deve apparirci meritevole di ricompensa quell’azione che ognuno vorrebbe ricompensare, una volta che gli sia nota, o che vedrebbe con gioia ricompensata. Altrettanto sicuramente, deve apparirci meritevole di punizione quell’azione per la quale ognuno va in collera, una volta che gli sia nota, e che vede volentieri punita.

4. I. Nelle situazioni di prosperità simpatizziamo con i nostri compagni, unendoci a loro nel compiacimento e nella soddisfazione con cui essi naturalmente considerano ciò che ha causato la loro fortuna. Prendiamo parte all’amore e all’affetto che loro provano per quel certo oggetto, e cominciamo a amarlo anche noi. Per amor loro, ci rattristeremmo se scomparisse, o persino se fosse posto a una distanza troppo grande da loro, e fuori dalla portata della loro cura e protezione, nonostante dalla sua mancanza non perderebbero altro che il piacere di poterlo vedere. E questo avviene ancora di più se è stato un uomo il fortunato strumento della felicità di un suo simile. Quando vediamo un uomo assistito, protetto, confortato da un altro, la nostra simpatia per la gioia della persona che riceve il beneficio anima il nostro sentimento di partecipazione per la sua gratitudine verso colui che lo concede. Quando consideriamo la persona che è causa del suo piacere con gli occhi con cui immaginiamo che egli debba considerarla, il suo benefattore sembra starci davanti nella luce più attraente e gradevole. Perciò simpatizziamo subito con l’affetto pieno di gratitudine che egli concepisce per una persona verso la quale è stato così obbligato, e di conseguenza approviamo che contraccambi i favori ricevuti. Dal momento che prendiamo interamente parte all’affetto da cui deriva tale contraccambio, questo necessariamente ci sembra del tutto appropriato e adatto al suo oggetto.

5. II. Allo stesso modo, come simpatizziamo con la sofferenza del nostro simile ogni volta che vediamo la sua angoscia, allo stesso modo prendiamo parte alla sua ripugnanza e avversione per qualsiasi cosa l’abbia causata. Il nostro cuore fa propria la sua pena e batte insieme al suo, ed è animato dal medesimo spirito con cui l’altro cerca di scacciarne o distruggerne la causa. Il sentimento di partecipazione indolente e passivo con cui lo accompagniamo nelle sue sofferenze cede subito il posto a quel sentimento più vigoroso e attivo che ci fa condividere lo sforzo che lui fa per respingerle, o per vendicarsi di ciò che le ha procurate. Questo avviene in modo ancor più forte quando chi ha causato quelle sofferenze è un uomo. Quando vediamo un uomo oppresso e offeso da un altro, la simpatia che proviamo per l’angoscia della vittima serve solo a suscitare il nostro sentimento di partecipazione verso il suo risentimento contro chi l’ha offeso. Ci rallegriamo nel vederlo a sua volta dar contro al suo avversario, e siamo ansiosi e pronti ad assisterlo quando si sforza di difendersi, o, entro certi limiti, persino quando cerca di vendicarsi. Se l’uomo che aveva ricevuto l’offesa dovesse restare ucciso nello scontro, non solo proviamo simpatia per il reale risentimento dei suoi amici e parenti, ma anche per il risentimento immaginario che nella nostra fantasia attribuiamo al defunto, che non è più in grado di provare quello, o qualsiasi altro sentimento umano. Ma dal momento che ci mettiamo al posto suo, dal momento che quasi entriamo nel suo corpo, e nelle nostre immaginazioni in qualche misura rianimiamo il cadavere deforme e massacrato dell’ucciso, quando riportiamo di cuore il suo caso a noi in questo modo, proviamo, in questa come in molte altre occasioni, un’emozione che la persona principalmente interessata è incapace di provare, e che tuttavia noi proviamo per un’illusoria simpatia con lei. Le lacrime di simpatia che versiamo per quella che, nella nostra fantasia, ci appare una sua immensa e irreparabile perdita ci sembrano solo una piccola parte del rispetto che gli dobbiamo. Riteniamo che l’offesa che ha subito richieda una parte essenziale della nostra attenzione. Proviamo quel risentimento immaginario che lui dovrebbe provare e che proverebbe, se nel suo corpo freddo e senza vita fosse rimasta una qualche coscienza di ciò che accade sulla terra. Pensiamo che il suo sangue gridi vendetta. Le stesse ceneri del defunto sembrano agitarsi al pensiero che le offese subite debbano restare impunite. Le allucinazioni che ossessionano il sonno dell’assassino, i fantasmi, che secondo la superstizione sorgono dalle bare, a invocare vendetta su quelli che li hanno portati a una fine prematura, derivano da questa naturale simpatia per l’immaginario risentimento dell’ucciso. E non fosse altro che per riguardo a questo, che è il più terribile di tutti i crimini, la Natura, prima ancora di qualsiasi riflessione sull’utilità della punizione, ha stampato nel cuore umano, a caratteri nettissimi e indelebili, un’immediata e istintiva approvazione per la sacra e necessaria legge del taglione.


 
CAPITOLO III Nel caso non si approvi la condotta del benefattore, c’è scarsa simpatia per la gratitudine di chi riceve il beneficio, e, al contrario, nel caso non si disapprovino le ragioni del malfattore, non c’è alcuna simpatia per il risentimento di chi subisce il torto
1. Si deve osservare, comunque, che, per quanto le azioni o intenzioni della persona che agisce possano esser state benefiche o malvagie per la persona su cui (se mi si consente l’espressione) agisce, tuttavia, nel caso di azioni benefiche, se non ci sembra che i motivi dell’agente siano stati appropriati, se non possiamo prender parte alle affezioni che hanno influenzato la sua condotta, proviamo scarsa simpatia per la gratitudine di chi ha ricevuto il beneficio. Al contrario, se, nel caso di azioni malvagie, non ci sembra che i motivi dell’agente fossero inappropriati, ma, anzi, le affezioni che hanno influenzato la sua condotta sono tali che noi necessariamente dobbiamo prendervi parte, allora non possiamo provare alcun tipo di simpatia per il risentimento della persona che soffre. In un caso sembra dovuta scarsa gratitudine; nell’altro caso ogni tipo di risentimento sembra ingiusto. La prima azione non sembra degna di una gran ricompensa; l’altra non sembra meritare alcuna punizione.

2. I. Primo, sostengo che ogni volta che non possiamo provare simpatia per le affezioni dell’agente, ogni volta che ci sembra che i motivi della sua condotta non siano appropriati, siamo meno disposti a prender parte alla gratitudine della persona che ha ricevuto il beneficio delle sue azioni. Ci sembra, ad esempio, che quella generosità folle e prodiga di chi profonde i più grandi benefici per i motivi più banali, che regala un patrimonio a qualcuno solo perché si chiama come lui, non meriti che un contraccambio minimo. Non sembra che tali favori richiedano una ricompensa proporzionata. Il nostro disprezzo per la stravaganza dell’agente ci impedisce di prender parte del tutto alla gratitudine della persona che ha ricevuto il dono. Il suo benefattore non ne sembra degno. Mettendoci al posto della persona in obbligo, sentiamo che non riusciremmo a concepire una gran reverenza per un simile benefattore. Quindi, non riteniamo che la persona che ha ricevuto il beneficio abbia l’obbligo di quella venerazione e di quella stima sottomesse che, nel caso il benefattore fosse una persona più rispettabile, riterremmo dovuto. Le consentiamo perciò di trascurare molte delle attenzioni e molti dei riguardi che chiederemmo per un protettore più meritevole, purché tratti con gentilezza il suo stravagante amico. I principi che hanno ricoperto a profusione i loro favoriti di ricchezza, potere e onori raramente hanno suscitato quel grado di attaccamento alla loro persona ottenuto spesso, invece, da chi era stato più parco nell’elargire favori. La prodigalità, per natura buona, ma avventata, di Giacomo I di Gran Bretagna non sembra aver provocato l’attaccamento di qualcuno alla sua persona, e sembra che il principe, nonostante la sua disposizione socievole e innocua, sia morto senza un amico. Invece, tutta la piccola e la grande nobiltà d’Inghilterra dedicò la vita e le fortune alla causa del suo più parco e distaccato figlio, nonostante la freddezza e la distante severità della sua condotta ordinaria.

3. II. Secondo, sostengo che, quando ci sembra che la condotta dell’agente sia stata diretta da motivi e affezioni che comprendiamo e approviamo del tutto, non possiamo provare nessuna simpatia per il risentimento della persona che soffre, per quanto possa esser grande il torto che ha subito. Quando due persone litigano, se prendiamo le parti di una di loro, e facciamo nostro il suo risentimento, è impossibile che prendiamo parte anche al risentimento dell’altro. La nostra simpatia per la persona di cui condividiamo i moventi, e che perciò riteniamo abbia ragione, non può che renderci insensibili a ogni sentimento di partecipazione per l’altra, che necessariamente consideriamo in torto. Perciò, qualsiasi cosa questa possa aver sofferto, non può né dispiacerci, né farci adirare, poiché non è più di quanto avremmo desiderato che soffrisse, né più di quanto la nostra indignazione simpatetica ci avrebbe spinto a fargli soffrire. Quando viene condotto al patibolo un crudele assassino, sebbene proviamo una certa compassione per la sua misera situazione, non possiamo avere alcun sentimento di partecipazione per il suo eventuale assurdo risentimento contro il suo boia o il suo giudice. La loro naturale e giusta indignazione contro un criminale così vile, di fatto, è per lui fatale e rovinosa. Ma è impossibile che ci provochi dispiacere un sentimento che, riportato il caso a noi, sappiamo che non possiamo evitare di far nostro.


 
CAPITOLO IV Riepilogo dei capitoli precedenti
1. I. Quindi non simpatizziamo interamente e con tutto il cuore con la gratitudine di un uomo verso un altro, solo perché quest’ultimo è stato la causa della sua buona fortuna, a meno che non condividiamo del tutto i motivi del benefattore. Il nostro cuore deve far propri i principi dell’agente, e condividere tutte le affezioni che hanno influenzato la sua condotta, prima di poter simpatizzare del tutto e accordarsi con la gratitudine della persona beneficiata. Se la condotta del benefattore non ci sembra appropriata, anche se i suoi effetti sono stati benefici, non sembra richiedere o esigere necessariamente alcuna ricompensa proporzionata.

2. Ma quando la tendenza benefica dell’azione è unita all’appropriatezza dell’affezione dalla quale deriva, quando simpatizziamo del tutto con le motivazioni dell’agente e le condividiamo, il sentimento che proviamo per lui ci fa partecipare di più e più vivamente alla gratitudine di coloro che devono la loro felicità alla sua buona condotta. Le sue azioni sembrano richiedere e, se mi è concessa l’espressione, domandare a gran voce, una ricompensa proporzionata. Perciò prendiamo parte interamente alla gratitudine che spinge a concederla. Quando simpatizziamo del tutto con il sentimento che spinge a ricompensare, e lo approviamo completamente, allora il benefattore sembra oggetto appropriato di ricompensa. Quando approviamo e condividiamo l’affezione da cui deriva l’azione, necessariamente dobbiamo approvare l’azione, e considerare la persona verso cui è diretta come il suo oggetto appropriato e adatto.

3. II. Allo stesso modo, non possiamo affatto simpatizzare con il risentimento di un uomo contro un altro puramente perché quest’altro è stato la causa della sua sventura, a meno che non ne sia stato la causa per motivi cui non possiamo prender parte. Prima di riuscire a far nostro il risentimento di colui che soffre, dobbiamo disapprovare le motivazioni dell’agente, e sentire che il nostro cuore rifiuta ogni simpatia per le affezioni che hanno influenzato la sua condotta. Se non ci sembra che queste fossero inappropriate, per quanto la tendenza dell’azione che ne deriva possa essere fatale per quelli verso cui è diretta, l’azione stessa non ci sembra meritare punizione, o essere appropriato oggetto di risentimento.

4. Ma quando al fatto che l’azione provoca sofferenza sia congiunto il fatto che l’affezione da cui deriva è inappropriata, quando il nostro cuore rifiuta con orrore ogni sentimento di partecipazione per le motivazioni dell’agente, allora simpatizziamo con tutto il cuore con il risentimento di colui che soffre. Tali azioni sembrano allora meritare e, se mi è consentita l’espressione, invocare a gran voce una punizione adeguata, e noi prendiamo parte completamente al sentimento che spinge a infliggerla, e lo approviamo. Quando simpatizziamo del tutto con quel sentimento che spinge a punire, e perciò l’approviamo, allora il colpevole sembra necessariamente oggetto appropriato di punizione. Anche in questo caso, quando approviamo e condividiamo l’affezione da cui deriva l’azione, necessariamente dobbiamo approvare l’azione, e considerare la persona contro cui è diretta come il suo oggetto appropriato e adatto.


 
CAPITOLO V Analisi del senso del merito e del demerito
1. I. Quindi, come il nostro senso dell’appropriatezza della condotta deriva da ciò che chiamerò una simpatia diretta per le affezioni e le motivazioni della persona che agisce, così il senso del suo merito deriva da ciò che chiamerò una simpatia indiretta per la gratitudine della persona sulla quale, se mi è concessa l’espressione, si agisce.

2. Dal momento che non possiamo prender parte interamente alla gratitudine della persona che riceve il beneficio, a meno che prima non approviamo le motivazioni del benefattore, così, per questo, il senso del merito sembra essere un sentimento composto, formato da due emozioni distinte: una simpatia diretta per i sentimenti dell’agente, e una simpatia indiretta per la gratitudine di coloro che ricevono il beneficio delle sue azioni.

3. In svariate occasioni possiamo distinguere chiaramente queste due diverse emozioni che si combinano e si uniscono, dandoci il senso della benemerenza di un particolare personaggio o di una particolare azione. Quando leggiamo nei libri di storia di azioni dettate da appropriata e benefica grandezza d’animo, prendiamo ardentemente parte a tali disegni, animandoci per quell’ispirata generosità che li dirige, parteggiando per il loro successo, dispiacendoci per il loro insuccesso. Nell’immaginazione diventiamo la stessa persona di cui ci rappresentiamo le azioni: ci lasciamo trasportare dalla fantasia nelle scene di quelle avventure lontane e dimenticate, e immaginiamo di recitare in prima persona la parte di Scipione o di Camillo, di Timoleonte o di Aristide. Fin qui i nostri sentimenti si fondano su una simpatia diretta per la persona che agisce. Ma la simpatia indiretta per coloro che ricevono il beneficio di tali azioni non è avvertita in modo meno sensibile. Tutte le volte che ci mettiamo al posto di quest’ultimi, prendiamo parte, con un caldo e affettuoso sentimento di partecipazione, alla loro gratitudine verso coloro che li hanno trattati con tanto riguardo. È come se insieme a loro abbracciassimo il loro benefattore. Il nostro cuore simpatizza subito con i più alti slanci della loro gratitudine. Non c’è onore né ricompensa che riteniamo troppo grande per lui. Quando coloro che hanno ricevuto i benefici ricambiano appropriatamente, li lodiamo e approviamo di cuore, ma ci scandalizziamo oltre ogni limite se con la loro condotta mostrano di tenere in poco conto i loro obblighi. In breve, il nostro senso del merito e della benemerenza di tali azioni, dell’appropriatezza e della convenienza delle ricompense, che fanno sì che il benefattore gioisca a sua volta, deriva dalle emozioni simpatetiche di gratitudine e amore, le quali, quando prendiamo a cuore la situazione delle persone principalmente interessate, ci spingono naturalmente verso l’uomo che ha agito con una beneficenza tanto nobile e appropriata.

4. II. Allo stesso modo, come il nostro senso dell’inappropriatezza della condotta deriva da una mancanza di simpatia, o da una diretta antipatia per le affezioni e le motivazioni dell’agente, così il nostro senso del suo demerito deriva da ciò che anche in questo luogo chiamerò un’indiretta simpatia per il risentimento di colui che soffre.

5. Dal momento che non possiamo veramente prender parte al risentimento di colui che soffre, a meno che prima il nostro cuore non disapprovi i moventi dell’agente e disdegni ogni sentimento di partecipazione per essi, così, per questo motivo, il senso del demerito, come quello del merito, sembra essere un sentimento composto, formato da due distinte emozioni: un’antipatia diretta per i sentimenti dell’agente, e una simpatia indiretta per il risentimento di colui che soffre.

6. Anche qui possiamo, in svariate occasioni, distinguere chiaramente quelle due diverse emozioni che si combinano e si uniscono insieme nel nostro senso del torto di un particolare personaggio o azione. Quando sui libri di storia leggiamo della perfidia e della crudeltà di un Borgia o di un Nerone, il nostro cuore insorge contro i detestabili sentimenti che hanno influenzato la loro condotta, e disdegna con orrore e abominio ogni sentimento di partecipazione per le loro esecrabili motivazioni. Fino a questo punto, i nostri sentimenti si fondano sulla diretta antipatia per le affezioni dell’agente, ma la simpatia indiretta per il risentimento di colui che soffre è sentita ancora più forte. Quando riportiamo a noi la situazione delle persone che sono state insultate, assassinate o tradite da questi flagelli dell’umanità, quale non è la nostra indignazione contro questi arroganti e inumani oppressori del mondo? La nostra simpatia per l’inevitabile angoscia delle vittime innocenti non è più reale né più viva del nostro sentimento di partecipazione per il loro giusto e naturale risentimento. Il primo sentimento non fa altro che accrescere il secondo, e l’idea della loro angoscia serve solo a infiammare e gonfiare la nostra animosità contro coloro che l’hanno provocata. Quando pensiamo al tormento delle vittime, le appoggiamo con più convinzione contro i loro oppressori, prendiamo parte con più passione a tutti i loro progetti di vendetta, e in ogni momento ci sentiamo come se nella nostra immaginazione stessimo sfogando su quei trasgressori delle leggi della società la punizione che, secondo la nostra simpatetica indignazione, è dovuta ai loro crimini. Il nostro senso dell’orrore e della terribile atrocità di tale condotta, il piacere che proviamo venendo a sapere che è stata appropriatamente punita, l’indignazione che sentiamo quando sfugge a questa dovuta rappresaglia, insomma tutto il nostro senso e sentimento del suo torto, dell’appropriatezza e dell’opportunità di infliggere del male sulla persona che ne è colpevole, facendola a sua volta soffrire, derivano dall’indignazione simpatetica che naturalmente ribolle nel petto dello spettatore ogni volta che riporta a sé il caso della vittima.*

7. Attribuire, in questa maniera, il nostro senso naturale del torto delle azioni umane a una simpatia con il risentimento della persona che soffre può sembrare, alla maggior parte della gente, una degradazione di quel sentimento. Il risentimento è comunemente considerato una passione così odiosa, che si è portati a pensare che sia impossibile che un principio tanto lodevole come il senso del torto delle azioni viziose debba essere, sotto un qualsiasi riguardo, fondato su di esso. Forse la gente ammetterebbe più volentieri che il nostro senso del merito delle buone azioni sia fondato su una simpatia per la gratitudine delle persone che da quelle azioni ricevono il beneficio, perché la gratitudine, come le altre passioni benevole, è considerata un principio amabile, che non può toglier nulla al valore di qualsiasi cosa sia fondata su di essa. È evidente che gratitudine e risentimento sono tuttavia sotto ogni riguardo l’una la controparte dell’altro, e se il nostro senso del merito deriva da una simpatia con l’uno, il nostro senso del demerito difficilmente può derivare da qualcosa che non sia il sentimento di partecipazione per l’altro.

8. Si consideri inoltre che il risentimento, nonostante sia forse, nei gradi in cui troppo spesso lo vediamo, la più odiosa di tutte le passioni, non viene disapprovato quando viene ridimensionato e attenuato fino al livello della simpatetica indignazione dello spettatore. Quando noi, da semplici astanti, sentiamo che la nostra animosità corrisponde del tutto a quella di chi soffre, quando il risentimento di quest’ultimo non oltrepassa sotto alcun riguardo il nostro, quando non gli sfugge né una parola, né un gesto che denoti un’emozione più violenta di quella con cui possiamo trovarci in accordo, e quando non tende a infliggere alcuna punizione superiore a quella che vorremmo vedere inflitta, o che per questo motivo vorremmo infliggere noi stessi, è impossibile che non approviamo del tutto i suoi sentimenti. Le nostre emozioni, in questo caso, devono, ai nostri occhi, giustificare senza dubbio le sue. E, dal momento che l’esperienza ci insegna quanto la maggior parte degli uomini sia incapace di questa moderazione, e quale grande sforzo si debba compiere per attenuare l’impulso rude e indisciplinato del risentimento fino a questa misura conveniente, non possiamo fare a meno di concepire un notevole grado di stima e ammirazione per chi appare capace di esercitare un tale autocontrollo su una delle passioni più ingovernabili della sua natura. In verità, quando l’animosità della vittima supera, come spesso avviene, il livello che possiamo condividere, dal momento che non possiamo prendervi parte, necessariamente la disapproviamo. La disapproviamo persino di più di quanto faremmo per un simile eccesso di ogni altra passione derivata dall’immaginazione. E tale risentimento troppo violento, invece di trascinarci dalla sua parte, diventa a sua volta oggetto del nostro risentimento e della nostra indignazione. Prendiamo parte all’opposto risentimento della persona che è oggetto di tale ingiusta emozione, e che rischia di soffrire per causa sua. Perciò la vendetta, cioè l’eccesso di risentimento, sembra la più detestabile di tutte le passioni, ed è oggetto dell’orrore e dell’indignazione di tutti. E poiché questa passione, nel modo in cui comunemente si manifesta tra gli uomini, è eccessiva novantanove volte su cento, tendiamo decisamente a considerarla del tutto odiosa e detestabile, perché così si manifesta comunemente. Tuttavia la Natura, anche nell’attuale depravazione dell’umanità, non sembra esser stata con noi così scortese da fornirci di un qualsiasi principio che sia completamente e sotto ogni rispetto malvagio, o che non sia, in qualche grado e in qualche direzione, oggetto appropriato di lode e approvazione. In alcune occasioni, ci accorgiamo che questa passione, che generalmente è troppo intensa, può allo stesso modo essere troppo debole. Qualche volta ci lamentiamo che una particolare persona mostri troppo poco coraggio, e abbia uno scarso senso delle offese che gli sono state fatte, e siamo pronti a disprezzarlo per il difetto, come a odiarlo per l’eccesso di risentimento.

9. Gli autori di sacre scritture non avrebbero parlato così di frequente e in modo così zelante della collera e dell’ira di Dio, se avessero considerato vizioso e malvagio ogni grado di quelle passioni, anche in una creatura così debole e imperfetta come l’uomo.

10. Si consideri inoltre che la presente ricerca non riguarda una questione di diritto, se così posso esprimermi, ma una questione di fatto. Non stiamo al momento esaminando in base a quali principi un essere perfetto approverebbe la punizione delle cattive azioni, ma in base a quali principi una creatura così debole e imperfetta come l’uomo l’approva realmente e di fatto. È evidente che i principi che ho appena menzionato hanno un effetto grandissimo sui suoi sentimenti, e questa sembra una cosa saggia. L’esistenza stessa della società richiede che la malvagità non meritata né provocata venga repressa con punizioni appropriate, e, di conseguenza, che infliggere tali punizioni sia considerata un’azione appropriata e lodevole. Perciò, nonostante l’uomo sia naturalmente provvisto di un desiderio di benessere e conservazione della società, tuttavia l’Autore della natura non ha affidato alla sua ragione il compito di scoprire che il mezzo adeguato per ottenere tale fine è una certa applicazione delle punizioni, ma lo ha fornito dell’immediata e istintiva dote di approvare proprio quell’applicazione che è la più adatta per ottenerlo. Questo caso, come altri, è del tutto coerente con il principio dell’economia della natura. Riguardo a tutti quei fini che per la loro particolare importanza possono esser considerati, se mi è concessa l’espressione, come i fini che la natura privilegia, essa non solo ha dotato il genere umano di un desiderio di realizzare il fine che lei propone, ma lo ha dotato anche di un desiderio di servirsi proprio degli unici mezzi utili a realizzarlo, che vengono desiderati per loro stessi, indipendentemente dalla tendenza a realizzare il fine. Così, l’autoconservazione e la propagazione della specie sono i grandi fini che la Natura sembra essersi proposta nel generare tutti gli animali. Il genere umano è dotato di desiderio di quei fini e di avversione per quelli contrari; di amore per la vita e di timore di dissolvimento; di desiderio di continuità e perpetuità della specie, e di avversione per il pensiero di una sua totale estinzione. Ma, nonostante siamo così dotati di un fortissimo desiderio di quei fini, la scoperta dei mezzi per ottenerli non è stata affidata alle lente e incerte determinazioni della ragione. La Natura ci ha indirizzato verso di essi attraverso istinti originari e immediati. La fame, la sete, la passione che unisce i due sessi, l’amore per il piacere e la paura del dolore ci spingono a usare quei mezzi per loro stessi e senza alcuna considerazione per la loro tendenza verso quei benefici fini che il gran Direttore della natura intendeva produrre attraverso di essi.

11. Prima di concludere questa nota, devo rivelare una differenza tra l’approvazione dell’appropriatezza e quella del merito e della beneficenza. Prima di approvare i sentimenti di una persona come appropriati e adatti ai loro oggetti, non solo dobbiamo essere colpiti come lei lo è, ma dobbiamo percepire questa armonia e corrispondenza di sentimenti tra lei e noi. In tal modo, anche se, venendo a sapere di una disgrazia successa a un mio amico, dovessi provare la sua stessa angoscia, tuttavia, finché non so come si comporta, finché non percepisco un’armonia tra le sue emozioni e le mie, non si può dire che io approvi i sentimenti che influenzano il suo comportamento. Perciò, l’approvazione dell’appropriatezza richiede non solo che noi simpatizziamo del tutto con la persona che agisce, ma che percepiamo questa concordia perfetta tra i suoi e i nostri sentimenti. Al contrario, quando vengo a sapere di una buona azione fatta a un’altra persona, qualsiasi siano i sentimenti di chi l’ha ricevuta, se, riportando il caso a me, sento sorgere gratitudine nel mio cuore, necessariamente approvo la condotta del suo benefattore, e la considero degna di merito e appropriato oggetto di ricompensa. È evidente che il fatto che la persona che ha ricevuto il beneficio provi o meno gratitudine non può in alcun grado modificare i nostri sentimenti sul merito del benefattore. In questo caso, perciò, non è richiesta nessuna reale corrispondenza di sentimenti. È sufficiente che corrispondano nel caso egli sia grato, e il nostro senso del merito si fonda spesso su una di quelle simpatie illusorie che, quando riportiamo a noi il caso di un altro, ci colpiscono in un modo in cui la persona principalmente interessata è incapace di rimanere colpita. C’è una differenza simile tra la nostra disapprovazione del demerito, e quella dell’inappropriatezza.


 
SEZIONE II La giustizia e la beneficenza

 
CAPITOLO I Confronto tra le due virtù
1. Le azioni di tendenza benefica, che derivano da moventi appropriati, sembrano le uniche a esigere ricompensa, perché sono gli unici oggetti approvati di gratitudine, capaci di suscitare la simpatetica gratitudine dello spettatore.

2. Le azioni di tendenza malvagia, che derivano da moventi inappropriati, sembrano le uniche a meritare punizione, perché sono gli unici oggetti approvati di risentimento, capaci di suscitare il simpatetico risentimento dello spettatore.

3. La beneficenza è sempre libera, non può essere estorta con la forza: la sua mera assenza non espone ad alcuna punizione, perché la mera assenza di beneficenza non tende verso alcun male reale e positivo. Può deludere riguardo al bene che ci si poteva ragionevolmente aspettare, e per questo può giustamente suscitare dispiacere o disapprovazione; tuttavia non può provocare alcun risentimento che il genere umano possa condividere. Chi non ricompensa il proprio benefattore, quando è in grado di farlo e quando il suo benefattore ha bisogno della sua assistenza, è senza dubbio colpevole della più malvagia ingratitudine. Il cuore di ogni spettatore imparziale respinge ogni sentimento di partecipazione per l’egoismo dei suoi moventi, ed egli stesso è oggetto appropriato della più aspra disapprovazione. Ma tuttavia egli non arreca un positivo danno a nessuno. Soltanto egli non fa quel bene che sarebbe stato appropriato fare. È oggetto di odio, una passione che viene naturalmente suscitata dall’inappropriatezza del sentimento e del comportamento; non è oggetto di risentimento, una passione che propriamente non è mai suscitata altro che da azioni che tendono ad arrecare un reale e positivo danno a qualche particolare persona. Perciò la sua mancanza di gratitudine non può essere punita. Obbligarlo con la forza a fare ciò che dovrebbe fare per gratitudine, e per cui ogni spettatore imparziale lo approverebbe, sarebbe, se possibile, ancor più inappropriato della sua trascuratezza. Il suo benefattore si disonorerebbe se tentasse con la violenza di costringerlo a essere grato, e sarebbe inopportuno, per un’eventuale terza persona che non fosse un’autorità per nessuno dei due, intromettersi. Ma di tutti i doveri della beneficenza quelli che ci raccomanda la gratitudine si avvicinano di più a ciò che si chiama un perfetto e completo obbligo. Quello che l’amicizia, la generosità, la carità ci spingerebbero a fare con approvazione universale è ancor più libero, e può, ancor meno dei doveri della gratitudine, essere estorto con la forza. Parliamo di debito di gratitudine, non di carità, di generosità, né di amicizia, quando l’amicizia è mera stima e non si è intensificata e complicata con la gratitudine per i buoni servigi.

4. Sembra che il risentimento ci sia stato dato dalla natura per difesa e per difesa soltanto. È a salvaguardia della giustizia e a garanzia dell’innocenza. Ci induce a respingere il male che rischiamo di subire e a vendicare quello che abbiamo già subito, in modo che colui che offende possa essere portato a pentirsi della sua ingiustizia, e che altri, per paura di una simile punizione, siano terrorizzati al pensiero di rendersi colpevoli di una offesa simile. Perciò deve essere riservato a tali scopi, e lo spettatore non può mai condividerlo, quando viene esercitato per altri. Ma la mera mancanza di virtù benevole, nonostante possa deluderci rispetto al bene che potevamo ragionevolmente aspettarci, non ci arreca, né tenta di arrecarci, alcun male dal quale possiamo avere motivo di difenderci.

5. Tuttavia c’è un’altra virtù, la cui osservanza non viene lasciata alla nostra libera volontà, che può essere estorta con la forza e la cui violazione espone al risentimento e di conseguenza alla punizione. Tale virtù è la giustizia: la violazione della giustizia è il delitto, che arreca un reale e positivo danno a qualche particolare persona per motivi che vengono naturalmente disapprovati. Perciò la violazione della giustizia è appropriato oggetto di risentimento e di punizione, che del risentimento è la naturale conseguenza. Così come gli uomini condividono e approvano la violenza impiegata per vendicare il danno arrecato dall’ingiustizia, tanto più essi condividono e approvano quella impiegata per impedire e respingere il delitto e per impedire al criminale di danneggiare il suo prossimo. La stessa persona che medita un’ingiustizia si rende conto di ciò, e sente che la forza può essere usata con estrema appropriatezza, sia dalla persona contro cui sta per agire, sia da altri, o per ostacolare l’esecuzione del suo crimine, o per punirlo una volta che egli l’abbia commesso. E su ciò si fonda quell’importante distinzione tra la giustizia e tutte le altre virtù sociali, che è stata ultimamente sottolineata in modo particolare da un autore di grande e originale genialità, secondo cui ci sentiamo più obbligati ad agire secondo giustizia che secondo amicizia, carità e generosità. Secondo tale autore, la pratica di queste ultime virtù sembra in qualche modo lasciata alla nostra scelta personale, mentre invece, per un motivo o per un altro, ci sentiamo in un modo particolare vincolati, costretti e obbligati all’osservanza della giustizia. Sentiamo, cioè, che la forza può essere usata con estrema appropriatezza e con l’approvazione di tutti per costringerci a osservare le regole dell’una, ma non per seguire i precetti delle altre.

6. Dobbiamo tuttavia distinguere attentamente ciò che è soltanto biasimevole, od oggetto appropriato di disapprovazione, da ciò che si deve invece punire o prevenire con la forza. Sembra biasimevole ciò che si colloca al di sotto di quel grado ordinario di appropriata beneficenza che l’esperienza ci insegna ad aspettarci da tutti, e al contrario, sembra lodevole ciò che lo supera. Il grado ordinario in sé non sembra né biasimevole né lodevole. Un padre, un figlio, un fratello, che si comportano con il rispettivo congiunto né meglio né peggio della maggior parte degli uomini, non sembrano propriamente meritare né lode né biasimo. Chi ci sorprende per la sua gentilezza straordinaria e inattesa, benché appropriata e adeguata, o al contrario per la sua straordinaria e inattesa, oltre che inadeguata, scortesia, sembra degno di lode in un caso e di biasimo nell’altro.

7. Tuttavia, tra persone di pari livello, persino il grado più ordinario di gentilezza e beneficenza non può essere estorto con la forza. Tra pari, ogni individuo, naturalmente e prima dell’istituzione del governo civile, viene considerato in diritto sia di difendersi dalle ingiurie, che di esigere un certo grado di punizione per quelle che ha ricevuto. Quando egli si comporta in questo modo, ogni spettatore generoso non solo approva la sua condotta, ma prende parte ai suoi sentimenti fino al punto di desiderare spesso di aiutarlo. Quando un uomo assale, o deruba, o tenta di ucciderne un altro, tutti i vicini si mettono in allarme e ritengono di far bene a intervenire per vendicare la persona che è stata offesa o per difendere chi è in pericolo di esserlo. Ma quando in un padre viene a mancare il grado ordinario dell’affetto paterno verso un figlio; quando un figlio sembra non avere quella filiale riverenza per suo padre che ci si potrebbe aspettare; quando dei fratelli sono privi dell’abituale grado di affetto fraterno; quando un uomo chiude il suo cuore alla compassione e rifiuta di alleviare la miseria dei suoi simili, pur potendolo fare facilmente; in tutti questi casi, nonostante ciascuno biasimi tale condotta, a nessuno viene in mente che coloro che forse potrebbero avere diritto di aspettarsi maggiore gentilezza, abbiano alcun diritto di estorcerla con la forza. La vittima può solo lamentarsi, e lo spettatore può intromettersi solo con il consiglio e la persuasione. In simili occasioni, tra persone di pari livello, usare la forza l’uno contro l’altro sarebbe ritenuto il più alto grado di insolenza e presunzione.

8. In realtà, talvolta un superiore può, con approvazione generale, obbligare coloro che sono sotto la sua giurisdizione a comportarsi in simili casi con un certo grado di appropriatezza gli uni versi gli altri. Le leggi di tutti i paesi civili obbligano i genitori a mantenere i propri figli e i figli a mantenere i propri genitori, e impongono agli uomini molti altri doveri di beneficenza. Alla magistratura civile è attribuito non solo il potere di mantenere la pace pubblica reprimendo l’ingiustizia, ma anche quello di promuovere il bene dello Stato instaurando una adeguata disciplina e scoraggiando ogni sorta di vizio e comportamento inappropriato; può fissare perciò delle regole che non solo proibiscano ai concittadini di danneggiarsi a vicenda, ma che impongano, a un certo livello, di farsi reciprocamente del bene. Quando il sovrano ordina ciò che è puramente indifferente, e che, prima dei suoi ordini, si sarebbe potuto tralasciare senza alcun biasimo, disobbedirgli diventa non solo biasimevole, ma punibile. Perciò, quando egli ordina ciò che anche prima di un tale ordine non avrebbe potuto essere tralasciato senza il più grave biasimo, chi manca di obbedire è non solo biasimevole, ma, a maggior ragione, punibile. Di tutti i doveri di un legislatore, tuttavia, questo è forse quello che richiede la più grande delicatezza e il più grande riserbo per essere eseguito con appropriatezza e giudizio. Trascurarlo del tutto espone lo Stato a molti gravi disordini e terribili malvagità, spingerlo troppo in là rappresenta la distruzione di tutta la libertà, la sicurezza, la giustizia.

9. Nonostante la mera mancanza di beneficenza non sembri meritare punizione da parte di persone di pari livello, le più grandi dimostrazioni di quella virtù appaiono degne del maggior riguardo. Poiché producono il più gran bene, sono oggetti naturali e approvati della più viva gratitudine. Al contrario, mentre la violazione della giustizia espone alla punizione, l’osservanza delle sue regole difficilmente appare meritevole di qualche ricompensa. Senza dubbio c’è appropriatezza nella pratica della giustizia, e a causa di ciò essa merita tutta l’approvazione dovuta all’appropriatezza. Ma dal momento che non produce nessun bene reale e positivo, ha diritto a una gratitudine molto limitata. In molte occasioni la mera giustizia non è altro che una virtù negativa, che non fa altro che impedirci di danneggiare il nostro prossimo. Chi semplicemente si astiene dal violare la persona, o lo stato, o la reputazione dei suoi vicini, sicuramente ha pochissimo merito positivo. Tuttavia, egli osserva tutte le regole di ciò che è specificamente definito giustizia, e fa tutto ciò che i suoi pari possono appropriatamente forzarlo a fare, pena la punizione. Spesso possiamo osservare tutte le regole della giustizia standocene seduti senza fare niente.

10. Quello che ogni uomo fa, può essere fatto a lui, e la ritorsione sembra essere la grande legge dettataci dalla Natura. Pensiamo che al generoso e al benefattore siano dovute benevolenza e generosità. Pensiamo che coloro che non aprono mai il loro cuore a sentimenti umanitari debbano allo stesso modo essere esclusi dagli affetti di tutti i loro simili, ed essere lasciati vivere nel mezzo della società come in un grande deserto, dove nessuno si cura di loro o chiede loro notizie. A colui che viola le leggi della giustizia bisognerebbe far provare lo stesso male che egli ha fatto a un altro; e poiché nessun riguardo per le sofferenze dei suoi fratelli riesce a trattenerlo, egli dovrebbe essere terrorizzato dal timore delle sue stesse sofferenze. Colui che è semplicemente innocente, che non fa altro che osservare le leggi di giustizia nei riguardi degli altri, e non fa altro che astenersi dal nuocere ai suoi vicini, non può meritare altro che i suoi vicini a loro volta rispettino la sua innocenza, e che le stesse leggi siano religiosamente rispettate nei suoi riguardi.


 
CAPITOLO II Il senso di giustizia, il rimorso e la coscienza del merito


1. Non ci può essere alcun motivo appropriato per danneggiare il nostro prossimo, né ci si può aspettare di esser condivisi se si incita a fare del male a un altro, tranne nel caso di giusta indignazione per il male che l’altro ha fatto a noi. Nessuno spettatore imparziale potrà condividere se turbiamo la felicità dell’altro solo perché si frappone alla nostra, se gli sottraiamo ciò che gli è utile solo perché può essere altrettanto, o più utile, a noi, o se ci lasciamo andare in tal modo, a spese di altri, alla naturale preferenza che ogni uomo ha per la propria felicità più che per quella degli altri. Senza dubbio ogni uomo, per natura, viene affidato in primo luogo e principalmente alle sue stesse cure, e dal momento che egli è adatto a prendersi cura di se stesso più che ogni altra persona, è idoneo e giusto che debba essere così. Perciò ogni uomo è molto più profondamente interessato a ciò che riguarda immediatamente lui stesso che a ciò che riguarda ogni altro uomo; e, forse, venire a sapere della morte di un’altra persona, con la quale non abbiamo un particolare legame, ci preoccuperà di meno, ci metterà di meno lo stomaco sottosopra e rovinerà il nostro riposo molto meno che un guaio del tutto insignificante che sia capitato a noi. Ma, sebbene la rovina del nostro prossimo riesca a colpirci molto meno che una piccolissima nostra sventura, non dobbiamo mandarlo in rovina per impedire quella piccola sventura, né per prevenire la nostra stessa rovina. In questo, come in tutti gli altri casi, non dobbiamo considerarci tanto secondo la luce in cui possiamo naturalmente apparire a noi stessi, quanto secondo quella in cui naturalmente appariamo agli altri. Nonostante, secondo il proverbio, ogni uomo possa rappresentare tutto il mondo per se stesso, per il resto dell’umanità egli non è che una sua insignificante parte. Sebbene la propria felicità possa essere per lui più importante di quella di tutto il resto del mondo, per ogni altra persona non conta più della felicità di chiunque altro. Sebbene, perciò, possa essere vero che ogni individuo, nel suo cuore, naturalmente preferisca se stesso all’intera umanità, tuttavia egli non osa ammettere di fronte all’umanità di comportarsi secondo questo principio. Sente che gli altri non potrebbero mai condividere questa preferenza, e che per quanto possa essere naturale per lui, deve sempre apparire eccessiva e abnorme a loro. Quando considera se stesso nella luce in cui è consapevole che lo considereranno gli altri, riconosce che per loro egli non è altro che uno dei tanti, in nessun rispetto migliore di qualsiasi altro. Se vuole agire in modo che uno spettatore imparziale possa prendere parte ai principi della sua condotta, cosa che più di ogni altra egli desidera fare, deve, in questa come in tutte le altre occasioni, sottomettere l’arroganza del suo amor di sé, e attenuarla fino a un punto che gli altri uomini possano condividere. Essi la potranno tollerare solo fino a consentirgli di essere più preoccupato della propria felicità e di perseguirla con più zelante assiduità che quella di qualsiasi altra persona. Fino a questo punto, ogni volta che si metteranno nella sua situazione, lo condivideranno prontamente. Nella gara per la ricchezza, gli onori e le promozioni, può correre più forte che può, tendere al massimo ogni nervo e ogni muscolo per superare i suoi avversari. Ma se dovesse fare uno sgambetto o atterrare uno di loro, l’indulgenza degli spettatori verrebbe del tutto meno. Sarebbe una violazione della competizione leale, che essi non potrebbero ammettere. Per loro quest’uomo è sotto ogni rispetto buono quanto lui: essi non prendono parte a quell’amore di sé per il quale egli preferisce così tanto se stesso all’altro e non possono condividere il motivo per cui l’ha danneggiato. Perciò simpatizzano prontamente con il naturale risentimento di chi ha ricevuto il torto, mentre chi l’ha fatto diventa l’oggetto del loro odio e della loro indignazione. Egli è consapevole di diventarlo, e avverte che quei sentimenti sono pronti a esplodere contro di lui da ogni parte.

2. Quanto più è grande e irreparabile il male fatto, tanto più si accresce naturalmente il risentimento della vittima; e allo stesso modo si accresce l’indignazione che lo spettatore prova per simpatia, e il senso di colpa dell’agente. La morte è il male più grande che un uomo possa provocare a un altro, ed essa suscita il più alto grado di risentimento in coloro che sono immediatamente in contatto con l’ucciso. Perciò l’omicidio, tra tutti i crimini che colpiscono gli individui, è il più atroce, sia agli occhi dell’umanità che a quelli di chi l’ha commesso. Essere privati di ciò di cui siamo già in possesso è un danno più grande che rimanere delusi in qualcosa che ci aspettavamo soltanto. Perciò, l’infrazione della proprietà, il furto e la rapina, che ci tolgono ciò di cui siamo in possesso, sono crimini più gravi dell’infrazione di un contratto, che ci fa soltanto rimanere delusi in qualcosa che ci aspettavamo. Le leggi più sacre della giustizia, perciò, quelle la cui violazione sembra gridare più forte vendetta e punizione, sono quelle che proteggono la vita e la persona del nostro prossimo; seguono poi quelle che proteggono la sua proprietà e i suoi possedimenti; per ultime vengono infine le leggi che proteggono quelli che sono chiamati i suoi diritti personali, o ciò che gli è dovuto in base alle promesse altrui.

3. Chi viola le più sacre leggi di giustizia non può mai riflettere sui sentimenti che l’umanità deve nutrire nei suoi confronti senza sentire tutte le angosce della colpa, oltre a orrore e costernazione. Quando la sua passione è ormai appagata, ed egli comincia a riflettere a freddo sulla sua passata condotta, non può comprendere nessuna delle motivazioni che l’hanno influenzata. Ora gli appaiono detestabili così come sono sempre apparse agli altri. Simpatizzando con l’odio e la ripugnanza che gli altri uomini nutrono per lui, egli diventa in qualche misura oggetto del suo stesso odio e della sua stessa ripugnanza. La situazione della persona che ha patito la sua ingiustizia ora lo impietosisce. A questo pensiero egli si addolora; si rammarica per gli infelici effetti della propria condotta e allo stesso tempo sente che lo hanno reso oggetto appropriato del risentimento e dell’indignazione dell’umanità, e di ciò che del risentimento è la naturale conseguenza, e cioè la vendetta e la punizione. Questo pensiero lo ossessiona continuamente, e lo riempie di terrore e sbigottimento. Non osa più guardare in faccia gli altri uomini, ma immagina di essere bandito ed escluso dagli affetti dell’umanità. In questo, che è il suo più grande e terribile dolore, non può sperare nella consolazione della simpatia. Il ricordo dei suoi crimini ha scacciato dal cuore dei suoi simili ogni sentimento di partecipazione nei suoi confronti. Ciò che più teme sono proprio i sentimenti che essi nutrono nei suoi riguardi. Ogni cosa gli sembra ostile, e sarebbe contento di volare verso qualche deserto inospitale, dove non sarebbe più costretto a sostenere la presenza di una creatura umana, né a leggere nell’espressione degli uomini la condanna dei suoi crimini. Ma la solitudine è ancora più terribile della società. I suoi stessi pensieri non possono offrirgli altro che ciò che è oscuro, sventurato e disastroso, presagi malinconici di un’inesplicabile miseria e rovina. L’orrore della solitudine lo riconduce all’interno della società, ed egli si ritrova alla presenza dell’umanità, stupito di comparire di fronte agli altri, carico di vergogna e sconvolto dalla paura, per supplicare qualche minima protezione da parte di quegli stessi giudici dai quali sa di essere già stato unanimemente condannato. Tale è la natura del sentimento che è propriamente detto rimorso, il più terribile di tutti i sentimenti che possano penetrare nell’animo umano. Esso è composto di vergogna, per il senso dell’inappropriatezza della condotta passata; di pena, per gli effetti di questa; di pietà per coloro che hanno sofferto per causa sua; e di paura e di terrore della punizione, per la coscienza del risentimento giustamente provocato in tutte le creature razionali.

4. Il comportamento opposto ispira naturalmente il sentimento opposto. Quando l’uomo che ha compiuto un’azione generosa non per un frivolo capriccio, ma per motivi appropriati, guarda verso coloro che hanno ricevuto i suoi servigi, sente di essere il naturale oggetto del loro amore e della loro gratitudine, e, per simpatia con loro, della stima e dell’approvazione di tutta l’umanità. E quando guarda indietro al motivo per il quale ha agito, e lo esamina sotto la stessa luce in cui lo esaminerebbe lo spettatore indifferente, persiste nel prendervi parte, e plaude se stesso per simpatia con questo immaginato giudice imparziale. Da entrambi questi punti di vista la sua condotta gli appare gradevole in ogni aspetto. A questo pensiero la sua mente si riempie di allegria, serenità e calma. È in amicizia e in armonia con tutta l’umanità e considera i suoi simili con confidenza e benevola soddisfazione, sicuro di aver meritato la loro più favorevole considerazione. Nella combinazione di questi fattori consiste la coscienza del merito, ovvero la consapevolezza di esser degni di ricompensa.


 
CAPITOLO III L’utilità di questa costituzione della natura
1. E così l’uomo, che può sopravvivere solo nella società, è stato reso adatto dalla natura a quella situazione per cui è stato creato. Tutti i membri della società umana hanno bisogno dell’assistenza degli altri, e allo stesso modo sono esposti a reciproche offese. Quando la necessaria assistenza è reciprocamente fornita dall’amore, dalla gratitudine, dall’amicizia e dalla stima, la società è fiorente e felice. Tutti i suoi diversi membri sono legati dai piacevoli vincoli dell’amore e dell’affetto, ed è come se fossero attratti verso un centro comune, rappresentato dai buoni uffici reciproci.

2. Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere fornita da tali motivi generosi e disinteressati, anche se tra i differenti membri della società non dovesse esserci amore e affetto reciproco, la società, pur essendo meno felice e piacevole, non necessariamente ne risulterebbe dissolta. La società può sussistere tra uomini diversi, come tra diversi mercanti, per il senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco; e anche se nessun uomo in essa dovesse essere soggetto ad alcun obbligo, o avere legami di gratitudine con un altro, sarebbe tuttavia tenuta in piedi da un mercenario scambio di buoni uffici, secondo una concorde valutazione.

3. Tuttavia non può sussistere società tra coloro che sono sempre pronti a ferirsi e offendersi l’un l’altro. Nel momento in cui comincia l’offesa, nel momento in cui si manifestano risentimento e animosità reciproca, tutti i suoi legami si spezzano e tutti i membri di cui essa è composta è come se fossero dispersi e sparsi lontano dalla violenza e dall’opposizione dei loro affetti discordanti. Se esiste una società di ladri e assassini, essi devono almeno, secondo un’osservazione banale, astenersi dal derubarsi e uccidersi l’un l’altro. Perciò la beneficenza è meno essenziale della giustizia all’esistenza della società. La società può sussistere, anche se non nel migliore dei modi, senza beneficenza; ma, necessariamente, il prevalere dell’ingiustizia la distrugge del tutto.

4. Perciò, nonostante la natura esorti l’umanità ad atti di beneficenza attraverso la piacevole coscienza della meritata ricompensa, non ha ritenuto necessario sorvegliare e rinforzare la pratica della beneficenza con il terrore della meritata punizione nel caso dovesse essere trascurata. La beneficenza è l’ornamento che abbellisce, non la base che sorregge la costruzione, e perciò era sufficiente raccomandarla, ma in nessun modo necessario imporla. La giustizia, al contrario, è il principale pilastro che sostiene l’intero edificio. Se viene soppressa, la grande, l’immensa fabbrica della società umana, quella fabbrica che in questo mondo, se posso esprimermi così, sembra essere stata costruita e sostenuta dalla peculiare e sollecita cura della Natura, necessariamente si sgretola in atomi in un attimo. Allo scopo di rafforzare il rispetto della giustizia, perciò, la natura ha inculcato nell’animo umano quella coscienza del torto, quei terrori della meritata punizione che accompagnano la violazione della giustizia, come salvaguardia dell’associazione umana, per proteggere il debole, frenare il violento, castigare il colpevole. Gli uomini, sebbene naturalmente inclini alla simpatia, sentono così poco per un altro con il quale non sono in alcun particolare rapporto, rispetto a quanto sentono per loro stessi; la miseria di chi non è altro che un loro simile è di così poca importanza per loro rispetto a una convenienza personale anche minima; hanno un tale potere di danneggiarlo, e possono avere talmente tante tentazioni di farlo, che se il principio di giustizia non insorgesse dentro di loro in sua difesa, e li intimorisse fino a incutere rispetto per la sua innocenza, essi sarebbero sempre pronti ad assalirlo come bestie selvagge, e un uomo si avvicinerebbe a un gruppo di altri uomini riuniti come a un covo di leoni.

5. In ogni parte dell’universo notiamo mezzi adattati con i migliori artifici ai fini che sono destinati a produrre, e anche nel meccanismo di una pianta, o di un corpo animale, ammiriamo come ogni cosa sia progettata per far progredire i due grandi scopi della natura: il sostegno dell’individuo e la propagazione delle specie. Ma in questi, e in tutti gli oggetti simili, distinguiamo ancora la causa efficiente dalla causa finale dei loro vari movimenti e organizzazioni. La digestione del cibo, la circolazione del sangue e la secrezione dei molti liquidi da esso estratti sono operazioni tutte necessarie per i grandi scopi della vita animale. Tuttavia, non ci sforziamo mai di dar conto di esse partendo dai loro scopi come se fossero le loro cause efficienti né immaginiamo che il sangue circoli, o che il cibo venga digerito di sua propria volontà, e con lo scopo o l’intento di ottenere il risultato della circolazione o della digestione. Gli ingranaggi dell’orologio sono tutti ammirevolmente regolati per il fine per cui esso è stato costruito: segnare l’ora. Tutti i loro movimenti contribuiscono nel migliore dei modi a produrre quest’effetto. Se fossero stati dotati di un desiderio e dell’intento di produrlo, non avrebbero potuto farlo meglio. Tuttavia, non attribuiamo mai un tale desiderio o intento agli ingranaggi, ma all’orologiaio, e sappiamo che sono messi in moto da una molla, che si propone l’effetto che produce tanto poco quanto loro. Ma, sebbene nel render conto delle operazioni dei corpi non manchiamo mai di distinguere in questo modo la causa efficiente da quella finale, nel render conto delle operazioni della mente siamo molto inclini a confondere tra loro queste due cose molto diverse. Quando siamo condotti dai principi naturali ad anticipare quei fini che una ragione colta e illuminata ci raccomanderebbe, siamo inclini ad attribuire a quella ragione, come alla loro causa efficiente, i sentimenti e le azioni attraverso cui anticipiamo quei fini, e a immaginare che essa sia la saggezza umana, quando invece è la saggezza di Dio. A uno sguardo superficiale, tale causa sembra sufficiente a produrre gli effetti che le sono attribuiti, e il sistema della natura umana sembra più semplice e gradevole quando tutte le sue operazioni sono dedotte in tal modo da un unico principio.

6. Poiché la società non può sussistere a meno che le leggi della giustizia non siano accettabilmente osservate, poiché nessun rapporto sociale può realizzarsi tra uomini che non si astengano dall’offendersi l’un l’altro, è stato detto che la considerazione di questa necessità è ciò in base a cui abbiamo approvato l’imposizione delle leggi di giustizia attraverso la punizione di coloro che le violavano. È stato detto che l’uomo ha un amore naturale per la società, e desidera che l’unione dell’umanità sia preservata per se stessa, sebbene egli non ne ricavi nessun beneficio personale. Lo stato ordinato e fiorente della società gli risulta gradevole, ed egli prova piacere nel contemplarlo. Al contrario, il suo disordine e la sua confusione sono oggetti della sua avversione, e qualsiasi cosa tenda a produrli lo lascia contrariato. Egli è inoltre consapevole che il suo stesso interesse è connesso con la prosperità della società, e che dalla conservazione di quest’ultima dipende la sua felicità e la sua stessa conservazione. Perciò, sotto tutti i riguardi egli ha un’avversione per qualsiasi cosa possa tendere a distruggere la società, ed è disposto a usare ogni mezzo che possa impedire un tale odiato e terribile evento. L’ingiustizia tende necessariamente a distruggere la società. Perciò ogni manifestazione di ingiustizia lo mette in allarme, ed egli corre, se così posso dire, a fermare il progresso di ciò che, se lasciato progredire, metterebbe fine rapidamente a tutto ciò che gli è caro. Se non riesce a trattenerlo con mezzi gentili e onesti, deve abbatterlo con la forza e la violenza e a ogni costo porre un termine al suo ulteriore avanzamento. Deriva da ciò, è stato detto, il fatto che egli spesso approvi l’applicazione delle leggi di giustizia per chi la viola, anche fino alla pena capitale. Con questo mezzo, chi disturba la pubblica pace è eliminato dal mondo, e, per il terrore che suscita, la sua fine dissuade altri dall’imitare il suo esempio.

7. Tale è il resoconto comunemente dato sulla nostra approvazione della punizione dell’ingiustizia. E fin qui questo resoconto è tanto vero, che spesso abbiamo occasione di trovar conferma al nostro senso naturale dell’appropriatezza e della convenienza della punizione, riflettendo sul fatto che essa è necessaria per conservare l’ordine della società. Quando il colpevole sta per subire quella giusta ritorsione, che secondo la naturale indignazione degli uomini egli merita per i suoi crimini; quando l’insolenza della sua ingiustizia è spezzata e umiliata dal terrore della punizione che si avvicina; quando egli cessa di essere oggetto di timore, per le persone generose e umane comincia a essere un oggetto di pietà. Il pensiero di ciò che sta per patire estingue il loro risentimento per le sofferenze altrui che egli ha causato. Sono disposti a perdonarlo e a scusarlo e a salvarlo da quella punizione che nei momenti in cui erano a mente fredda avevano considerato come il castigo dovuto per tali crimini. Perciò, a questo punto, essi hanno occasione di chiamare in loro aiuto la considerazione dell’interesse generale della società. Compensano l’impulso di questa debole e parziale umanità con i dettami di un’umanità più generosa e comprensiva. Riflettono sul fatto che la clemenza per il colpevole è una crudeltà per l’innocente, e contrappongono all’emozione della compassione che provano per una persona particolare, una più ampia compassione che provano per l’umanità.

8. A volte ci capita anche di difendere l’appropriatezza del rispetto delle regole generali di giustizia con l’argomento che esse sono necessarie per il sostegno della società. Sentiamo spesso i giovani e i dissoluti mettere in ridicolo le più sacre regole della moralità, e professare le più abominevoli massime di condotta, a volte per la loro corruzione, ma più frequentemente per la vanità dei loro cuori. La nostra indignazione si risveglia e siamo ansiosi di rifiutare e smascherare tali detestabili principi. Ma sebbene in origine ciò che ci fa infervorare contro di loro è la loro intrinseca odiosità e detestabilità, non vogliamo ritenere queste come le sole ragioni per cui li condanniamo, o pretendere che ciò avvenga perché personalmente li odiamo e li detestiamo. La ragione, riteniamo, non apparirebbe conclusiva. Tuttavia, perché non dovrebbe, visto che li odiamo e li detestiamo in quanto oggetti naturali e appropriati di odio ed esecrazione? Ma quando ci viene chiesto perché non dovremmo agire in questa o quest’altra maniera, la domanda stessa sembra supporre che, per coloro che la pongono, tale maniera di agire non sembra essere per se stessa l’oggetto naturale e appropriato di quei sentimenti. Perciò dobbiamo mostrare che lo è in virtù di qualcos’altro. Per questo, generalmente, escogitiamo altri argomenti, e la considerazione che ci viene in mente per prima è che dall’universale prevalenza di tali pratiche risulterebbe disordine e confusione per la società. Perciò è raro che manchiamo di insistere su quest’argomento.

9. Ma sebbene normalmente non sia richiesto un gran discernimento per notare che tutte le pratiche licenziose tendono a distruggere il benessere dell’umanità, raramente è questa considerazione quella che per prima ci spinge contro di esse. Tutti gli uomini, anche i più stupidi e irriflessivi, detestano la frode, la perfidia e l’ingiustizia e provano piacere nel vederle punite. Ma pochi hanno meditato sulla necessità della giustizia per l’esistenza della società, per quanto ovvia tale necessità possa apparire.

10. Il fatto che non sia un riguardo per la conservazione della società ciò che originariamente ci interessa nella punizione dei crimini commessi contro gli individui può essere dimostrato con molte ovvie considerazioni. L’interessamento che proviamo per la fortuna e la felicità degli individui comunemente non deriva da quello che proviamo per la fortuna e la felicità della società. Non siamo più preoccupati per la distruzione o la perdita di un singolo uomo, per il fatto che quell’uomo fa parte di una società per la cui distruzione ci preoccuperemmo, più di quanto non lo siamo per la perdita di una singola ghinea, per il fatto che questa fa parte di un migliaio di ghinee, per la cui intera perdita ci preoccuperemmo. In nessuno dei due casi il nostro interesse per gli individui deriva dal nostro interesse per la moltitudine: ma in entrambi i casi il nostro interesse per la moltitudine è composto e formato dagli interessi particolari che proviamo per i diversi individui da cui la moltitudine è formata. Quando ci viene ingiustamente sottratta una piccola somma, non perseguiamo il torto tanto per riguardo alla conservazione della nostra intera fortuna, quanto per riguardo a quella particolare somma che abbiamo perduto; allo stesso modo, quando un singolo uomo subisce un torto, o viene ucciso, chiediamo la punizione del male che gli è stato fatto non tanto per una preoccupazione per l’interesse generale della società, quanto per una preoccupazione che riguarda proprio quell’individuo che ha subito il torto. Si deve tuttavia osservare che tale interessamento non include necessariamente alcun grado di quegli squisiti sentimenti che vengono comunemente denominati amore, stima e affetto, che noi riserviamo ai nostri particolari amici e conoscenti. La preoccupazione richiesta in questo caso non è altro che un generico sentimento di partecipazione che proviamo per ogni uomo in quanto nostro simile. Prendiamo parte persino al risentimento di una persona odiosa, quando subisce un torto da parte di qualcuno che lui non aveva provocato. La nostra disapprovazione per il suo carattere consueto in questo caso non ostacola affatto il nostro sentimento di partecipazione per la sua naturale indignazione, sebbene, in coloro che non sono del tutto privi di preconcetti o che non sono stati abituati a correggere i loro naturali sentimenti con le regole generali, la disapprovazione tenda decisamente a estinguere il sentimento di partecipazione.

11. In alcune occasioni, in realtà, noi puniamo e approviamo la punizione semplicemente tenendo presente l’interesse generale della società, che non ci sembra possa essere altrimenti tutelato. Sono di questo tipo tutte le punizioni inflitte per infrazione di ciò che viene chiamato ordine pubblico o disciplina militare. Tali crimini non danneggiano immediatamente o direttamente nessuna persona particolare, ma si suppone che le loro conseguenze remote producano, o possano produrre, un considerevole inconveniente o un gran disordine nella società. Per esempio, una sentinella che si addormenta mentre è di guardia in base alla legge marziale viene giustiziata, perché tale incuria avrebbe potuto mettere in pericolo l’intero esercito. Questa severità in molte occasioni può apparire necessaria e, per questo motivo, giusta e appropriata. Quando la conservazione dell’individuo è incompatibile con la salvezza della moltitudine, nulla può essere più giusto che preferire i molti all’uno. Tuttavia tale punizione, per quanto necessaria, appare sempre eccessivamente severa. La naturale gravità del crimine sembra così lieve e la punizione così grande, che è con grande difficoltà che il nostro cuore riesce a rassegnarvisi. Nonostante quell’incuria appaia molto biasimevole, tuttavia il pensiero di questo crimine non suscita naturalmente alcun risentimento tale da spingerci ad attuare una vendetta così terribile. Un uomo pietoso, prima di riuscire a convincersi a infliggerla, o a condividerla se è inflitta da altri, deve concentrarsi, fare uno sforzo, ed esercitare tutta la sua fermezza e la sua risolutezza. Non è tuttavia questo il modo in cui egli considera la giusta punizione di un ingrato assassino o di un parricida. In questo caso, il suo cuore plaude con ardore e persino con trasporto alla giusta rappresaglia che sembra dovuta nel caso di crimini così detestabili, e se per qualche caso i colpevoli dovessero riuscire a scamparla, sarebbe infuriato e deluso. I sentimenti molto diversi con cui lo spettatore considera quelle diverse punizioni sono una prova del fatto che la sua approvazione dell’una è lungi dall’esser fondata sugli stessi principi dell’altra. Egli considera la sentinella come una vittima sfortunata, che deve necessariamente essere sacrificata alla sicurezza del gruppo, ma che tuttavia nel profondo del suo cuore sarebbe felice di salvare; è solo dispiaciuto che l’interesse dei molti debba opporvisi. Ma se l’assassino dovesse scampare dalla punizione, ciò susciterebbe la sua più viva indignazione, ed egli implorerebbe Dio di vendicare, in un altro mondo, quel crimine che l’ingiustizia umana ha trascurato di castigare sulla terra.

12. Vale la pena notare che noi siamo così lungi dall’immaginare che l’ingiustizia dovrebbe essere punita in questa vita solo a causa dell’ordine della società, che non può essere mantenuto altrimenti, che la Natura ci insegna a sperare, e la religione, suppongo, ci autorizza ad aspettarci, che sarà punita anche in una vita di là da venire. Il nostro senso del torto dell’ingiustizia continua, se così posso dire, anche oltre la tomba, sebbene l’esempio della sua punizione nell’oltretomba non possa servire a dissuadere il resto dell’umanità, che non lo vede e che non lo conosce, dal rendersi colpevole delle stesse pratiche qui sulla terra. Tuttavia, la giustizia di Dio, pensiamo, richiede ancora che nell’aldilà egli vendichi le offese della vedova e dell’orfano, che qui così spesso vengono impunemente insultati. In ogni religione, e in ogni superstizione che il mondo abbia mai osservato, perciò, c’è sempre stato un Tartaro e un Eliso, un luogo per la punizione del malvagio così come uno per la ricompensa del giusto.


 
SEZIONE III L’influenza della fortuna sui sentimenti dell’umanità, con riguardo al merito e al demerito delle azioni

 
INTRODUZIONE
1. Qualsiasi lode o biasimo spetti a un’azione, deve esser fatto risalire o all’intenzione o affezione del cuore da cui l’azione deriva, o, in secondo luogo, all’azione esterna o al movimento esteriore del corpo, causato da tale affezione, o, in ultimo, alle conseguenze buone o cattive che realmente e di fatto da quell’azione derivano. Questi tre diversi elementi costituiscono tutta la natura dell’azione, rappresentano tutte le sue circostanze, e sono il fondamento di qualsiasi qualità possa appartenerle.

2. Che le ultime due di queste tre circostanze non possano essere il fondamento di alcuna lode o biasimo è del tutto evidente, e nessuno ha mai asserito il contrario. L’azione esterna o movimento esteriore del corpo sono spesso uguali nella più innocente come nella più biasimevole delle azioni. Chi spara a un uccello compie lo stesso movimento esteriore di chi spara a un uomo: entrambi premono il grilletto di una pistola. Le conseguenze che per caso derivano realmente e di fatto da un’azione sono, se possibile, ancor più indifferenti alla lode o al biasimo di quanto non lo siano i movimenti esteriori del corpo. Dal momento che non dipendono dall’agente, ma dalla fortuna, non possono appropriatamente ispirarci alcun sentimento sul suo carattere e la sua condotta.

3. Le uniche conseguenze delle quali l’agente può essere responsabile, o per le quali può meritare approvazione o disapprovazione di qualunque genere, sono quelle che si proponevano tale o tal’altro fine, o quelle che mostrano qualche qualità gradevole o sgradevole nelle intenzioni del cuore in base alle quali egli ha agito. È quindi all’intenzione o affezione del cuore, all’appropriatezza o all’inappropriatezza, alla bontà o malvagità del proposito, che deve in ultima analisi spettare ogni tipo di lode o biasimo, di approvazione o disapprovazione giustamente concesse a un’azione.

4. Quando questa massima è proposta così, in termini generali e astratti, non c’è nessuno che non concordi con essa. La sua giustizia autoevidente è riconosciuta universalmente, e in tutta l’umanità non troviamo una sola voce dissenziente. Ognuno riconosce che, per quanto possano essere diverse le conseguenze accidentali, involontarie e impreviste delle diverse azioni, tuttavia, se le intenzioni o le affezioni da cui esse provengono sono state, da una parte, appropriate e benefiche, o, dall’altra, inappropriate e malvagie, il merito o il demerito delle azioni è comunque lo stesso, e l’agente è ugualmente l’oggetto adeguato di gratitudine o risentimento.

5. Ma, per quanto possiamo sembrare persuasi della verità di questa giusta massima, quando la consideriamo in astratto, tuttavia, quando veniamo ai casi particolari, le reali conseguenze che casualmente derivano da un’azione hanno un grande effetto sui nostri sentimenti riguardanti il suo merito o il suo demerito, e quasi sempre lo accrescono o lo diminuiscono. Dopo un esame, raramente si scoprirà che i nostri sentimenti sono del tutto regolati da questa norma, per quanto noi tutti riconosciamo che essa dovrebbe regolarli interamente.

6. Spiegherò ora questa irregolarità del sentimento che ognuno sente, di cui quasi nessuno è sufficientemente cosciente, e che nessuno vuole riconoscere, e prenderò in considerazione dapprima la causa di questa irregolarità o il meccanismo attraverso il quale la natura la produce; in secondo luogo, l’estensione della sua influenza; e, da ultimo, il fine a cui risponde, o lo scopo che l’Autore della natura sembra essersi proposto con essa.


 
CAPITOLO I Cause di questa influenza della fortuna


1. Le cause del dolore e del piacere, qualsiasi esse siano e in qualsiasi modo esse operino, sono gli oggetti che in tutti gli animali suscitano immediatamente le due passioni della gratitudine e del risentimento. Tali passioni sono suscitate sia da oggetti inanimati che da oggetti animati. Per un attimo, ce la prendiamo persino con la pietra che ci colpisce. Un bambino la picchia, un cane le abbaia contro, un uomo collerico la insulta. Ma la minima riflessione corregge questo sentimento, e ci rendiamo conto presto che una cosa insensibile è un oggetto di vendetta del tutto inappropriato. Tuttavia, quando il danno è grande, l’oggetto che l’ha causato ci diventa sgradevole anche per il futuro, e proviamo piacere nel bruciarlo o nel distruggerlo. Vorremmo fare la stessa cosa anche con lo strumento che ha accidentalmente provocato la morte di un amico, e spesso ci sentiamo colpevoli di una certa inumanità se trascuriamo di sfogare questa assurda vendetta su di esso.

2. Allo stesso modo, proviamo una certa gratitudine per quegli oggetti inanimati che sono stati per noi cause di un grande o frequente piacere. Il marinaio che, appena giunto a riva, accende un fuoco con la tavola grazie alla quale si è appena salvato da un naufragio ci appare colpevole di un’azione innaturale. Ci aspettiamo piuttosto che la conservi con cura e affetto, come un caro ricordo. Un uomo si affeziona a una tabacchiera, a un temperino, a un bastone che ha usato per lungo tempo, e prova per essi qualcosa di simile a un vero amore e affetto. Se li rompe o li perde, se ne dispiace in modo sproporzionato rispetto all’entità del danno. La casa in cui abbiamo a lungo abitato, l’albero di cui abbiamo a lungo goduto il verde e l’ombra, sono entrambi considerati con il rispetto dovuto ai benefattori. Il crollo dell’una o il deperimento dell’altro, anche nel caso non costituiscano per noi delle perdite, ci provocano una certa malinconia. Le Driadi e i Lari degli antichi, una sorta di genii degli alberi e delle case, probabilmente furono suggeriti da questa specie di affetto che gli autori di quelle superstizioni sentivano per quegli oggetti, e che sarebbe sembrata irragionevole se essi fossero stati oggetti inanimati.

3. Ma prima che qualcosa possa essere oggetto appropriato di gratitudine o risentimento, non solo deve essere causa di piacere o dolore, ma deve anche essere capace di sentirli. In mancanza di quest’altra qualità, la gratitudine e il risentimento non possono sfogarsi con soddisfazione sul loro oggetto. Dal momento che queste passioni sono suscitate dalle cause del piacere e del dolore, la loro gratificazione consiste nel rimandare queste sensazioni a ciò che le ha causate, e non otterremmo alcun risultato con qualcosa che non ha sensibilità. Perciò gli animali sono oggetti di gratitudine e risentimento meno inappropriati degli oggetti inanimati. Il cane che morde, il bue che incorna, sono entrambi puniti. Se hanno causato la morte di qualche persona, i testimoni e i parenti del morto non trovano soddisfazione se gli animali non vengono a loro volta uccisi, e questo non solo per sicurezza, ma anche in qualche misura per vendicare l’offesa del morto. Al contrario, quegli animali che sono stati particolarmente servizievoli verso i loro padroni diventano oggetti di una gratitudine molto viva. Ci lascia scioccati la brutalità di quell’ufficiale di cui si parla nella Spia turca, che pugnalò il cavallo che l’aveva portato attraverso un braccio di mare, per paura che l’animale potesse in seguito far diventare famosa qualche altra persona per un’avventura simile alla sua.

4. Però, nonostante gli animali non siano solo cause di piacere e dolore, ma possano anche provare queste sensazioni, sono tuttavia ancora lungi dall’essere oggetti completi e perfetti di gratitudine o risentimento: manca loro qualcosa per la completa gratificazione di queste passioni. Ciò che la gratitudine principalmente desidera è non solo fare in modo che il benefattore provi a sua volta piacere, ma anche renderlo consapevole del fatto che egli riceve questa ricompensa a causa della sua passata condotta, renderlo lieto di quella condotta, e convincerlo che la persona cui ha concesso i suoi buoni uffici non ne era indegna. Ciò che più di ogni altra cosa ci affascina nel nostro benefattore è la concordanza tra i suoi sentimenti e i nostri, riguardo a ciò che ci interessa da vicino, come il valore della nostra reputazione e la stima a noi dovuta. Siamo felicissimi di trovare una persona che ci apprezza quanto noi stessi ci apprezziamo e che ci distingue dal resto dell’umanità con la stessa attenzione con cui lo facciamo noi. Uno dei fini principali che ci proponiamo con il contraccambio che siamo disposti a offrirgli è quello di mantenere in lui questi sentimenti gradevoli e lusinghieri. Un uomo dal carattere generoso spesso disdegna il pensiero interessato di estorcere nuovi favori al suo benefattore, rifiutando di essere inopportuno nell’espressione della sua gratitudine. Ma anche il più fiero degli uomini ha interesse a conservare e accrescere la stima di cui gode presso il suo benefattore. E questo sta a fondamento di quanto ho precedentemente osservato, cioè del fatto che quando non possiamo prender parte ai moventi del nostro benefattore, quando la sua condotta e il suo carattere appaiono indegni della nostra approvazione, siano pure stati grandi i suoi servigi, la nostra gratitudine diminuisce sensibilmente. Il trattamento privilegiato che ci ha accordato ci lusinga di meno, e conservare la stima di un protettore così debole o così indegno sembra uno scopo che non merita di essere perseguito per se stesso.

5. Al contrario, lo scopo cui principalmente tende il risentimento non è tanto far soffrire a sua volta il nostro nemico, quanto renderlo consapevole che prova quella sofferenza a causa della sua passata condotta, farlo pentire di quella condotta, e renderlo cosciente che la persona da lui offesa non meritava di essere trattata in quel modo. Ciò che ci fa infuriare di più contro l’uomo che ci offende o ci insulta è il poco conto in cui sembra tenerci, l’irragionevole preferenza che accorda a se stesso piuttosto che a noi, e quell’assurdo amor di sé per il quale egli sembra ritenere che gli altri possano in ogni momento essere sacrificati alla sua convenienza o al suo umore. La lampante inappropriatezza di questa condotta, la sua insolenza e la sua ingiustizia grossolane, spesso ci colpiscono e ci irritano più di tutto il male che abbiamo subito. Spesso il fine principale che ci proponiamo con la nostra vendetta è portare il nostro nemico a una più giusta consapevolezza di ciò che è dovuto agli altri, renderlo consapevole di quel che ci deve, e dell’ingiustizia che ci ha fatto, e la vendetta è sempre imperfetta se non riesce a realizzare tale fine. Quando il nostro nemico mostra di non averci arrecato alcuna offesa, quando siamo consapevoli che ha agito in modo del tutto appropriato, che nella sua situazione avremmo fatto la stessa cosa, e che abbiamo meritato il male che ci ha fatto, in tal caso, se abbiamo il minimo barlume di imparzialità o di giustizia, non possiamo nutrire alcun risentimento.

6. Perciò, prima che qualcosa possa essere il perfetto e appropriato oggetto di gratitudine o risentimento, deve possedere tre diversi requisiti. Primo, deve essere causa di piacere in un caso e di dolore nell’altro. Secondo, deve essere capace di provare queste sensazioni. Terzo, deve non solo aver prodotto queste sensazioni, ma deve averle prodotte intenzionalmente, e con un’intenzione che viene approvata in un caso e disapprovata nell’altro. È per il primo di questi requisiti che un qualche oggetto è capace di suscitare gratitudine e risentimento; per il secondo, che è capace sotto ogni rispetto di offrir loro gratificazione; il terzo requisito non solo è necessario per la loro completa soddisfazione, ma, poiché dà un piacere o un dolore vivaci e peculiari, contribuisce a causare quelle passioni.

7. Poiché ciò che provoca piacere o dolore, in un modo o nell’altro, è l’unica causa in grado di suscitare gratitudine e risentimento, se, nonostante le intenzioni, appropriate e benevole da un lato, o inappropriate e malvagie dall’altro, una persona non riesce a produrre il bene o il male che intendeva, sembra meritare in un caso meno gratitudine, nell’altro meno risentimento, perché in entrambi i casi manca una delle cause che li suscitano. E, al contrario, se, nonostante nelle intenzioni di una persona non ci sia stato alcun lodevole grado di benevolenza da un lato, o di biasimevole malvagità dall’altro, tuttavia le sue azioni dovessero produrre un gran bene o un gran male, verso di lui tenderanno a sorgere gratitudine e risentimento, essendo presente in entrambi i casi una delle cause che li producono. Nel primo caso, sembrerà ricoprirlo un’ombra di merito, nel secondo, un’ombra di demerito. E dal momento che le conseguenze delle azioni sono completamente sotto il dominio della Fortuna, di qui deriva la sua influenza sui sentimenti dell’umanità riguardo al merito e al demerito.


 
CAPITOLO II L’estensione di questa influenza della fortuna


1. L’effetto di questa influenza della fortuna è, per prima cosa, quello di diminuire il merito delle azioni che derivano dalle più lodevoli o biasimevoli intenzioni, quando quest’ultime mancano di produrre gli effetti che si erano proposte; e, in secondo luogo, quello di accrescere il nostro senso del merito o demerito delle azioni al di là di quanto è dovuto ai moventi o alle affezioni da cui esse derivano, quando queste azioni accidentalmente provocano un piacere o un dolore molto vivaci.

2. I. In primo luogo, sostengo che, per quanto le intenzioni di una persona possano essere da un lato appropriate e benevole, o dall’altro inappropriate e malvagie, tuttavia, se esse mancano di produrre i loro effetti, il merito di quella persona sembra imperfetto in un caso, e il suo demerito incompleto nell’altro. E questa irregolarità di sentimento non è avvertita solo da coloro che sono immediatamente colpiti dalle conseguenze di un’azione. È avvertita anche, in qualche misura, dallo spettatore imparziale. L’uomo che sollecita un favore per un altro, senza ottenerlo, è considerato come un amico, e sembra meritare il suo amore e il suo affetto. Ma l’uomo che non solo lo sollecita, ma lo ottiene, è considerato suo protettore e benefattore in modo più particolare, e ha diritto al suo rispetto e alla sua gratitudine. Tendenzialmente, riteniamo che la persona obbligata possa con una certa giustizia considerarsi sullo stesso livello del primo, ma non possiamo prender parte ai sentimenti di quest’ultimo se non si sente inferiore al secondo. Tuttavia, si dice comunemente che siamo allo stesso modo obbligati verso colui che si è solo impegnato, come verso colui che è effettivamente riuscito a prestarci i suoi servigi. È ciò che diciamo sempre di fronte a ogni tentativo di questo tipo non andato in porto, ma questo, come ogni altro discorso sottile, va preso con una certa elasticità. In verità, i sentimenti che un uomo generoso prova per l’amico che fallisce, possono spesso essere quasi uguali a quelli che concepisce per quello che ha successo, e più egli è generoso, più i suoi sentimenti tenderanno a raggiungere lo stesso livello. Per quelli che sono veramente generosi, essere amati, essere stimati da coloro che essi ritengono degni di stima, procura maggior piacere, e quindi suscita maggiore gratitudine, che tutti i vantaggi che essi possono aspettarsi da quei sentimenti. Quando perdono quei vantaggi, perciò, non sembrano perdere che un’inezia, che è appena degna di considerazione. Tuttavia, perdono comunque qualcosa. Perciò il loro piacere, e di conseguenza la loro gratitudine, non sono perfettamente completi; quindi, se tra l’amico che fallisce e l’amico che ha successo tutte le altre circostanze sono uguali, ci sarà, anche nella mente più nobile e migliore, qualche piccola differenza nell’affetto, a favore di quello che ha successo. Anzi, gli uomini sono talmente ingiusti sotto questo riguardo, che, anche se il beneficio desiderato dovesse essere procurato, tuttavia, se non viene procurato per mezzo di un particolare benefattore, essi sono inclini a ritenere che sia dovuta minor gratitudine all’uomo che, con le migliori intenzioni del mondo, non è riuscito a fare più che dargli una piccola spinta. Poiché la loro gratitudine in questo caso è divisa tra le diverse persone che hanno contribuito al loro piacere, sembra che a ognuna di esse ne sia dovuta una minore porzione. Una tale persona, sentiamo dire comunemente, intendeva senza dubbio aiutarci, e crediamo realmente che si sia impegnata al massimo a questo proposito. Tuttavia, non siamo in obbligo verso di lui per questo beneficio, perché, se non fosse stato per il contributo dato da altri, tutto ciò che avrebbe potuto fare lui non sarebbe mai stato sufficiente. Una tale considerazione, si ritiene comunemente, dovrebbe far diminuire il nostro debito verso di lui, anche agli occhi di uno spettatore imparziale. La stessa persona che ha cercato senza successo di procurare un beneficio non può affatto contare sulla gratitudine della persona che intendeva favorire, o sentirsi meritevole nei suoi riguardi, come in caso di successo.

3. Persino il merito delle doti e delle abilità alle quali, per qualche accidente, è stata impedita la produzione del loro effetto, sembra in una certa misura imperfetto, anche per coloro che sono del tutto convinti che quelle doti e quelle abilità hanno capacità di produrlo. Il generale a cui è stato impedito dall’invidia dei ministri di ottenere qualche grande vantaggio sui nemici del suo paese da quel momento in poi rimpiange per sempre di aver perduto l’opportunità. E non lo rimpiange solo a causa del pubblico. Egli lamenta che gli sia stato impedito di compiere un’azione che avrebbe aggiunto nuovo lustro alla sua reputazione, sia ai suoi stessi occhi che a quelli di ogni altra persona. Non lo soddisfa, e non soddisfa neanche gli altri, riflettere che tutto ciò che dipendeva da lui era il progetto o piano, che non era richiesta una maggiore capacità per metterlo in pratica di quanta ne fosse stata necessaria per concertarlo, che egli era riconosciutamente in grado di eseguirlo e che, se gli fosse stato permesso di andare avanti, il successo sarebbe stato assicurato. Di fatto, egli non l’ha eseguito, e, nonostante possa meritare tutta l’approvazione dovuta a un progetto grande e magnanimo, di fatto gli è mancato il merito effettivo di aver compiuto una grande azione. Togliere la gestione di un affare di pubblico interesse all’uomo che l’aveva quasi concluso è considerata come la più odiosa ingiustizia. Pensiamo che, dal momento che ha fatto così tanto, gli dovrebbe esser concesso di acquistare il merito completo di portare a termine la sua opera. Fu rimproverato a Pompeo di essere intervenuto sulle vittorie di Lucullo, e di aver raccolto quegli onori che erano dovuti alla fortuna e al valore di un altro. Anche agli amici sembrò meno completa la gloria di Lucullo, quando non gli fu permesso di portare a termine quella conquista che, grazie alla sua condotta e al suo coraggio, ormai avrebbe potuto portare a termine chiunque. Un architetto resta mortificato quando i suoi progetti non vengono realizzati affatto, oppure quando vengono talmente modificati da rovinare l’effetto dell’edificio. Tuttavia, tutto ciò che dipende dall’architetto è il progetto. Chi è in grado di giudicare adeguatamente riconosce che tutta la sua genialità si rivela completamente nel progetto, come nell’effettiva realizzazione. Ma anche a chi ha capito questo, un progetto non procura lo stesso piacere di un nobile e maestoso edificio. Potrà trovare sia nell’uno che nell’altro lo stesso gusto e la stessa genialità, ma gli effetti dell’uno e dell’altro saranno tuttavia molto diversi, e il compiacimento dato dal primo non si avvicinerà mai allo stupore e all’ammirazione suscitati a volte dal secondo. Di molti uomini possiamo ritenere che i loro talenti siano superiori a quelli di Cesare e di Alessandro, e che, trovandosi nelle stesse situazioni, compirebbero azioni anche più grandi. Allo stesso tempo, tuttavia, non li guardiamo mai con quella meraviglia e ammirazione con le quali quei due eroi sono stati considerati in tutte le epoche e tutte le nazioni. I pacati giudizi della mente possono anche approvarli di più, ma a essi manca lo splendore delle grandi azioni, capace di abbagliare e trasportare la mente. La grandezza delle virtù e dei talenti non ha, su coloro che la riconoscono, lo stesso effetto della grandezza dei risultati.

4. Agli occhi dell’umanità ingrata, il merito di un tentativo fallito di fare del bene sembra diminuito dall’insuccesso, e lo stesso avviene per il demerito di un tentativo fallito di fare del male. Il piano di un crimine, per quanto possa essere chiaramente provato, non è quasi mai punito con la stessa severità del crimine effettivamente commesso. Forse l’unica eccezione è rappresentata dal tradimento. Dal momento che quel crimine colpisce l’esistenza stessa del governo, il governo è naturalmente più sospettoso di questo crimine che di qualsiasi altro. Nel punire il tradimento, il sovrano si risente per le offese ricevute immediatamente da lui stesso; nel punire gli altri crimini, si risente per quelle ricevute da altri uomini. È al suo personale risentimento che egli si lascia andare in un caso, è a quello dei suoi sudditi che egli prende parte per simpatia nell’altro. Nel primo caso, perciò, come giudice nel suo proprio processo, tende a essere molto più violento e sanguinario nell’infliggere punizioni di quanto lo spettatore imparziale possa approvare. Anche il suo risentimento, in questo caso, viene suscitato per ragioni di minore importanza, e non aspetta, come in altri casi, che il crimine venga perpetrato, o neanche che si tenti di commetterlo. Prendere accordi per tradire, anche senza che poi venga fatto o tentato nulla di conseguenza, anzi, anche il solo parlare di tradimento, in molti paesi viene punito allo stesso modo del tradimento effettivamente commesso. Per quel che riguarda tutti gli altri crimini, il semplice progetto, cui non fa seguito alcun tentativo, viene raramente punito, e mai in modo severo. Un disegno criminale e un’azione criminale, si può in fondo sostenere, non suppongono necessariamente lo stesso grado di depravazione, e perciò non dovrebbero esser soggette alla stessa punizione. Si può sostenere che siamo in grado di decidere, o anche progettare, molte cose che, una volta arrivati al punto, sentiamo di essere del tutto incapaci di eseguire. Ma questa argomentazione non può essere addotta quando il progetto viene portato avanti fino all’estremo tentativo. Tuttavia, chi spara al proprio nemico mancandolo non viene punito con la morte in quasi nessun paese. Per le antiche leggi della Scozia, anche se dovesse ferirlo, a meno che entro un certo lasso di tempo non ne derivi la morte, l’assassino non è soggetto alla massima punizione. Tuttavia, il risentimento dell’umanità contro questo crimine è così acceso, il terrore verso l’uomo che si è mostrato capace di compierlo è così grande, che anche il semplice tentativo di compierlo meriterebbe la pena capitale. Il tentativo di compiere crimini di minore gravità è punito quasi sempre in modo molto lieve, e a volte non è punito affatto. Il ladro, colto con la mano nella borsa del suo vicino prima che abbia potuto rubare qualcosa, è punito con la sola ignominia. Se avesse avuto il tempo di sottrarre anche solo un fazzoletto, sarebbe stato messo a morte. Lo scassinatore che è stato trovato mentre poggiava una scala alla finestra del suo vicino, ma non è entrato, non è esposto alla pena capitale. Il tentativo di violentare non è punito come lo stupro. Il tentativo di sedurre una donna sposata non è punito affatto, mentre la seduzione è punita severamente. Il nostro risentimento contro la persona che ha solo tentato di fare del male è raramente così forte da portarci a infliggergli la stessa punizione che avremmo ritenuto a lui dovuta se lo avesse realmente fatto. Nel primo caso, la gioia del senso di liberazione che proviamo attenua il senso dell’atrocità della sua condotta; nel secondo caso, la pena per la nostra sventura lo accresce. Il suo demerito effettivo, tuttavia, è indubbiamente lo stesso in entrambi i casi, dal momento che le intenzioni erano ugualmente criminali. Sotto questo riguardo, perciò, c’è un’irregolarità nei sentimenti di tutti gli uomini, e una conseguente rilassatezza della disciplina nelle leggi di credo tutte le nazioni, delle più civili, come delle più barbare. Il sentimento di umanità di un popolo civile lo persuade o a fare a meno delle punizioni, o a mitigarle, quando la sua naturale indignazione non è stimolata dalle conseguenze del crimine. I barbari, d’altro canto, quando da un’azione non è derivata alcuna effettiva conseguenza, non vanno molto per il sottile, e non indagano sui moventi.

5. La persona che per passione o per influenza di cattive compagnie ha deciso di commettere un crimine, e forse ha già fatto alcuni passi in tal senso, ma poi è stata fortunatamente prevenuta da un evento accidentale che ha reso il crimine fuori dalla sua portata, se possiede qualche residuo di coscienza, per tutta la sua vita considererà sicuramente quell’evento come una grande liberazione. Non potrà mai pensare a esso senza ringraziare il Cielo per essersi benignamente compiaciuto di salvarlo dalla colpa in cui stava per immergersi, impedendogli di rendere il resto della sua vita una scena di orrore, rimorso e pentimento. Ma sebbene le sue mani siano innocenti, egli è consapevole che il suo cuore è comunque colpevole, come se avesse realmente compiuto ciò a cui era completamente deciso. Tuttavia, dà un gran sollievo alla sua coscienza considerare che il crimine non è stato eseguito, anche se sa che la mancata esecuzione non è dipesa da una sua virtù. Ciononostante, ritiene di meritare minor punizione e risentimento; la buona fortuna che ha avuto fa diminuire, o cancella del tutto, ogni senso di colpa. Ricordarsi di quanto era deciso non ha su di lui altro effetto che quello di fargli considerare la sua salvezza più grande e più miracolosa: egli ancora fantastica su di essa e guarda indietro al pericolo cui la sua pace mentale era esposta con quel terrore con il quale chi è in salvo a volte ricorda il rischio che ha corso di cadere in un precipizio, e al pensiero ha un brivido di terrore.

6. II. Il secondo effetto di questa influenza della fortuna è di accrescere il nostro senso del merito o demerito delle azioni al di là di quanto è dovuto ai moventi o all’affezione da cui esse derivano, quando capita che diano occasione a piacere o dolore molto forti. Gli effetti gradevoli o sgradevoli dell’azione spesso gettano un’ombra di merito o di demerito sull’agente, anche se nella sua intenzione non c’era nulla che meritasse lode o biasimo, o almeno che li meritasse nel grado in cui noi siamo portati a concederli. Così, ci risulta spiacevole anche il semplice ambasciatore di cattive nuove, e, al contrario, proviamo una certa gratitudine per chi ci porta buone notizie. Per un momento, li consideriamo entrambi autori, l’uno della nostra cattiva, l’altro della nostra buona fortuna, e li vediamo in qualche misura come reali cause dell’evento che essi non fanno altro che riferire. Chi per primo ci comunica un avvenimento felice è naturalmente oggetto di una gratitudine passeggera: lo abbracciamo con calore e affetto, e saremmo felici, per tutto il tempo della nostra gioia, di ricompensarlo come per qualche importante servigio. Secondo il costume di tutte le corti, l’ufficiale che porta la notizia di una vittoria riceve un notevole avanzamento di grado, e il generale sceglie sempre uno dei suoi favoriti per svolgere una missione tanto piacevole. Chi per primo ci comunica qualcosa di triste, al contrario, e altrettanto naturalmente, è oggetto di un passeggero risentimento. Riusciamo a mala pena a evitare di considerarlo con contrarietà e fastidio; i tipi rudi e brutali tendono a scaricare su di lui il malumore provocato dalle notizie che porta. Tigrane, re dell’Armenia, tagliò la testa dell’uomo che gli portò il primo rapporto sull’avvicinamento di un terribile nemico. Punire in questo modo chi reca cattive notizie sembra barbaro e inumano: tuttavia, non è per noi spiacevole ricompensare il messaggero di buone nuove; lo riteniamo adatto alla generosità dei re. Ma perché facciamo una tale differenza, quando se non c’è colpa nell’uno, non c’è nemmeno merito nell’altro? Questo avviene perché qualsiasi ragione sembra sufficiente ad autorizzare l’esercizio delle affezioni sociali e benevole, mentre ne occorre una molto solida e concreta per farci prender parte a quelle antisociali e malvagie.

7. Ma sebbene siamo in generale riluttanti a prender parte alle affezioni antisociali e malvagie, sebbene stabiliamo come regola che non dovremmo mai cedere alla gratificazione di tali affezioni, almeno fino al punto in cui l’intenzione malvagia e ingiusta della persona verso cui sono dirette non faccia diventare quella stessa persona loro oggetto appropriato, tuttavia in alcuni casi non siamo così severi. Quando la negligenza di un uomo ha provocato in un altro un danno involontario, generalmente prendiamo parte così profondamente al risentimento della vittima, da approvare che questa infligga su chi ha fatto l’offesa una punizione che va molto al di là di quel che quella negligenza avrebbe meritato, se non avesse causato una tale sfortunata conseguenza.

8. Esiste un grado di negligenza che sembrerebbe meritare un certo castigo, anche nel caso non causi danni a nessuno. Così, se una persona dovesse lanciare una grossa pietra al di là di un muro in una pubblica via, senza avvertire i possibili passanti, e senza curarsi di dove potrebbe cadere, meriterebbe senza dubbio qualche castigo. Una polizia molto scrupolosa punirebbe un’azione così assurda anche se non avesse provocato danni. La persona colpevole di una simile azione mostra un disprezzo arrogante per l’altrui felicità e integrità. C’è una reale ingiustizia nella sua condotta. Egli espone irresponsabilmente il suo prossimo a un pericolo cui nessuno in possesso delle proprie facoltà mentali deciderebbe di esporre se stesso, ed evidentemente non ha il senso di ciò che è dovuto ai suoi simili, cosa che costituisce la base della giustizia e della società. Per questo la legge mette pressoché sullo stesso piano la madornale negligenza e il cattivo intento. Quando da tale incuria derivano sfortunate conseguenze, la persona che se ne è resa colpevole viene spesso punita come se avesse avuto realmente intenzione di provocarle; e la sua condotta, che è stata solo irriflessiva e arrogante, e che meritava un qualche castigo, viene considerata atroce, e soggetta alla punizione più severa. Così, se con l’imprudente azione sopra descritta quell’uomo dovesse accidentalmente uccidere qualcuno, per le leggi di molti paesi, e in particolare per l’antica legge della Scozia, sarebbe soggetto alla pena capitale. E nonostante questa pena sia senza dubbio eccessivamente severa, essa non è affatto incoerente con i nostri sentimenti naturali. La nostra giusta indignazione contro la follia e l’inumanità della sua condotta è inasprita dalla nostra simpatia per la sfortunata vittima. Tuttavia, niente apparirebbe più in collisione con il nostro naturale senso di equità che condurre un uomo alla forca solo perché ha tirato incautamente una pietra nella strada senza colpire nessuno. La follia e l’inumanità della sua condotta in questo caso sarebbero comunque le stesse; nondimeno, i nostri sentimenti sarebbero molto differenti. La considerazione di questa differenza può darci conto di quanto l’indignazione, anche quella dello spettatore, tenda a esser suscitata dalle reali conseguenze dell’azione. Se non vado errato, in casi di questo genere troveremo un alto grado di severità nelle leggi di quasi tutte le nazioni, così come avevo osservato che nei casi opposti c’è invece un generale rilassamento della disciplina.

9. Esiste un altro grado di negligenza che non comporta alcuna ingiustizia. La persona che se ne rende colpevole tratta il suo prossimo come se stesso, non vuole far del male a nessuno, ed è lungi dal provare un arrogante disprezzo per l’altrui salute e felicità. Tuttavia, nella sua condotta non è così attento e cauto come dovrebbe, e per questo merita un certo grado di biasimo e riprovazione, ma nessuna punizione. Ma se per una negligenza di questo tipo dovesse provocare qualche danno a un’altra persona, per le leggi di credo tutti i paesi sarebbe obbligato a ripararlo. E sebbene questa sia senza dubbio un’autentica punizione, qualcosa che nessun mortale avrebbe pensato di infliggergli, non fosse stato per lo sfortunato incidente provocato dalla sua condotta, tuttavia questa decisione della legge viene approvata dai sentimenti naturali di tutta l’umanità. Riteniamo che niente possa essere più giusto del fatto che un uomo non debba soffrire per la mancanza di attenzione di un altro, e che il danno provocato da una biasimevole negligenza debba essere compensato dalla persona che se ne è resa colpevole.

10. Esiste un’altra specie di negligenza, che consiste puramente in una mancanza di timidezza e cautela ansiose riguardo a tutte le possibili conseguenze delle nostre azioni. La mancanza di questa attenzione timorosa, quando non ne derivano cattive conseguenze, è così lungi dall’esser considerata biasimevole, che piuttosto è considerata tale la qualità contraria. Quella timida cautela che ha timore di ogni cosa non viene mai considerata una virtù, ma una qualità che più di ogni altra rende incapaci per l’azione e gli affari. Ma quando, per mancanza di questa preoccupazione eccessiva, a una persona capita di danneggiarne un’altra, la legge la obbliga spesso a riparare. Così, per la legge Aquilia, l’uomo che, incapace di tenere a bada un cavallo imbizzarrito, travolge lo schiavo del suo vicino, è obbligato a rifondere il danno. Quando accade un incidente di questo tipo, tendiamo a credere che quella persona non avrebbe dovuto montare un cavallo simile, e a considerare il suo tentativo come una leggerezza imperdonabile, anche se, nel caso l’incidente non fosse avvenuto, non solo non avremmo fatto una tale riflessione, ma avremmo considerato il suo rifiuto di montare quel cavallo come l’effetto di timida debolezza e di ansiosità nei riguardi di eventi solo possibili, di cui è inutile prendersi pena. La persona stessa, che in un incidente simile ne abbia involontariamente ferita un’altra, sembra che senta di essere in torto verso di lei. Istintivamente accorre dalla vittima per esprimere il suo rincrescimento per quanto è successo, e per riconoscere completamente la sua colpa. Se possiede una certa sensibilità, necessariamente desidera rifondere il danno, e fare tutto quello che può per placare quel risentimento animalesco che sa che sorgerà nell’animo della vittima. Il non fare le proprie scuse, il non offrirsi di espiare è considerato come la più grave brutalità. Ma perché dovrebbe presentare le sue scuse più di quanto non debba farlo ogni altra persona? Perché, dal momento che è altrettanto innocente quanto gli altri presenti, deve essere scelto tra tutti gli uomini per compensare la sfortuna di un altro? Sicuramente, non gli verrebbe mai imposto questo compito, se nemmeno lo spettatore imparziale sentisse una certa indulgenza per quel che può esser considerato l’ingiusto risentimento di quell’altro.


 
CAPITOLO III La causa finale di questa irregolarità di sentimenti


1. Tale è l’effetto delle buone o cattive conseguenze delle azioni sia sui sentimenti di chi le compie, che su quelli degli altri; e così la Fortuna, che governa il mondo, ha una certa influenza dove meno vorremmo concedergliela, e in una certa misura dirige i sentimenti dell’umanità riguardo al carattere e alla condotta propria e altrui. Il fatto che il mondo giudichi in base all’esito, e non in base al proposito, è stato deplorato in ogni epoca, ed è di grande scoraggiamento per la virtù. Ognuno condivide la massima generale secondo la quale, poiché il risultato di un’azione non dipende dall’agente, non dovrebbe influenzare i nostri sentimenti riguardo al merito o all’appropriatezza della sua condotta. Ma quando consideriamo i casi particolari, troviamo che i nostri sentimenti non sono quasi mai esattamente conformi a quanto indicato da questa giusta massima. L’esito buono o sfavorevole di un’azione non tende solo a darci un’opinione buona o cattiva dell’accortezza con cui è stata condotta, ma quasi sempre stimola anche la nostra gratitudine o il nostro risentimento, il nostro senso del merito o del demerito del proposito.

2. Tuttavia, quando la natura ha piantato nell’animo umano i semi di questa irregolarità, sembra aver mirato, come in altre occasioni, alla felicità e alla perfezione della specie. Se la cattiveria del proposito, se la malvagità dell’affezione fossero le sole cause del nostro risentimento, dovremmo sentire tutta la furia di quella passione contro ogni persona sospettata di ospitare nel suo cuore tali intenzioni o affezioni, anche se esse non fossero mai sfociate in nessuna azione. Sentimenti, pensieri, intenzioni diventerebbero oggetti di punizione; e se l’indignazione dell’umanità si scagliasse contro di loro come contro le azioni, se la bassezza del pensiero che non ha dato origine a nessuna azione sembrasse, agli occhi del mondo, gridare vendetta quanto la bassezza dell’azione, ogni corte di giustizia diventerebbe una tribunale dell’inquisizione. Non saremmo al sicuro nemmeno con la condotta più innocente e circospetta. Si potrebbe sospettare di cattivi desideri, di cattive opinioni, di cattivi propositi, che susciterebbero la stessa indignazione della cattiva condotta. Le cattive intenzioni provocherebbero lo stesso risentimento delle cattive azioni, ed esporrebbero allo stesso modo la persona alla punizione e al risentimento. Solo le azioni, perciò, che producono o tentano di produrre male reale, mettendoci nella condizione di temerlo, sono state rese dall’Autore della natura oggetti appropriati e approvati dell’umana punizione e dell’umano risentimento. I sentimenti, i propositi, le affezioni, nonostante sia da essi che, secondo la fredda ragione, le azioni umane derivano tutto il loro merito o demerito, sono posti dal gran Giudice degli animi al di là dei limiti di ogni giurisdizione umana, e sono riservati alla competenza del proprio infallibile tribunale. Perciò, quella necessaria regola di giustizia, secondo la quale gli uomini in questa vita sono esposti alla punizione solo per le loro azioni, e non per i loro propositi e intenzioni, si fonda su questa salutare e utile irregolarità dei sentimenti umani sul merito e demerito, che a prima vista sembra così assurda e inesplicabile. Ma ogni parte della natura, se esaminata attentamente, dimostra allo stesso modo la provvidenziale cura del suo Autore, e anche nella debolezza e nella follia dell’uomo si può ammirare la saggezza e la bontà di Dio.

3. E questa irregolarità di sentimenti, per mezzo della quale il merito di un tentativo fallito di rendersi utile, e ancor più il merito delle mere buone inclinazioni e dei meri desideri gentili appare imperfetto, non è del tutto priva di una sua utilità. L’uomo è fatto per l’azione, e per promuovere, attraverso l’esercizio delle sue facoltà, cambiamenti nelle circostanze esterne sia proprie che altrui, tali da sembrare i più favorevoli per la felicità di tutti. Non deve ritenersi soddisfatto di una pigra benevolenza, né illudersi di essere l’amico dell’umanità solo perché nel suo cuore si augura la prosperità del mondo. Anche se potesse far uscire tutto il vigore della sua anima e tendere ogni nervo per produrre quei fini che è scopo del suo essere realizzare, la Natura gli ha insegnato che né lui stesso, né l’umanità possono essere del tutto soddisfatti della sua condotta, e non possono concederle completa approvazione, a meno che quei fini non li abbia effettivamente prodotti. Egli è obbligato a riconoscere che la lode delle buone intenzioni, senza il merito delle buone azioni, sarà di scarsa utilità nel suscitare le più alte acclamazioni del mondo, o anche il maggior grado di autoapprovazione. L’uomo che non ha compiuto nemmeno una singola azione importante, ma che nelle sue conversazioni esprime i sentimenti più giusti, più nobili, e più generosi, non può pretendere nessuna grande ricompensa, anche se la sua inutilità fosse dovuta solo alla mancanza di opportunità di agire. Gliela possiamo rifiutare senza incorrere in alcun biasimo. Possiamo chiedergli: «Cosa hai fatto? Quale effettivo servizio sei in grado di produrre, per meritare una ricompensa così grande? Noi ti stimiamo e ti vogliamo bene, ma non ti dobbiamo nulla». In verità, ricompensare quella virtù latente, che si è rivelata inutile per mancanza di un’opportunità a servire, conferirle quegli onori e quei favori sui quali non poteva contare, anche se in una certa misura si può dire che li meritasse, è l’effetto della più divina benevolenza. Al contrario, punire per le sole affezioni del cuore, quando non sia stato commesso alcun crimine, è la più insolente e barbara tirannia. Le affezioni benevole sembrano meritare di più la lode quando non aspettano, per manifestarsi nella pratica, che sia diventato quasi un crimine il non farlo. Quelle malvagie, al contrario, non riescono quasi mai a essere troppo tardive, troppo lente, troppo caute.

4. È di notevole importanza anche che il male fatto non di proposito sia considerato una sventura per chi lo ha fatto come per chi lo ha ricevuto. In questo modo, all’uomo viene insegnato a rispettare la felicità dei suoi fratelli, a tremare per timore di poter, anche inconsapevolmente, far qualcosa che possa ferirli, e a temere quel risentimento animalesco che sente pronto a esplodere contro di lui, se dovesse, non di proposito, essere l’infelice strumento della loro disgrazia. Nell’antica religione pagana, il terreno santo consacrato a qualche dio non poteva essere calpestato che in alcune solenni e necessarie occasioni, e l’uomo che, anche senza saperlo, lo violava, da quel momento diventava vittima espiatoria, e finché non fosse stata compiuta un’adeguata espiazione, incorreva nella vendetta di quel potente e invisibile essere da cui era stato bandito. Allo stesso modo, per la saggezza della Natura, la felicità di ogni innocente viene resa santa, consacrata, e difesa come in un recinto dall’accostarsi di ogni altro uomo, per non essere irresponsabilmente calpestata, e anche per non essere in alcun modo violata inconsapevolmente e involontariamente, senza che sia richiesta qualche espiazione, qualche riparazione proporzionale alla gravità di questa violazione involontaria. Un uomo sensibile che, accidentalmente e senza il minimo grado di biasimevole negligenza, sia stato causa della morte di un altro uomo, si sente vittima espiatoria, sebbene non si senta colpevole. Per tutta la sua vita considererà quell’incidente come una delle più gravi sventure che potessero colpirlo. Se i familiari del morto sono poveri, ed egli è in condizioni discrete, li prende sotto la sua protezione immediatamente, e, senza che abbiano alcun altro merito, li ritiene degni di ogni grado di favore e gentilezza. Se sono in una situazione migliore della sua, si sforza con ogni segno di sottomissione, con ogni espressione di sofferenza, col render loro ogni sorta di servigio egli possa escogitare o essi accettare, di espiare per quel che è accaduto, e di calmare, per quanto possibile, il loro forse naturale, sebbene senza dubbio del tutto ingiusto, risentimento per la grave, sebbene involontaria, offesa loro arrecata.

5. L’angoscia che prova una persona che per qualche accidente sia stata condotta a fare qualcosa che, se fatta con coscienza e di proposito, l’avrebbe giustamente esposta al più aspro rimprovero, ha ispirato alcune delle migliori scene del dramma antico e moderno. È in questo fallace senso di colpa, se posso chiamarlo così, che consiste tutta l’angoscia di Edipo e Giocasta nel teatro greco, e di Monimia e Isabella in quello inglese. Tutti questi personaggi sono al più alto grado vittime espiatorie, sebbene nessuno di loro sia al minimo grado colpevole.

6. Tuttavia, nonostante tutte queste apparenti irregolarità di sentimenti, se l’uomo dovesse sfortunatamente causare quei mali che non intendeva causare, oppure fallire nel produrre quel bene che intendeva produrre, la Natura non ha lasciato la sua innocenza del tutto priva di consolazione, né la sua virtù del tutto priva di ricompensa. Egli allora chiama in suo soccorso quella giusta ed equa massima, secondo la quale gli eventi che non sono dipesi dalla nostra condotta non dovrebbero diminuire la stima che ci è dovuta. Raccoglie tutta la sua magnanimità e fermezza d’animo e si sforza di considerare se stesso non nella luce in cui egli appare al momento, ma in quella in cui sarebbe apparso se i suoi generosi propositi fossero stati coronati dal successo, e in cui comunque apparirebbe, nonostante il loro insuccesso, se i sentimenti dell’umanità fossero o del tutto genuini ed equi, o anche del tutto coerenti con loro stessi. I membri più genuini e sensibili dell’umanità condividono del tutto la fatica che egli in tal modo compie per mantenersi nell’opinione che ha di se stesso. Essi mettono in atto tutta la loro generosità e ampiezza di mente per correggere in loro questa irregolarità della natura umana, e cercano di considerare la sfortunata magnanimità di quell’uomo nella stessa luce in cui sarebbero stati disposti a considerarla, senza bisogno di ricorrere a nessun generoso sforzo, se essa avesse avuto successo.


 
PARTE III IL FONDAMENTO DEI NOSTRI GIUDIZI SUI NOSTRI SENTIMENTI E SULLA NOSTRA CONDOTTA, E IL SENSO DEL DOVERE

 
CAPITOLO I Il principio dell’autoapprovazione e dell’autodisapprovazione


1. Nelle precedenti parti di questo discorso, ho considerato principalmente l’origine e il fondamento dei nostri giudizi sui sentimenti e sulla condotta altrui. Passo ora a considerare in modo più particolare l’origine di quelli sulla condotta e sui sentimenti nostri.

2. Il principio per mezzo del quale approviamo o disapproviamo naturalmente la nostra condotta sembra del tutto uguale a quello per mezzo del quale pronunciamo analoghi giudizi sulla condotta degli altri. Approviamo o disapproviamo la condotta di un altro uomo a seconda che sentiamo, riportando a noi il suo caso, di riuscire o meno a simpatizzare del tutto con i sentimenti e le motivazioni che l’hanno diretta. E allo stesso modo, approviamo o disapproviamo la nostra condotta a seconda che sentiamo, quando ci mettiamo nei panni di un altro uomo, e la osserviamo con i suoi occhi e dalla sua posizione, di riuscire o meno a prender parte e simpatizzare con i sentimenti e le motivazioni che l’hanno influenzata. Non riusciamo mai a esaminare i nostri sentimenti e motivazioni, non riusciamo mai a formulare nessun giudizio su di essi, se non ci spostiamo dalla nostra posizione naturale e ci sforziamo di osservarli da una certa distanza. Ma non possiamo fare questo se non sforzandoci di osservarli con gli occhi degli altri, o così come si suppone che gli altri li osserverebbero. Perciò, qualsiasi giudizio possiamo formulare su di essi dovrà sempre contenere qualche riferimento nascosto a quelli che sono o che a certe condizioni sarebbero, o che immaginiamo dovrebbero essere, i giudizi degli altri. Ci sforziamo di esaminare la nostra condotta come immaginiamo che la esaminerebbe ogni altro equo e imparziale spettatore. Se, mettendoci al suo posto, prendiamo parte del tutto alle passioni e alle motivazioni che l’hanno influenzata, l’approviamo, per simpatia con l’approvazione di questo immaginato giudice equo. Se questo non succede, prendiamo parte alla sua disapprovazione, e condanniamo la nostra condotta.

3. Se fosse possibile per un essere umano arrivare all’età adulta in qualche luogo solitario, senza alcuna comunicazione con la sua specie, egli non riuscirebbe a pensare al proprio carattere, all’appropriatezza o al demerito dei propri sentimenti e della propria condotta, alla bellezza o alla deformità della propria mente, più di quanto riuscirebbe a pensare alla bellezza o deformità del proprio viso. Questi sono tutti oggetti che lui non può vedere facilmente, che istintivamente non guarda, e rispetto ai quali non è provvisto di uno specchio che possa presentarli alla sua vista. Portatelo nella società, e sarà immediatamente provvisto dello specchio che prima gli mancava. Viene posto davanti all’atteggiamento e al comportamento di quelli con cui vive, che segnalano sempre quando prendono parte ai suoi sentimenti e quando li disapprovano, ed è così che egli per la prima volta si accorge dell’appropriatezza e dell’inappropriatezza delle proprie passioni, della bellezza e della deformità della propria mente. In un uomo che dalla nascita fosse stato un estraneo per la società, tutta l’attenzione verrebbe occupata dagli oggetti delle proprie passioni, e cioè dai corpi esterni, che gli procurano piacere o lo feriscono. Le passioni in se stesse, i desideri o le avversioni, le gioie o le sofferenze che quegli oggetti suscitano, nonostante siano le cose a lui più immediatamente vicine, potrebbero difficilmente costituire l’oggetto dei suoi pensieri. La loro idea non riuscirebbe a interessarlo tanto da attirare la sua attenta considerazione. La considerazione della sua gioia non riuscirebbe a suscitare in lui una nuova gioia, né quella della sua sofferenza una nuova sofferenza, sebbene la considerazione delle cause di queste due passioni potrebbero spesso suscitarle entrambe. Portatelo nella società, e tutte le sue passioni diventeranno immediatamente le cause di nuove passioni. Noterà che l’umanità ne approva alcune, ed è disgustata da altre. Si esalterà in un caso, e si abbatterà nell’altro; i suoi desideri e le sue passioni, le sue gioie e le sue sofferenze ora diventeranno cause di nuovi desideri e nuove avversioni, nuove gioie e nuove sofferenze; ora, perciò, lo interesseranno profondamente, e attireranno la sua più attenta considerazione.

4. Le nostre prime idee sulla bellezza e sulla deformità personale sono tratte dalla forma e dall’apparenza esteriore degli altri, non dalla nostra. Tuttavia, ben presto ci rendiamo conto che gli altri esercitano su di noi la stessa critica. Ci fa piacere quando approvano la nostra figura, e sentiamo di subire una scortesia quando ne sembrano disgustati. Diventiamo ansiosi di sapere fino a che punto il nostro aspetto esteriore meriti il loro biasimo o la loro approvazione. Esaminiamo la nostra persona parte per parte e, mettendoci davanti a uno specchio, o con qualche altro espediente, cerchiamo, per quanto più possibile, di guardarci dalla distanza e con gli occhi degli altri. Se dopo questo esame siamo soddisfatti della nostra apparenza esteriore, riusciamo a sostenere più facilmente gli sfavorevoli giudizi degli altri. Se, al contrario, siamo consapevoli di essere naturali oggetti di ripugnanza, ogni manifestazione della loro disapprovazione ci mortifica oltre ogni misura. Un uomo di discreto aspetto ci lascerà ridere delle piccole irregolarità della sua persona, ma scherzi del genere sono comunemente insopportabili per qualcuno che sia realmente deforme. È evidente, tuttavia, che siamo in ansia per la nostra bellezza o deformità solo per l’effetto che hanno sugli altri. Se non fossimo in contatto con la società, saremmo del tutto indifferenti sia all’una che all’altra. Allo stesso modo, le nostre prime critiche di tipo morale sono rivolte ai caratteri e alla condotta degli altri, e siamo tutti prontissimi a osservare quanto queste cose ci colpiscano. Ma impariamo presto che gli altri sono altrettanto franchi nei nostri riguardi. Diventiamo ansiosi di sapere fino a che punto meritiamo la loro critica o il loro elogio, e se davvero sembriamo così gradevoli o sgradevoli come loro ci rappresentano. Per questo motivo, cominciamo a esaminare le nostre passioni e la nostra condotta, cercando di capire come debbano apparire a loro, considerando come apparirebbero a noi, se fossimo nella loro situazione. Supponiamo di essere gli spettatori del nostro stesso comportamento e cerchiamo di immaginare l’effetto che ci farebbe, visto sotto questa luce. Questo è l’unico specchio col quale possiamo, in qualche misura, con gli occhi degli altri, analizzare l’appropriatezza della nostra condotta. Se vista così ci piace, siamo abbastanza soddisfatti. Possiamo permetterci di essere più indifferenti all’elogio e, in una certa misura, disprezzare le critiche del mondo, sicuri che, per quanto capiti o interpretati male, siamo naturali e appropriati oggetti di approvazione. Al contrario, se abbiamo dei dubbi sull’appropriatezza della nostra condotta, spesso, proprio per questo, siamo più ansiosi di ottenere l’approvazione degli altri e, a meno di non essere già del tutto corrotti, come loro sostengono, restiamo turbati al pensiero della loro critica, che ci colpisce con raddoppiata severità.

6. Quando mi sforzo di esaminare la mia condotta, quando cerco di emettere una sentenza su di essa, e l’approvo o la condanno, è evidente che, in tutti questi casi, è come se mi sdoppiassi in due persone, e che l’io esaminatore e giudice rappresenta un personaggio differente dall’altro io, e cioè dalla persona la cui condotta viene esaminata e giudicata. Il primo è lo spettatore: io mi sforzo di prender parte ai suoi sentimenti sulla mia condotta mettendomi nella sua situazione, e riflettendo su come mi apparirebbe da quel particolare punto di vista. Il secondo è l’agente, la persona che propriamente chiamo me stesso, e sulla cui condotta stavo sforzandomi, da spettatore, di esprimere un’opinione. Il primo è il giudice, il secondo la persona giudicata. Ma che il giudice possa sotto ogni riguardo essere tutt’uno con la persona giudicata è una cosa impossibile quanto che la causa possa sotto ogni riguardo essere tutt’uno con l’effetto.

7. Essere amabile e meritevole, cioè, meritare amore e ricompensa, sono le grandi caratteristiche della virtù; essere odioso e meritare punizione, quelle del vizio. Ma tutte queste caratteristiche hanno un riferimento immediato ai sentimenti degli altri. La virtù non viene definita amabile o meritevole, perché è oggetto del proprio amore e della propria gratitudine, ma perché suscita quei sentimenti in altri uomini. La consapevolezza che la virtù è l’oggetto di tali favorevoli riguardi è la fonte di quella tranquillità e soddisfazione interiore con cui essa viene naturalmente perseguita, così come il sospetto di suscitare sentimenti opposti dà occasione ai tormenti del vizio. Quale gioia più grande dell’essere amati, sapendo di meritarlo, e quale miseria più grande dell’essere odiati, sapendo di meritarlo?


 
CAPITOLO II L’amore per la lode e per l’esserne degni; il timore del biasimo e dell’esserne degni


1. L’uomo desidera naturalmente non solo di essere amato, ma di essere amabile, ovvero di essere un naturale e appropriato oggetto di amore. Teme naturalmente non solo di essere odiato, ma di essere odioso, ovvero di essere un oggetto naturale e appropriato di odio. Non desidera solo la lode, desidera esserne degno, cioè desidera essere oggetto naturale e appropriato di lode, anche se non lodato da nessuno. Non teme solo il biasimo, teme di esserne degno, cioè teme di essere oggetto naturale e appropriato di biasimo, anche se non biasimato da nessuno.

2. L’amore per l’esser degni di lode non deriva affatto dall’amore per la lode in se stessa. Questi due principi, nonostante si assomiglino l’un l’altro, nonostante siano connessi, e spesso mescolati l’uno con l’altro, sono tuttavia sotto molti rispetti distinti e indipendenti l’uno dall’altro.

3. L’amore e l’ammirazione che istintivamente concepiamo per quelli di cui approviamo la condotta ci dispone necessariamente a desiderare di diventare noi stessi oggetti di simili sentimenti gradevoli, e di essere amabili e ammirevoli quanto quelli che amiamo e ammiriamo di più. L’emulazione, il desiderio ansioso di eccellere, in origine si fonda sulla nostra ammirazione per l’eccellenza degli altri. E non riusciamo a ritenerci soddisfatti se semplicemente veniamo ammirati quando altri lo sono: abbiamo bisogno di ritenerci degni di ammirazione quanto lo sono loro. Ma per ottenere questa soddisfazione dobbiamo diventare spettatori imparziali del nostro stesso carattere e della nostra stessa condotta. Dobbiamo sforzarci di considerarli con gli occhi degli altri, o come gli altri con tutta probabilità li considerano. Quando il nostro carattere e la nostra condotta, visti sotto questa luce, ci appaiono come li desideriamo, siamo felici e soddisfatti. Ma questa felicità e questa soddisfazione vengono ampiamente confermate quando scopriamo che altre persone, considerandoli proprio con quegli occhi con cui noi, soltanto nell’immaginazione, ci sforzavamo di considerarli, li vedono esattamente nella stessa luce in cui li vedevamo noi. La loro approvazione conferma necessariamente la nostra autoapprovazione, la loro lode necessariamente rafforza la nostra sensazione di esserne degni. In questo caso, l’amore per l’esser degni di lode è così lungi dal derivare del tutto dall’amore per la lode in se stessa, che piuttosto quest’ultimo sembra, almeno in larga misura, derivare dal primo.

4. La lode più sincera non riesce a dare molto piacere quando non può essere considerata come una sorta di prova del fatto che ne eravamo degni. Non è affatto sufficiente che la stima e l’ammirazione ci vengano accordate per errore o ignoranza. Se sappiamo di non meritare una considerazione tanto favorevole, e se siamo consapevoli del fatto che, se si sapesse la verità, saremmo considerati con sentimenti molto diversi, la nostra soddisfazione è lungi dall’essere completa. Chi ci elogia per azioni che non abbiamo compiuto, o per motivazioni che non hanno avuto alcuna influenza sulla nostra condotta, non elogia noi, ma un’altra persona. Non possiamo ricavare nessun tipo di soddisfazione dalle sue lodi. Queste sarebbero per noi più mortificanti di qualsiasi condanna, e richiamerebbero per sempre alla nostra mente la più umiliante di tutte le riflessioni: la riflessione su quel che dovremmo essere e non siamo. Immaginiamo che una donna che si trucca non dovrebbe ritenersi lusingata dai complimenti rivolti al suo colorito. Ci aspetteremmo piuttosto che questi dovrebbero farla pensare ai sentimenti che susciterebbe il suo colorito naturale, facendola sentire mortificata al confronto. Provar piacere per un elogio privo di fondamento è prova della più superficiale leggerezza e debolezza. È ciò che viene propriamente detto vanità, ed è a fondamento dei vizi più ridicoli e disprezzabili, i vizi dell’affettazione e della volgare menzogna, follie che, se l’esperienza non ci insegnasse quanto sono diffuse, riterremmo evitabili con un minimo di buon senso comune. Lo sciocco bugiardo, che si sforza di suscitare l’ammirazione del gruppo raccontando avventure mai vissute, o il bellimbusto che si dà arie di signorilità e raffinatezza sapendo bene di non averne alcun diritto provano senza dubbio entrambi piacere per l’approvazione che s’illudono di incontrare. Ma la loro vanità deriva da un’illusione dell’immaginazione talmente grossolana, che è difficile riuscire a concepire come una creatura razionale possa rimanerne vittima. Quando si mettono nella situazione di quelli che essi si illudono di aver ingannato, sono colpiti da una grandissima ammirazione per la propria persona. Considerano loro stessi non nella luce in cui sanno che dovrebbero apparire ai loro compagni, ma in quella in cui credono che i loro compagni realmente li considerino. La loro superficiale debolezza e volgare stupidità gli impediscono di rivolgere i loro sguardi all’interno, o di vedersi da quel meschino punto di vista dal quale in coscienza sanno che tutti li vedrebbero, se si venisse a sapere la verità.

5. Una lode che ignori la verità e sia priva di fondamento non può dare una gioia solida, né una soddisfazione che resista a un serio esame. Al contrario, spesso dà un vero conforto riflettere che, anche se non dovessimo ricevere alcuna lode, tuttavia la nostra condotta la meritava, ed era sotto ogni riguardo adeguata alle norme e alle regole con cui di solito la lode e l’approvazione vengono attribuite. Non ci fa piacere solo la lode, ma anche aver fatto ciò che è degno di lode. Ci fa piacere pensare di aver fatto qualcosa che ci ha resi oggetti naturali di approvazione, anche se non dovessimo riceverla, e ci fa sentire mortificati riflettere di aver giustamente meritato il biasimo di quelli con cui viviamo, anche se non dovessimo mai subirlo. L’uomo consapevole di aver osservato esattamente quelle norme di condotta che per esperienza sa che sono generalmente ben accette riflette con soddisfazione sull’appropriatezza del proprio comportamento. Quando lo considera sotto la luce in cui lo considererebbe lo spettatore imparziale, prende parte del tutto alle motivazioni che lo hanno influenzato. Ripensa a ogni suo aspetto con piacere e approvazione, e, anche se l’umanità non dovesse mai venir messa al corrente di ciò che lui ha fatto, egli considera se stesso non tanto sotto la luce in cui gli altri di fatto lo considerano, ma sotto quella in cui lo considererebbero se fossero meglio informati. Prevede l’elogio e l’ammirazione che gli sarebbero tributati in questo caso, ed elogia e ammira se stesso per simpatia con quei sentimenti che non vengono esternati solo per ignoranza del pubblico. Egli sa che quei sentimenti sono gli effetti naturali e ordinari di quella condotta, infatti nella sua immaginazione essi le sono strettamente connessi, ed egli ha acquisito l’abitudine di concepirli come qualcosa che naturalmente e appropriatamente ne dovrebbe derivare. Ci sono uomini che hanno volontariamente dato la vita per acquistare dopo la morte una rinomanza di cui non potranno più godere. In quello stesso momento, la loro immaginazione gli anticipava la fama che sarebbe stata loro attribuita in futuro. Risuonavano nei loro orecchi applausi che non avrebbero mai sentito; il pensiero di un’ammirazione di cui non avrebbero mai goduto gli effetti cullava il loro cuore, cancellando dal loro animo la più profonda di tutte le paure naturali, e trasportandoli a compiere azioni che sembrano completamente fuori della portata della natura umana. Ma sul piano reale non c’è sicuramente una gran differenza tra l’approvazione che ci viene tributata solo quando non possiamo più goderne, e quella che non ci viene tributata affatto, ma che lo sarebbe, se al mondo fossero fatte comprendere in modo appropriato le reali circostanze del nostro comportamento. Se l’una produce spesso effetti tanto potenti, non possiamo stupirci che l’altra sia sempre tenuta in alta considerazione.

6. La Natura, nel fare l’uomo per la società, lo fornì di un originario desiderio di piacere e di un’originaria avversione per l’offesa verso i suoi fratelli. Gli insegnò a provar piacere nell’esser considerato favorevolmente, e ad addolorarsi nell’esser considerato sfavorevolmente da loro. Fece sì che la loro approvazione fosse per loro molto lusinghiera e molto gradevole in se stessa, e la loro disapprovazione molto mortificante e offensiva.

7. Ma questo desiderio dell’approvazione e l’avversione per la disapprovazione dei suoi fratelli non l’avrebbero, da soli, reso adatto alla società per cui era fatto. La Natura, perciò, non lo ha fornito solo del desiderio di essere approvato, ma del desiderio di esser ciò che dovrebbe essere approvato, e ciò che lui stesso approva in altri uomini. Il primo desiderio avrebbe potuto soltanto portarlo a desiderare di sembrare fatto per la società; il secondo era necessario per renderlo ansioso di esserlo davvero. Il primo avrebbe potuto solo spingerlo a fingere la virtù, e a dissimulare il vizio; il secondo era necessario per ispirargli il vero amore della virtù, e la vera esecrazione del vizio. In ogni animo ben formato questo secondo desiderio sembra il più forte dei due. Solo gli uomini più deboli e più superficiali riescono a esser felici per la lode che loro stessi sanno del tutto immeritata. Un uomo debole può a volte compiacersene, ma un saggio la rifiuta sempre. Ma, sebbene un uomo saggio ricavi poco piacere dalla lode quando sa di non meritarla, spesso prova un piacere grandissimo nel fare qualcosa per cui meriterebbe la lode, anche se sa altrettanto bene che non gli verrà mai conferita. Ottenere l’approvazione dell’umanità quando non è dovuta non potrà essere mai per lui una cosa importante. Ottenerla quando è realmente dovuta potrà avere importanza in alcune occasioni. Ma per lui sarà sempre della massima importanza meritare approvazione.

8. Desiderare la lode, o anche accettarla, quando non è dovuta, può essere solo l’effetto della più disprezzabile vanità. Desiderarla quando è realmente dovuta non è altro che desiderare che ci venga reso un fondamentale atto di giustizia. L’amore per la giusta fama, per la vera gloria, anche solo in se stesso, e indipendentemente da qualsiasi vantaggio ne possa derivare, è degno anche di un uomo saggio. Tuttavia, egli a volte non lo degna di alcuna considerazione, e arriva persino a disprezzarlo, e tende a comportarsi in questo modo soprattutto quando è pienamente certo della perfetta appropriatezza di ogni aspetto della sua condotta. La sua autoapprovazione, in questo caso, non ha bisogno di alcuna conferma da parte dell’approvazione di altri uomini. È sufficiente da sola a soddisfarlo. Questa autoapprovazione è l’oggetto principale, se non l’unico, per il quale egli può, o dovrebbe, preoccuparsi. L’amore per l’autoapprovazione è amore per la virtù.

9. Come l’amore e l’ammirazione che istintivamente concepiamo per caratteri di un certo tipo ci fa desiderare di diventare noi stessi oggetti appropriati di tali sentimenti piacevoli, così l’odio e il disprezzo che altrettanto istintivamente concepiamo per altri ci fa, forse in modo ancor più accentuato, temere anche il solo pensiero di somigliar loro per qualche aspetto. E, anche in questo caso, ciò che temiamo non è tanto il pensiero di essere odiati e disprezzati, quanto quello di essere odiosi e disprezzabili. Temiamo il pensiero di fare qualcosa che possa renderci oggetti giusti e appropriati dell’odio e del disprezzo dei nostri simili, anche se fossimo del tutto sicuri che di fatto non saremo mai oggetto di questi sentimenti. All’uomo che ha infranto tutte quelle misure di condotta che, sole, possono renderlo ben accetto all’umanità non servirebbe a niente poter avere la più perfetta assicurazione che ciò che ha fatto è destinato a rimanere nascosto a ogni occhio umano. Quando ci ripensa, e lo vede con gli occhi con cui lo vedrebbe lo spettatore imparziale, scopre di non riuscire a prender parte a nessuno dei motivi che lo hanno influenzato. È sconcertato e confuso a questo pensiero, e prova necessariamente molta di quella vergogna a cui sarebbe esposto se le sue azioni dovessero diventare note a tutti. La sua immaginazione, anche in questo caso, anticipa il disprezzo e la derisione da cui nulla lo salva se non l’ignoranza di quelli con cui vive. Sente di essere oggetto naturale di quei sentimenti, e trema al pensiero di ciò che patirebbe, se fossero realmente rivolti verso di lui. Ma se ciò di cui si è reso colpevole non era solo una di quelle inappropriatezze che sono oggetto di semplice disapprovazione, ma uno di quei crimini enormi che suscitano astio e risentimento, finché gli rimarrà un po’ di sensibilità, non riuscirà a pensarci senza sentire tutta la sofferenza dell’orrore e del rimorso. E anche se potesse esser certo che nessuno lo saprà mai, e riuscisse anche a convincersi che non c’è alcun Dio vendicatore, proverebbe lo stesso abbastanza orrore e abbastanza rimorso da avvelenarsi la vita intera. Continuerebbe a considerarsi come l’oggetto naturale dell’odio e dell’indignazione di tutti i suoi simili e, nel caso il suo cuore non sia diventato del tutto insensibile per l’abitudine ai crimini, non potrebbe pensare senza terrore e angoscia a come gli altri uomini lo considererebbero, o a quale sarebbe l’espressione del loro volto o dei loro occhi, se mai si venisse a sapere la terribile verità. Questi morsi naturali di una coscienza spaventata sono i demoni, le furie vendicatrici, che in questa vita ossessionano il colpevole, che non gli consentono quiete né riposo, che spesso lo spingono alla disperazione e alla follia; non c’è nessuna assicurazione di segretezza in grado di difenderlo, nessun principio irreligioso che lo possa salvare del tutto, niente che possa liberarlo se non il più vile e abietto di tutti gli stati: una completa insensibilità all’onore e all’infamia, al vizio e alla virtù. Uomini detestabili che, nell’esecuzione dei crimini più terribili hanno preso le loro precauzioni così freddamente da evitare persino il sospetto di colpevolezza, qualche volta sono stati condotti, dall’orrore della loro situazione, a rivelare spontaneamente cose che nessuna umana sagacia avrebbe mai potuto scoprire. Riconoscendo la loro colpa, sottomettendosi al risentimento dei loro simili offesi, e saziando, così, la vendetta di cui sapevano che sarebbero diventati oggetti appropriati, speravano, con la morte, di riconciliarsi, almeno nella loro immaginazione, con i sentimenti naturali dell’umanità. Speravano di riuscire a considerarsi un po’ meno colpevoli di odio e risentimento; di espiare, in qualche misura, per i loro crimini, e diventando, così, oggetti più di compassione che di errore, speravano, se possibile, di morire in pace, col perdono dei loro simili. Paragonato a ciò che provavano prima della loro confessione, anche questo solo pensiero li rendeva felici.

10. In tali casi, l’orrore di meritare il biasimo sembra soggiogare del tutto la paura del biasimo in se stesso, anche in persone che non possono esser sospettate di avere un carattere particolarmente delicato e sensibile. È per calmare quell’orrore, per pacificare, in qualche misura, il rimorso delle loro coscienze, che si sono sottomessi volontariamente al rimprovero e alla punizione, che sapevano esser dovuti ai loro crimini, ma che allo stesso tempo avrebbero potuto evitare facilmente.

11. Sono solo gli uomini più frivoli e superficiali quelli che possono rallegrarsi della lode che sanno bene di non aver affatto meritato. Il rimprovero non meritato, tuttavia, può spesso mortificare molto duramente persino uomini dotati di capacità di sopportazione superiore all’ordinario. Anche uomini dotati di una capacità di sopportazione ordinaria, in verità, imparano facilmente a disprezzare quelle stupide storielle che così spesso circolano in società e che, per la loro assurdità e falsità, non mancano mai di cadere in dimenticanza nel giro di poche settimane, o di pochi giorni. Ma un uomo innocente, per quanto dotato di una capacità di sopportazione superiore all’ordinario, è spesso non solo scioccato, ma mortificato molto duramente da una seria, sebbene falsa, accusa di crimine, soprattutto quando capita che quell’accusa sia sfortunatamente suffragata da alcune circostanze che le danno un’aria di probabilità. È umiliato scoprendo che tutti riescono a ritenerlo di carattere così meschino da considerarlo capace di un tale crimine. Sebbene del tutto consapevole della propria innocenza, gli sembra che anche la sola accusa getti un’ombra di disgrazia e disonore sul suo carattere, anche nella propria immaginazione. Anche la sua giusta indignazione per un’offesa tanto grossolana, che tuttavia può spesso essere inappropriata, e a volte persino impossibile vendicare, è essa stessa una sensazione che provoca molta sofferenza. Non esiste per l’animo umano un tormento più grande di un violento risentimento che non può essere soddisfatto. Un uomo innocente, condotto al patibolo con la falsa imputazione di un crimine infamante e odioso, patisce la più crudele sventura che all’innocenza sia possibile patire. L’agonia della sua mente in questo caso può spesso essere maggiore che quella di coloro che hanno sofferto per crimini uguali, di cui erano effettivamente colpevoli. Criminali incalliti, come i comuni ladri o banditi, sono spesso scarsamente consapevoli della bassezza della loro condotta, e di conseguenza non hanno rimorsi. Senza preoccuparsi della giustezza o dell’ingiustizia della punizione, sono sempre stati abituati a considerare la forca come una sorte che molto facilmente gli sarebbe capitata. Quando gli capita, perciò, si considerano soltanto meno fortunati di alcuni loro compagni, e si sottomettono al loro destino, senza nessun altro disagio che quello che può derivare dalla paura della morte, una paura che, come accade frequentemente, può soggiogare anche questi indegni disgraziati. L’uomo innocente, al contrario, più che dal disagio che può essere provocato da questa paura, e al di là di esso, è tormentato dalla propria indignazione per l’ingiustizia che gli è stata fatta. Prova orrore al pensiero dell’infamia che la punizione può stendere sulla sua memoria, e prevede, con la più acuta angoscia, che sarà d’ora in poi ricordato dai suoi più cari amici e parenti non con rimpianto e affetto, ma con vergogna, e persino con orrore per la sua presunta condotta disgraziata; e le ombre della morte sembrano avvolgerlo in un’oscurità più cupa e triste di quella che hanno di solito. È da sperare che questi incidenti fatali, per la tranquillità del genere umano, accadano molto raramente in ogni paese, ma di tanto in tanto accadono in tutti i paesi, anche in quelli in cui la giustizia è di solito ben amministrata. Lo sventurato Calas, un uomo capace di sopportazione molto più del normale (il quale fu torturato sulla ruota e poi bruciato a Tolosa, perché accusato dell’omicidio del figlio, di cui era del tutto innocente), sembrò, nel suo ultimo respiro, deprecare non tanto la crudeltà della punizione, quanto il disonore che l’imputazione avrebbe potuto arrecare alla sua memoria. Dopo esser stato torturato, proprio mentre stava per essere gettato nel fuoco, il frate che assisteva all’esecuzione lo esortò a confessare il crimine per il quale era stato condannato. «Padre mio» disse Calas «potete davvero risolvervi a credere che sono colpevole?»

12. Per persone che si trovano in tali sventurate circostanze, quella debole filosofia che limita le sue concezioni a questa vita non può offrire, forse, che una piccola consolazione. A essi viene tolta qualsiasi cosa possa rendere rispettabile la vita o la morte. Sono condannati a morte e a una perpetua infamia. Solo la religione può offrir loro un valido conforto. Solo lei può dir loro che ciò che l’uomo può pensare della loro condotta è di scarsa importanza, se il Giudice del mondo, che tutto vede, la approva. Solo lei può offrirgli la vista di un altro mondo, un mondo più onesto, umano e giusto del presente, un mondo in cui la loro innocenza sarà proclamata al momento dovuto, e la loro virtù sarà finalmente ricompensata. Così lo stesso grande principio che, unico, può portare il terrore nel vizio trionfante offre l’unica valida consolazione all’innocenza disonorata e insultata.

13. Nel caso di offese minori, così come nei crimini più gravi, accade di frequente che una persona sensibile sia ferita molto più dall’accusa ingiusta di quanto non lo sia un criminale dalla colpa effettiva. Una donna sfacciata ride persino delle congetture ben fondate che circolano sulla sua condotta. La congettura dello stesso genere, anche se del tutto infondata, è una pugnalata mortale per una ragazza innocente. Credo che si possa formulare come regola generale che la persona che si rende deliberatamente colpevole di un’azione disonorevole raramente coglie il senso del disonore, e la persona che lo fa abitualmente non lo coglie quasi mai.

14. Forse vale la pena chiederci come mai ogni uomo, anche di ordinario intelletto, disprezzi decisamente l’elogio immeritato, mentre l’immeritato rimprovero spesso è capace di mortificare severamente uomini di giudizio migliore e più solido.

15. Il dolore, come ho già avuto occasione di osservare, è, in quasi tutti i casi, una sensazione più acuta dell’opposto e corrispondente piacere. Quasi sempre il primo ci fa sprofondare al di sotto dell’ordinario, o di quel che può esser detto il naturale stato di felicità, più di quanto l’altro riesca a sollevarci al di sopra di esso. Un uomo sensibile tende a essere più umiliato dalla giusta critica di quanto non sia esaltato dal giusto elogio. Un uomo saggio rifiuta con disprezzo in ogni occasione l’elogio non meritato, ma spesso soffre molto nel subire l’ingiustizia di una non meritata critica. Lasciando che altri lo elogino per qualcosa che non ha fatto, prendendosi un merito che non gli appartiene, sente di esser colpevole di una spregevole falsità, e di meritare non l’ammirazione, ma il disprezzo di quelle stesse persone che per errore erano state portate ad ammirarlo. Forse può procurargli un fondato piacere scoprire che molte persone lo hanno ritenuto capace di compiere qualcosa che non ha compiuto. Ma, per quanto in obbligo nei confronti dei suoi amici per la loro buona opinione, si sentirebbe colpevole di un’enorme bassezza se non li disingannasse. Gli dà scarso piacere considerare se stesso nella luce in cui gli altri di fatto lo considerano, essendo consapevole che, se sapessero la verità, lo considererebbero sotto una luce molto diversa. Tuttavia un uomo debole prova spesso molto piacere nel considerarsi sotto questa luce falsa e illusoria. Si arroga il merito di ogni azione lodevole che gli viene attribuita, e aspira anche a quello di molte azioni che mai nessuno si è sognato di ascrivergli. Finge di aver fatto ciò che non ha mai fatto, di aver scritto ciò che un altro ha scritto, di aver inventato quel che un altro ha scoperto, ed è condotto verso tutti i miserabili vizi del plagio e della volgare menzogna. Ma sebbene nessun uomo di medio buon senso possa ricevere molto piacere dall’attribuzione di un’azione lodevole che non ha mai compiuto, tuttavia un uomo saggio può provare un grande dolore nel venire seriamente accusato di un crimine che non ha mai commesso. In questo caso, la Natura ha reso il dolore non solo più acuto dell’opposto piacere corrispondente, ma lo ha fatto in misura molto maggiore dell’ordinario. Un diniego libera all’istante un uomo dal piacere stupido e ridicolo, ma non sempre lo libererà dal dolore. Quando egli rifiuta il merito che gli viene attribuito, nessuno mette in dubbio la sua parola, che può invece esser messa in dubbio quando egli nega di aver commesso il crimine di cui viene accusato. E allo stesso tempo adirato per la falsità dell’accusa e mortificato di scoprire che essa possa trovare credito. Sente che la sua reputazione non basta a proteggerlo. Sente che i suoi fratelli, lungi dal considerarlo sotto questa luce in cui lui ansiosamente desidera esser da loro considerato, lo ritengono capace di rendersi colpevole di ciò di cui viene accusato. Lui sa perfettamente di non essere colpevole. Sa perfettamente quello che ha fatto; ma forse quasi nessuno può sapere con certezza di cosa è personalmente capace. È forse una questione più o meno dubbia per ogni uomo stabilire cosa sia ammesso e cosa non sia ammesso dalla particolare costituzione della propria mente. La fiducia e la buona opinione dei suoi amici e vicini tendono più di ogni altra cosa a sollevarlo da questo spiacevole dubbio, la loro sfiducia e la loro sfavorevole opinione tendono invece ad accrescerlo. Può sentirsi certo che il loro giudizio sfavorevole sia errato, ma questa certezza raramente può essere così grande da impedire che quel giudizio faccia una certa impressione su di lui, e questa impressione sarà tanto maggiore, quanto maggiore la sua sensibilità, maggiore la sua delicatezza: maggiore il suo valore, in breve.

16. Va osservato che l’accordo o il disaccordo dei sentimenti e dei giudizi degli altri con i nostri è di importanza maggiore o minore per noi, in proporzione alla nostra maggiore o minore certezza sull’appropriatezza dei nostri sentimenti, sull’accuratezza dei nostri giudizi.

17. Un uomo sensibile può a volte sentirsi agitato per timore di aver concesso troppo persino a quella che può essere definita una passione onorevole, a esempio la sua giusta indignazione per l’offesa che può esser stata fatta a lui stesso o a un suo amico. È in ansia per timore che, anche se aveva unicamente l’intenzione di agire coraggiosamente, e di fare giustizia, per il grande impeto della sua passione, possa aver arrecato una reale offesa a qualche altra persona che, sebbene non innocente, può non essere del tutto colpevole come lui ha intuito sulle prime. In questo caso, l’opinione degli altri diventa per lui della massima importanza. La loro approvazione è il balsamo più salutare, la loro disapprovazione, il veleno più amaro e straziante che possa essere versato nella sua mente agitata. Quando è del tutto soddisfatto di ogni aspetto della sua condotta, il giudizio degli altri è spesso per lui di minore importanza.

18. Ci sono alcune arti molto nobili e belle nelle quali il grado di perfezione può essere stabilito solo con una certa finezza di gusto, le cui decisioni, tuttavia, appaiono sempre in qualche misura incerte. Ce ne sono altre, nelle quali il successo può essere o chiaramente dimostrato, o provato in modo molto soddisfacente. Tra le arti che aspirano alla perfezione in questi due diversi gruppi, l’ansia per il parere del pubblico è sempre maggiore tra le prime, che tra le seconde.

19. La bellezza della poesia è una questione di tale finezza, che un giovane principiante non può quasi mai essere certo di averla raggiunta. Perciò, niente gli è più gradito che i giudizi favorevoli dei suoi amici e del pubblico, e niente è per lui più mortificante dei giudizi contrari. Gli uni stabiliscono, gli altri scuotono la buona opinione sui suoi lavori che lui è così ansioso di ottenere. Col tempo, l’esperienza e il successo gli daranno una maggiore fiducia nel suo giudizio personale. Tuttavia, sarà sempre soggetto a essere mortificato molto duramente per i giudizi sfavorevoli del pubblico. Racine si indignò talmente per il successo mediocre della sua Fedra, forse tuttora la più bella tragedia mai scritta in ogni lingua, che, sebbene nel pieno della sua vita, e al culmine delle sue capacità, decise di non scrivere più per il teatro. Il grande poeta ripeteva spesso al figlio che la critica più gretta e incompetente gli aveva sempre dato dolore più di quanto il più largo e giusto degli elogi gli avesse dato piacere. L’estrema suscettibilità di Voltaire per simili giudizi negativi, anche minimi, è ben nota a chiunque. La Dunciad di Pope è un’eterna testimonianza di quanto il più accurato, come del resto il più raffinato, di tutti i poeti inglesi fosse stato ferito dalle critiche dei più infimi e disprezzabili autori. Si racconta che Gray (il quale unisce alla sublimità di Milton la raffinatezza e l’armonia di Pope, e al quale non manca null’altro che l’aver scritto un po’ di più per esser considerato il primo dei poeti in lingua inglese) sia stato talmente offeso da una stupida e impertinente parodia di due delle sue odi più belle, che da quel momento in poi non intraprese più alcun lavoro di rilievo. Quegli uomini di lettere che si fanno influenzare dalle esigenze di quel che viene detto il bello scrivere in prosa si avvicinano in un certo qual modo alla sensibilità dei poeti.

20. I matematici, al contrario, che hanno la più perfetta sicurezza sia della verità che dell’importanza delle loro scoperte, spesso sono del tutto indifferenti all’accoglienza che possono trovare nel pubblico. I due più grandi matematici che io abbia mai avuto l’onore di conoscere, e credo i due più grandi del mio tempo, il dott. Robert Simpson di Glasgow e il dott. Mattew Stewart di Edimburgo, non hanno mai mostrato di provare nemmeno la più leggera agitazione per l’indifferenza con cui l’ignoranza del pubblico ha accolto alcune delle loro opere più notevoli. Mi è stato detto che la grande opera di Sir Isaac Newton, i suoi «Principi matematici di filosofia naturale», fu per molti anni ignorata dal pubblico. È probabile che la tranquillità di quel grande uomo non sia stata, a causa di ciò, interrotta nemmeno per un quarto d’ora. I filosofi naturali, per la loro indipendenza dal parere del pubblico, si avvicinano ai matematici, e, nei loro giudizi riguardo al merito delle loro scoperte e osservazioni, godono di un certo grado della stessa sicurezza e tranquillità.

21. I costumi morali di questi diversi tipi di uomini di cultura a volte sono forse in un certo qual modo influenzati da questa grande differenza della loro posizione verso il pubblico.

22. I matematici e i filosofi naturali, per la loro indipendenza dal parere del pubblico, sono poco tentati di organizzarsi in fazioni e circoli con lo scopo di sostenere la loro reputazione o di attaccare quella dei loro rivali. Sono quasi sempre uomini dotati di una amabile semplicità di maniere, vivono in buona armonia gli uni con gli altri, proteggendosi reciprocamente la reputazione, non prendono parte a intrighi per assicurarsi l’elogio del pubblico, ma sono lieti quando le loro opere vengono approvate, senza essere eccessivamente contrariati o molto irati quando vengono ignorate.

23. Il caso non è sempre lo stesso con i poeti, o con coloro che ritengono che il loro modo di scrittura sia quel che viene detto il bello scrivere. Essi tendono molto a dividersi in fazioni letterarie, e ogni circolo è, spesso apertamente, ma il più delle volte segretamente, il nemico mortale della reputazione di tutti gli altri circoli, e impiega tutte le meschine arti dell’intrigo e dell’adescamento per attirare il favore del pubblico sulle opere dei suoi membri e allontanarlo da quelle dei suoi nemici e rivali. In Francia, Despreaux e Racine non considerarono svilente mettersi a capo di un circolo letterario per rovinare dapprima la reputazione di Quinault e Perrault, poi quella di Fontenelle e La Motte, e trattare il buon La Fontaine con una sorta di gentilezza del tutto falsa e irriverente. In Inghilterra, l’amabile signor Addison non ritenne indegno del suo carattere gentile e modesto il mettersi a capo di un piccolo circolo dello stesso genere, per screditare la nascente reputazione del signor Pope. Il signor Fontenelle, scrivendo sulle vite e le personalità dei membri dell’accademia delle scienze, una società di matematici e filosofi naturali, ha frequenti occasioni di celebrare l’amabile semplicità delle loro maniere, una qualità, egli osserva, che tra loro era così universalmente diffusa da essere caratteristica di quell’intera classe di uomini di cultura più che di ogni singolo individuo. Il signor D’Alembert, scrivendo sulle vite e le personalità dei membri dell’accademia francese, una società di poeti e scrittori raffinati, o supposti tali, non sembra aver avuto opportunità tanto frequenti di fare rilievi simili, e non pretende in nessun luogo di rappresentare questa amabile semplicità delle maniere come caratteristica degli uomini di cultura da lui celebrati.

24. La nostra incertezza sul nostro merito, e la nostra ansia di averne un parere favorevole, dovrebbero insieme farci desiderare in modo abbastanza naturale di conoscere l’opinione che di esso hanno gli altri, dovrebbero farci desiderare di esaltarci più del normale quando quell’opinione è favorevole, e di mortificarci più del normale in caso contrario, ma non dovrebbero farci desiderare di ottenere un’opinione favorevole, o di evitarne una sfavorevole attraverso l’intrigo e il complotto. Quando un uomo ha corrotto tutti i giudici, la più unanime decisione della corte, sebbene gli faccia vincere la causa, non può dargli alcuna assicurazione di essere nel giusto; inoltre, se avesse intrapreso la causa solo per affermare a se stesso di essere nel giusto, non avrebbe mai corrotto i giudici. Ma sebbene egli volesse mostrare di essere nel giusto, voleva anche vincere la causa, ed è per questo che ha corrotto i giudici. Se la lode non avesse su di noi altro peso che quello di essere una prova del fatto che si era degni di lode, non dovremmo mai sforzarci di ottenerla con mezzi disonesti. Ma, sebbene per l’uomo saggio la lode abbia, almeno nei casi dubbi, un’importanza cruciale per questa ragione, è ugualmente di qualche importanza in se stessa e perciò uomini molto al di sopra del livello comune (non possiamo in queste occasioni definirli saggi) hanno tentato qualche volta di ottenere la lode ed evitare il biasimo con mezzi molto disonesti.

25. La lode e il biasimo esprimono quali siano realmente i sentimenti degli altri sulla nostra personalità e sulla nostra condotta; l’esser degni di lode o di biasimo, quali dovrebbero naturalmente essere quei sentimenti. L’amore per la lode è il desiderio di ottenere i sentimenti favorevoli dei nostri fratelli. L’amore per l’esser degni di lode è il desiderio di diventare oggetti appropriati di quei sentimenti. Fin qui i due principi si assomigliano e sono simili l’uno all’altro. La stessa affinità e rassomiglianza si verifica tra il timore per il biasimo e quello per l’esser degni di biasimo.

26. L’uomo che desidera fare, o che realmente fa un’azione degna di lode può ugualmente desiderare la lode che all’azione è dovuta, e forse a volte anche di più. I due principi in questo caso sono uniti insieme. Spesso può restare sconosciuto persino a lui fino a che punto la sua condotta sia stata influenzata dall’uno e fino a che punto dall’altro. Per le altre persone deve essere così quasi sempre. Quelli che tendono a minimizzare il merito della sua condotta la attribuiscono soprattutto o completamente all’amore per la lode o per quella che definiscono mera vanità. Quelli che tendono a giudicarla più favorevolmente la attribuiscono soprattutto o completamente all’amore per l’esser degni di lode, all’amore per ciò che è realmente onorevole e nobile nella condotta umana, al desiderio non di ottenere soltanto, ma di meritare, l’approvazione e l’elogio dei propri fratelli. L’immaginazione dello spettatore getta su quella condotta ora un colore ora l’altro, a seconda del suo modo di pensare, o del favore o dell’antipatia che prova per la persona la cui condotta egli sta giudicando.

27. Alcuni filosofi stizzosi, giudicando la natura umana, hanno fatto quello che individui irritabili tendono a fare giudicando la condotta l’uno dell’altro, e hanno attribuito all’amore per la lode, o a quel che essi chiamano vanità, tutte le azioni che dovrebbero invece esser fatte risalire all’amore per l’esser degni di lode. Avrò in seguito occasione di fare un resoconto di alcuni dei loro sistemi, e non mi fermerò a esaminarli ora.

28. Sono pochi gli uomini che possono accontentarsi della loro personale consapevolezza di aver raggiunto quelle qualità, o compiuto quelle azioni che ammirano e ritengono degne di lode in altre persone, a meno che, nello stesso tempo, non sia stato generalmente riconosciuto che essi possiedono le une, o che abbiano compiuto le altre, o, in altre parole, a meno che essi non abbiano realmente ottenuto quella lode che ritengono dovuta alle une e alle altre. Sotto questo riguardo, tuttavia, gli uomini differiscono in modo considerevole gli uni dagli altri. Alcuni sembrano indifferenti alla lode, quando nella loro mente sono del tutto soddisfatti di esser stati degni di lode. Altri appaiono molto meno in ansia per l’esser degni di lode che per la lode in se stessa.

29. Nessun uomo può essere completamente, o anche sufficientemente soddisfatto per aver evitato nella sua condotta tutto ciò che era degno di biasimo, a meno che non abbia, nello stesso tempo, evitato il biasimo o il rimprovero. Un uomo saggio può spesso ignorare la lode, anche quando l’ha meritata nel migliore dei modi, ma in tutte le questioni serie cercherà più attentamente possibile di regolare la sua condotta in modo da evitare non solo di esser degno di biasimo, ma, per quanto possibile, anche qualsiasi accusa biasimevole. Sicuramente, per evitare il biasimo, non farà mai qualcosa che egli giudica biasimevole, come trascurare parte del suo dovere, o tralasciare qualche opportunità di fare qualcosa che egli giudichi realmente e in grande misura degna di lode. Con questi accorgimenti, lo eviterà più seriamente e attentamente. Mostrare grande ansietà per la lode, persino per azioni degne di lode, raramente è un segno di grande saggezza, mentre in generale lo è di un certo grado di debolezza. Ma nell’ansia di evitare l’ombra del biasimo o del rimprovero non può esserci debolezza, ma spesso la più lodevole prudenza.

30. «Molte persone che sono profondamente mortificate da un ingiusto rimprovero» afferma Cicerone «disprezzano invece la gloria, in modo del tutto incoerente». Tale incoerenza, tuttavia, sembra fondata sugli inalterabili principi della natura umana.

31. L’Autore della natura, nella sua infinita saggezza, ha, in questo modo, insegnato all’uomo a rispettare i sentimenti e i giudizi dei suoi fratelli; gli ha insegnato a provare maggiore o minore piacere quando essi approvano la sua condotta, e maggiore o minore dispiacere quando la disapprovano. Ha fatto dell’uomo, se mi è consentita l’espressione, il giudice immediato dell’umanità, e, in questo come in molti altri aspetti, lo ha creato a sua immagine, nominandolo suo vicario sulla terra, per sovrintendere al comportamento dei suoi fratelli. A essi viene insegnato dalla natura a riconoscere quel potere e quella giurisdizione conferiti da Dio, viene loro insegnato a provare maggiore o minore umiliazione e mortificazione quando incorrono nel rimprovero, e maggiore o minore esaltazione quando ottengono elogio.

32. Ma, sebbene l’uomo sia stato, in questo modo, reso giudice immediato dell’umanità, è stato reso tale solo in prima istanza, mentre l’appello spetta a un tribunale molto più alto, al tribunale delle loro coscienze, a quello dell’immaginato spettatore imparziale e ben informato, a quello dell’uomo interiore, il grande giudice e arbitro della loro condotta. Le giurisdizioni di questi due tribunali si fondano su principi che, sebbene sotto alcuni riguardi somiglianti e simili, sono tuttavia in realtà diversi e distinti. La giurisdizione dell’uomo esteriore si fonda del tutto sul desiderio di lode effettiva, e sull’avversione per l’effettivo biasimo. La giurisdizione dell’uomo interiore si fonda del tutto sul desiderio dell’esser degno di lode e nell’avversione per l’esser degno di biasimo, nel desiderio di possedere quelle qualità, e di compiere quelle azioni che amiamo e ammiriamo negli altri, e nel timore di possedere quelle qualità e di compiere quelle azioni che negli altri odiamo e disprezziamo. Se l’uomo esteriore dovesse approvarci, o per azioni che non abbiamo compiuto, o per moventi che non hanno avuto influenza su di noi, l’uomo interiore riuscirebbe immediatamente a umiliare quell’orgoglio ed esaltazione della mente che tali acclamazioni infondate potrebbero altrimenti causare, dicendoci che, dal momento che sappiamo di non meritarle, ci rendiamo disprezzabili accettandole. Se, al contrario, l’uomo esteriore dovesse rimproverarci per azioni che non abbiamo mai compiuto, o per moventi che non hanno avuto influenza su coloro che possono averle compiute, l’uomo interiore può immediatamente correggere questo giudizio falso, e rassicurarci che non siamo affatto gli oggetti appropriati di quella critica che ci è stata ingiustamente rivolta. Ma, in questo e in altri casi, l’uomo interiore sembra qualche volta come sorpreso e confuso dalla veemenza e dal clamore dell’ uomo esteriore. La violenza e il fragore con i quali il biasimo viene a volte riversato sopra di noi sembrano stupire e paralizzare il nostro naturale senso dell’esser degni di lode e dell’esser degni di biasimo, e i giudizi dell’uomo interiore, sebbene, forse, non del tutto alterati o corrotti, sono tuttavia talmente scossi nella stabilità e nella fermezza della loro decisione, che il loro effetto naturale, nel garantire la tranquillità della mente, viene frequentemente distrutto in larga misura. Osiamo appena assolverci, quando tutti i nostri fratelli sembrano vistosamente condannarci. Sembra che l’immaginato spettatore imparziale della nostra condotta dia la sua opinione in nostro favore con timore ed esitazione, mentre quella degli spettatori reali, quella di tutti coloro con i cui occhi e dalla cui posizione egli cerca di considerare la nostra condotta, è unanimemente e violentemente contro di noi. In tali casi, il semidio interiore appare, come i semidei dei poeti, in parte immortale, in parte mortale. Quando i suoi giudizi sono stabilmente e fermamente diretti dal senso dell’esser degni di lode, sembra che egli agisca in modo conforme alla sua natura divina; ma quando si lascia incantare e confondere dai giudizi dell’uomo debole e ignorante, mette in evidenza il suo legame con la mortalità, e sembra che agisca in modo conforme alla parte umana della sua origine, piuttosto che a quella divina.

33. In tali casi, l’unica effettiva consolazione per l’uomo umiliato e afflitto consiste nell’appellarsi a un tribunale ancora più alto, al tribunale del Giudice del mondo che vede ogni cosa, i cui occhi non possono mai venire ingannati, e i cui giudizi non possono mai essere alterati. Una ferma fiducia nell’infallibile rettitudine di questo gran tribunale, davanti al quale al momento giusto la sua innocenza verrà dichiarata e la sua virtù troverà finalmente ricompensa, è la sola cosa capace di sostenerlo nella debolezza e nello sconforto della sua mente, nel turbamento e nello stupore dell’uomo interiore, che la natura ha posto in questa vita come gran guardiano non solo della sua innocenza, ma anche della sua tranquillità. La nostra felicità in questa vita dipende in molte occasioni dall’umile speranza e attesa di una vita a venire: una speranza e un’attesa profondamente radicate nella natura umana. Solo questa speranza e questa attesa riescono a sostenere le alte idee che la natura umana ha sulla propria dignità, riescono a illuminare la tetra prospettiva della mortalità che le si avvicina, a mantenerla allegra, nonostante le durissime calamità alle quali, a causa dei turbamenti della sua vita, la natura umana può a volte essere esposta. Il fatto che ci sia un mondo a venire, nel quale ogni uomo riceverà una giustizia puntuale, nel quale ogni uomo verrà classificato insieme a quelli che sono realmente suoi eguali per qualità morali e intellettuali, un mondo nel quale chi possiede quelle umili doti e virtù che in questa vita non hanno avuto opportunità di mostrarsi, perché ostacolate dalla fortuna, doti e virtù sconosciute non solo al pubblico, ma di cui lui stesso dubitava il possesso, e di cui persino l’uomo interiore riusciva a mala pena a offrirgli una testimonianza chiara e distinta, un mondo nel quale quel merito modesto, silenzioso e sconosciuto sarà posto allo stesso livello e qualche volta più su di quelli che, in questa vita, hanno goduto della massima reputazione, e che, per i vantaggi della loro situazione, sono stati in grado di compiere le azioni più splendide e abbaglianti, l’esistenza di questo mondo, dicevo, è una dottrina sotto ogni riguardo così venerabile, così di conforto per i deboli, così lusinghiera per la grandezza della natura umana, che l’uomo virtuoso che abbia la sventura di dubitarne, non può assolutamente fare a meno di desiderare di credervi ardentemente e ansiosamente. Tale dottrina non sarebbe mai stata esposta alla derisione, se le distribuzioni di ricompense e punizioni, che secondo alcuni dei suoi più zelanti assertori verranno fatte in quel mondo a venire, non fossero state troppo spesso in diretta opposizione a tutti i nostri sentimenti morali.

34. Tutti abbiamo avuto modo di sentire molti anziani ufficiali, riveriti ma insoddisfatti, lamentarsi che il cortigiano assiduo riceve spesso più favori del servitore laborioso e fedele; che la presenza costante e l’adulazione spesso sono strade per ottenere avanzamenti più sicure e brevi del merito e del servizio attivo; che una campagna alla reggia di Versailles o a quella di St. James ne vale due in Germania o nelle Fiandre. Ma ciò che viene considerato come il peggiore rimprovero persino per la debolezza dei sovrani terreni, è stato attribuito, come un atto di giustizia, alla perfezione divina, e i doveri della devozione, l’adorazione pubblica e privata della divinità, sono stati rappresentati, anche da uomini abili e virtuosi, come le uniche virtù che possono autorizzare a ricompensare o a esentare dalla punizione nella vita a venire. Queste forse erano le virtù più adatte alla loro situazione, e nelle quali loro stessi eccellevano: siamo infatti portati naturalmente a sopravvalutare i tratti del nostro carattere in cui più eccelliamo. Nel discorso che pronunciò l’eloquente e filosofico Massillon nel dare la sua benedizione agli stendardi del reggimento di Catinat, c’è il seguente indirizzo agli ufficiali: «Ciò che è più deplorevole nella vostra situazione, signori, è che in una vita dura e dolorosa, nella quale i servizi e i doveri a volte oltrepassano il rigore e l’austerità dei più austeri chiostri, la vostra sofferenza è inutile per la vita a venire, e spesso anche per questa vita. Ahimè! il monaco solitario nella sua cella, obbligato a mortificare la carne e a sottometterla allo spirito, è sostenuto dalla speranza di una ricompensa assicurata, e dalla segreta unzione di quella grazia che allevia il giogo del Signore. Ma voi, sul letto di morte, potrete osare presentarGli le fatiche e le quotidiane privazioni che il vostro incarico vi imponeva? Potrete osare sollecitarlo a ricompensarvi? E in tutti gli sforzi che avete compiuto, in tutte le violenze che avete fatto a voi stessi, che cosa è stato da voi compiuto per compiacerLo? I giorni migliori della vostra vita, comunque, sono stati sacrificati alla vostra professione, e dieci anni di servizio hanno sfinito il vostro corpo più di quanto avrebbe fatto un’intera vita di penitenza e mortificazione. Ahimè! fratelli miei, un solo giorno di quelle sofferenze, se consacrato al Signore, vi avrebbe procurato una felicità eterna. Una singola azione, dolorosa alla natura e offerta a Lui, vi avrebbe forse assicurato l’eredità dei Santi. E voi avete fatto tutto questo, e invano, unicamente per questo mondo».

35. Paragonare in questo modo le futili mortificazioni di un monastero alle nobilitanti privazioni e pericoli della guerra, credere che un giorno o un’ora impiegati nella prima occupazione possano, agli occhi del gran Giudice del mondo, valere di più che un’intera vita spesa con onore nella seconda è sicuramente contro ogni nostro principio morale, contro ogni principio per mezzo del quale la Natura ci ha insegnato a regolare il nostro disprezzo o la nostra ammirazione. È in questo spirito, comunque, che le regioni celestiali sono state riservate ai monaci e ai frati, o a quelli la cui condotta e i cui discorsi somigliavano a quelli dei monaci e dei frati; è in questo spirito che sono stati condannati all’inferno tutti gli eroi, tutti gli statisti e i legislatori, tutti i poeti e i filosofi delle età precedenti, tutti coloro che hanno inventato, migliorato e portato all’eccellenza le arti che contribuiscono alla sussistenza, al benessere e all’abbellimento della vita umana, tutti i grandi protettori, educatori e benefattori dell’umanità, tutti quelli che consideriamo degni di lode e a cui per questo non possiamo far altro che attribuire il più alto merito e la più elevata virtù. Possiamo stupirci che una così strana applicazione di questa dottrina così rispettabile possa a volte averla esposta al disprezzo e alla derisione, come minimo alla derisione di quelli che forse personalmente non avevano un grande gusto e una grande inclinazione per le virtù devote e contemplative?


 
CAPITOLO III L’influenza e l’autorità della coscienza
1. Ma sebbene l’approvazione della propria coscienza possa a mala pena, in alcune situazioni straordinarie, accontentare la debolezza dell’uomo; sebbene la testimonianza dell’immaginato spettatore imparziale, del grande ospite del nostro cuore, non sempre possa sostenerlo da sola, tuttavia, l’influenza e l’autorità di questo principio è, in tutte le occasioni, molto grande, ed è solo consultando questo giudice interno che riusciamo a vedere ciò che è in relazione con noi nella sua appropriata forma e dimensione, o che riusciamo a fare un appropriato confronto tra i nostri interessi e quelli degli altri.

2. Come agli occhi del corpo gli oggetti appaiono grandi o piccoli non tanto in conformità alle loro dimensioni reali, quanto in conformità alla vicinanza o lontananza della loro posizione, così, allo stesso modo, appaiono a quello che si può chiamare l’oggetto naturale della mente, e noi rimediamo ai difetti di entrambi questi organi in un modo molto simile. Dalla mia posizione attuale, un immenso panorama di prati, boschi e montagne lontane sembra non fare altro che riempire la piccola finestra da cui scrivo, ed esser fuori da ogni proporzione con la camera in cui sono seduto. Non posso fare un adeguato paragone tra quei grandi oggetti e i piccoli oggetti intorno a me se non trasportandomi, almeno con la fantasia, in una postazione differente, dalla quale posso vederli dall’alto a uguali distanze, e perciò formarmi qualche giudizio sulle loro reali proporzioni. L’abitudine e l’esperienza mi hanno insegnato a compiere così facilmente e velocemente questa operazione, che me ne accorgo a mala pena, e un uomo deve in qualche misura conoscere la filosofia della visione prima di convincersi del tutto di quanto apparirebbero piccoli all’occhio quegli oggetti distanti, se l’immaginazione, conoscendo le loro reali grandezze, non li ingrandisse e dilatasse.

3. Allo stesso modo, per le passioni egoistiche e originali della natura umana, la perdita o il guadagno di un piccolissimo nostro interesse sembra molto più importante, suscita una gioia o una sofferenza più appassionate, un desiderio o un’avversione molto più ardente, che la più grande preoccupazione di un altro uomo con il quale non abbiamo particolari connessioni. I suoi interessi, finché vengono esaminati da questa postazione, non riescono mai a stare al livello dei nostri, non riescono mai a trattenerci dal fare qualunque cosa possa favorire i nostri, per quanto disastrosi per lui. Prima di poter fare un appropriato raffronto tra questi opposti interessi, dobbiamo cambiare il nostro punto di vista. Non dobbiamo considerarli né dalla nostra posizione, né dalla sua, ma dalla posizione e con gli occhi di una terza persona, che non abbia particolari connessioni con nessuno dei due, e che giudichi con imparzialità. Anche in questo caso, l’abitudine e l’esperienza ci hanno insegnato a compiere questa operazione così facilmente e velocemente, che ce ne accorgiamo a mala pena, e anche in questo caso c’è bisogno di un certo grado di riflessione e anche di filosofia, per convincerci di quanto poco ci interesserebbero le maggiori preoccupazioni del nostro prossimo, di quanto poco saremmo colpiti da ciò che lo riguarda, se non ci fosse il senso dell’appropriatezza e della giustizia a correggere l’altrimenti naturale parzialità dei nostri sentimenti.

4. Supponiamo che il grande impero cinese, con tutte le sue miriadi di abitanti, fosse all’improvviso inghiottito da un terremoto, e pensiamo a come rimarrebbe colpito un europeo dotato di umanità, che non avesse alcun legame con quella parte del mondo, nel venire a sapere di questa terribile calamità. Credo che prima di tutto esprimerebbe con molto ardore la sua sofferenza per la sventura di quel popolo infelice; farebbe molte malinconiche riflessioni sulla precarietà della vita umana, e sulla vanità di tutti gli sforzi dell’uomo, che in un attimo possono venire annientati. Forse, se fosse un uomo incline alla speculazione, prenderebbe parte anche a svariati ragionamenti sugli effetti che il disastro potrebbe provocare sul commercio europeo, e sugli scambi e gli affari di tutto il mondo. E quando tutta questa raffinata filosofia fosse terminata, quando tutti questi sentimenti d’umanità fossero stati una buona volta espressi, tornerebbe ai suoi affari o al divertimento, riprenderebbe il suo riposo o il suo svago con lo stesso agio e tranquillità di prima, come se nessuna simile catastrofe fosse accaduta. Il minimo guaio che dovesse capitare a lui provocherebbe un disturbo più reale. Se sapesse di dover perdere il suo dito mignolo l’indomani, la notte non dormirebbe, ma, a patto che non li abbia mai visti, russerebbe profondamente e tranquillamente sulla rovina di cento milioni di suoi fratelli, e la distruzione di quell’immensa moltitudine gli sembrerebbe ovviamente un oggetto meno interessante della sua irrisoria disgrazia. Questo significa che, per evitare a se stesso questa irrisoria disgrazia, un uomo dotato di umanità sarebbe capace di sacrificare le vite di cento milioni di suoi fratelli, a patto di non averli mai visti? La natura umana inorridisce a questo pensiero, e il mondo, pur nella sua più grande depravazione e corruzione, non ha mai generato uno scellerato tale da esser capace di un’azione simile. Ma cos’è che determina questa differenza? Se i nostri sentimenti passivi sono quasi sempre così meschini ed egoisti, come può accadere che i nostri principi attivi siano spesso così generosi e nobili? Se siamo sempre colpiti molto più profondamente da ciò che riguarda noi stessi piuttosto che da ciò che riguarda gli altri uomini, che cos’è che spinge in ogni occasione i generosi, e in molte occasioni i meschini, a sacrificare i propri interessi in nome dei più grandi interessi degli altri? Non è il debole potere del senso di umanità, non è quel flebile barlume di benevolenza che la Natura ha acceso nel cuore umano che riesce a contrastare così i fortissimi impulsi dell’amor di sé. È un potere più grande, un movente più energico, quello che si manifesta in tali occasioni. È la ragione, il principio, la coscienza, l’abitante dell’animo, l’uomo interiore, il grande giudice e arbitro della nostra condotta. È lui che, ogni volta che stiamo per colpire la felicità altrui, ci grida, con una voce capace di stordire le nostre passioni più presuntuose, che noi non siamo altro che uno dei tanti, sotto nessun riguardo migliore di qualsiasi altro, e che quando, in modo così vergognoso e cieco, preferiamo noi stessi agli altri, diventiamo oggetti appropriati di risentimento, avversione e disprezzo. Solo dall’uomo interiore impariamo la reale piccolezza nostra e di tutto ciò che è in relazione con noi, e le naturali errate interpretazioni dell’amor di sé possono venir corrette solo dall’occhio di questo spettatore imparziale. È lui che ci mostra l’appropriatezza della generosità e la mostruosità dell’ingiustizia; l’appropriatezza della rinuncia ai più grandi nostri interessi, per gli ancor più grandi interessi degli altri, e la mostruosità dell’offendere, anche minimamente, un altro, per ottenere un maggior vantaggio personale. Non è l’amore per il prossimo, non è l’amore per il genere umano, che in diverse occasioni ci spinge a praticare quelle virtù divine. È un amore più forte, un affetto più potente, quello che generalmente si manifesta in tali occasioni: l’amore per ciò che è onorevole e nobile, l’amore per la grandezza, la dignità e la superiorità della nostra natura.

5. Quando la felicità o la miseria di altri dipendono per qualche aspetto dalla nostra condotta, noi non osiamo preferire l’interesse di uno a quello di molti, come potrebbe suggerirci l’amor di sé. L’uomo interiore immediatamente ci grida che stimiamo troppo noi stessi e troppo poco gli altri, e che, in questo modo, ci rendiamo oggetti appropriati del disprezzo e dell’indignazione dei nostri fratelli. E questo sentimento non è riservato solo a uomini di straordinaria magnanimità e virtù. È profondamente impresso in ogni soldato sufficientemente valente, che sente che diventerebbe lo zimbello dei suoi compagni, se potesse esser ritenuto capace di indietreggiare di fronte al pericolo, o di esitare a esporre la sua vita o a darla, se il bene del servizio lo richiedesse.

6. Un individuo non deve mai preferire se stesso neanche a un altro singolo individuo, come per esempio offendendolo o ingiuriandolo per ottenere un beneficio per sé, anche se il beneficio dell’uno dovesse essere molto più grande dell’offesa o dell’ingiuria dell’altro. Il povero non deve mai defraudare o derubare il ricco, sebbene l’acquisto possa essere molto più benefico all’uno di quanto la perdita possa esser dannosa per l’altro. L’uomo interiore immediatamente gli grida, anche in questo caso, che egli non è migliore del suo vicino, e che con la sua ingiusta preferenza si rende oggetto appropriato del disprezzo e dell’indignazione dell’umanità, come anche della punizione alla quale quel disprezzo e quell’indignazione naturalmente lo espongono, per aver violato una di quelle sacre regole dalla cui osservanza dipendono interamente la sicurezza e la pace della società umana. Non c’è nessun uomo comunemente onesto che non tema la vergogna interiore di una simile azione, il marchio indelebile che per sempre imprimerebbe nella sua mente, più della maggiore calamità esterna, che, senza nessuna colpa da parte sua, potrebbe colpirlo, e che non senta dentro di sé la verità di quella grande massima stoica, secondo la quale privare ingiustamente di qualcosa un altro, o procurarsi il proprio vantaggio a danno e svantaggio di un altro, è una cosa più contraria alla natura di quanto non lo siano la morte, la povertà, il dolore, più di tutte le sventure che possono colpirlo nel corpo o nei suoi beni esteriori.

7. Quando la felicità o la miseria di altri, di fatto, non dipendono in nessun senso dalla nostra condotta, quando i nostri interessi sono del tutto separati e staccati dai loro, tanto che tra di essi non vi è né connessione né competizione non sempre riteniamo necessario reprimere la nostra naturale e forse inappropriata ansia per le nostre faccende personali, o la nostra naturale e forse ugualmente inappropriata indifferenza per quelle di altri uomini. L’educazione più comune ci insegna ad agire, in tutte le occasioni importanti, con una certa imparzialità tra noi e gli altri, e anche il modo in cui vanno normalmente le cose nel mondo riesce a regolare i nostri principi attivi su un certo grado di appropriatezza. Ma solo l’educazione più sofisticata e raffinata, è stato detto, riesce a correggere le parzialità dei nostri sentimenti passivi, e a questo scopo, è stato dichiarato, dobbiamo ricorrere alla filosofia più severa e più profonda.

8. Due diversi gruppi di filosofi hanno tentato di insegnarci questa lezione di moralità, che è la più dura di tutte. Un gruppo si è occupato di aumentare la nostra sensibilità verso gli interessi degli altri, un altro, di diminuire quella verso i nostri. Il primo mirava a farci sentire per gli altri come ci sentiamo naturalmente per noi stessi. Il secondo mirava a farci sentire per noi stessi come ci sentiamo naturalmente per gli altri. Forse, entrambi hanno spinto le loro dottrine molto al di là del corretto criterio della natura e dell’appropriatezza.

9. Del primo fanno parte quei moralisti lamentosi e malinconici, che ci rimproverano continuamente per la nostra felicità, mentre tanti nostri fratelli sono nella miseria, che considerano empia la gioia naturale della prosperità che non pensa ai molti infelici che in ogni momento si affannano in ogni sorta di calamità, nel deperimento della povertà, nel tormento della malattia, negli orrori della morte, sotto gli insulti e l’oppressione dei loro nemici. La commiserazione per miserie che non abbiamo mai visto, di cui non abbiamo mai sentito parlare, ma che, ci viene assicurato, tormentano un gran numero dei nostri simili, dovrebbe spegnere gli entusiasmi dei fortunati, e dovrebbe rendere abituale per tutti gli uomini un certo abbattimento malinconico. Ma, per prima cosa, questa profondissima simpatia per sventure di cui non sappiamo nulla sembra del tutto assurda e irragionevole. Facendo una media in tutta la terra, per un uomo che soffre nel dolore e nella miseria, ne troveremo venti in prosperità e gioia, o almeno in situazioni tollerabili. Sicuramente non si può fornire nessuna ragione per la quale dovremmo piangere con quell’uno piuttosto che gioire con quei venti. Questa commiserazione artificiale, inoltre, non è solo assurda, ma sembra del tutto irraggiungibile, e chi ostenta una simile indole comunemente non possiede altro che una certa tristezza ostentata e sentimentale che, senza giungere al cuore, serve solo a rendere il comportamento e la conversazione inopportunamente cupa e spiacevole. Da ultimo, questa disposizione della mente, anche se potesse essere ottenuta, sarebbe perfettamente inutile, e non potrebbe servire a nessun altro scopo che ad avvilire chi la possiede. Qualsiasi interesse proviamo per la sorte di coloro con cui non abbiamo confidenza o legame, e che sono del tutto al di fuori della sfera della nostra attività, non può produrre altro che ansia per noi stessi, senza portare vantaggio a loro. A che scopo dovremmo preoccuparci del mondo della luna? Tutti gli uomini, anche quelli più lontani, hanno senza dubbio diritto ai nostri buoni auguri, e noi naturalmente glieli porgiamo. Ma se, nonostante tutto, dovessero essere sfortunati, non sembra rientrare nei nostri doveri essere in ansia per questo. Perciò, il nostro scarso interesse per la sorte di coloro che non possiamo né servire, né offendere, e che sotto ogni riguardo sono così lontani da noi, sembra un saggio disegno della Natura, e se fosse possibile modificare in questo aspetto la costituzione originale della nostra struttura, non riusciremmo a ottenere nulla nel cambio.

10. Non ci viene mai rimproverato uno scarso sentimento di partecipazione per la gioia del successo. Quando non è impedito dall’invidia, il favore che accordiamo alla prosperità tende, anzi, a essere troppo grande, e gli stessi moralisti che ci biasimano per la mancanza di sufficiente simpatia con i miseri ci rimproverano per la leggerezza con cui tendiamo ad ammirare, e quasi a venerare il fortunato, il potente e il ricco.

11. Tra i moralisti che cercano di correggere la naturale parzialità dei nostri sentimenti passivi, facendo diminuire la nostra sensibilità per ciò che riguarda in particolare noi stessi, possiamo annoverare tutte le antiche sette filosofiche, ma soprattutto gli Stoici antichi. L’uomo, secondo gli Stoici, dovrebbe considerarsi non come qualcosa di separato e distaccato, ma come un cittadino del mondo, un membro del vasto comune mondo della natura; egli dovrebbe esser sempre desideroso di sacrificare il suo piccolo interesse personale a quello di questa grande comunità. Tutto ciò che riguarda lui stesso non dovrebbe interessarlo più di qualsiasi cosa riguardante ogni altra parte, altrettanto importante, di questo immenso sistema. Dovremmo vederci non nella luce in cui tendono a farci apparire le nostre passioni egoistiche, ma nella luce in cui ci vedrebbero tutti gli altri abitanti del mondo. Dovremmo considerare ciò che accade a noi stessi allo stesso modo di ciò che accade al nostro prossimo, o, che è la stessa cosa, allo stesso modo in cui il nostro prossimo considera ciò che accade a noi. Dice Epitteto: «Quando il nostro vicino perde la moglie o il figlio, non c’è nessuno che non sia cosciente che questa è una calamità umana, un evento naturale del tutto in linea con il corso normale delle cose, ma quando la stessa cosa accade a noi piangiamo, come se avessimo patito la più terribile sventura. Tuttavia, dovremmo ricordarci di come ci sentivamo quando questo incidente era capitato a un altro, e dovremmo comportarci nel nostro caso come ci comportammo allora».

12. Le disgrazie private per le quali i nostri sentimenti tendono a oltrepassare i limiti dell’appropriatezza sono di due diversi tipi. O sono tali da colpirci solo indirettamente, colpendo in primo luogo qualche altra persona che ci è particolarmente cara, come i nostri genitori, i nostri figli, fratelli, sorelle e amici intimi, o sono tali da colpirci immediatamente e direttamente nel nostro corpo, nella nostra fortuna o nella nostra reputazione, come il dolore fisico, la malattia, l’avvicinarsi della morte, la povertà, la disgrazia ecc.

13. Nelle disgrazie del primo tipo, senza dubbio le nostre emozioni possono oltrepassare di molto il limite della giusta appropriatezza, ma possono allo stesso modo non raggiungerlo, e questo accade di frequente. L’uomo che, per la morte o la malattia del proprio padre o figlio, non dovesse soffrire più che per quella del padre o del figlio di qualsiasi altro uomo, non apparirebbe né un buon figlio, né un buon padre. Un’indifferenza così innaturale, lungi dal suscitare il nostro elogio, incorrerebbe nella nostra più profonda disapprovazione. Di questi affetti familiari, tuttavia, alcuni tendono più a offendersi per il loro eccesso, altri per il loro difetto. La Natura, per il più saggio dei propositi, ha reso nella maggior parte degli uomini, forse in tutti, la tenerezza dei genitori molto più forte della pietà filiale. La continuazione e propagazione della specie dipende del tutto dalla prima, e non dalla seconda. In casi normali, l’esistenza e la conservazione del bambino dipendono del tutto dalla cura dei genitori. Raramente succede il contrario. Perciò, la Natura ha reso il primo di questi affetti così forte da non aver generalmente bisogno di esser stimolato, ma piuttosto di esser moderato; raramente i moralisti cercano di insegnarci come manifestare, ma di solito come contenere la nostra affettuosità, il nostro eccessivo attaccamento, l’ingiusta preferenza che siamo inclini ad accordare ai nostri figli su quelli degli altri. Al contrario, ci esortano a un’affettuosa attenzione verso i nostri genitori, e a ricompensarli appropriatamente in età avanzata, per le gentilezze che ci hanno mostrato nell’infanzia e nella giovinezza. Nei dieci comandamenti ci viene ordinato di onorare il padre e la madre. L’amore per i figli non viene menzionato. La natura ci ha preparati a sufficienza per quest’ultimo dovere. Raramente gli uomini vengono accusati di fingere di essere più teneri verso i loro figli di quanto non lo siano realmente. A volte sono stati invece sospettati di manifestare con troppa ostentazione la loro pietà verso i genitori. L’ostentata sofferenza delle vedove è stata sospettata di insincerità per un simile motivo. Se riuscissimo a crederle sincere, dovremmo rispettare anche le manifestazioni eccessive di questo genere di affetti, e pur non potendo approvarle perfettamente, non dovremmo condannarle severamente. La finzione stessa è una prova, almeno per chi finge, che quel sentimento è degno di lode.

14. Anche l’eccesso di queste affezioni buone, che più di altre tendono a infastidire quando sono eccessive, non appare mai odioso, anche se può apparire biasimevole. Biasimiamo l’eccessiva tenerezza e ansietà di un genitore come qualcosa che, alla fine, può far soffrire il bambino e che, allo stesso tempo, è di troppo disturbo per il genitore, ma la perdoniamo facilmente, e non la consideriamo mai odiosa e detestabile. Invece appare sempre particolarmente odioso il difetto di questo sentimento solitamente eccessivo. L’uomo che non sembra provare nulla per i propri figli, che li tratta in ogni situazione con severità e asprezza immeritate, sembra il più detestabile dei bruti. Il senso dell’appropriatezza, lungi dal richiederci di sradicare del tutto quella straordinaria sensibilità che naturalmente abbiamo per le sventure dei nostri familiari più stretti, è sempre infastidito più dal difetto che dall’eccesso di quella sensibilità. L’apatia stoica non è mai in tali casi una condizione gradita, e tutti i sofismi metafisici da cui è sostenuta raramente possono servire ad altro che ad accrescere la dura insensibilità di un uomo rozzo dieci volte più della sua innata impertinenza. I poeti e gli scrittori di racconti fantastici, che meglio di tutti tratteggiano le raffinatezze e le tenerezze dell’amore e dell’amicizia, e di tutti gli altri affetti privati e domestici, Racine e Voltaire, Richardson, Maurivaux e Riccoboni, sono, in questi casi, migliori insegnanti di quanto non lo siano Zenone, Crisippo o Epitteto.

15. Quella moderata sensibilità verso le sventure altrui, che non ci rende incapaci di compiere alcun dovere, il ricordo malinconico e affettuoso dei nostri amici scomparsi, lo spasimo caro all’intima sofferenza, come dice Gray, sono senza dubbio sensazioni spiacevoli. Sebbene esteriormente abbiano l’aspetto del dolore e della pena, sono impressi interiormente con i nobili caratteri della virtù e dell’autoapprovazione.

16. Le cose stanno altrimenti per quel che riguarda le sventure che ci colpiscono immediatamente e direttamente nel nostro corpo, nella nostra fortuna, nella nostra reputazione. Il senso dell’appropriatezza viene tendenzialmente infastidito più dall’eccesso che dal difetto della nostra sensibilità, e sono pochi i casi in cui riusciamo ad avvicinarci in misura notevole all’apatia e all’indifferenza stoiche.

17. Si è già osservato che proviamo un sentimento di partecipazione molto scarso per le passioni che derivano dal corpo. Il dolore fisico che deriva da una causa evidente, come un taglio o una lacerazione della carne, è forse l’affezione del corpo per la quale lo spettatore prova la più viva simpatia. Allo stesso modo, è raro che egli non venga molto colpito se il suo vicino sta per morire. Tuttavia, in entrambi i casi egli sente così poco a confronto di quel che sente la persona principalmente coinvolta, che quest’ultima non infastidisce quasi mai l’altro mostrando troppo disinvoltamente di soffrire.

18. La semplice mancanza di fortuna, la semplice povertà suscitano scarsa compassione. Lamentele dovute a questo sono oggetto più di disprezzo che di sentimento di partecipazione. Anche se con le sue insistenze un mendicante riesce a estorcerci un’elemosina, lo disprezziamo e quasi mai lo commiseriamo sinceramente. La caduta in povertà dalla ricchezza, come provoca la più reale angoscia a chi la patisce, così è raro che non provochi la più sincera commiserazione nello spettatore. Sebbene allo stato attuale della società raramente capitino sventure senza qualche condotta manchevole, anche grave, da parte di chi ne è colpito, tuttavia lo sventurato è quasi sempre oggetto di una tale pietà da non ridursi mai al più basso livello di povertà, ma, per mezzo dei suoi amici, e spesso proprio per l’indulgenza di quegli stessi creditori che hanno tutte le ragioni di lamentarsi per la sua imprudenza, viene sempre sostenuto a un livello decente, sebbene umile. A persone che si trovano in tali sventure potremmo forse perdonare un certo grado di debolezza, ma, allo stesso tempo, quelli che mantengono il comportamento più fermo, che si adattano con grande facilità alla nuova situazione, che non sembrano provare umiliazione per il cambiamento, ma che mostrano di basare il loro rango sociale non sulla fortuna, ma sul loro carattere e la loro condotta, sono sempre i più approvati, e non mancano mai di ispirare la nostra più grande e affezionata ammirazione.

19. Di tutte le sventure esteriori che possono colpire un uomo innocente immediatamente e direttamente, l’immeritata perdita di reputazione è certamente la più grave; così, una forte sensibilità verso qualsiasi cosa possa causare una simile disgrazia non appare sempre sgraziata o sgradevole. Spesso stimiamo di più un giovane, quando reagisce, anche con una certa violenza, a un ingiusto rimprovero rivolto al suo carattere o al suo onore. L’afflizione di una giovane donna innocente, causata da infondati pettegolezzi diffusi sulla sua condotta, appare spesso ben accetta. Persone in età avanzata, alle quali una lunga esperienza della follia e dell’ingiustizia del mondo ha insegnato a prestare poco riguardo sia alle sue critiche che ai suoi elogi, trascurano e disprezzano la calunnia, e non si degnano di onorare i suoi futili autori con un serio risentimento. Questa indifferenza, che si fonda interamente su una sicura fiducia nei loro caratteri ben collaudati e ben solidi, non sarebbe condivisibile nei giovani, che non possono né dovrebbero avere una tale fiducia. In loro potrebbe essere il segnale di un’inappropriata insensibilità verso il reale onore e la reale infamia negli anni a venire.

20. In tutte le altre sventure private che ci colpiscono immediatamente e indirettamente, molto raramente possiamo dar fastidio perché sembriamo troppo poco colpiti. Spesso ci ricordiamo con piacere e soddisfazione della nostra sensibilità per le sventure altrui, ma raramente riusciamo a ricordarci della sensibilità verso le nostre senza un certo grado di vergogna e umiliazione.

21. Se esaminiamo le diverse sfumature e gradazioni di debolezza e di autocontrollo, così come le troviamo nella vita comune, ci convinciamo molto facilmente che questo controllo dei nostri sentimenti passivi si deve acquisire non con l’astruso sillogismo di un cavilloso dialettico, ma con la grande disciplina stabilita dalla Natura per l’acquisizione di questa e di ogni altra virtù: un riguardo per i sentimenti del reale o presunto spettatore della nostra condotta.

22. Un bambino molto piccolo non ha dominio di sé, ma, qualsiasi siano le sue emozioni, paura, pena o rabbia, cerca sempre, con la violenza delle sue grida, di richiamare più che può l’attenzione della sua balia o dei suoi genitori. Finché rimane sotto la custodia di questi protettori parziali, la prima e forse unica passione che gli si insegna a moderare è la rabbia. Con sgridate e minacce, essi sono spesso obbligati per loro tranquillità a costringerlo a calmarsi, e la sua aggressività è trattenuta dalla passione che gli insegna a badare alla propria sicurezza. Quando è in età scolare, o quando comincia a frequentare i suoi simili, scopre presto che essi non mostrano una così indulgente parzialità. Naturalmente, desidera guadagnarsi il loro favore, ed evitare il loro odio e il loro disprezzo. Anche il riguardo per la propria integrità gli insegna a farlo, e impara presto che non può riuscirci se non moderando non solo la sua rabbia, ma tutte le sue altre passioni, fino a un livello che risulti piacevole per i suoi compagni di gioco e amici. Così entra a far parte della grande scuola del dominio di sé, si sforza sempre più di essere padrone di se stesso, e comincia a esercitare sui suoi sentimenti una disciplina che neanche la pratica di una lunga vita è sufficiente a perfezionare.

23. In tutte le sventure private, nelle situazioni di dolore, malattia, sofferenza, l’uomo più debole, quando il suo amico, e ancor più quando un estraneo, gli fa visita rimane subito impressionato dal modo in cui probabilmente essi guardano alla sua situazione. Il loro modo di vedere distoglie la sua attenzione dal suo, e il suo animo in una certa misura si placa nel momento in cui essi arrivano al suo cospetto. Questo effetto si produce istantaneamente, e come meccanicamente, ma in un individuo debole non è duraturo. Subito gli ritorna in mente il proprio modo di vedere. E come prima si abbandona ai singhiozzi, alle lacrime, alle lamentele, e cerca, come un bambino che non va ancora a scuola, di produrre una certa armonia tra la sua pena e la compassione dello spettatore, non moderando la prima, ma richiamando insistentemente la seconda.

24. In un uomo dotato di una maggiore fermezza l’effetto è un po’ più duraturo. Egli cerca più che può di fissare la sua attenzione sul modo in cui presumibilmente i suoi ospiti considereranno la sua situazione. Allo stesso modo, egli sente la loro stima e approvazione per il fatto che riesce a mantenere la sua tranquillità, e sebbene sia sotto pressione per qualche disgrazia grave e recente, mostra di non sentire per se stesso più di quanto essi non sentano per lui. Si autoapprova e autoelogia per simpatia con la loro approvazione, e il piacere che ottiene da questo sentimento lo sostiene e gli dà la forza di continuare nel suo generoso sforzo. Nella maggior parte dei casi evita di menzionare la sua sventura, e i suoi ospiti, se sono sufficientemente educati, stanno ben attenti a non dire nulla che gliela possa ricordare. Egli cerca di intrattenerli come al solito su questioni generiche, oppure, se si sente abbastanza forte da arrischiarsi a far riferimento alla sua sventura, si sforza di parlarne e persino di sentirla come crede che siano capaci di parlarne o di sentirla loro. Tuttavia, se non si è ben assuefatto all’ardua disciplina del dominio di sé, si stanca presto di trattenersi. Se la visita dura a lungo, si sente affaticato, e verso la fine rischia sempre di fare ciò che fa sempre quando è terminata: abbandonarsi a tutta la debolezza della sua grande sofferenza. Le moderne buone maniere, che sono estremamente indulgenti verso la debolezza umana, proibiscono, per un certo tempo, le visite di estranei a persone che stanno vivendo gravi disgrazie familiari, e permettono solo quelle dei parenti più stretti e degli amici più intimi. Si ritiene che la loro presenza imponga meno di trattenersi, e chi soffre può adattarsi più facilmente ai sentimenti di coloro da cui si aspetta una più indulgente simpatia. I nemici segreti, che si illudono di non esser noti come tali, spesso amano fare queste visite caritatevoli senza aspettare il tempo dovuto, come se fossero degli amici intimi. In questi casi, anche l’uomo più debole del mondo si sforza di mantenere un contegno virile, e, indignato e disgustato dalla loro malignità, cerca di comportarsi con la massima spensieratezza e disinvoltura che può.

25. L’uomo dotato di reale costanza e fermezza, l’uomo saggio e giusto compiutamente educato alla grande scuola del dominio di sé, nel trambusto e nelle occupazioni del mondo, esposto, forse, alla violenza e alla ingiustizia della faziosità, e alle privazioni e ai pericoli della guerra, mantiene in ogni occasione il controllo dei suoi sentimenti passivi, e sia in solitudine che in società mostra pressoché lo stesso contegno, ed è colpito quasi nello stesso modo. Nel successo e nelle insoddisfazioni, nella prosperità e nell’avversità, davanti agli amici come davanti ai nemici, è spesso nella necessità di mantenere questo atteggiamento coraggioso. Non osa mai dimenticare nemmeno per un istante il giudizio che lo spettatore imparziale darebbe sui suoi sentimenti e sulla sua condotta. Non osa mai distogliere la sua attenzione dall’uomo interiore. È sempre stato abituato a considerare tutto ciò che lo riguarda con gli occhi di questo grande inquilino del suo cuore. Questa abitudine gli è diventata del tutto familiare. Si è sempre allenato, e di fatto ha sempre avuto la necessità, di modellare, o di tentare di modellare, non solo la sua condotta e il suo comportamento interiore, ma, più che può, anche i suoi sentimenti ed emozioni interiori su quelle di questo giudice terribile e rispettabile. Non finge semplicemente i sentimenti dello spettatore imparziale. Li adotta davvero. Quasi si identifica con lui, diventando quasi lui stesso quell’imparziale spettatore, e non sente quasi mai altro che quel che questo grande arbitro della sua condotta gli ordina di sentire.

26. Il grado di autoapprovazione con cui ogni uomo in tali occasioni misura la sua condotta è maggiore o minore esattamente in proporzione al grado di dominio di sé necessario per ottenere quell’autoapprovazione. Minore il dominio di sé necessario, minore l’autoapprovazione dovuta. Chi si è soltanto graffiato un dito, non può elogiarsi molto, anche se dovesse subito mostrare di aver dimenticato questa irrisoria disgrazia. Chi ha perso una gamba per una cannonata, e subito dopo parla e agisce con la solita calma e tranquillità, sente un’autoapprovazione molto maggiore, perché esercita un dominio di sé molto maggiore. In molti uomini, in simili situazioni, il naturale punto di vista personale sulla propria disgrazia si imporrebbe su di loro con una tale vivacità e a tinte così forti da cancellare del tutto il pensiero di ogni altro punto di vista. Non sentirebbero altro che il proprio dolore e la propria paura, e non riuscirebbero a prestare attenzione a nient’altro; e non sarebbe solo il giudizio dell’ideale uomo interiore a essere del tutto trascurato e ignorato, ma anche quello degli spettatori reali che potrebbero essere presenti.

27. La ricompensa che la Natura concede al buon comportamento nelle sventure è, così, esattamente proporzionale al grado di quel buon comportamento. Il solo compenso che essa potrebbe forse offrire all’acutezza del dolore e della disgrazia è, così, per gradi uguali di buon comportamento, esattamente proporzionato al grado di quel dolore e di quella disgrazia. In proporzione al grado di dominio di sé necessario per vincere la nostra naturale sensibilità, aumentano anche il piacere e l’orgoglio della vittoria, e questo piacere e questo orgoglio sono talmente grandi che nessun uomo che li provi può essere del tutto infelice. La miseria e l’infelicità non possono mai penetrare in un animo in cui dimori la completa soddisfazione e, sebbene possa essere forse eccessivo affermare, con gli Stoici, che in una situazione come quella descritta sopra la felicità di un uomo saggio è sotto ogni riguardo uguale a quella che sarebbe potuta essere in qualsiasi altra circostanza, tuttavia bisogna almeno riconoscere che provare questo autoelogio deve certamente alleviare di molto il senso delle proprie sofferenze, anche se non può cancellarlo del tutto.

28. All’estremo livello delle sue disgrazie, l’uomo più saggio e dotato di maggior fermezza, per preservare la sua imparzialità, è obbligato, credo, a fare uno sforzo considerevole, e anche doloroso. Il proprio modo naturale di sentire la sua disgrazia personale, il proprio modo naturale di vedere la sua personale situazione, esercitano su di lui una forte pressione, ed egli non riesce, se non con un grande sforzo, a fissare la sua attenzione su quello dello spettatore imparziale. Entrambi i modi di vedere gli si presentano allo stesso tempo. Il suo senso dell’onore, il suo riguardo per la propria dignità, lo indirizzano a fissare tutta la sua attenzione sull’uno. I suoi sentimenti naturali, spontanei e indisciplinati, lo richiamano continuamente verso l’altro. In questo caso, egli non si identifica perfettamente con l’ideale uomo interiore, non diventa egli stesso lo spettatore imparziale della sua condotta. I modi di vedere di entrambi coesistono nella sua mente separati e distinti l’uno dall’altro, e ognuno lo indirizza verso un comportamento diverso da quello verso cui lo indirizza l’altro. Quando egli segue il modo di vedere indicato dall’onore e dalla dignità, la Natura non lo lascia senza ricompensa. Egli gode della propria completa autoapprovazione, e dell’elogio di ogni spettatore obiettivo e imparziale. Tuttavia, per le inalterabili leggi della Natura, nondimeno soffre, e la ricompensa che essa gli elargisce, sebbene notevole, non è del tutto sufficiente a risarcirlo delle sofferenze inflittegli con le sue leggi, e nemmeno conviene che questo accada. Se quelle sofferenze fossero del tutto risarcite, egli, per il suo interesse egoistico, non avrebbe motivo di evitare un incidente che diminuirebbe la sua utilità per se stesso e per la società, e la Natura, per la sua amorevole cura di entrambi, ha voluto che egli dovesse ansiosamente evitare ogni accidente simile. Perciò egli soffre, e sebbene, nell’agonia delle sue disgrazie giunte all’estremo livello, mantenga non solo la virilità del contegno, ma anche la pacatezza e sobrietà del giudizio, per farlo sono necessari i suoi più grandi e faticosi sforzi.

29. Per la costituzione della natura umana, tuttavia, l’agonia non può mai essere permanente, e, se egli sopravvive al livello estremo da essa raggiunto, arriva senza alcuno sforzo a godere della sua ordinaria tranquillità. Un uomo con una gamba di legno senza dubbio soffre, e prevede di dover continuare a soffrire, per il resto della sua vita, un disturbo davvero grande. Presto, tuttavia, arriva a considerarlo esattamente come lo considera ogni spettatore imparziale, come un disturbo con il quale può godere di tutti i normali piaceri della solitudine o della compagnia. Si identifica presto con l’ideale uomo interiore, diventa presto lui stesso lo spettatore imparziale della propria situazione. Allora non piange più, non si lamenta più, non pena più come spesso fa un uomo debole da principio. Il modo di vedere dello spettatore imparziale diventa per lui del tutto abituale, tanto che, senza sforzo alcuno, non pensa mai di guardare alla sua sventura da nessun altro punto di vista.

30. Il fatto che sicuramente, presto o tardi, gli uomini si adattano a qualunque situazione diventi per loro permanente può forse indurci a pensare che gli Stoici fossero, almeno su questo punto, molto vicini alla verità, nel sostenere che tra una situazione permanente e un’altra non c’è una differenza essenziale per quel che riguarda la vera felicità, o che un’eventuale differenza sarebbe appena sufficiente a rendere quelle due situazioni oggetti di una semplice scelta o preferenza, ma non di qualche ardente o fervido desiderio, e a renderne altre oggetti di un semplice rifiuto, come se fossero idonee a esser messe da parte o evitate, ma non di un rifiuto ardente e fervido. La felicità consiste nella tranquillità e nel diletto. Senza tranquillità non può esserci alcun diletto, e dove c’è una perfetta tranquillità non c’è quasi niente che non riesca a divertire. Ma in ogni situazione permanente, nella quale non ci si aspettano cambiamenti, la mente di ogni uomo, in un tempo più lungo o più breve, torna al suo naturale e abituale stato di tranquillità. Nelle situazioni di prosperità, dopo un certo tempo, ricade indietro verso quello stato; nelle situazioni di avversità, dopo un certo tempo, risale verso di esso. Nella segregazione e nella solitudine della Bastiglia, dopo un certo periodo di tempo, l’affascinante e frivolo conte de Lauzun recuperò sufficiente tranquillità per divertirsi a dar da mangiare a un ragno. Una mente meglio provvista avrebbe forse ritrovato prima la sua tranquillità e scoperto prima, nei propri pensieri, un divertimento molto migliore.

31. La grande fonte sia della miseria che dei disordini della vita umana sembra derivare dalla sopravvalutazione di una situazione permanente sull’altra. L’avarizia sopravvaluta la differenza tra povertà e ricchezza; l’ambizione, quella tra uno stato privato e uno pubblico; la vanagloria, quella tra l’essere sconosciuti e il godere di un’ampia reputazione. La persona influenzata da queste stravaganti passioni non è solo miserabile nella sua situazione effettiva, ma è spesso disposta a disturbare la pace della società pur di raggiungere la situazione che egli tanto scioccamente ammira. Tuttavia, la minima osservazione potrebbe convincerlo che in tutte le situazioni ordinarie della vita umana una mente ben disposta può essere ugualmente calma, ugualmente allegra, ugualmente contenta. Alcune di queste situazioni possono senza dubbio meritare di essere preferite ad altre, ma nessuna merita di essere perseguita con quell’ardore appassionato che ci spinge a violare le regole della prudenza o della giustizia, o a rovinare la futura tranquillità delle nostre menti per la vergogna del ricordo della nostra stupidità, o per il rimorso dell’orrore della nostra ingiustizia. Quando il tentativo di cambiare la nostra situazione non è diretto dalla prudenza e consentito dalla giustizia, chi lo compie gioca al più iniquo dei giochi d’azzardo, scommettendo tutto contro quasi niente. Quel che il prediletto del re dell’Epiro disse al suo signore può essere applicato a tutti gli uomini nelle normali situazioni della vita umana. Dopo che il re gli aveva elencato, nel giusto ordine, tutte le conquiste che si proponeva di fare, ed era giunto all’ultima di esse, il Prediletto disse: «E cosa si propone di fare sua maestà dopo?». «Dopo» disse il re «mi propongo di divertirmi insieme ai miei amici e di cercare di esser un buon compagno di bagordi.» «E cosa vi impedisce di farlo ora?» rispose il Prediletto. Nelle situazioni più splendide ed esaltanti che la nostra vana fantasia può presentarci, i piaceri da cui ci proponiamo di ottenere la nostra reale felicità sono quasi sempre uguali a quelli che abbiamo in ogni momento a portata di mano e in nostro potere nel nostro stato effettivo, per quanto umile esso possa essere. Nel più umile degli stati, quando c’è la libertà personale, possiamo trovare ogni piacere offerto dallo stato più esaltante, tranne i frivoli piaceri della vanità e della superiorità, e i piaceri della vanità e della superiorità sono raramente conciliabili con la perfetta tranquillità, principio e fondamento di ogni reale e soddisfacente diletto. E non è sempre certo che nella splendida situazione cui aspiriamo potremmo godere di quei piaceri reali e soddisfacenti con la stessa sicurezza che mostriamo nello stato umile, che siamo così ansiosi di abbandonare. Prendete in esame le testimonianze storiche, ricordate quel che è accaduto nell’ambito della vostra esperienza personale, considerate con attenzione quale è stata la condotta, nella vita privata come in quella pubblica, di quasi tutti gli sventurati di cui avete letto o sentito, o di cui vi ricordate, e troverete che le sventure della maggior parte di essi sono derivate dal fatto che non sapevano riconoscere quando stavano bene, quando era per loro conveniente mettersi a sedere e accontentarsi. L’iscrizione sulla lapide dell’uomo che aveva cercato di migliorare la propria accettabile costituzione prendendo medicinali: «Stavo bene; ma per star meglio, sto qui» può essere in generale giustamente applicata all’angoscia dell’avidità e dell’ambizione frustrate.

32. Può esser ritenuta un’osservazione singolare, ma io la ritengo giusta, che in tutte le sventure che consentono un rimedio la maggior parte degli uomini non recupera la naturale e solita tranquillità così presto o così universalmente come nelle sventure che semplicemente non ne consentono alcuno. Nelle sventure del secondo tipo, è soprattutto in quello che può esser chiamato il livello estremo, o nel primo attacco, che possiamo scoprire tutte le notevoli differenze tra i sentimenti e il comportamento del saggio e quelli dell’uomo debole. Alla fine il Tempo, il grande e universale consolatore, gradualmente conduce l’uomo debole allo stesso grado di tranquillità che l’uomo saggio assume fin dall’inizio, per riguardo alla propria dignità e umanità. Esempio ovvio di ciò è l’uomo con la gamba di legno. Nell’irreparabile sventura causata dalla morte di figli, o di amici, o di parenti, persino un uomo saggio può per un certo tempo lasciarsi andare a una misurata sofferenza. Una donna affettuosa, ma debole, in tali occasioni è del tutto sconvolta. Il Tempo, tuttavia, in un periodo maggiore o minore, non manca mai di riportare anche la più debole delle donne allo stesso grado di tranquillità del più forte degli uomini. In tutte le irreparabili disgrazie che lo colpiscono immediatamente e direttamente, un uomo saggio si sforza fin da principio di anticipare e di godere in anticipo di quella tranquillità che prevede che nel corso di cinque mesi, o di cinque anni, sicuramente alla fine lo conforterà.

33. Nelle sventure per le quali la natura delle cose ammette, o sembra ammettere, un rimedio, ma in cui i mezzi per applicare tale rimedio sono al di fuori della portata di colui che soffre, i suoi tentativi vani e infruttuosi di tornare alla situazione precedente, la sua continua ansia per il loro esito, le sue ripetute delusioni di fronte agli insuccessi, sono quel che soprattutto gli impedisce di recuperare la sua naturale tranquillità. Se gli fosse invece capitata una sventura anche maggiore, ma che evidentemente non ammetteva alcun rimedio, egli non solo non avrebbe trascorso una vita tanto miserabile, ma non sarebbe stato disturbato nemmeno per quindici giorni. Nella caduta dalla posizione di favorito del re a una di disgrazia, dal potere all’insignificanza, dalla ricchezza alla povertà, dalla libertà alla reclusione, dalla piena salute a una qualche lenta, terribile e forse incurabile malattia, l’uomo che si dibatte di meno, che si arrende più facilmente e prontamente alla sorte che gli è toccata, ritrova molto presto la sua abituale e naturale tranquillità. Egli inoltre riesce a esaminare le circostanze più spiacevoli della sua effettiva situazione nella stessa luce, o, forse, in una luce molto meno sfavorevole di quella in cui è disposto a esaminarle lo spettatore più indifferente. La faziosità, l’intrigo e la congiura disturbano la quiete dello statista in disgrazia. I progetti stravaganti, le visioni di miniere d’oro interrompono il riposo di chi è in rovina per debiti. Il prigioniero che progetta continuamente la fuga dal carcere non può godere della tranquilla sicurezza che anche una prigione può offrirgli. I farmaci prescritti dal medico sono spesso il tormento più grande per il paziente incurabile. Il frate che, per consolare Giovanna di Castiglia della morte del consorte Filippo, le raccontò di un re che quattordici anni dopo il suo decesso era stato riportato in vita dalle preghiere della sua afflitta regina, probabilmente, con la sua leggenda, non riuscì a riportare la pacatezza nella mente turbata di quell’infelice principessa. Ella cercò di ripetere lo stesso esperimento sperando nello stesso successo; si oppose per lungo tempo alla sepoltura del marito, non molto dopo trasse il suo corpo dalla fossa, lo vegliò personalmente di continuo, e scrutò, con tutta l’impaziente ansietà di un’attesa frenetica, il felice momento in cui le sue preghiere sarebbero state premiate dalla resurrezione del suo amato Filippo.

34. La nostra sensibilità verso i sentimenti degli altri, lungi dall’essere in contraddizione con la virile dote del dominio di sé, è proprio il principio su cui essa si fonda. Proprio lo stesso principio o istinto che, di fronte alla sventura del nostro prossimo, ci spinge a compatire la sua sofferenza, nella nostra sventura ci spinge a trattenere le abiette e miserabili lamentele della nostra sofferenza. Lo stesso principio o istinto che, di fronte alla sua prosperità e al suo successo, ci spinge a congratularci con la sua gioia, nella nostra prosperità e nel nostro successo ci spinge a trattenere la leggerezza e l’intemperanza della nostra gioia. In entrambi i casi, l’inappropriatezza delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti sembra esattamente proporzionale alla vivacità e alla forza con cui prendiamo parte alle sue emozioni e ai suoi sentimenti e ce li rappresentiamo.

35. L’uomo dalla virtù perfetta, l’uomo che naturalmente più ama e più riverisce è quello che al perfetto controllo delle proprie originarie ed egoistiche emozioni unisce la più viva sensibilità per le originarie e simpatetiche emozioni degli altri. L’uomo che a tutte le virtù dolci, amabili e gentili unisce quelle grandi, terribili e rispettabili, deve essere sicuramente il naturale e appropriato oggetto del nostro più grande amore e della nostra più grande ammirazione.

36. La persona che è per sua natura più adatta ad acquisire le virtù del primo gruppo è altrettanto adatta ad acquisire quelle del secondo. L’uomo che sente di più le gioie e le sofferenze degli altri è più adatto ad acquisire il più completo controllo delle proprie gioie e delle proprie sofferenze. L’uomo più benevolo è naturalmente il più capace di acquisire il più alto grado di dominio di sé. Tuttavia, può capitare, e spesso capita, che non lo acquisisca. Può esser vissuto per troppo tempo agiatamente e tranquillamente. Può non esser mai stato esposto alla violenza delle fazioni, o alle avversità e ai rischi della guerra. Può non aver mai sperimentato l’insolenza dei suoi superiori, la gelosia e l’invidia maligna dei suoi pari, e le ruberie dei suoi subalterni. Quando, in età avanzata, qualche accidentale mutamento di fortuna lo espone a tutto questo, egli ne riceve un’impressione troppo grande. Possiede la disposizione che lo rende adatto ad acquisire il più perfetto dominio di sé, ma non ha mai avuto l’opportunità di acquisirlo. Gli sono mancati esercizio e pratica, e senza queste nessuna abitudine si può instaurare in modo apprezzabile. Le avversità, i pericoli, le offese, le sventure sono gli unici maestri sotto i quali possiamo imparare l’esercizio di questa virtù. Ma sono tutti maestri ai quali nessuno si sottomette volontariamente.

37. Le situazioni in cui può essere coltivata con migliori risultati la gentile virtù dell’umanità e quelle più adatte a sviluppare l’austera virtù del dominio di sé non sono affatto le stesse. L’uomo con l’animo tranquillo può occuparsi meglio delle disgrazie degli altri. L’uomo esposto personalmente alle avversità è più immediatamente chiamato a occuparsi dei propri sentimenti, e a controllarli. Al tiepido sole della tranquillità indisturbata, nella calma solitudine del misurato ozio filosofico, la mite virtù dell’umanità prospera al massimo e riesce a valorizzarsi al più alto livello. Ma in simili situazioni i più grandi e più nobili sforzi di dominio di sé sono scarsamente esercitati. È sotto il cielo agitato e tempestoso della guerra e della faziosità, della pubblica sommossa e confusione, che maggiormente prospera e meglio può essere coltivata la risoluta severità del dominio di sé. Ma in simili situazioni i più forti stimoli di umanità devono spesso venir soffocati e trascurati, e ogni volta che lo sono il principio di umanità ne esce indebolito. Spesso rientra nei doveri del soldato non accettare la grazia, così come spesso rientra nei suoi doveri non concederla, e l’umanità di chi si è trovato spesso a doversi sottomettere a questo spiacevole dovere raramente riesce a mantenersi intatta. Per la propria tranquillità, è troppo portato a non dare importanza alle sventure che così spesso è costretto a causare, e le situazioni che richiedono le più nobili prove di dominio di sé, dal momento che impongono a volte di violare la proprietà, a volte la vita del nostro prossimo, tendono sempre a diminuire, e troppo spesso a estinguere del tutto, quel sacro rispetto per entrambe che è a fondamento della giustizia e dell’umanità. È a causa di ciò che così di frequente troviamo nel mondo individui di grande umanità e scarso dominio di sé, che sono però indolenti e indecisi, e che si perdono facilmente d’animo, per la difficoltà o per il pericolo, di fronte alle occupazioni più onorevoli, e, al contrario, individui capaci di perfetto dominio di sé, che non si scoraggiano di fronte a nessuna difficoltà, che non si spaventano di fronte a nessun pericolo, e che sono sempre pronti per le imprese più audaci e disperate, ma che, allo stesso tempo, sembrano refrattari a ogni senso di giustizia e umanità.

38. Quando siamo soli, tendiamo a sentire in modo troppo forte ciò che riguarda noi stessi: tendiamo a sopravvalutare quanto di buono possiamo aver compiuto e le offese che possiamo aver subito; tendiamo a esaltarci troppo per la nostra buona sorte, e ad abbatterci troppo per quella cattiva. Allora ci fa bene conversare con un amico, e ancor più con un estraneo. L’uomo interiore, l’astratto e ideale spettatore dei nostri sentimenti e della nostra condotta, ha bisogno spesso di essere svegliato e richiamato al suo dovere dalla presenza dello spettatore reale, ed è sempre da quello spettatore, da cui non possiamo aspettarci che la minima simpatia e la minima indulgenza, che con ogni probabilità impareremo la più completa lezione di dominio di noi stessi.

39. Ti trovi in una situazione avversa? Non piangere nell’oscurità della solitudine, non regolare la tua sofferenza sulla simpatia indulgente dei tuoi amici intimi: torna il più presto possibile alla luce del giorno, al mondo, alla società. Vivi insieme a estranei, insieme a chi non sa niente della tua sventura, o che non se ne cura per niente. Non sfuggire la compagnia dei nemici, ma concediti il piacere di mortificare la loro gioia maligna, facendogli sentire quanto sei poco colpito dalla tua disgrazia, e quanto le sei al di sopra.

40. Ti trovi in una situazione favorevole? Non godere della tua buona fortuna tra le mura di casa tua, del gruppo dei tuoi amici, o forse dei tuoi adulatori, di coloro che ripongono nella tua fortuna la speranza di migliorare la propria: frequenta chi è autonomo da te, chi può apprezzarti solo per il tuo carattere e la tua condotta, e non per la tua fortuna. Non cercare né sfuggire, non ti imporre e non evitare la compagnia di quelli che un tempo erano tuoi superiori, e che potrebbero irritarsi nel trovarti loro pari, o forse persino loro superiore. L’impertinenza del loro orgoglio, forse, renderà anche spiacevole la loro compagnia, ma, se così non dovesse essere, stai pur certo che è la migliore compagnia possibile da frequentare, e se, per la semplicità del tuo comportamento senza pretese, riuscirai a ottenere il loro favore e la loro gentilezza, potrai convincerti che sei sufficientemente modesto, e che la fortuna non ti ha per niente montato la testa.

41. L’appropriatezza dei nostri sentimenti morali non è mai tanto in pericolo di venir corrotta quanto quando è vicino lo spettatore indulgente e parziale, mentre quello indifferente e imparziale è a una grande distanza.

42. Le nazioni neutrali sono gli unici spettatori indifferenti e imparziali della condotta di una nazione indipendente verso un’altra. Però esse sono a una tale distanza da essere praticamente fuori della vista. Quando due nazioni sono in disaccordo, il cittadino di ognuna di esse presta poca considerazione ai sentimenti che le nazioni straniere possono nutrire verso la sua condotta. La sua unica ambizione è di ottenere l’approvazione dei suoi concittadini, e dal momento che essi sono tutti animati dalle stesse passioni ostili che animano lui, in nessun modo riesce a compiacerli di più che irritando e offendendo i loro comuni nemici. Lo spettatore parziale è vicino, quello imparziale è a una grande distanza. Durante la guerra e i negoziati, perciò, le leggi di giustizia vengono raramente osservate. La verità e la trattativa leale sono quasi del tutto ignorate. Vengono violati i trattati, e la violazione, se porta qualche vantaggio, non getta alcun disonore sul violatore. L’ambasciatore che inganna il ministro di una nazione straniera viene ammirato ed elogiato. L’uomo giusto, che disdegna sia di trarre vantaggi che di concederli, ma che si sentirebbe meno disonorato nel concederli, l’uomo che in tutti gli affari privati sarebbe il più amato e il più stimato, in quelli pubblici è considerato come un pazzo e un idiota, che non comprende i suoi interessi, e incorre sempre nel disprezzo, e a volte anche nell’odio, dei suoi concittadini. In guerra, non solo quelle che vengono chiamate le leggi delle nazioni sono frequentemente violate senza che il violatore venga disonorato agli occhi dei suoi concittadini, che sono gli unici di cui tenga in considerazione il giudizio, ma quelle stesse leggi sono per la maggior parte scritte senza alcun riguardo per le più semplici e più ovvie regole di giustizia. Una delle più chiare e ovvie regole di giustizia è quella secondo cui gli innocenti, anche nel caso abbiano avuto qualche connessione o legame con i colpevoli (legame che forse non hanno potuto evitare), non dovrebbero a causa di ciò soffrire o venir puniti al posto dei colpevoli. Tuttavia, nella guerra più ingiusta, comunemente i soli colpevoli sono il sovrano e i governanti. I sudditi sono quasi sempre del tutto innocenti. Sono i beni dei pacifici cittadini che tuttavia vengono confiscati, in terra e in mare, secondo la convenienza del nemico; i loro terreni vengono lasciati incolti, le loro case vengono bruciate, e loro stessi, se cercano di fare qualche resistenza, vengono uccisi o fatti prigionieri, e tutto questo in perfetta conformità a quelle che sono chiamate le leggi delle nazioni.

43. L’animosità delle fazioni ostili, sia civili che ecclesiastiche, è spesso ancor più violenta di quella delle nazioni ostili, e la loro condotta reciproca è spesso ancora più atroce. Quelle che si possono definire le leggi delle fazioni sono state spesso formulate da autorevoli scrittori con un riguardo per le regole di giustizia minore che nel caso delle leggi delle nazioni. Il patriota più acceso non ha mai formulato come domanda seria «Si dovrebbe tener fede ai pubblici nemici? » mentre le domande «Si dovrebbe tener fede ai ribelli? Si dovrebbe tener fede agli eretici?» sono state tutte spesso dibattute con furore da illustri dottori sia laici che ecclesiastici. Non è necessario rilevare, suppongo, che sia i ribelli che gli eretici sono quelle sfortunate persone che, quando le cose sono arrivate a un certo grado di violenza, hanno avuto la sventura di trovarsi dalla parte più debole. In una nazione sconvolta dalla faziosità, ci sono sempre, senza dubbio, alcune, per quanto comunemente pochissime, persone che conservano il loro giudizio immune dal comune contagio. Il più delle volte non si tratta altro che di un individuo solitario, senza alcuna influenza, escluso, proprio a causa della sua imparzialità, dalla confidenza di entrambe le parti e che, nonostante spesso sia uno degli uomini più saggi della società, è necessariamente, proprio per questo, uno dei più insignificanti. Persone del genere sono disprezzate e derise, spesso odiate, dai furiosi fanatici di entrambe le parti. Un vero uomo di parte odia e disprezza l’imparzialità, e, in realtà, non c’è vizio che possa renderlo inadatto all’attività di partito più di quanto non lo faccia quell’unica virtù. Perciò, in nessun’altra occasione il reale, riverito, e imparziale spettatore è più lontano che in mezzo alla violenza e alla collera delle opposte fazioni. Si può dire che per esse non esista nessuno spettatore imparziale in nessun luogo dell’universo. Esse attribuiscono persino al grande giudice dell’universo tutti i loro pregiudizi, e spesso considerano quell’Essere divino animato dalle loro stesse passioni implacabili e vendicative. Perciò, la faziosità e il fanatismo sono sempre stati di gran lunga i maggiori corruttori dei sentimenti morali.

44. Riguardo all’argomento del dominio di sé, aggiungerò solo che la nostra ammirazione per l’uomo che, sotto le più dure e inattese sventure, continua a comportarsi con forza e fermezza, parte sempre dal presupposto che la sua sensibilità verso quelle sventure sia molto grande, e tale da richiedere un grande sforzo per essere vinta o dominata. Un uomo del tutto insensibile al dolore fisico non meriterebbe nessun elogio nel sopportare la tortura con la più perfetta pazienza e serenità. Un uomo creato senza la naturale paura della morte non potrebbe pretendere alcun merito nel mantenere la sua freddezza e presenza mentale tra i più terribili pericoli. È una delle stravaganze di Seneca l’affermare che il saggio Stoico è, sotto questo aspetto, superiore persino a un Dio; che la sicurezza del Dio è completamente beneficio della Natura, che gli ha risparmiato di soffrire, mentre la sicurezza dell’uomo saggio è un suo beneficio, derivato completamente da lui stesso e dai suoi propri sforzi.

45. Tuttavia, la sensibilità di alcuni uomini verso alcuni degli oggetti che li colpiscono in modo immediato è talvolta talmente forte da rendere impossibile ogni dominio di sé. Nessun senso dell’onore riesce a controllare le paure dell’uomo tanto debole da svenire, o da farsi prendere dalle convulsioni quando si avvicina il pericolo. È dubbio che a questa debolezza di nervi si possa rimediare con esercizio graduale e appropriata disciplina. È invece certo che non dovremmo mai fidarci di essa, o lasciarle spazio.


 
CAPITOLO IV La natura dell’autoinganno e l’origine e l’uso delle regole generali


1. Non è sempre necessario che il reale e imparziale spettatore sia a una grande distanza perché la rettitudine dei nostri giudizi sull’appropriatezza della nostra condotta ne risulti corrotta. Quando è vicino, quando è presente, la violenza e l’ingiustizia delle nostre passioni egoistiche a volte sono sufficienti a spingere l’uomo interiore a fare un resoconto molto diverso da quello che le reali circostanze del caso autorizzerebbero.

2. Ci sono due diverse occasioni nelle quali esaminiamo la nostra condotta e ci sforziamo di vederla nella luce in cui la vedrebbe lo spettatore imparziale: primo, quando stiamo per agire, secondo, dopo aver agito. Il nostro modo di vedere tende a essere molto parziale in entrambi i casi, ma molto di più quando è della massima importanza che non lo sia.

3. Quando stiamo per agire, la violenza delle passioni raramente ci consentirà di considerare quel che stiamo per fare con l’imparzialità di una persona indifferente. Le emozioni violente che ci turbano in quel momento offuscano il nostro modo di vedere le cose; anche quando ci sforziamo di metterci nei panni di un altro e di guardare gli oggetti che ci interessano nella luce in cui apparirebbero a lui, la furia delle nostre passioni ci richiama continuamente indietro al nostro posto, dal quale ogni cosa ci appare amplificata e mal rappresentata a causa dell’amor di sé. Della maniera in cui quegli oggetti apparirebbero a un altro, della visione che egli ne trarrebbe, non possiamo ottenere altro che delle apparizioni momentanee, che svaniscono in un attimo, e che, anche mentre durano, non sono del tutto corrette. Non riusciamo neanche per quel solo momento a spogliarci interamente del calore e del fervore che la nostra particolare situazione suscita in noi, né a considerare quel che stiamo per fare con l’imparzialità di un giudice equo. Le passioni, perciò, come dice il padre Malebranche, si autogiustificano, e sembrano razionali e proporzionate ai loro oggetti, per tutto il tempo in cui continuiamo a sentirle.

4. Quando l’azione è conclusa, e le passioni che l’hanno sollecitata si sono acquietate, possiamo più freddamente prender parte ai sentimenti dello spettatore indifferente. Quel che prima ci interessava ora ci diventa indifferente quasi quanto lo è sempre stato per lui, e ora possiamo esaminare la nostra condotta con la sua schiettezza e imparzialità. L’uomo di oggi non è più agitato dalle stesse passioni che turbavano l’uomo di ieri, e quando l’estremo livello dell’emozione è completamente passato, allo stesso modo di quando è passato l’estremo livello dell’angoscia, riusciamo a identificarci con l’ideale uomo interiore e a vedere la nostra situazione in un caso, la nostra condotta nell’altro, con gli occhi severi dello spettatore più imparziale. Ma i nostri attuali giudizi sono spesso poco importanti al confronto di quelli precedenti, e spesso non producono altro che vano rammarico e inutile pentimento, senza metterci sempre al sicuro da errori simili nel futuro. Tuttavia, sono raramente del tutto imparziali anche in questo caso. L’opinione che abbiamo sul nostro carattere dipende del tutto dai nostri giudizi sulla condotta tenuta in passato. È talmente spiacevole pensar male di noi stessi, che spesso distogliamo di proposito la nostra attenzione da quelle circostanze che potrebbero rendere sfavorevole il giudizio. È un chirurgo audace, si dice, quello a cui non tremano le mani quando compie un’operazione sulla sua persona, ed è altrettanto audace chi non esita a togliere il velo misterioso dell’autoillusione, che gli impedisce di vedere le deformità della sua propria condotta. Piuttosto che vedere il nostro comportamento sotto questo aspetto così spiacevole, troppo spesso noi, stupidamente e debolmente, cerchiamo di provocare di nuovo quelle passioni ingiuste che ci hanno precedentemente sviato, cerchiamo di risvegliare artificiosamente i nostri vecchi odi, e suscitare di nuovo i nostri risentimenti quasi dimenticati. In questo proposito miserabile mettiamo tutto il nostro impegno, e così perseveriamo nell’ingiustizia solo perché un tempo siamo stati ingiusti, e perché ora ci vergogniamo e abbiamo paura di riconoscerlo.

5. Tale è la parzialità del modo di vedere degli uomini riguardo all’appropriatezza della loro condotta personale, sia nel momento dell’azione che dopo, e tale è la difficoltà che essi incontrano nel carcere di guardarla sotto la luce in cui la considererebbe ogni spettatore indifferente. Ma se essi giudicassero la loro condotta per mezzo di una facoltà particolare, come si suppone che sia il senso morale, se essi fossero dotati di un particolare potere di percezione, capace di distinguere la bellezza o la deformità delle passioni e delle affezioni, poiché le loro passioni sarebbero più immediatamente esposte alla vista di questa facoltà, essa le giudicherebbe in modo più accurato di come giudicherebbe quelle di altri uomini, più lontane dalla sua prospettiva.

6. Questo autoinganno, questa fatale debolezza dell’umanità è l’origine di metà dei turbamenti della vita umana. Se ci vedessimo nella luce in cui ci vedono gli altri, o in cui ci vedrebbero se fossero a conoscenza di ogni cosa, sarebbe generalmente inevitabile una correzione. Non potremmo altrimenti sopportare lo spettacolo.

7. La Natura, tuttavia, non ha lasciato del tutto senza rimedio questa debolezza così importante, e non ci ha abbandonato del tutto alle illusioni dell’amor di sé. Le nostre continue osservazioni sulla condotta degli altri impercettibilmente ci conducono a formarci certe regole generali su ciò che è adeguato e appropriato fare o evitare. Alcune delle loro azioni si scontrano con tutti i nostri sentimenti naturali. Sentiamo tutti intorno a noi esprimere lo stesso odio contro di esse. Questo conferma ancora di più, e anzi peggiora, il nostro naturale senso di ripugnanza nei loro confronti. Quando vediamo che altri le vedono sotto la stessa luce, ci convinciamo che quella è la luce appropriata. Decidiamo di non renderci mai colpevoli delle stesse azioni, e di non diventare per nessun motivo oggetti di universale disapprovazione. Così, in modo naturale, formuliamo per noi stessi una regola generale, secondo la quale tutte le azioni come quelle vanno evitate, perché tendono a renderci odiosi, disprezzabili, punibili, a renderci gli oggetti di tutti quei sentimenti per i quali proviamo il più grande disprezzo e avversione. Al contrario, altre azioni richiamano la nostra approvazione, e noi sentiamo che tutti intorno a noi esprimono la stessa opinione favorevole su di esse. Ognuno è ansioso di onorarle e ricompensarle. Esse suscitano tutti quei sentimenti verso i quali per natura proviamo il più vivo desiderio: l’amore, la gratitudine, l’ammirazione dell’umanità. Diventiamo ansiosi di compiere le stesse azioni, e così in modo naturale formuliamo per noi stessi una regola di altro tipo, secondo la quale ogni opportunità di agire in questa maniera va attentamente perseguita.

8. È così che vengono formulate le regole generali della moralità. Esse si fondano in ultima analisi sull’esperienza di ciò che in particolari casi le nostre facoltà morali, il nostro senso naturale del merito e dell’appropriatezza approvano o disapprovano. Noi non approviamo o condanniamo all’origine azioni particolari perché al nostro esame esse risultano in accordo o inconsistenti con una certa regola generale. Al contrario, la regola generale è formulata scoprendo per esperienza che tutte le azioni di un certo tipo, o caratterizzate in un certo modo, vengono approvate o disapprovate. L’uomo che per la prima volta ha visto un assassinio inumano commesso per cupidigia, invidia, o ingiusto risentimento, e per di più contro qualcuno che voleva bene all’assassino e aveva fiducia in lui, l’uomo che ha assistito all’estrema agonia del moribondo, che lo ha sentito, mentre esalava l’ultimo respiro, lamentarsi più per la perfidia e l’ingratitudine del suo falso amico che per la violenza da lui subita, quest’uomo, per concepire quanto quell’azione sia stata orribile, non avrebbe dovuto aspettare l’occasione per riflettere che una delle più sacre regole di condotta era quella che proibiva di togliere la vita a una persona innocente, che quella era una palese violazione di quella regola, e di conseguenza era un’azione molto biasimevole. È evidente che il suo odio per questo crimine sarebbe sorto all’istante e prima che egli si fosse dato una tale regola generale. Al contrario, la regola generale che egli potrebbe formulare in seguito sarebbe fondata sull’odio che egli necessariamente ha sentito sorgere nel suo cuore al pensiero di questa e di ogni altra particolare azione dello stesso tipo.

9. Quando leggiamo nella storia o nei racconti fantastici il resoconto di azioni basse o generose, l’apprezzamento che concepiamo per le une e il disprezzo che sentiamo per le altre non derivano nessuno dei due dal riflettere che ci sono alcune regole generali secondo le quali sono apprezzabili tutte le azioni di un tipo e disprezzabili tutte le azioni dell’altro tipo. Al contrario, quelle regole generali sono tutte formulate in base all’esperienza che abbiamo avuto degli effetti che le azioni dei diversi tipi producono naturalmente in noi.

10. Un’azione amabile, un’azione rispettabile, un’azione orrenda sono tutte azioni che suscitano naturalmente nella persona che le compie l’amore, il rispetto, l’orrore dello spettatore. Le regole generali che determinano quali azioni siano e quali non siano gli oggetti di quei sentimenti non si possono formulare in altro modo che osservando quali azioni in realtà e di fatto li fanno sorgere.

11. Quando queste regole generali sono state formulate, quando sono universalmente riconosciute e stabilite dagli unanimi sentimenti dell’umanità, spesso ci appelliamo a esse come a criteri di giudizio, quando discutiamo sul grado di lode o di biasimo dovuto ad azioni di natura complicata e dubbia. In queste occasioni esse vengono comunemente citate come i fondamenti ultimi di ciò che è giusto e ingiusto nella condotta umana, e questa circostanza sembra aver sviato diversi autori molto eminenti, portandoli a redigere i loro sistemi in maniera tale che sembrava che essi avessero supposto che i giudizi originari dell’umanità riguardo al giusto e all’ingiusto fossero formulati come le decisioni di una corte di giustizia, e cioè considerando prima la regola, e poi, in un secondo momento, verificando se quella particolare azione presa in considerazione ricadesse o no sotto di essa.

12. Queste generali regole di condotta, una volta fissate nella nostra mente con un’abituale riflessione, sono di grande utilità nel correggere le erronee interpretazioni dell’amor di sé riguardo a ciò che è giusto e appropriato fare nella nostra particolare situazione. L’uomo che prova un furibondo risentimento, se dovesse ascoltare i dettami di quella passione, forse considererebbe la morte del suo nemico come niente di più che una piccola compensazione per il male che immagina di aver ricevuto e che forse non era altro che un’insignificante provocazione. Ma l’aver osservato la condotta degli altri gli ha insegnato quanto appaiono orribili le vendette così sanguinose. A meno che non abbia ricevuto un’educazione molto singolare, egli si è dato come regola inviolabile quella di astenersi in tutte le occasioni da tali vendette. Questa regola conserva per lui la sua autorità e lo rende incapace di rendersi colpevole di una tale violenza. Tuttavia, la furia del suo carattere può essere tale che, se questa fosse stata la prima volta che prendeva in considerazione una tale azione, l’avrebbe indubbiamente dichiarata del tutto giusta e appropriata, e tale da essere approvata dallo spettatore imparziale. Ma questo rispetto per le regole che l’esperienza passata ha impresso in lui controlla l’impetuosità della sua passione, e lo aiuta a correggere le vedute troppo parziali, che altrimenti l’amor di sé potrebbe suggerirgli, su quel che era appropriato fare nella sua situazione. Se dovesse consentire a se stesso di essere trasportato dalla passione tanto da violare questa regola, tuttavia, anche in questo caso, non riuscirebbe a liberarsi del tutto del timore e del rispetto con cui è abituato a considerarla. Nel momento stesso dell’azione, nel momento in cui la passione sale al massimo, egli esita e trema al pensiero di quel che sta per fare. E segretamente consapevole di stare per violare quelle misure di condotta che in tutti i suoi momenti di freddezza si era riproposto di non infrangere mai, che non aveva mai visto infrangere da altri senza provare la più grande disapprovazione, e la cui infrazione, egli presagisce, dovrà presto renderlo oggetto degli stessi spiacevoli sentimenti. Prima di riuscire a prendere l’ultima fatale risoluzione, è tormentato da tutte le angosce del dubbio e dell’incertezza, è terrificato al pensiero di violare una regola così sacra, e allo stesso tempo è spinto e incalzato dalla violenza del desiderio di infrangerla. Cambia idea a ogni momento; a volte decide di aderire al suo principio, e di non lasciarsi andare a una passione che può rovinare il resto della sua vita con gli orrori della vergogna e del pentimento. E allora una calma momentanea, causata dalla prospettiva di quella sicurezza e di quella tranquillità di cui godrà non esponendosi ai rischi di una condotta contraria, prende possesso del suo cuore. Ma subito la passione rinasce, e con nuova violenza lo porta a commettere ciò da cui un momento prima aveva deciso di astenersi. Stanco e confuso da queste continue indecisioni, alla lunga, per una sorta di disperazione, compie l’ultimo fatale e irrevocabile passo, ma con quel terrore e quello stordimento con cui qualcuno, fuggendo da un nemico, si getta in un precipizio, dove è sicuro di incontrare una distruzione più certa di quella minacciata da chi lo insegue. Tali sono i suoi sentimenti nel momento dell’azione, sebbene si renderà bene conto dell’inappropriatezza della sua condotta solo più tardi, quando, gratificata e saziata la sua passione, comincerà a vedere quello che ha fatto sotto la luce in cui sono portati a vederlo gli altri, e sentirà veramente, mentre prima lo aveva solo previsto molto imperfettamente, il bruciore del rimorso e del pentimento agitarlo e tormentarlo.


 
CAPITOLO V L’influenza e l’autorità delle regole generali della morale, e il loro essere giustamente considerate come le leggi della divinità


1. Il riguardo verso queste regole generali di condotta è quel che propriamente è detto senso del dovere, un principio di grandissimo rilievo nella vita umana, e l’unico principio per mezzo del quale la plebaglia è capace di dirigere le proprie azioni. Molti uomini si comportano in modo del tutto conveniente, e durante tutto il corso della loro vita evitano ogni considerevole grado di biasimo, anche se, forse, non hanno mai provato il sentimento sulla cui appropriatezza noi fondiamo la nostra approvazione della loro condotta, ma agiscono semplicemente per riguardo verso quelle che hanno visto essere le regole stabilite di comportamento. Può darsi che l’uomo che ha ricevuto grandi benefici da un’altra persona, a causa della naturale freddezza del suo carattere, non provi sentimento di gratitudine se non in grado minimo. Tuttavia, se è stato educato in modo virtuoso, sarà stato spesso portato a osservare quanto appaiono odiose quelle azioni che denotano una mancanza di questo sentimento, e quanto appaiono amabili quelle contrarie. Perciò, sebbene il suo cuore non sia animato da nessun grato affetto, si sforzerà di agire come se lo fosse, e cercherà di riservare al suo protettore tutte quelle premure e quelle attenzioni che potrebbero essere suggerite dalla gratitudine più viva. Gli farà visita regolarmente; si comporterà rispettosamente con lui; non parlerà mai di lui se non manifestando la sua grandissima stima e tutto quello che gli deve. Inoltre, soprattutto, coglierà ogni occasione per contraccambiare adeguatamente i servigi ricevuti in passato. Egli può fare tutto questo senza alcuna ipocrisia o spregevole finzione, senza alcuna intenzione egoistica di ottenere nuovi favori, e senza alcuna idea di imporsi sul suo benefattore o sul pubblico. Il movente delle sue azioni può non essere altro che reverenza per la regola stabilita del dovere, un serio e fervente desiderio di agire sotto ogni rispetto secondo la legge della gratitudine. Una moglie, allo stesso modo, a volte può non sentire per suo marito quel tenero riguardo adeguato alla relazione esistente tra loro. Tuttavia, se è stata educata in modo virtuoso, cercherà di agire come se lo sentisse, cercherà di essere attenta, servizievole, fedele e sincera, e di non mancare in nessuna di quelle attenzioni che avrebbe potuto suggerirgli il sentimento dell’affetto coniugale. Un tale amico e una tale moglie non sono, senza dubbio, nessuno dei due i migliori nel loro ruolo, e sebbene entrambi possano avere il più serio e fervente desiderio di adempiere a ogni parte del loro dovere, tuttavia falliranno in molte tenere e delicate attenzioni, perderanno molte opportunità di essere gentili che non avrebbero mai trascurato se avessero realmente provato il sentimento appropriato alla loro situazione. Tuttavia, sebbene non siano proprio i primi nei loro rispettivi ruoli, sono forse i secondi, e se il riguardo per le regole generali di condotta è stato impresso molto forte in loro, nessuno dei due fallirà in alcun aspetto veramente essenziale del proprio dovere. Solo chi ha il carattere molto felice è capace di adattare con l’esatta proporzione i propri sentimenti e il proprio comportamento alle minime differenze di situazione, e di agire in ogni occasione con la più delicata e accurata appropriatezza. La volgare creta di cui è fatta la plebaglia non può essere plasmata fino a una tale perfezione. Non c’è quasi nessun uomo, tuttavia, nel quale, con la disciplina, l’educazione, l’esempio, non possa essere impresso un riguardo per le regole generali tale da farlo agire in quasi ogni occasione in modo abbastanza conveniente, e da fargli evitare il biasimo nel corso di tutta la sua vita.

2. Senza questo sacro rispetto per le regole generali, non c’è uomo della cui condotta ci si possa molto fidare. È in questo rispetto che consiste la differenza più essenziale tra un uomo di principio e d’onore e un individuo di nessun conto. Il primo aderisce in modo fermo e risoluto alle sue massime in tutte le occasioni, e lungo tutto il corso della sua vita conserva una condotta regolare. Il secondo agisce in modo ogni volta diverso e casuale a seconda dell’umore, dell’inclinazione e dell’interesse che per caso prevalgono. Di più: i cambiamenti d’umore cui tutti gli uomini sono soggetti sono tali che senza questo principio l’uomo che, a freddo, ha la più delicata sensibilità per la condotta appropriata potrebbe spesso esser portato ad agire in modo assurdo nelle occasioni più frivole, e quando è appena possibile portare qualche serio motivo a sostegno del suo comportamento. Un tuo amico ti fa visita quando ti capita di essere di un umore tale che non ti va di riceverlo: nella situazione in cui ti trovi, i suoi modi civili tendono ad apparirti un’intrusione inopportuna, e se dessi spazio al tuo modo di vedere le cose in quel momento, ti comporteresti freddamente e sprezzantemente, nonostante il tuo carattere educato e civile. Quel che ti rende incapace di tale rudezza è un riguardo per le regole generali di civiltà e ospitalità, che la proibiscono. Quell’abituale reverenza verso quelle regole, che la tua esperienza passata ti ha insegnato, ti fa agire in ogni occasione quasi con pari appropriatezza, e impedisce a quei cambiamenti d’umore cui sono soggetti tutti gli uomini di influenzare la tua condotta in modo sensibile. Ma se è vero che, senza il riguardo per queste regole, persino i doveri della gentilezza, che vengono osservati così facilmente, e che difficilmente c’è un serio motivo per violare, tuttavia sarebbero violati così di frequente, cosa sarebbe dei doveri della giustizia, della verità, della castità, della fedeltà, che spesso è tanto difficile osservare, e che si hanno forti motivi per violare? Ma dalla discreta osservanza di questi doveri dipende l’esistenza stessa della società umana, che si sbriciolerebbe, se negli uomini non fosse generalmente impressa una reverenza per quelle importanti regole di condotta.

3. Questa reverenza è ancora più accresciuta da un’opinione, che dapprima viene impressa dalla natura, e poi confermata dal ragionamento e dalla filosofia, secondo la quale quelle importanti regole della moralità sono i comandi e le leggi della Divinità, che alla fine ricompenserà gli obbedienti e punirà i trasgressori dei loro doveri.

4. Questa opinione o percezione sembra sia stata impressa per la prima volta dalla Natura. Gli uomini sono naturalmente portati ad attribuire a quegli esseri misteriosi, qualsiasi essi siano, e che in ciascun paese costituiscono gli oggetti dei nostri timori religiosi, tutti i loro sentimenti e passioni. Non hanno altro, e non riescono a concepire altro da attribuire loro. Queste sconosciute intelligenze, che gli uomini immaginano ma non vedono, devono necessariamente essere formate con una certa somiglianza alle intelligenze di cui hanno esperienza. Nel periodo dell’ignoranza e del dubbio della superstizione pagana, sembra che gli uomini abbiano formato le idee delle loro divinità con tale poca finezza da attribuir loro indiscriminatamente tutte le passioni della natura umana, senza escludere quelle che danno poco onore alla nostra specie, e cioè la lussuria, l’ira, l’avarizia, l’invidia, la vendetta. Perciò, non potevano non attribuire a quegli esseri, per la perfezione della cui natura essi tuttavia concepivano la più alta ammirazione, quei sentimenti e quelle qualità che costituiscono i grandi ornamenti dell’umanità, e che sembrano sollevarla a una somiglianza con la perfezione divina, e cioè le qualità dell’amore, della virtù e della beneficenza e il rifiuto del vizio e dell’ingiustizia. L’uomo offeso chiamava Giove a testimone del male che aveva subito, senza dubitare che quell’essere divino si sarebbe indignato, al pari del più umile degli uomini testimone dell’ingiustizia. L’uomo che aveva fatto l’offesa si sentiva oggetto appropriato dell’odio e del risentimento dell’umanità, e le sue naturali paure lo portavano ad attribuire gli stessi sentimenti a quegli esseri terribili, la cui presenza egli non poteva evitare, e ai cui poteri non poteva resistere. Queste naturali speranze, paure e sospetti si diffondevano per simpatia, e venivano confermate dall’educazione; e gli dei venivano universalmente rappresentati e ritenuti esseri che ricompensavano le virtù dell’umanità e della misericordia, e punivano la perfidia e l’ingiustizia. E cosi la religione, anche nelle sue forme più rozze, sanzionava le regole di moralità molto prima dell’età del ragionamento artificioso e della filosofia. Per la Natura era troppo importante, ai fini della felicità umana, che i terrori della religione rinforzassero il senso del dovere, quindi non poteva lasciare che dipendessero dalla lentezza e dall’incertezza delle ricerche filosofiche.

5. Tuttavia, quando queste ricerche cominciarono, confermarono quelle originarie anticipazioni della natura. Su qualunque cosa riteniamo che siano fondate le nostre facoltà morali, se su una certa modificazione della ragione, o su un istinto originario detto senso morale, o su qualche altro principio della nostra natura, non c’è dubbio che ci furono date per dirigere la nostra condotta in questa vita. Esse si portano dietro i segni più evidenti di questa autorità, i quali indicano che furono poste dentro di noi per essere arbitri supremi di tutte le nostre azioni, per sovrintendere a tutti i nostri sensi, passioni e appetiti e per giudicare se ciascuno di essi andasse favorito o represso. Le nostre facoltà morali sotto questo rispetto non sono affatto, come alcuni hanno preteso, sullo stesso piano delle altre facoltà e appetiti della nostra natura, senza maggior diritto di reprimere quest’ultimi più di quanto quest’ultimi non ne abbiano di reprimere loro. Nessun’altra facoltà o principio d’azione giudica dell’altra. L’amore non giudica il risentimento, né il risentimento l’amore. Queste due passioni possono essere l’una opposta all’altra, ma non si può appropriatamente affermare che l’una approvi o disapprovi l’altra. Ma è il compito peculiare di queste facoltà che stiamo ora considerando quello di giudicare, di concedere elogi o critiche a tutti gli altri principi della nostra natura. Queste facoltà morali possono essere considerate come una sorta di sensi, i cui oggetti sono quei principi. Ogni senso ha la supremazia sui propri oggetti. Non c’è appello contro il giudizio dell’occhio sulla bellezza dei colori, né contro quello dell’orecchio sull’armonia dei suoni, né contro quello del gusto sulla gradevolezza dei sapori. Ognuno di questi sensi giudica dei suoi oggetti in ultima istanza. Qualsiasi cosa gratifichi il gusto è dolce, qualsiasi cosa piaccia all’occhio è bella, qualsiasi cosa accarezzi l’orecchio è armoniosa. L’essenza stessa di ciascuna di queste qualità consiste nell’essere fatta per piacere al senso verso il quale è indirizzata. Allo stesso modo, spetta alle nostre facoltà morali determinare quando l’orecchio debba essere accarezzato, quando l’occhio debba essere compiaciuto, quando il gusto debba essere gratificato, e quando e fino a che punto ogni altro principio della nostra natura debba essere favorito o represso. Quel che è gradevole per le nostre facoltà morali è adatto, giusto e appropriato per l’azione; il contrario ingiusto, inadatto, e inappropriato. I sentimenti da esse approvati sono gentili e convenienti, i contrari rozzi e sconvenienti. Le stesse parole giusto, sbagliato, adatto, inappropriato, gentile, sconveniente significano solo ciò che piace o dispiace a quelle facoltà.

6. Perciò, dal momento che queste facoltà sono state chiaramente destinate a governare i principi della natura umana, le regole che esse prescrivono devono essere considerate come i comandi e le leggi di Dio, promulgate da quei suoi rappresentanti che Egli ha posto dentro di noi. Tutte le regole generali sono comunemente denominate leggi: così le regole generali che i corpi osservano nel comunicare il moto sono dette leggi del moto. Ma quelle regole generali che le nostre facoltà morali osservano nell’approvare o condannare ogni sentimento o azione soggetta al loro esame possono ricevere l’appellativo di leggi ancora più giustamente. Esse assomigliano molto di più a quelle che sono dette propriamente leggi, cioè le regole generali date dal sovrano per dirigere la condotta dei suoi sudditi. Come quest’ultime, le leggi morali sono regole per dirigere le libere azioni degli uomini: sono sicuramente prescritte da un legittimo superiore e osservate con la promessa di una ricompensa, o pena la punizione. Quei rappresentanti di Dio dentro di noi non mancano mai di punire la loro violazione con i tormenti della vergogna e dell’autocondanna interiore, e, al contrario, ricompensano sempre la loro osservanza con la tranquillità mentale, l’appagamento, la soddisfazione.

7. Ci sono innumerevoli altre considerazioni che servono a confermare la stessa conclusione. La felicità dell’uomo e di tutte le altre creature razionali sembra sia stato l’intento originario dell’Autore della natura al momento della loro creazione. Nessun altro fine appare degno della suprema saggezza e divina benignità che necessariamente Gli attribuiamo, e questa opinione, quando consideriamo astrattamente le Sue infinite perfezioni, è confermata ancora di più dall’esame delle opere della natura, che sembrano tutte fatte in modo tale da promuovere la felicità e preservare dalla miseria. Ma agendo in modo conforme ai dettami delle nostre facoltà morali, necessariamente perseguiamo i mezzi più efficaci per promuovere la felicità umana, e perciò si può dire che in un certo senso cooperiamo con la Divinità, anticipando, per quanto in nostro potere, i piani della Provvidenza. Al contrario, agendo in modo diverso, sembra che ostacoliamo, in qualche misura, lo schema che l’Autore della natura ha stabilito per la felicità e la perfezione del mondo, e che in qualche misura ci dichiariamo, se posso esprimermi così, nemici di Dio. Per questo siamo naturalmente incoraggiati a sperare nel suo straordinario favore e nel suo premio in un caso, e a temere la sua vendetta e la sua punizione nell’altro.

8. Ci sono inoltre molte altre ragioni e molti altri principi naturali che tendono tutti a confermare e inculcare la stessa salutare dottrina. Se consideriamo le regole generali per mezzo delle quali vengono comunemente distribuite in questa vita la prosperità e l’avversità esteriore, troveremo che, nonostante il disordine in cui appaiono tutte le cose in questo mondo, tuttavia anche qui ogni virtù naturalmente riceve il suo premio appropriato, con la ricompensa più adatta a incoraggiarla e promuoverla, e questo è un fatto così certo, che occorre una concorrenza di circostanze davvero straordinaria affinché non si verifichi. Qual è il premio più appropriato per incoraggiare l’industriosità, la prudenza, la circospezione? Il successo in ogni tipo di affari. Ed è possibile che in tutta la vita queste virtù falliscano l’obiettivo di raggiungerlo? La ricchezza e gli onori esteriori sono la loro ricompensa appropriata, che esse raramente mancano di ottenere. Qual è il premio più appropriato per promuovere la pratica della verità, della giustizia, e dell’umanità? La fiducia, la stima e l’amore di quelli con cui viviamo. La virtù dell’umanità non aspira alla grandezza, ma all’amore. Non è con la ricchezza che la verità e la giustizia sarebbero soddisfatte, ma con l’essere degni di fiducia e con l’essere creduti, ricompense che quelle virtù ottengono quasi sempre. Per qualche straordinaria e sfortunata circostanza, un uomo buono può arrivare a essere sospettato di un crimine del quale è del tutto incapace, e a causa di ciò essere ingiustamente esposto per il resto della sua vita all’orrore e all’avversione dell’umanità. Per un incidente di questo tipo si può dire che egli perda tutto, nonostante la sua integrità e la sua giustizia, nello stesso modo in cui un uomo cauto, nonostante la sua estrema circospezione, può restare travolto da un terremoto o da un’inondazione. Tuttavia, gli incidenti del primo tipo sono forse ancora più rari, e ancora più contrari al corso comune delle cose, che quelli del secondo tipo, e resta tuttavia accertato che la pratica della verità, della giustizia e dell’umanità è un metodo certo e pressoché infallibile per conseguire ciò a cui principalmente mirano quelle virtù: la fiducia e l’amore di coloro con i quali viviamo. È facile che una persona dia un’idea sbagliata di sé riguardo a un’azione particolare, ma non riguardo al tenore generale della sua condotta. Un uomo innocente può essere ritenuto colpevole, ma tuttavia sarà un fatto raro. Al contrario, la riconosciuta fama dei suoi modi innocenti ci condurrà spesso ad assolverlo anche nel caso di una sua reale colpevolezza, nonostante i forti indizi a suo carico. Allo stesso modo, un uomo disonesto può sfuggire al biasimo, o persino incontrare l’elogio, per una particolare azione disonesta che sfugga alla comprensione. Ma non c’è uomo disonesto che non sia noto come tale, e che non sia spesso sospettato di colpevolezza anche quando in realtà è del tutto innocente. E in quanto il vizio e la virtù possono essere puniti o ricompensati dai sentimenti e dalle opinioni degli uomini, entrambi, secondo il comune corso delle cose, vanno incontro anche in questo caso a qualcosa di più dell’esatta e imparziale giustizia.

9. Ma sebbene le regole generali con cui vengono comunemente distribuite la prosperità e l’avversità, considerate in questa luce fredda e filosofica, appaiano del tutto adatte alla situazione dell’uomo in questa vita, tuttavia esse non sono affatto adatte ad alcuni nostri sentimenti naturali. Il nostro naturale amore e la nostra naturale ammirazione per alcune virtù è tale che vorremmo attribuire a esse ogni tipo di onori e di premi, anche quelli che sono riconosciutamente appropriate ricompense di altre qualità, con le quali non sempre quelle virtù si accompagnano. Al contrario, il nostro odio per alcuni vizi è tale che desidereremmo di riempirli di ogni sorta di disgrazia e di disastro, non esclusi quelli che sono conseguenze naturali di qualità molto diverse. La magnanimità, la generosità e la giustizia richiedono un grado di ammirazione talmente alto che desideriamo vederle coronate di ricchezza, potere e onori di ogni tipo, le naturali conseguenze della prudenza, dell’operosità e dell’applicazione, qualità con cui quelle virtù non sono inseparabilmente connesse. La frode, la falsità, la brutalità e la violenza, d’altra parte, suscitano in ogni animo umano un tale rifiuto e aborrimento che la nostra indignazione sale, vedendole possedere quei vantaggi che si può in un certo senso dire che abbiano meritato, per la diligenza e l’operosità a volte impiegata nel perseguirle. Tra un disonesto operoso che coltiva il terreno e un buon uomo pigro che lo lascia incolto chi dovrebbe mietere? chi patire la fame e chi vivere nell’abbondanza? Il corso naturale delle cose decide in favore del disonesto, i sentimenti naturali dell’umanità in favore dell’uomo virtuoso. L’uomo ritiene che le buone qualità dell’uno siano più che ricompensate dai vantaggi che tendono a procurargli, e che le negligenze dell’altro siano anch’esse di gran lunga severamente punite dall’angoscia che naturalmente gli procurano, e quindi le leggi umane, conseguenze degli umani sentimenti, confiscano i beni e la stessa vita dell’operoso e cauto traditore, e premiano con ricompense straordinarie la fedeltà e il senso civico del buon cittadino imprevidente e trascurato. Così, l’uomo è indirizzato dalla Natura a correggere, in qualche misura, quella distribuzione di cose che essa stessa aveva diversamente disposto. Le regole che essa lo spinge a seguire a tale scopo sono diverse da quelle che essa stessa osserva. La natura dà a ogni virtù e a ogni vizio quell’esatto premio o quell’esatta punizione meglio adatti a incoraggiare l’una e a reprimere l’altro. Essa è spinta da quest’unica considerazione, e presta poca attenzione ai diversi gradi in cui il merito e il demerito sembrano presenti nei sentimenti e nelle passioni umane. L’uomo, al contrario, presta attenzione unicamente a questo, e cerca di rendere lo stato di ogni virtù precisamente proporzionato a quel grado di amore e stima e lo stato di ogni vizio precisamente proporzionato a quel grado di disprezzo e ripugnanza che lui stesso concepisce. Le regole che la natura segue sono adatte a essa, quelle che segue l’uomo sono adatte a lui, ma entrambe sono calcolate per promuovere lo stesso grande fine: l’ordine del mondo, e la perfezione e la felicità della natura umana.

10. Ma sebbene l’uomo venga impiegato in questo modo per modificare la distribuzione delle cose che gli eventi naturali opererebbero se lasciati a loro stessi; nonostante egli intervenga continuamente, con mezzi straordinari, a favore della virtù e contro il vizio, come gli dei dei poeti; nonostante cerchi, come loro, di deviare la freccia puntata alla testa dell’uomo virtuoso, e di affondare la spada della distruzione che pende sul malvagio, tuttavia egli non è affatto capace di conformare del tutto la sorte di entrambi ai propri sentimenti e desideri. Lo scorrere naturale delle cose non può essere interamente controllato dagli sforzi impotenti dell’uomo: il corso è troppo rapido e troppo forte per essere da lui interrotto, e sebbene le regole che lo dirigono sembrino stabilite per i migliori e più saggi fini, esse a volte producono effetti che sconvolgono tutti i suoi sentimenti naturali. Il fatto che un grande gruppo di uomini debba prevalere su uno piccolo; il fatto che coloro che si impegnano in un’impresa con previdenza e con tutta la preparazione necessaria debbano prevalere su chi è impreparato, e che ogni fine debba essere conseguito solo con quei mezzi che la Natura ha stabilito per conseguirlo sembra una regola non solo necessaria e inevitabile in se stessa, ma anche utile e adatta a stimolare l’operosità e l’attenzione dell’uomo. Tuttavia, quando, come conseguenza di questa regola, la violenza e l’inganno prevalgono sulla sincerità e la giustizia, quale non è l’indignazione suscitata nell’animo di ogni umano spettatore? Quale il dispiacere e la compassione per le sofferenze degli innocenti, e quale il furioso risentimento contro il successo degli oppressori? Siamo sia addolorati che irati per il male fatto, ma spesso riteniamo del tutto al di là del nostro potere correggerlo. Quando disperiamo in questo modo di trovare una forza sulla terra capace di ostacolare il trionfo dell’ingiustizia, ci rivolgiamo naturalmente al cielo, confidando che il grande Autore della nostra natura metta in pratica personalmente, da quel momento in poi, ciò che i princìpi che Egli ci ha dato per dirigere la nostra condotta ci spingono anche qui sulla terra a tentare. Confidiamo che porti a termine il piano che Egli stesso ci ha insegnato a cominciare, e che, in una vita a venire, renda a ognuno a seconda di quello che ha fatto in questo mondo. E così siamo portati a credere in uno stato futuro, non solo per debolezza, per le speranze e le paure della natura umana, ma anche per i più nobili e migliori principi che ci appartengono, per l’amore della virtù e per l’odio del vizio e dell’ingiustizia.

11. «Si addice alla grandezza di Dio» dice l’eloquente e filosofico vescovo di Clermont, con quell’appassionata ed esagerata forza d’immaginazione, che sembra a volte trascendere i limiti del decoro, «si addice alla grandezza di Dio lasciare il mondo che ha creato in un disordine così universale? Vedere il malvagio che prevale sempre sul giusto, l’innocente che viene detronizzato dall’usurpatore, il padre che diventa vittima dell’ambizione contro natura di un figlio, il marito che spira sotto i colpi di una moglie barbara e infedele? Dall’alto della sua grandezza, dovrebbe Dio osservare questi tristi eventi come un bizzarro passatempo, senza prendervi parte alcuna? Poiché egli è grande, dovrebbe essere debole, o ingiusto, o barbaro? Poiché gli uomini sono piccoli, dovrebbe esser loro permesso di essere malvagi senza ricevere una punizione, o virtuosi senza ricevere un premio? Oh, Dio! Se è questa l’indole del tuo Essere Supremo, se sei tu quello che noi adoriamo dietro a idee tanto terribili, non posso più riconoscerti come mio padre, come mio protettore, come colui che consola la mia sofferenza, che dà sostegno alla mia debolezza, che premia la mia fedeltà. Non saresti altro che un indolente e bizzarro tiranno, che sacrifica l’umanità alla sua arrogante vanità, che l’ha creata dal nulla solo per passatempo e capriccio.»

12. Quando le regole generali che determinano il merito e il demerito delle azioni arrivano così a essere considerate come le leggi di un Essere onnipotente, che vigila sulla nostra condotta, e che, in una vita a venire, ne premierà l’osservanza e ne punirà l’infrazione, allora esse acquistano una nuova sacralità da questa considerazione. Il fatto che il rispetto per il volere della divinità debba essere la regola suprema della nostra condotta non può essere messo in dubbio da nessuno che creda nella Sua esistenza. Il pensiero stesso della disobbedienza sembra implicare in sé la più sconvolgente inappropriatezza. Quanto sarebbe vano, quanto sarebbe assurdo per l’uomo, contrastare o ignorare i comandi ricevuti dall’Infinita Saggezza e dall’Infinito Potere! Quanto sarebbe innaturale, quanto ingrato ed empio non riverire i precetti a lui prescritti dall’infinita bontà del suo Creatore, anche se non lo attendesse alcuna punizione. Anche il senso dell’appropriatezza è qui sostenuto dai più forti motivi dell’interesse egoistico. L’idea che, per quanto possiamo sfuggire all’osservazione dell’uomo, o essere fuori dalla portata della punizione umana, tuttavia agiamo sempre sotto gli occhi di Dio, esposti alla punizione di questo grande vendicatore dell’ingiustizia, è un motivo capace di reprimere le passioni più ostinate, almeno in coloro che, attraverso la riflessione costante, sono entrati con esso in familiarità.

13. È in questo modo che la religione rinforza il naturale senso del dovere: e di qui deriva il fatto che gli uomini sono generalmente disposti a credere nella rettitudine di chi sembra profondamente animato da sentimenti religiosi. Essi immaginano che queste persone agiscano con un vincolo in più rispetto a quelli che regolano la condotta degli altri uomini. Suppongono che il riguardo per l’appropriatezza dell’azione, come quello per la reputazione, il riguardo per l’elogio del proprio cuore e di quello degli altri siano motivi che influenzano l’uomo religioso così come l’uomo di mondo. Ma il primo è sottoposto a un’altra limitazione, e non agisce mai deliberatamente, ma come se fosse in presenza del Grande Superiore che alla fine lo ricompenserà a seconda delle sue azioni. Per questo viene riposta una maggiore fiducia nella regolarità e nell’esattezza della sua condotta. E quando i principi naturali della religione non sono corrotti dallo zelo fazioso e di parte di qualche stupido intrigo; quando il primo dovere che essa richiede è quello di adempiere agli obblighi morali; quando agli uomini non viene insegnato come principale dovere della religione l’osservanza superficiale, piuttosto che le opere di giustizia e di beneficenza; quando non viene loro insegnato a credere che con sacrifici, cerimonie, e vane suppliche possono mercanteggiare con Dio per i loro imbrogli, le loro perfidie e le loro violenze, allora il mondo senza dubbio giudica correttamente sotto questo riguardo, e giustamente ripone una doppia fiducia nel comportamento corretto dell’uomo religioso.


 
CAPITOLO VI In quali casi il senso del dovere debba essere l’unico principio della nostra condotta, e in quali casi debba concorrere con altre motivazioni


1. La religione offre motivazioni così forti per la pratica della virtù, e ci mette in guardia dalla tentazione del vizio con freni così potenti, che molti sono stati condotti a pensare che i principi religiosi fossero gli unici lodevoli motivi per l’azione. Essi hanno sostenuto che non è per un’affezione naturale che dovremmo premiare la gratitudine, punire il risentimento, proteggere i nostri figli indifesi o sostenere i nostri genitori infermi. Tutte le affezioni indirizzate verso oggetti particolari, secondo il loro parere, si dovrebbero estinguere nel nostro cuore, e un’unica grande affezione prendere il loro posto: l’amore per Dio, il desiderio di renderci a lui ben accetti, e di dirigere la nostra condotta, sotto ogni riguardo, secondo il suo volere. Non dovremmo esser grati per gratitudine, né caritatevoli per senso d’umanità, non dovremmo essere votati al bene pubblico per amor di patria, né generosi e giusti per amore degli uomini. L’unico principio e movente della nostra condotta nello svolgere tutti questi diversi doveri dovrebbe essere dato dal sentire che Dio ci ha comandato di svolgerli. Ora non mi dilungherò a esaminare in particolare questa opinione: mi limiterò a osservare che non ci saremmo aspettati di vederla professata da una setta che si dichiara appartenente a una religione in cui, se è vero che il primo comandamento è «ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza», è altrettanto vero che il secondo ordina di amare il nostro prossimo come noi stessi: e certamente non amiamo noi stessi solo perché ci viene comandato di farlo. Osserverò ancora che il fatto che il senso del dovere debba essere l’unico principio della nostra condotta non è affatto un precetto cristiano, ma dovrebbe essere il precetto che regola e governa, come indicano la filosofia, e di fatto, anche il senso comune. Ci si può chiedere, tuttavia, in quali casi le nostre azioni debbano derivare in tutto o in parte da un senso del dovere o da un rispetto per regole generali, e in quali casi altri sentimenti o affezioni vi debbano concorrere e avere un’influenza centrale.

2. La risposta a questa domanda, che forse non può essere data con molta precisione, dipenderà da due diverse circostanze: primo, dalla naturale gradevolezza o deformità del sentimento o affezione che ci spingerebbe all’azione indipendentemente da ogni riguardo per le regole generali; secondo, dalla precisione e dall’esattezza, o dall’imprecisione e inesattezza delle regole generali stesse.

3. I. Primo, sostengo che dipenderà dalla naturale gradevolezza o deformità dell’affezione stessa la misura in cui le nostre azioni dovrebbero sorgere da essa, o derivare interamente da un riguardo per la regola generale.

4. Tutte le azioni gentili e ammirate, a cui ci spingerebbero le affezioni benevole, dovrebbero derivare sia dalle passioni stesse che da un riguardo per le regole generali di condotta. Un benefattore sente di non ricevere un contraccambio adeguato, se la persona cui ha concesso i suoi buoni servigi non lo ripaga che con freddo senso del dovere, e senza alcun affetto per la sua persona. Un marito è insoddisfatto della più obbediente delle mogli, quando immagina che la sua condotta sia ispirata solo al riguardo per quanto richiesto dal suo ruolo. Anche se un figlio non dovesse venir meno a nessuno dei doveri filiali, tuttavia, se gli manca quella affezionata reverenza che così bene gli si addice, il padre può giustamente lamentarsi della sua indifferenza. E un figlio non potrebbe essere soddisfatto di un padre che, pur compiendo tutti i doveri che gli competono, non avesse nulla di quella tenerezza paterna che ci si potrebbe aspettare da lui. Nel caso di tutte queste affezioni benevole e sociali, è piacevole vedere il senso del dovere impiegato più per limitarle che per ravvivarle, più per impedirci di fare troppo, che per spingerci a fare quel che dovremmo. Ci fa piacere vedere un padre obbligato a controllare la sua tenerezza, un amico obbligato a porre dei limiti alla sua naturale generosità, una persona che ha ricevuto un beneficio obbligata a trattenere la propria gratitudine troppo impulsiva.

5. Riguardo alle passioni malvagie e antisociali vale la massima contraria. Dovremmo premiare per la gratitudine e la generosità dei nostri cuori, senza riluttanza, e senza essere obbligati a riflettere sull’appropriatezza del premio, ma dovremmo sempre punire con riluttanza, e più per un senso dell’appropriatezza della punizione, che per una selvaggia inclinazione alla vendetta. Non c’è niente di più gentile del comportamento dell’uomo che mostra di provare risentimento per le più grandi offese, più perché sente che esse meritano il risentimento, e ne sono gli oggetti appropriati, che perché è lui stesso preda di quella spiacevole passione; dell’uomo che, come un giudice, considera solo la regola generale, che stabilisce la vendetta dovuta a ogni particolare offesa; che, nel mettere in pratica quella regola, sente meno per quel che lui ha sofferto, che per quello che sta per soffrire chi lo ha offeso; l’uomo che, sebbene in collera, ricorda la clemenza, ed è disposto a interpretare la regola nel modo più mite e favorevole, e a concedere tutte le attenuanti ammissibili dalla più sincera umanità, coerentemente col buon senso.

6. Come le passioni egoistiche, secondo quanto è stato osservato precedentemente, occupano, sotto altri riguardi, una specie di posto di mezzo tra le affezioni sociali e antisociali, così esse fanno anche sotto questo riguardo. Il perseguire oggetti di interesse privato, in tutti i casi comuni, minimi e ordinari, dovrebbe risultare più da un riguardo per le regole generali che prescrivono tale condotta, che da una passione per gli oggetti stessi. Ma in occasioni più importanti e straordinarie dovremmo essere goffi, insulsi e sgraziati se gli oggetti stessi non sembrassero stimolare in noi un buon grado di passione. Essere ansiosi o complottare per guadagnare o risparmiare un singolo scellino degraderebbe il più volgare commerciante agli occhi di tutti i suoi vicini. Ammesso che le sue condizioni economiche non siano buone, nella sua condotta non deve apparire alcuna attenzione per queste quisquilie considerate per loro stesse. La sua situazione può richiedere la più severa economia e la più precisa assiduità, ma ogni particolare espressione di quell’economia e di quell’assiduità deve derivare non tanto dall’attenzione a quel singolo risparmio o guadagno, ma alla regola generale che gli prescrive molto rigorosamente quel tenore di condotta. La sua odierna parsimonia non deve derivare da un desiderio di quei tre penny che risparmierà grazie a essa, e il suo servizio nel negozio non deve derivare da una passione per quei dieci penny che esso gli farà guadagnare: sia l’una che l’altro dovrebbero derivare solo da riguardo per la regola generale che prescrive, con la più inflessibile severità, questo piano di condotta per tutte le persone che fanno la sua stessa vita. Consiste in questo la differenza tra un avaro e una persona economa e assidua. L’uno si preoccupa per le piccole cose per loro stesse, l’altro presta loro attenzione solo in conseguenza del progetto di vita che si è dato.

7. Le cose stanno molto diversamente riguardo ai più straordinari e importanti oggetti di interesse egoistico. Una persona che non li persegua con un certo grado di fervore, e per loro stessi, appare meschina. Disprezzeremmo un principe che non fosse ansioso di conquistare o difendere una provincia. Avremmo poco rispetto per un gentiluomo che non si sforzasse di conquistare una posizione sociale, o anche un incarico importante, quando gli sarebbe possibile farlo senza ricorrere a meschinità o ingiustizie. Un membro del parlamento che non mostri entusiasmo per la sua elezione viene abbandonato dai suoi amici, in quanto del tutto immeritevole della loro devozione. Persino un mercante che non si dà da fare per qualche affare vantaggioso, o per qualche grosso profitto, viene considerato dagli altri un povero diavolo. Questa energia e questo entusiasmo costituiscono la differenza tra l’uomo intraprendente e l’apatico. I grandi oggetti di interesse egoistico, la cui perdita o il cui acquisto cambiano molto il rango delle persone, sono gli oggetti della passione propriamente detta ambizione, una passione che, quando si mantiene nei limiti della prudenza e della giustizia, viene sempre ammirata nel mondo, e possiede a volte un certo strano fascino che abbaglia l’immaginazione, anche quando oltrepassa i limiti di quelle due virtù, e non è solo ingiusta, ma anche stravagante. Di qui la generale ammirazione per gli eroi e i conquistatori, e anche per gli uomini politici, che hanno elaborato progetti arditi e di vasta portata, anche se del tutto privi di giustizia, come quelli dei cardinali de Richelieu e de Retz. Gli oggetti della cupidigia e dell’ambizione sono diversi solo in quanto a grandezza. Un avaro si accanisce su mezzo penny quanto un ambizioso sulla conquista di un regno.

8. II. In secondo luogo, sostengo che dipenderà in parte dalla precisione e dall’esattezza, o dall’imprecisione e inesattezza, delle regole generali stesse, la misura in cui la nostra condotta dovrebbe basarsi del tutto su un riguardo per esse.

9. Le regole generali di quasi tutte le virtù, le regole generali che stabiliscono quali siano i compiti della prudenza, della carità, della generosità, della gratitudine, dell’amicizia sono in molti rispetti imprecise e inesatte, ammettono molte eccezioni, e richiedono così tante modificazioni, che è quasi impossibile regolare del tutto la nostra condotta su di un riguardo per esse. Le comuni proverbiali massime di prudenza, essendo fondate sull’esperienza universale, sono forse le regole generali migliori che possiamo darne. Tuttavia, ostentare un’aderenza molto stretta e letterale a esse sarebbe la pedanteria più assurda e ridicola. Di tutte le virtù che ho appena menzionato, la gratitudine è forse quella che ha le regole più precise, e che difficilmente ammettono la minima eccezione. Il fatto che dovremmo, prima possibile, restituire un uguale, e possibilmente superiore, valore per i servigi che abbiamo ricevuto sembrerebbe una regola del tutto chiara, senza quasi nessuna eccezione. Tuttavia, all’esame più superficiale questa regola apparirà molto imprecisa e inesatta e passibile di diecimila eccezioni. Se il tuo benefattore ti ha assistito durante la tua malattia, tu dovresti assisterlo nella sua? O puoi adempiere all’obbligo della gratitudine contraccambiando in un altro modo? Se dovessi assisterlo, per quanto tempo lo dovresti fare? Lo stesso tempo che lui ha assistito te, di più, e quanto di più? Se un tuo amico ti ha prestato dei soldi quando ti trovavi in difficoltà, dovresti prestargliene anche tu quando ci si trova lui? Quanto dovresti prestargli? E quando? Ora, domani, il mese prossimo? E per quanto tempo? È evidente che non si può formulare una regola generale, che possa rispondere in modo preciso, in tutti i casi, a ciascuna di queste domande. La differenza tra il suo carattere e il tuo, tra le tue condizioni finanziarie e le sue può essere tale, che tu puoi essergli del tutto grato anche rifiutandoti giustamente di prestargli mezzo penny, e, al contrario, puoi desiderare di prestargli, o persino regalargli, una somma dieci volte maggiore di quella che lui ha prestato a te, ed essere giustamente accusato della più bieca ingratitudine, e di non aver adempiuto nemmeno alla centesima parte dei tuoi obblighi. Tuttavia, poiché i doveri della gratitudine sono forse i più sacri di tutti quelli prescritti dalle virtù benefiche, le regole generali che li prescrivono sono comunque, come ho detto prima, le più precise. Le regole che stabiliscono le azioni richieste dall’amicizia, dall’umanità, dall’ospitalità, dalla generosità sono ancora più vaghe e indeterminate.

10. Esiste, tuttavia, una virtù le cui regole generali stabiliscono con la più grande esattezza ogni azione esterna da essa richiesta. Questa virtù è la giustizia. Le regole della giustizia sono precise al più alto grado, e non ammettono eccezioni o modificazioni se non quelle che possono essere stabilite precisamente quanto le regole stesse, e che in genere derivano di fatto proprio dai loro stessi principi. Se devo dieci sterline a un uomo, la giustizia richiede che io gli renda esattamente dieci sterline, al momento stabilito insieme, o quando lui le richiede. Quello che dovrei fare, quanto dovrei fare, quando e dove dovrei farlo, la natura e le caratteristiche dell’azione prescritta, tutto è precisamente fissato e determinato. Perciò, sebbene possa essere pedante e inopportuno ostentare una troppo stretta aderenza alle regole comuni di prudenza e generosità, non è pedanteria essere fermamente fedeli alle regole di giustizia. Al contrario, a esse è dovuto il più sacro riguardo, e le azioni richieste dalla giustizia non sono mai compiute così appropriatamente come quando il motivo principale per compierle è un riguardo reverenziale e religioso per quelle regole generali che le richiedono. Nella pratica di altre virtù, la nostra condotta dovrebbe essere diretta da una certa idea di appropriatezza, da un certo gusto per un particolare tenore di condotta, piuttosto che da un riguardo per una precisa massima o regola, e dovremmo considerare più il fine e il fondamento della regola, che la regola stessa. Ma le cose stanno diversamente per quanto riguarda la giustizia. L’uomo che sottilizza di meno, e aderisce alle regole di giustizia con la più ostinata fermezza è il più lodevole e affidabile. Sebbene il fine delle regole di giustizia sia impedirci di offendere il nostro prossimo, spesso può essere un crimine violarle, anche se potessimo sostenere, con qualche ragione cavillosa, che quella certa violazione non è offensiva. Un uomo diventa un villano nel momento in cui comincia, anche se solo nel suo cuore, a usare simili sotterfugi. Nel momento in cui decide di staccarsi dalla più fedele e convinta aderenza a quello che gli prescrivono quei precetti inviolabili, non viene più creduto, e nessuno è in grado di prevedere a quale livello di colpa egli possa giungere. Il ladro ritiene di non fare alcun male derubando i ricchi di cose delle quali possono fare benissimo a meno e del cui furto nemmeno si accorgeranno. L’adultero ritiene di non fare alcun male corrompendo la moglie del suo amico, se ha fatto in modo di tener nascosta la tresca al marito, in modo da non disturbare la pace familiare. Quando cominciamo a lasciare via libera a simili sottigliezze, non c’è bassezza di cui non saremmo capaci.

11. Le regole di giustizia possono essere paragonate alle regole di grammatica, le regole delle altre virtù alle regole date dai critici per ottenere uno stile compositivo nobile ed elegante. Le prime sono precise, rigorose e indispensabili. Le seconde imprecise, vaghe e indeterminate, e ci danno solo un’idea della perfezione a cui dovremmo tendere, piuttosto che fornirci un’indicazione certa e infallibile per ottenerla. Un uomo può imparare a scrivere in modo grammaticalmente corretto attraverso le regole, con la più assoluta infallibilità, e allo stesso modo, forse, gli può essere insegnato ad agire secondo giustizia. Ma non ci sono regole la cui osservanza ci farà infallibilmente ottenere l’eleganza e la nobilità nello scrivere, sebbene ce ne siano alcune che ci possono aiutare in una certa misura a correggere e a fissare le vaghe idee che ci saremmo altrimenti potuti fare di quella perfezione. E non ci sono regole dalla cui conoscenza possiamo infallibilmente imparare ad agire in ogni occasione con prudenza, con giusta magnanimità, o appropriata beneficenza, sebbene ce ne siano alcune che ci possono rendere capaci di correggere e fissare, sotto molti rispetti, le idee imperfette che ci saremmo altrimenti potuti fare di quelle virtù.

12. Può accadere a volte che, pur desiderando seriamente e ardentemente di agire in modo tale da meritare approvazione, possiamo confondere le regole appropriate di condotta, ed essere così ingannati da quello stesso principio che ci dovrebbe dirigere. È inutile aspettarsi in questo caso che gli uomini approvino del tutto il nostro comportamento. Essi non possono prender parte all’assurda idea di dovere che ci ha influenzato, né condividere nessuna delle azioni che ne conseguono. Tuttavia, c’è ancora qualcosa di rispettabile nel carattere e nel comportamento di chi è trascinato nel vizio da un errato senso del dovere, o da una cosiddetta coscienza erronea. Per quanto possa essere rimasto fatalmente ingannato da essa, per le persone generose e umane egli è più oggetto di commiserazione che di odio e risentimento. Tali persone deplorano la debolezza della natura umana, che ci espone a delusioni così cocenti, anche mentre inseguiamo sinceramente la perfezione, e ci sforziamo di agire secondo i migliori principi in grado di guidarci. Le false nozioni di religione sono quasi le sole cause che possono dar luogo a degenerazioni così grossolane dei nostri sentimenti naturali, e quel principio che dà la maggiore autorità alle regole del dovere è il solo capace di distorcere in grado considerevole le idee che ne abbiamo. In tutti gli altri casi il senso comune è sufficiente a guidarci, se non verso la condotta più squisitamente appropriata, tuttavia verso qualcosa di non molto dissimile, e ammesso che desideriamo ardentemente di comportarci bene, il nostro comportamento sarà sempre, nel complesso, lodevole. Tutti gli uomini convengono nell’affermare che obbedire alla volontà divina sia la prima regola del dovere, ma differiscono molto gli uni dagli altri riguardo ai comandamenti particolari che questa volontà può imporre su di noi. In questo, perciò, occorrono una grande indulgenza e una grande tolleranza reciproca, e sebbene la difesa della società richieda che i crimini siano puniti, da qualsiasi motivo derivino, tuttavia un uomo retto li punirà sempre con riluttanza, quando è evidente che derivano da false nozioni di dovere religioso. Non sentirà mai verso chi commette questi crimini la stessa indignazione che sente verso altri criminali, ma piuttosto, nello stesso momento in cui punisce i loro crimini, proverà dispiacere, e spesso persino ammirazione per la loro sventurata fermezza e magnanimità. Nella tragedia di Maometto, una delle migliori di Voltaire, sono ben rappresentati quali dovrebbero essere i nostri sentimenti nel caso di crimini che derivano da tali motivi. In quella tragedia, due giovani di sesso diverso, dalle più innocenti e virtuose intenzioni, e senza nessun’altra debolezza tranne quella che ce li rende ancora più cari, e cioè una reciproca passione, vengono istigati dai fortissimi motivi di una falsa religione a commettere un orrendo omicidio che sconvolge tutti i principi della natura umana. Un anziano, rispettabile uomo, che aveva espresso per loro il più tenero affetto, e verso il quale, nonostante egli fosse dichiarato nemico della loro religione, essi provavano la più grande stima e reverenza, e che in realtà era loro padre, sebbene essi non lo sapessero, viene loro indicato come vittima espressamente chiesta da Dio, e viene loro ordinato di ucciderlo. Mentre stanno per compiere questo crimine, sono torturati da tutte le angosce che possono derivare dalla lotta tra l’idea dell’indispensabilità del dovere religioso da una parte, e la compassione, la gratitudine, la reverenza per l’età, l’amore per l’umanità e la virtù della persona che stanno per uccidere, dall’altra. La rappresentazione di questa lotta costituisce uno degli spettacoli più interessanti, e forse il più istruttivo mai rappresentato in teatro. Il senso del dovere, tuttavia, alla fine prevale su tutte le amabili debolezze della natura umana. I due giovani eseguono il crimine loro imposto, ma immediatamente scoprono l’errore, e la frode che li ha ingannati, e sono tormentati dall’orrore, dal rimorso e dal risentimento. I sentimenti che proviamo per gli infelici Seid e Palmira dovremmo provarli anche per ogni altra persona che viene in questo modo sviata dalla religione, quando siamo certi che è davvero la religione a sviare, e non una delle peggiori passioni umane mascherata da religione.

13. Una persona può agire erroneamente seguendo un errato senso del dovere, ma allo stesso modo la natura può a volte prevalere, portandola ad agire bene, in opposizione a esso. In questo caso non può dispiacerci veder prevalere il movente che noi riteniamo dovrebbe prevalere, anche se la persona stessa è così debole da pensarla diversamente. Tuttavia, dal momento che la sua condotta è effetto di debolezza, non di principio, siamo lungi dall’attribuirle qualcosa che si avvicina a una completa approvazione. Un bigotto cattolico romano, che durante il massacro di San Bartolomeo sia stato talmente sopraffatto dalla compassione da salvare alcuni infelici protestanti, che egli riteneva suo dovere uccidere, non sembrerebbe degno dell’elogio che gli avremmo riservato se avesse mostrato la stessa generosità con una completa autoapprovazione. Potremmo compiacerci della bontà del suo carattere, ma lo considereremmo comunque con una specie di pietà, che è del tutto incoerente con l’ammirazione dovuta alla virtù perfetta. Con le altre passioni è la stessa cosa. Non ci dispiace vederle esercitate appropriatamente, anche quando una falsa nozione di dovere indicherebbe alla persona di trattenerle. Non ci darebbe fastidio se un quacchero molto devoto, colpito a una guancia, invece di porgere l’altra, dimenticasse la sua interpretazione letterale del precetto di nostro Signore, tanto da dare una lezione al bruto che l’ha insultato. Rideremmo e ci divertiremmo per la sua impulsività, e anzi, per questo motivo ci piacerebbe di più. Ma non lo considereremmo affatto con quel rispetto e quella stima che sembra dovuta a chi, in un’occasione simile, abbia agito appropriatamente per un giusto senso di quel che è appropriato fare. Nessuna azione può appropriatamente esser detta virtuosa, se non è accompagnata dal sentimento di autoapprovazione.


 
PARTE IV L’EFFETTO DELL’UTILITÀ SUL SENTIMENTO DI APPROVAZIONE

 
CAPITOLO I La bellezza che tutte le produzioni dell’arte ricevono dall’apparenza di utilità, e la grande influenza di questo tipo di bellezza


1. Il fatto che l’utilità sia una delle principali fonti di bellezza è stato osservato da tutti quelli che hanno attentamente considerato da cosa sia costituita la natura della bellezza. La comodità di una casa dà piacere allo spettatore tanto quanto la sua forma regolare, e quando egli rileva il difetto contrario ne viene colpite allo stesso modo che se vedesse le finestre di diverse forme, o la porta posta non esattamente al centro dell’edificio. A nessuno è mai sfuggito l’ovvio fatto che, se un sistema o una macchina sono idonei a produrre il fine per il quale sono stati concepiti, questo conferisce a tutto l’insieme una certa appropriatezza e bellezza, e lo rende piacevole sia al pensiero che alla contemplazione.

2. La causa per cui l’utilità piace è stata di recente stabilita da un ingegnoso e piacevole filosofo, che unisce la più grande profondità di pensiero alla più grande eleganza dell’espressione, e possiede il singolare e felice talento di trattare gli argomenti più astrusi non solo con la più perfetta chiarezza, ma anche con la più vivace eloquenza. Secondo questo filosofo, l’utilità di un oggetto piace al proprietario perché gli suggerisce di continuo il piacere o la comodità che esso è adatto a promuovere. Ogni volta che lo guarda, gli viene in mente questo piacere, e l’oggetto in questo modo diventa una fonte di continua soddisfazione e gioia. Lo spettatore, per simpatia, prende parte ai sentimenti del proprietario, e necessariamente vede l’oggetto sotto lo stesso piacevole aspetto. Visitando i palazzi dei grandi signori, non possiamo fare a meno di concepire la soddisfazione che proveremmo se fossimo noi stessi i proprietari, e possedessimo un’abitazione così artistica e ingegnosamente progettata. Con un resoconto simile ci viene spiegato anche perché la manifesta inutilità rende un oggetto sgradevole sia a chi lo possiede che allo spettatore.

3. Ma, per quanto io ne sappia, nessuno ha mai preso in considerazione il fatto che questo essere adatto e ben progettato, nelle produzioni artistiche, venga spesso stimato più dello stesso fine per cui sono state concepite, e il fatto che l’esatto adattamento dei mezzi per raggiungere comodità o piacere venga spesso considerato di più che la comodità o il piacere stessi, quando invece tutto il merito dei mezzi consiste proprio in questo risultato. Tuttavia, che le cose stiano molto frequentemente così può essere osservato in migliaia di esempi, nelle più frivole, come nelle più importanti situazioni della vita umana.

4. Quando una persona entra nella propria camera e trova tutte le sedie in mezzo alla stanza, se la prende col proprio domestico, e, piuttosto che vederle in disordine, forse si prende la briga di metterle lui stesso a posto, con gli schienali rivolti verso il muro. Tutta l’appropriatezza di questa nuova disposizione deriva dalla maggiore comodità del pavimento libero e sgombro. Per raggiungere questa comodità, questa persona si procura volontariamente più problemi di quelli che avrebbe avuto senza di essa. Infatti, non c’era niente di più facile che sedersi su una delle sedie, che è probabilmente quel che farà quando avrà finito di sistemarle. Perciò, sembra che egli volesse non tanto questa comodità, quanto la sistemazione delle cose che la promuove. Però è questa comodità che in ultima analisi richiede quella sistemazione, e le conferisce tutta la sua appropriatezza e bellezza.

5. Allo stesso modo, un orologio che resta indietro più di due minuti al giorno viene disprezzato da un uomo appassionato di orologi. Magari lo venderà per un paio di ghinee, e ne comprerà per cinquanta uno che non perde più di un minuto in quindici giorni. Tuttavia, l’unico uso degli orologi è quello di dirci che ore sono, evitandoci di mancare a un impegno o altri inconvenienti che derivano dal non sapere l’ora. Ma non sempre troveremo che la persona così minuziosa nei riguardi di questa macchina è più scrupolosamente puntuale di altri uomini, o più ansiosamente preoccupata, per qualche altro motivo, di sapere precisamente che ore sono. Quel che lo interessa non è tanto il raggiungimento di questa conoscenza, ma la perfezione della macchina che serve per raggiungerla.

6. Quante persone si rovinano buttando soldi per gingilli di frivola utilità? Quello che piace a questi amanti dei ninnoli non è tanto l’utilità, quanto l’idoneità dei congegni che sono adatti a produrla. Le loro tasche sono piene di piccole cianfrusaglie. Inventano nuove tasche, inesistenti negli abiti delle altre persone, per portarsene dietro ancora di più. Passeggiano carichi di una quantità di bagattelle, non inferiori per peso, e a volte per valore, al normale carrettino di un ambulante ebreo; alcune di queste bagattelle possono trovare a volte una minima utilizzazione, ma si potrebbe in qualsiasi momento fare a meno di tutte, e la loro eventuale utilità certamente non vale la fatica del carico.

7. E non è solo per quanto riguarda questi frivoli oggetti che la nostra condotta è influenzata da questo principio. Esso è spesso il movente segreto dei più seri e importanti risultati della vita sia pubblica che privata.

8. Il figlio dell’uomo povero, al quale il cielo, nella sua collera, abbia fatto provare l’ambizione, quando comincia a guardarsi intorno, ammira la condizione dei ricchi. La casetta di suo padre gli sembra una dimora troppo piccola, e comincia a fantasticare che, alloggiando in un palazzo, starebbe più a suo agio. Gli secca essere obbligato ad andare a piedi, o fare la fatica di cavalcare. Vede i suoi superiori in carrozza, e immagina che in una di quelle potrebbe viaggiare più comodo. Si sente indolente, e perde ogni voglia di procurarsi le cose con le proprie mani. Ritiene che un folto seguito di domestici gli risparmierebbe molti problemi. Pensa che, se riuscisse a ottenere tutto ciò, se ne starebbe seduto tranquillo e soddisfatto, e si riposerebbe, godendo della felicità e della tranquillità della sua situazione. È incantato dalla remota idea di questa felicità. Nella sua fantasia gli appare come la vita di esseri di rango superiore, e, per raggiungerla, si dedica all’eterno inseguimento di ricchezza e grandezza. Per ottenere le comodità da esse offerte, si sottopone nel primo anno, anzi, nel primo mese, di applicazione, a una fatica fisica e a una tensione mentale maggiori di quelle che avrebbe dovuto sopportare in tutta la vita per la mancanza di quelle comodità. Si sforza di emergere in qualche difficile professione. Fatica notte e giorno con la più inflessibile operosità, per acquisire maggior talento dei suoi concorrenti. Poi cerca di mettere in mostra questo talento, e altrettanto assiduamente sollecita ogni occasione per impiegarlo. A tale scopo corteggia tutta l’umanità: serve coloro che odia e ossequia coloro che disprezza. Lungo tutto il corso della sua vita persegue l’idea di un certo artificiale ed elegante riposo a cui mira, sacrificando a esso una tranquillità reale che è in ogni momento alla sua portata. Se, all’estremo della vecchiaia, dovesse alla fine raggiungerlo, non lo troverà sotto nessun riguardo preferibile a quell’umile sicurezza e soddisfazione che ha abbandonato per ottenerlo. Allora, negli ultimi avanzi di vita, con il corpo consumato dalla fatica e dalla malattia, con la mente tormentata e agitata al ricordo delle migliaia di offese e delusioni che crede di aver ricevuto per l’ingiustizia dei suoi nemici, o per la perfidia e l’ingratitudine dei suoi amici, egli comincia infine a scoprire che ricchezza e grandezza sono meri gingilli di frivola utilità, e non servono a procurare benessere fisico e tranquillità mentale più di quanto non lo facciano gli astucci da toletta dell’amante di ninnoli, e, come loro, procurano alla persona che se le porta addosso più problemi che vantaggi. Tra i due tipi di comodità non c’è altra reale differenza che la maggiore o minore osservabilità. I palazzi, i giardini, l’equipaggiamento, il seguito del gran signore sono oggetti la cui ovvia comodità colpisce chiunque. Non c’è bisogno che il loro proprietario faccia notare in cosa consista la loro utilità, lo cogliamo da soli, e ci rallegriamo per simpatia, approvando perciò la soddisfazione che quelle cose gli procurano. Ma l’attrattiva di uno stuzzicadenti, di un bastoncino per le orecchie, di un tagliaunghie o di ogni altro gingillo del genere non è così ovvia. Può darsi che la loro utilità sia ugualmente grande, ma non è così evidente, e noi non prendiamo parte prontamente alla soddisfazione di chi li possiede. Perciò queste cose sono oggetti di vanità meno ragionevoli che le magnificenze della ricchezza e della grandezza, e solo in questo consiste il vantaggio di quest’ultime. Esse sono più efficaci nel gratificare l’amore della distinzione, così naturale nell’uomo. Qualcuno che debba vivere da solo in un’isola deserta forse avrebbe qualche dubbio su cosa potrebbe contribuire maggiormente alla sua felicità e alla sua soddisfazione, se un palazzo, o una collezione di quelle piccole comodità comunemente contenute in un astuccio da toletta. Ma se deve vivere in società non può esserci confronto, perché in questo, come in tutti gli altri casi, abbiamo sempre maggior riguardo per i sentimenti dello spettatore che per quelli della persona principalmente interessata, e consideriamo la sua situazione più per come apparirà agli altri, che per come apparirà a lui. Tuttavia, se esaminiamo perché lo spettatore ammiri così tanto la condizione dei ricchi e dei potenti, scopriremo che non è tanto per il maggiore agio o piacere di cui presumibilmente godono, quanto per gli innumerevoli eleganti e artificiali congegni che servono a promuovere questo agio o piacere. Lo spettatore nemmeno immagina che i ricchi e i potenti siano realmente più felici degli altri, ma immagina che essi possiedano più mezzi per la felicità. Ed è questo ingegnoso e ricercato adattamento di quei mezzi al fine cui sono preposti a essere la fonte principale della sua ammirazione. Ma nella debolezza della malattia e nella stanchezza della vecchiaia i piaceri delle vane e vuote raffinatezze svaniscono. Chi si trova in questa situazione non si interessa più di quei faticosi obiettivi che quei piaceri lo spingevano a perseguire. Nel suo cuore egli maledice l’ambizione, e rimpiange invano la tranquillità e l’indolenza della gioventù, piaceri scomparsi per sempre, stupidamente sacrificati a qualcosa che, una volta raggiunto, non sa offrirgli una reale soddisfazione. È in questo miserevole aspetto che appare la grandezza a ogni uomo ridotto, per noia o malattia, a osservare con attenzione la propria situazione, e a considerare cosa manchi realmente alla sua felicità. Il potere e le ricchezze appaiono allora quello che sono: enormi e operosi congegni inventati per produrre qualche insignificante comodità per il corpo, congegni fatti di molle fragili e delicate, che devono essere tenuti in ordine con la più sollecita attenzione, e che, a dispetto di tutta la nostra cura, sono a ogni momento pronti a cadere in pezzi, trascinando nella loro rovina il loro sfortunato possessore. Sono edifici immensi, che richiedono la fatica di una vita per essere costruiti, che minacciano continuamente di schiacciare la persona che li abita, e che, pur potendo, mentre sono in piedi, salvarlo da piccoli inconvenienti, non possono salvarlo da nessuna delle inclemenze della stagione. Tengono lontano l’acquazzone estivo, non la tempesta invernale, ma lo lasciano sempre esposto quanto e forse più di prima all’ansia, alla paura, alla sofferenza, alla malattia, al pericolo, alla morte.

9. Ma per quanto questa malinconica filosofia, familiare a ogni uomo nei momenti di malattia o di depressione, privi di valore quei grandi oggetti del desiderio umano, noi non manchiamo mai di considerarli sotto un aspetto più gradevole quando godiamo di migliore salute e di migliore umore. La nostra immaginazione, che nel dolore e nella sofferenza sembra confinata e rinchiusa dentro di noi, in momenti di benessere e gioia si espande su tutte le cose che ci circondano. Allora restiamo affascinati dalla bellezza del benessere che regna nei palazzi e nei beni dei potenti, e ammiriamo come ogni cosa sia adatta a favorire il loro agio, a prevenire i loro bisogni, a soddisfare i loro desideri, e a compiacere e assecondare le loro più frivole fantasie. Se consideriamo la reale soddisfazione che tutte queste cose riescono a offrire, per se stessa e separata dalla bellezza di quella disposizione di cose fatta per promuoverla, apparirà sempre disprezzabile e insignificante. Ma raramente la vediamo in questa luce astratta e filosofica. Nella nostra immaginazione, la confondiamo naturalmente con l’ordine, col regolare e armonioso meccanismo del sistema, con la macchina o i beni per mezzo dei quali viene prodotta. I piaceri della ricchezza e della potenza, considerati in questa complessa luce, colpiscono l’immaginazione come qualcosa di grande, bello e nobile, il cui raggiungimento vale tutta la fatica e tutta l’ansia che siamo così disposti a dedicargli.

10. Ed è un bene che la natura si imponga su di noi in questo modo. È questo inganno che risveglia e tiene continuamente in movimento l’industriosità dell’uomo. È questo ciò che all’inizio lo ha spinto a coltivare il terreno, a costruire case, a fondare città e repubbliche, a inventare e perfezionare tutte le scienze e le arti che nobilitano e abbelliscono la vita umana, che ha cambiato del tutto l’intero aspetto del globo, ha trasformato le foreste selvagge in pianure belle e fertili, ha fatto dell’oceano impraticabile e sterile una nuova fonte di sussistenza, e la grande via di comunicazione verso le diverse nazioni della terra. La terra è stata costretta da queste fatiche umane a raddoppiare la sua naturale fertilità, e a mantenere una moltitudine maggiore di abitanti. Non serve a niente che il superbo e insensibile proprietario terriero ispezioni i suoi vasti campi, e che, senza pensare ai bisogni dei suoi fratelli, nell’immaginazione consumi da solo tutto il grano che vi cresce. Il familiare e comune proverbio, che dice che l’occhio è più grande della pancia, non è mai stato così vero come nel suo caso. La capacità del suo stomaco non regge il paragone con l’immensità dei suoi desideri, e non è maggiore di quella del più umile contadino. Egli è costretto a distribuire il resto tra quelli che preparano, nel migliore dei modi, quel poco che lui stesso utilizza, tra quelli che allestiscono il palazzo in cui quel poco verrà consumato, tra quelli che procurano e tengono in ordine tutte le bagattelle e i gingilli che vengono usati nell’amministrare la grandezza. Tutte queste persone, così, ricevono dal suo lusso e dal suo capriccio quella parte di cose necessarie alla vita che avrebbero invano aspettato dalla sua umanità e dalla sua giustizia. La produzione del terreno mantiene in ogni momento quasi lo stesso numero di persone che è in grado di mantenere. I ricchi non fanno altro che scegliere nella grande quantità quel che è più prezioso e gradevole. Consumano poco più dei poveri, e, a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità, nonostante non pensino ad altro che alla propria convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani e insaziabili desideri, essi condividono con i poveri il prodotto di tutte le loro migliorie. Sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie. Quando la Provvidenza divise la terra tra pochi proprietari, non dimenticò né abbandonò quelli che sembravano esser stati lasciati fuori dalla spartizione. Anche questi ultimi hanno la loro parte in quel che la terra produce. Per quel che costituisce la reale felicità della vita umana, non sono sotto nessun rispetto inferiori a quelli che sembrerebbero molto al di sopra di loro. Nel benessere fisico e nella tranquillità mentale, tutti i diversi ranghi della vita sono quasi sullo stesso piano, e il mendicante che si crogiola al sole al margine della strada possiede quella sicurezza per la quale i re combattono.

11. Lo stesso principio, lo stesso amore per il sistema, lo stesso riguardo per la bellezza dell’ordine, dell’arte della progettazione serve spesso a far apprezzare le istituzioni che tendono a promuovere il bene pubblico. Quando un patriota si impegna per migliorare qualche aspetto dell’ordine pubblico, la sua condotta non sempre è dettata dalla pura simpatia per la felicità di quelli che raccoglieranno i benefici. Normalmente non è per un sentimento di partecipazione verso i conduttori e i carrettieri che un uomo dotato di senso civico appoggia la riparazione delle strade. Quando la legislazione stabilisce premi e altre forme di incoraggiamento per favorire le industrie tessili e i lanifici, raramente la sua condotta deriva dalla semplice simpatia per i consumatori di abiti a buon mercato o raffinati, e ancor meno dalla simpatia per l’imprenditore o il mercante. La perfezione dell’ordine pubblico, l’estensione del commercio e delle industrie sono obiettivi nobili e magnifici. Ci piace coltivarli, e qualsiasi cosa tenda a promuoverli ci interessa. Essi fanno parte del grande sistema di governo, e gli ingranaggi della macchina politica sembrano muoversi con più armonia grazie a loro. Ci fa piacere contemplare la perfezione di un sistema così bello e imponente, e siamo in ansia finché non eliminiamo ogni ostacolo che possa minimamente disturbare o intralciare la regolarità dei suoi movimenti. Tutti i governi, tuttavia, vengono valutati solo in proporzione alla loro tendenza a promuovere la felicità di coloro che vivono sotto di essi. Questo è il loro unico uso e fine. Tuttavia, per un certo spirito di sistema, per un certo amore dell’arte e dell’inventiva, a volte sembra che valutiamo più i mezzi che il fine, e che siamo ansiosi di promuovere la felicità dei nostri simili più con l’intento di perfezionare e migliorare un certo sistema bello e ordinato, che per un immediato senso o sentimento di ciò per cui essi soffrono e gioiscono. Ci sono stati uomini dotati del più grande spirito civico che si sono mostrati per altri rispetti non molto sensibili ai sentimenti di umanità. E, al contrario, ci sono stati uomini dotati della più grande umanità che sono sembrati del tutto privi di spirito civico. Ognuno può trovare nel giro delle proprie conoscenze esempi dell’uno o dell’altro tipo. Chi ebbe mai minore umanità e maggior spirito civico del celebrato legislatore della Moscovia? Il buono e socievole Giacomo I di Gran Bretagna, al contrario, sembra non aver avuto quasi nessuna passione per la gloria o per l’interesse del suo paese. Se tu volessi risvegliare l’industriosità dell’uomo che sembra come morto nei riguardi dell’ambizione, spesso non servirebbe a niente descrivergli la felicità dei ricchi e dei potenti, dirgli che essi sono generalmente al riparo dal sole e dalla pioggia, che non provano quasi mai la fame o il freddo, e che raramente sono esposti alla stanchezza o ai bisogni di qualsiasi genere. La più eloquente esortazione di questo tipo avrebbe su di lui scarso effetto. Se vuoi riuscire nel tuo intento, devi descrivergli la comodità e la disposizione dei diversi appartamenti nei loro palazzi, devi spiegargli l’appropriatezza delle loro attrezzature, e indicargli il numero, l’ordine, e i diversi compiti dei loro dipendenti. Se c’è una cosa in grado di impressionarlo, è questa. Tuttavia, tutte queste cose servono solo a riparare dal sole e dalla pioggia, a proteggere dalla fame e dal freddo, dal bisogno e dalla stanchezza. Allo stesso modo, se tu volessi infondere virtù civili nel cuore di chi sembra disinteressato al suo paese, spesso non servirebbe a niente descrivergli gli infiniti vantaggi dei quali godono i sudditi di uno stato ben governato, dirgli che sono meglio alloggiati, meglio vestiti, meglio nutriti. Queste considerazioni non faranno comunemente una grande impressione. Avrai maggiore possibilità di persuaderlo, se gli descrivi il grande sistema dell’amministrazione civile (police) che procura quei vantaggi, se gli spieghi le connessioni e le dipendenze delle sue varie parti, la loro reciproca subordinazione, e la loro generale subordinazione alla felicità della società, se gli mostri come questo sistema possa essere introdotto nel suo paese, che cosa gli impedisce di affermarsi al momento presente, come si possano rimuovere questi ostacoli, e come tutti i vari ingranaggi della macchina governativa possano essere fatti in modo da muoversi con armonia e scorrevolezza, senza stridere l’uno sull’altro, e senza che l’uno rallenti i movimenti dell’altro. È quasi impossibile che un uomo riesca ad ascoltare un discorso di questo tipo senza sentirsi animato, a un certo grado, di spirito civico. Almeno per quel momento, sentirà un certo desiderio di rimuovere quegli ostacoli, e di mettere in moto una macchina così bella e ordinata. Non c’è niente che tenda a promuovere spirito civico tanto quanto lo studio della politica, dei vari sistemi di governo civile, con i loro vantaggi e i loro svantaggi, della costituzione del proprio paese, della sua situazione, dei suoi interessi per le nazioni straniere, del suo sistema di commercio e di difesa, dei problemi in cui si dibatte, dei rischi a cui può trovarsi esposto, di come rimuovere gli uni, e proteggersi dagli altri. Per questo le disquisizioni politiche, se giuste, ragionevoli e praticabili, sono le più utili tra tutte le attività speculative. Anche le più deboli e le peggiori non sono del tutto prive della loro utilità. Servono almeno ad animare le passioni pubbliche degli uomini, e spingerli a cercare i mezzi per promuovere la felicità della società.


 
CAPITOLO II La bellezza che l’apparenza di utilità conferisce ai caratteri e alle azioni degli uomini; fino a che punto la percezione di questa bellezza si possa considerare uno dei principi originari dell’approvazione


1. I caratteri degli uomini, come le invenzioni artistiche e le istituzioni di governo civile, possono esser atti a promuovere o a ostacolare la felicità sia dell’individuo che della società. Il carattere prudente, equo, attivo, risoluto e sobrio promette prosperità e soddisfazione, sia a chi lo possiede che a tutti quelli in rapporto con lui. Quello avventato, arrogante, indolente, effeminato e sensuale, al contrario, fa presagire rovina per l’individuo e sventura per tutti quelli che hanno a che fare con lui. La prima inclinazione mentale possiede almeno tutta la bellezza che può appartenere alla più perfetta macchina mai inventata per i migliori propositi, e la seconda tutte le deformità della più maldestra e goffa invenzione. Quale istituzione di governo potrebbe tendere a promuovere la felicità degli uomini tanto quanto la generale prevalenza della saggezza e della virtù? Ogni governo non è che un rimedio imperfetto alla loro assenza. Quindi, ogni bellezza possa appartenere al governo civile per la sua utilità, deve in maggior grado appartenere a saggezza e virtù. Al contrario, quale politica civile può essere così rovinosa e distruttiva quanto i vizi degli uomini? Gli effetti fatali del cattivo governo non derivano da altro che dal fatto che non si difende abbastanza dai mali cui dà occasione la malvagità umana.

2. Questa bellezza e deformità che i caratteri mostrano di derivare dalla loro utilità o dannosità tendono a impressionare in modo particolare quelli che considerano in una luce astratta e filosofica le azioni e la condotta degli uomini. Quando un filosofo va a prendere in esame il motivo per cui la bontà viene approvata, o la crudeltà condannata, non sempre si forma in maniera davvero chiara e distinta la concezione di una particolare azione crudele o buona, ma normalmente si accontenta dell’idea vaga e indeterminata che gli viene suggerita dai nomi generali di quella qualità. Ma solo in casi particolari l’appropriatezza o l’inappropriatezza, il merito o il demerito delle azioni sono molto chiari e riconoscibili. Solo quando vengono dati esempi particolari noi percepiamo distintamente l’accordo o il disaccordo tra le nostre affezioni e quelle dell’agente, o sentiamo sorgere nei suoi confronti gratitudine in un caso, o risentimento simpatetico nell’altro. Quando consideriamo in maniera astratta e generale la virtù e il vizio, le qualità per mezzo delle quali essi suscitano questi diversi sentimenti sembrano in larga misura scomparire, e i sentimenti stessi diventano ovvi e riconoscibili. Al contrario, i felici effetti dell’una e le fatali conseguenze dell’altro sembrano scoprirsi alla vista, come delineandosi e distinguendosi da tutte le altre loro qualità.

3. Quello stesso ingegnoso e piacevole autore che per primo ha spiegato perché l’utilità piace, è rimasto talmente impressionato da questa visione delle cose da risolvere tutta la nostra approvazione della virtù in una percezione di questo tipo di bellezza che risulta dall’apparenza di utilità. Egli osserva che non esistono qualità dell’animo approvate come virtuose, se non quelle utili o piacevoli per la persona stessa che le possiede oppure per gli altri, e non esistono qualità disapprovate come viziose se non quelle che hanno una tendenza contraria. E la Natura, a dire il vero, sembra aver accomodato così felicemente i nostri sentimenti di approvazione e disapprovazione per il bene dell’individuo e della società, che dopo l’esame più accurato siamo portati a credere che universalmente l’approvazione si fonda sull’utilità. Ma tuttavia affermo che non è la considerazione di questa utilità o dannosità a essere la prima o la principale fonte della nostra approvazione o disapprovazione. Questi sentimenti vengono senza dubbio accresciuti e ravvivati dalla percezione della bellezza o deformità che risulta dalla sua utilità o dannosità. Ma tuttavia sostengo che sono originariamente e essenzialmente differenti da questa percezione.

4. Infatti, per prima cosa, sembra impossibile che l’approvazione della virtù debba essere un sentimento dello stesso tipo di quello per cui approviamo un edificio comodo e ben progettato, o che non dobbiamo avere altro motivo per lodare un uomo di quello che abbiamo per lodare un comò.

5. In secondo luogo, indagando si scoprirà che raramente l’utilità di ogni disposizione mentale è il primo fondamento della nostra approvazione, e che il sentimento di approvazione implica sempre un senso di appropriatezza del tutto distinto dalla percezione dell’utilità. Possiamo osservarlo nel caso di tutte le qualità che vengono approvate come virtuose, sia di quelle che secondo questo sistema sono originariamente apprezzate perché utili per noi, sia di quelle stimate a causa della loro utilità per gli altri.

6. Le qualità più utili per noi sono, prima di tutto, ragione e intelletto superiori, per cui siamo capaci di discernere le conseguenze remote di tutte le nostre azioni, e di prevedere i vantaggi o gli svantaggi che presumibilmente ne risulteranno; in secondo luogo, il dominio di noi stessi, per cui siamo in grado di astenerci dal piacere presente o di sopportare il presente dolore per ottenere in futuro un piacere maggiore o evitare un maggior dolore. Nell’unione di queste due qualità consiste la virtù della prudenza, di tutte le virtù quella più utile per l’individuo.

7. Riguardo alla prima di queste qualità, è stato osservato in una precedente occasione che ragione e intelletto superiori vengono originariamente approvati in quanto giusti, corretti, accurati, e non solo in quanto utili e vantaggiosi. È nelle scienze più astruse, e in particolare nella matematica superiore, che si sono manifestate le più grandi espressioni della ragione umana. Ma l’utilità di queste scienze, per l’individuo o per il pubblico, non è così ovvia e per dimostrarla occorre una discussione che non sempre viene compresa molto facilmente. Perciò, non è stata la loro utilità che per prima le ha raccomandate alla pubblica ammirazione. Su questa qualità non si è molto insistito, fin quando non è diventata necessaria per replicare ai rimproveri di coloro che, non avendo genio per tali sublimi scoperte, tentavano di svalutarle come inutili.

8. Allo stesso modo, quel dominio di noi stessi con cui tratteniamo i nostri appetiti presenti, per soddisfarli più pienamente in un’altra occasione, viene approvato tanto sotto l’aspetto dell’appropriatezza che sotto quello dell’utilità. Quando agiamo in questo modo, i sentimenti che influenzano la nostra condotta sembrano coincidere del tutto con quelli dello spettatore. Lo spettatore non sente le sollecitazioni dei nostri appetiti presenti. Per lui il piacere che proveremo di qui a una settimana, o di qui a un anno, è interessante esattamente quanto quello attuale. Perciò, quando per il presente sacrifichiamo il futuro, la nostra condotta appare allo spettatore del tutto assurda e strana, ed egli non riesce a prender parte ai principi che la influenzano. Al contrario, quando ci asteniamo dal piacere presente, per garantirci un maggior piacere futuro, quando agiamo come se l’oggetto remoto ci interessasse tanto quanto quello che esercita immediatamente pressione sui nostri sensi, come se le nostre affezioni corrispondessero esattamente alle sue, allora egli non potrà non approvare il nostro comportamento, e poiché sa per esperienza che pochi sono capaci di tale dominio di sé, considera la nostra condotta con un grado considerevole di stupore e ammirazione. Di qui deriva quella grande stima con cui tutti gli uomini considerano una stabile perseveranza nella pratica della frugalità, dell’industriosità e dell’applicazione, sebbene dirette verso nessun altro proposito che l’acquisto della fortuna. La risoluta fermezza della persona che agisce in questo modo e, col proposito di ottenere un grande, sebbene remoto, vantaggio, non solo rinuncia a tutti i piaceri presenti, ma esercita il più grande sforzo fisico e mentale, richiede necessariamente la nostra approvazione. La considerazione del suo interesse e della sua felicità che sembra regolare la sua condotta coincide esattamente con l’idea che noi naturalmente ce ne formiamo. Esiste la più perfetta corrispondenza tra i suoi sentimenti e i nostri, e allo stesso tempo, per la nostra esperienza della comune debolezza della natura umana, è una corrispondenza che non ci saremmo ragionevolmente potuti aspettare. Perciò, non solo approviamo, ma in una certa misura ammiriamo la sua condotta, e la riteniamo degna di un considerevole grado di elogio. È solo la coscienza della sua meritata approvazione e stima che, sola, riesce a sostenere l’agente nel suo tenore di condotta. Il piacere di cui godremo di qui a dieci anni ci interessa talmente poco a confronto di quello godibile oggi, la passione suscitata dal primo è naturalmente così debole a confronto di quella violenta emozione cui riesce a dar origine il secondo, che l’uno non potrebbe mai eguagliare l’altro, a meno di non essere sostenuto dal senso dell’appropriatezza, dalla coscienza che abbiamo meritato la stima e l’approvazione di tutti, agendo in quel modo, e che siamo diventati oggetti appropriati del loro disprezzo e della loro derisione agendo nell’altro.

9. L’umanità, la giustizia, la generosità e il senso civico sono qualità utilissime agli altri. In cosa consista l’appropriatezza dell’umanità e della giustizia è stato spiegato in una precedente occasione, dove si è mostrato quanto la nostra stima e la nostra approvazione di quelle qualità dipendano dalla concordia tra le affezioni dell’agente e quelle dello spettatore.

10. L’appropriatezza della generosità e del senso civico si fonda sullo stesso principio di quella della giustizia. La generosità è diversa dall’umanità. Queste due qualità, che a prima vista sembrano così strettamente alleate, non sempre appartengono alla stessa persona. L’umanità è una virtù propria della donna, la generosità dell’uomo. Il sesso debole, che comunemente possiede maggiore sensibilità del nostro, raramente è altrettanto generoso. Il fatto che le donne facciano raramente donazioni considerevoli viene rilevato nel diritto civile. La bontà consiste solamente nel vivo sentimento di partecipazione che lo spettatore nutre per coloro che soffrono in prima persona, tanto da addolorarsi per le loro sofferenze, risentirsi per le loro offese, gioire per la loro buona fortuna. Le azioni più buone non richiedono abnegazione, autocontrollo, né un grande esercizio del senso dell’appropriatezza. Consistono solo nel fare ciò che questa viva simpatia di per sé ci spingerebbe a fare. Ma le cose stanno altrimenti con la generosità. Non siamo mai generosi se non quando per certi rispetti noi preferiamo qualche altra persona a noi stessi, e sacrifichiamo qualche nostro grande e importante interesse a un uguale interesse di un amico o di un superiore. L’uomo che rinuncia alle sue pretese su un incarico che era il grande oggetto della sua ambizione, perché ritiene che le prestazioni di un altro siano più qualificate per esso; l’uomo che rischia la sua vita per difendere quella del suo amico, che egli giudica più importante; questi due uomini non agiscono per umanità, o perché sentono quello che riguarda altre persone in modo più vivo di quanto non sentano quello che riguarda loro stessi. Essi considerano quegli opposti interessi non alla luce in cui appaiono naturalmente a loro, ma in quella in cui appaiono agli altri. Può darsi che a qualunque testimone interesserebbe più il successo o la conservazione dell’altra persona, ma per loro non può essere la stessa cosa. Perciò, quando nell’interesse di un altro essi sacrificano il loro, quei due uomini si adattano ai sentimenti dello spettatore, e per uno sforzo di magnanimità agiscono secondo quella visione delle cose che sentono debba essere quella di qualsiasi terza persona. Il soldato che dà la sua vita per difendere quella del suo ufficiale forse sarebbe poco colpito dalla morte di quest’ultimo, se essa avvenisse senza alcuna colpa da parte sua; e forse gli provocherebbe una sofferenza molto più viva un piccolissimo danno capitato a lui. Ma quando si sforza di agire in modo tale da meritare elogio, e da far sì che lo spettatore imparziale prenda parte ai principi della sua condotta, sente che per tutti, fatta eccezione solo per lui stesso, la sua vita è un’inezia a paragone di quella del suo ufficiale, e che quando egli sacrifica l’una all’altra agisce in modo del tutto appropriato e conforme a quello che sarebbe la naturale preoccupazione di ogni imparziale testimone.

11. Il caso è lo stesso per le più grandi espressioni di senso civico. Quando un giovane ufficiale mette in gioco la sua vita per ottenere qualche insignificante acquisizione per i domini del proprio sovrano, questo non avviene perché l’acquisizione di un nuovo territorio sia per lui un oggetto più desiderabile della conservazione della propria vita. Per lui la propria vita vale infinitamente di più della conquista di un intero regno per lo stato che egli serve. Ma quando lui confronta questi due oggetti l’uno con l’altro, non li vede nella luce in cui essi naturalmente appaiono a lui, ma in quella in cui appaiono al popolo per cui combatte. Per quest’ultimo il successo della guerra è della più grande importanza, la vita di una semplice persona di quasi nessun rilievo. Quando si mette nella loro situazione, immediatamente sente che il suo sangue non è sprecato, se viene versato per uno scopo così prezioso. L’eroismo della sua condotta consiste nel contrastare in questo modo, per un senso del dovere e dell’appropriatezza, le più forti propensioni naturali. Ci sono molti onesti inglesi che, nel privato, sarebbero disturbati più seriamente dalla perdita di una ghinea che dalla perdita del possedimento di Minorca, e che tuttavia, se fosse stato in loro potere difendere quella fortezza, avrebbero sacrificato la propria vita mille volte piuttosto che lasciare che per colpa loro cadesse nelle mani del nemico. Quando Lucio Junio Bruto condusse alla pena capitale i suoi stessi figli, perché avevano cospirato contro la nascente libertà di Roma, egli sacrificò quello che, se avesse consultato soltanto il suo cuore, gli sarebbe sembrato l’affetto più forte a confronto col più debole. Bruto naturalmente deve aver sentito molto di più per la morte dei suoi figli che per tutto quello che probabilmente Roma avrebbe potuto patire in mancanza del suo grande esempio. Ma egli li vide non con gli occhi di un padre, ma con quelli di un cittadino romano. Prese parte così profondamente ai sentimenti di questo personaggio da non prestare riguardo a quel vincolo che lo legava ai propri figli. E per un cittadino romano persino i figli di Bruto apparivano disprezzabili a confronto del minimo interesse di Roma. In questi e in tutti gli altri casi di questo tipo, la nostra ammirazione non si fonda tanto sull’utilità, quanto sull’inattesa, e perciò grande, nobile ed elevata appropriatezza di tali azioni. Questa utilità, quando veniamo a considerarla, conferisce senza dubbio a quelle azioni una nuova bellezza, e per questo le raccomanda ancora di più alla nostra approvazione. Tuttavia, questa bellezza viene percepita soprattutto da uomini inclini alla riflessione e alla speculazione, e non è affatto la qualità che per prima raccomanda tali azioni ai sentimenti naturali della plebaglia.

12. Bisogna osservare che finché il sentimento di approvazione deriva dalla percezione di questa bellezza dell’utilità, non ha riferimenti di nessun tipo ai sentimenti degli altri. Perciò, se fosse possibile per una persona poter arrivare all’età adulta senza alcuna comunicazione con la società, le sue azioni potrebbero, nonostante ciò, essere per lui gradevoli o sgradevoli a seconda della loro tendenza a procurargli felicità o svantaggio. Egli potrebbe cogliere una simile bellezza nella prudenza, nella temperanza, e nella buona condotta, e una deformità nel comportamento opposto: potrebbe considerare il proprio umore e il proprio carattere con quella sorta di soddisfazione con cui noi consideriamo una macchina ben progettata, in un caso, con quella sorta di disgusto e insoddisfazione con cui consideriamo un’invenzione brutta e inutile, nell’altro. Tuttavia, dal momento che queste percezioni sono solo una questione di gusto, sono molto delicate, e probabilmente non sarebbero molto coltivate da una persona in una condizione così solitaria e miserevole. Anche se dovesse avere tali percezioni, se non fosse affatto in rapporto con la società non gli farebbero lo stesso effetto che se lo fosse. Egli non si abbatterebbe al pensiero di questa deformità e non si esalterebbe in un segreto trionfo per la coscienza della contraria bellezza. Non esulterebbe per il fatto di meritare punizione nell’altro. Tutti questi sentimenti presuppongono l’idea di qualche altro essere, che è il giudice naturale della persona che li prova, ed è solo per simpatia con le decisioni di questo arbitro della sua condotta che egli riesce a concepire o il trionfo dell’autoelogio, o la vergogna dell’autocondanna.


 
PARTE V L’INFLUENZA DELLA CONSUETUDINE E DELLA MODA SUI SENTIMENTI DELL’APPROVAZIONE E DISAPPROVAZIONE MORALE

 
CAPITOLO I L’influenza della consuetudine e della moda sulle nostre nozioni di bellezza e deformità


1. Ci sono altri principi oltre a quelli già enumerati, che hanno una considerevole influenza sui sentimenti morali dell’umanità, e sono le cause principali delle molte opinioni irregolari e discordi che prevalgono in diverse epoche e nazioni riguardo a ciò che è biasimevole o degno di lode. Questi principi sono la consuetudine e la moda, principi che estendono il loro dominio sui nostri giudizi riguardo a qualunque genere di bellezza.

2. Quando due oggetti sono stati frequentemente visti insieme, l’immaginazione acquisisce l’abitudine di passare facilmente dall’uno all’altro. Se appare il primo, affermiamo che il secondo lo seguirà. L’uno ci fa spontaneamente pensare all’altro, e l’attenzione scivola velocemente su di essi. Per quanto, indipendentemente dalla consuetudine, non ci sia alcuna reale bellezza nella loro unione, tuttavia, quando la consuetudine li ha così connessi, sentiamo inappropriata la loro separazione. L’oggetto a cui pensiamo è strano quando appare senza il suo solito compagno. Ci viene a mancare qualcosa che ci aspettavamo di trovare, e l’abituale disposizione delle nostre idee viene disturbata dalla delusione. A un abbigliamento completo, ad esempio, sembra che manchi qualcosa se è senza il più insignificante ornamento che di solito lo accompagna, e anche l’assenza di un semplice bottone ci sembra volgare e strana. Quando nell’unione di due oggetti c’è una certa naturale appropriatezza, la consuetudine accresce il nostro senso di tale appropriatezza e fa sì che una diversa disposizione appaia ancora più sgradevole di quanto sembrerebbe in sua assenza. Coloro che sono stati abituati a vedere le cose con buon gusto, sono più disgustati da ciò che è sgraziato o strano. Quando il congiungimento è inappropriato, la consuetudine diminuisce o cancella del tutto il nostro senso di inappropriatezza. Chi è stato abituato a uno sciatto disordine, perde ogni senso della pulizia e dell’eleganza. Le fogge di mobili o abiti che sembrano ridicole agli stranieri, non sono sgradevoli per chi vi è abituato.

3. La moda è diversa dalla consuetudine, o piuttosto è una specie particolare di consuetudine. Non parlo della moda seguita da tutti, ma di quella seguita da gente d’alto rango e personalità. Le maniere aggraziate, disinvolte e autorevoli proprie dell’uomo potente, unite all’abituale ricchezza e magnificenza del suo abito, conferiscono una certa grazia anche al particolare modello indossato. Finché continuano a portarlo, esso nella nostra immaginazione si connette con l’idea di qualcosa di elegante e magnifico, e sebbene sia in se stesso mediocre, a causa di questa connessione sembra possedere anch’esso qualcosa di magnifico ed elegante. Non appena lo smettono, quel modello perde tutta la grazia che sembrava possedere prima, e, essendo usato ora solo da gente di rango inferiore, sembra aver acquistato qualcosa della sua volgarità e goffaggine.

4. È ammesso da tutti che gli abiti e i mobili sono del tutto soggetti al dominio della consuetudine e della moda. L’influenza di quei principi, tuttavia, non è affatto ristretta a una sfera così limitata, ma si estende a qualsiasi cosa sia oggetto di gusto: musica, poesia, architettura. Le fogge degli abiti e dei mobili cambiano continuamente, e per esperienza siamo convinti che la moda apprezzata cinque anni fa e che oggi appare ridicola doveva il suo successo principalmente o del tutto alla consuetudine e alla moda. I vestiti e i mobili non sono fatti di materiali molto durevoli. Un cappotto ben disegnato passa di moda nel giro di un anno, e non può continuare più a lungo a diffondere il modello secondo il quale è stato realizzato. Le fogge dei mobili cambiano meno rapidamente di quelle degli abiti, perché comunemente i mobili durano più a lungo. Tuttavia, nel giro di cinque o sei anni, generalmente si ha una completa rivoluzione, e ognuno assiste nel tempo in cui vive ai vari cambiamenti della moda in questo campo. Le produzioni delle altre arti durano molto di più, e le buone creazioni possono continuare a propagare la moda della loro fattura per un tempo lunghissimo. Un edificio ben progettato può durare per secoli; una bella aria musicale si può tramandare per tradizione attraverso molte generazioni successive; una bella poesia può durare quanto il mondo, e tutte queste creazioni continuano insieme a lungo a mantenere in voga quel particolare stile, quel particolare gusto o maniera secondo cui furono composte. Pochi hanno l’opportunità di vedere, nel tempo in cui vivono, considerevoli cambiamenti di moda in queste arti. Pochi hanno una tale esperienza e familiarità con le diverse fogge in voga in età e nazioni remote, tanto da essere del tutto equilibrati nel considerarle, o imparziali nel fare da giudici tra esse e quelle della propria epoca nel proprio paese. Pochi, perciò, desiderano permettere che la consuetudine e la moda abbiano molta influenza sui loro giudizi riguardo a ciò che è bello o meno nelle produzioni di quelle arti, ma credono che tutte le regole da osservare in ciascuna di esse si fondino sulla ragione e sulla natura, non sull’abitudine e il pregiudizio. Tuttavia, un po’ di attenzione può convincerli del contrario, e persuaderli che l’influenza della consuetudine e della moda su abiti e mobili non è più totale che sull’architettura, sulla poesia, sulla musica.

5. Si può dare, ad esempio, una ragione del perché il capitello dorico debba essere appropriato a una colonna la cui altezza è uguale a otto volte il suo diametro, la voluta ionica a una di nove volte, e il fogliame corinzio a una di dieci? L’appropriatezza di ciascuno di questi accoppiamenti non si può fondare altro che sull’abitudine e la consuetudine. L’occhio, abituato a vedere una particolare dimensione unita a un particolare ornamento, sarebbe infastidito se non li trovasse congiunti. Ogni ordine di colonne ha il suo particolare ornamento, che non può essere cambiato con un altro senza infastidire tutti quelli che conoscono qualcosa delle regole architettoniche. In verità, secondo alcuni architetti, il giudizio con cui gli antichi hanno assegnato a ciascun ordine il proprio ornamento è così fine che non se ne possono trovare altri ugualmente adatti. Tuttavia sembra un po’ difficile convincersi che questi modelli, sebbene, senza dubbio, estremamente gradevoli, debbano essere gli unici adatti a quelle proporzioni, o che non ce ne siano altri mille che, prima che si affermasse la consuetudine, si sarebbero adattati altrettanto bene. Tuttavia, quando la consuetudine ha stabilito particolari regole di costruzione, a patto che non siano del tutto irrazionali, è assurdo pensare di modificarle per altre altrettanto valide o persino migliori per eleganza e bellezza. Un uomo si esporrebbe al ridicolo apparendo in pubblico con un abbigliamento del tutto diverso da quelli indossati comunemente, anche se il nuovo abito fosse in se stesso grazioso e comodo. E riscontriamo una simile assurdità nel decorare una casa in una maniera del tutto diversa da quella prescritta dalla consuetudine e dalla moda, anche se le nuove decorazioni dovessero essere in se stesse superiori a quelle comuni.

6. Secondo gli antichi retori, un certo metro era per natura appropriato a ciascuna particolare specie di componimento, esprimendo per sua natura quel carattere, quel sentimento, quella passione in esso predominante. Affermavano che un verso era adatto alle opere serie, un altro a quelle brillanti, ed essi non potevano venire scambiati senza produrre una grave inappropriatezza. Tuttavia, l’esperienza dei tempi moderni sembra contraddire questo principio, anche se in se stesso potrebbe apparire del tutto plausibile. Quello che in Inglese è il verso burlesco, in Francese è il verso eroico. Le tragedie di Racine e l’Henriade di Voltaire sono scritti pressoché nello stesso verso di

Let me have your advice in a weighty affair al contrario, il verso burlesco in Francese è del tutto uguale al decasillabo eroico in Inglese. La consuetudine ha fatto sì che un popolo associasse l’idea del grave, del sublime, del serio, a quel metro che un altro popolo aveva collegato a ciò che è brillante, leggero e comico. Niente sembrerebbe più ridicolo in Inglese di una tragedia scritta in alessandrini come in Francese; o in Francese una tragedia in decasillabi.

7. Un artista illustre produce un mutamento considerevole nelle fogge consolidate di ciascuna di queste arti, e introduce nuove mode nella scrittura, nella musica o nell’architettura. Come l’abito di un piacente uomo d’alto rango si fa apprezzare e, per quanto particolare e fantasioso, presto arriva a essere ammirato e imitato, così le eccellenti qualità di un illustre maestro fanno apprezzare le sue particolarità, e la sua maniera espressiva diventa lo stile di moda nell’arte da lui praticata. Il gusto degli Italiani nella musica e nell’architettura in questi cinquant’anni è cambiato considerevolmente, imitando le particolarità di illustri maestri di queste arti. Seneca viene accusato da Quintiliano di aver corrotto il gusto dei Romani, e di aver introdotto frivoli ornamenti nel campo della ragione maestosa e dell’eloquenza virile. Sallustio e Tacito hanno ricevuto da altri la medesima accusa, sebbene in maniera diversa. È stato affermato che essi dovevano la loro reputazione a uno stile che, sebbene al più alto grado conciso, elegante, espressivo e persino poetico, tuttavia mancava di scioltezza, semplicità e naturalezza, ed era evidentemente il risultato di una laboriosa e studiata affettazione. Quante grandi qualità deve possedere quello scrittore che riesce in questo modo a rendere gradevoli i suoi stessi difetti? Forse il più grande elogio che si possa rivolgere a un autore, dopo la lode di aver raffinato il gusto di un popolo, è l’accusa di averlo corrotto. Mr. Pope e il dott. Swift hanno introdotto nella nostra lingua una maniera espressiva diversa da quella precedente in tutti i componimenti in rima, l’uno in quelli lunghi, l’altro in quelli brevi. La bizzarria di Butler ha lasciato il posto alla semplicità di Swift. Le libere divagazioni di Dryden, e l’asciutto, ma spesso tedioso e prosaico languore di Addison non sono più oggetto d’imitazione, ma tutti i componimenti lunghi in versi ora vengono scritti secondo la stringata precisione di Mr. Pope.

8. E non è solo nelle produzioni artistiche che la consuetudine e la moda esercitano il loro dominio. Esse influenzano allo stesso modo i nostri giudizi sulla bellezza degli oggetti naturali. Quante forme varie e opposte vengono giudicate belle nelle diverse specie di cose? Le proporzioni ammirate in un animale sono del tutto diverse da quelle apprezzate in un altro. Ogni classe di cose ha la sua conformazione particolare e approvata, e ha una sua propria bellezza, diversa da quella di ogni altra specie. È per questo che un colto gesuita, padre Buffier, ha stabilito che la bellezza di ogni oggetto consiste nella forma e nel colore più comuni tra quelle particolari cose a cui esso appartiene. Così, nella forma umana, la bellezza delle fattezze sta in una certa via di mezzo, ugualmente distante da varie altre forme brutte. Ad esempio un bel naso non è né molto lungo né molto corto, né molto diritto né molto storto, ma una via di mezzo tra tutti questi estremi, e meno diverso da ciascuno di essi di quanto tutti non lo siano l’uno dall’altro. Un bel naso è la forma verso la quale la Natura sembra tendere in tutti i casi, dalla quale, tuttavia, devia in modi molto svariati, cogliendo molto raramente nel segno, e con la quale, tuttavia, tutte quelle deviazioni hanno una forte rassomiglianza. Quando vengono eseguiti un certo numero di disegni seguendo un modello, sebbene tutti da esso diversi per qualche aspetto, tuttavia gli somiglieranno tutti più di quanto non si somiglino l’uno con l’altro: il carattere generale del modello li percorrerà tutti, i più singolari e strani saranno quelli che se ne discostano maggiormente, e sebbene saranno in pochi a riprodurlo esattamente, tuttavia i bozzetti più accurati somiglieranno a quelli più trascurati più di quanto quelli trascurati si somiglieranno tra di loro. Allo stesso modo, in ogni specie di creature, l’individuo più bello è quello che mostra più spiccatamente i tratti caratteristici della specie cui appartiene, e ha una fortissima rassomiglianza con la maggior parte degli individui insieme ai quali viene classificato. Al contrario, i mostri, o le cose del tutto deformi, sono sempre singolari e strani, e hanno una rassomiglianza minima con la generalità della specie cui appartengono. E così la bellezza di ogni specie, sebbene da una parte sia la più rara di tutte le cose, perché pochi individui riescono a centrare esattamente questa via di mezzo, dall’altra è la più comune, poiché tutte le cose che deviano da essa le rassomigliano più di quanto non si rassomiglino tra loro. Perciò, secondo padre Buffier, la forma più bella in ogni specie di cose è la più abituale. Ed è per questo che è richiesta una certa pratica ed esperienza nel contemplare ciascuna specie di oggetti, prima di poter giudicare la sua bellezza, o di saper distinguere in essa la forma media e più usuale. I giudizi più accurati sulla bellezza della specie umana non ci soccorreranno nel giudicare la specie dei fiori, o dei cavalli, o di ogni altra specie di cose. È per lo stesso motivo che in climi diversi, e in luoghi in cui esistono diverse consuetudini e modi di vita, dal momento che queste circostanze incidono sulla diversa conformazione di ciascuna specie, si affermano concezioni di bellezza tanto diverse. La bellezza di un cavallo arabo non è esattamente la stessa di quella di un cavallo inglese. Quali diverse idee si formano presso i diversi popoli riguardo alla bellezza dell’aspetto e dell’espressione degli uomini? Un colorito chiaro sulle coste della Guinea è una terribile deformità, mentre sono segni di bellezza le labbra grosse e il naso camuso. Presso alcuni popoli orecchie grandi pendenti sulle spalle sono oggetti di universale ammirazione. In Cina, se il piede di una donna è tanto grande da consentirle di camminare, lei viene considerata un mostro di bruttezza. Alcuni popoli selvaggi del nord America tendono quattro assi attorno alle teste dei loro figli, comprimendole, finché le ossa sono tenere e cartilaginose, in una forma quasi perfettamente squadrata. Gli Europei sono sconvolti dalla barbarie di questa pratica, indicata da alcuni missionari come la causa della singolare demenza dei popoli presso i quali è diffusa. Ma quando condannano questi selvaggi, dimenticano che le stesse donne europee, nel passato, hanno cercato di comprimere la bella rotondità della loro forma naturale in una forma squadrata, e che, nonostante si fosse a conoscenza che questa pratica provocava distorsioni e malattie, la consuetudine l’aveva fatta accettare presso alcuni tra i più civili popoli del mondo.

9. Tale è il sistema di questo colto e ingegnoso padre gesuita sulla natura della bellezza; tutta la sua attrattiva, secondo lui, deriverebbe, così, dall’incontro con le abitudini che la consuetudine ha impresso nell’immaginazione, riguardo a tutte le cose particolari. Tuttavia, non riesco a persuadermi che il nostro senso della bellezza esteriore sia fondato del tutto sulla consuetudine. L’utilità di una certa forma, il suo essere adatta all’utile fine per cui è intesa, evidentemente ce la raccomanda e ce la rende gradevole, indipendentemente dalla consuetudine. Certi colori sono più piacevoli di altri e fin dalla prima volta che colpiscono l’occhio gli sono più graditi. Una superficie liscia è più piacevole di una ruvida. La varietà piace più di una tediosa e indifferenziata uniformità. Una varietà in connessione, nella quale ogni nuova apparizione sembra introdotta da ciò che la precedeva, e nella quale tutte le parti connesse sembrano avere qualche naturale relazione l’una con l’altra, è più piacevole di un assemblaggio disarticolato e disordinato di oggetti sconnessi. Ma sebbene io non possa ammettere che la consuetudine sia l’unico principio della bellezza, tuttavia posso riconoscere la verità di questo ingegnoso sistema fino al punto di convenire che non c’è quasi nessuna forma esteriore tanto bella da piacere, se del tutto contraria alla consuetudine e diversa da ciò a cui siamo abituati in quel particolare genere di cose, o, al contrario, tanto brutta da non piacere, se la consuetudine la sostiene costantemente, abituandoci a vederla in ogni singolo individuo di quel genere.


 
CAPITOLO II L’influenza della consuetudine e della moda sui sentimenti morali


1. Poiché i nostri sentimenti su ogni genere di bellezza sono così tanto influenzati dalla consuetudine e dalla moda, non ci si può aspettare che quelli sulla bellezza della condotta siano del tutto estranei al dominio di questi due principi. Tuttavia, la loro influenza sembra qui molto minore che in tutti gli altri casi. Forse negli oggetti esterni non esiste forma, per quanto assurda e fantastica, con la quale la consuetudine non riesca a farci conciliare, o che la moda non riesca persino a farci piacere. Ma la consuetudine non riuscirà mai a riconciliarci con la figura di un Nerone, o di un Claudio, e la moda non riuscirà mai a farceli piacere: l’uno sarà sempre oggetto di terrore e odio, il secondo di vergogna e derisione. I principi dell’immaginazione, dai quali il nostro senso della bellezza dipende, sono di natura molto fine e delicata, e possono facilmente venire alterati dall’abitudine e dall’educazione, ma i sentimenti dell’approvazione e della disapprovazione morale si fondano sulle più forti e vigorose passioni della natura umana, e sebbene possano venire in un certo modo modificati, non possono venire del tutto corrotti.

2. Ma, sebbene l’influenza della consuetudine e della moda sui sentimenti morali non sia così forte, tuttavia è del tutto simile a quel che è in ogni altro campo. Quando la consuetudine e la moda coincidono con i principi naturali del giusto e dell’ingiusto, intensificano la delicatezza dei nostri sentimenti, e accrescono il nostro aborrimento per qualunque cosa si avvicini al male. Chi è cresciuto in un ambiente davvero buono, e non tale solo di nome, chi è stato abituato a non vedere, nelle persone che stimava e con cui ha vissuto, nient’altro che giustizia, modestia, umanità e ordine resta maggiormente sconvolto da tutto ciò che non si accorda con le regole prescritte da quelle virtù. Al contrario, chi ha avuto la sventura di essere allevato in mezzo alla violenza, alla licenziosità, alla falsità e all’ingiustizia perde, se non l’intero senso dell’inappropriatezza di tale condotta, certamente l’intero senso della sua terribile malvagità, o della vendetta e della punizione a essa dovuta. Fin dall’infanzia si è familiarizzato con quel tipo di condotta, la consuetudine gliela ha resa abituale, ed egli tende a considerarla come il corso delle cose del mondo, qualcosa che si può, o si deve praticare, se non si vuole rischiare la propria integrità con un comportamento ingenuo.

3. Anche la moda a volte porterà a stimare un certo grado di disordine e, al contrario, a screditare qualità che meritano stima. Durante il regno di Carlo II, un certo grado di licenziosità era ritenuto caratteristico di un’educazione liberale. Secondo le opinioni del tempo, era legata alla generosità, alla sincerità, alla magnanimità, alla lealtà, ed era una prova del fatto che la persona che agiva in quella maniera era un gentiluomo, e non un puritano. Le maniere severe, al contrario, e la condotta regolare erano del tutto fuori moda, ed erano connesse, nell’immaginazione dell’epoca, con la simulazione, la furbizia, l’ipocrisia e la volgarità. Agli uomini superficiali i vizi del potente sembrano sempre gradevoli. Essi li connettono non solo con lo splendore della fortuna, ma con molte virtù che attribuiscono ai loro superiori, con lo spirito di libertà e indipendenza, con la franchezza, la generosità, l’umanità e la cortesia. Al contrario, le virtù della gente di rango inferiore, la loro parsimoniosa frugalità, la loro timorosa industriosità, e la rigida aderenza alle regole sembra loro meschina e sgradevole. Connettono quelle virtù sia con la meschinità dello stato cui di solito appartengono, sia con molti gravi vizi, che, secondo loro, di solito le accompagnano, come l’abiezione, la codardia, la disposizione alla cattiveria, alla menzogna, al furto.

4. Poiché gli oggetti familiari a uomini dalle diverse professioni e dai diversi stati sociali sono molto diversi, e li abituano a passioni molto diverse, formano naturalmente in loro caratteri e atteggiamenti diversi. In ciascun rango e in ciascuna professione ci aspettiamo un certo grado di quegli atteggiamenti che per esperienza sappiamo loro propri. Ma come in ogni specie di cose ci piace particolarmente la conformazione media, che in ogni parte e caratteristica concorda di più con il modello generale che la natura sembra aver stabilito per quel tipo di cose, così in ogni rango, o, se così posso esprimermi, in ogni specie di uomini, ci piacciono particolarmente quelli che non possiedono né troppo né troppo poco del carattere che comunemente accompagna la loro particolare condizione e situazione. Affermiamo che un uomo dovrebbe somigliare al mestiere o alla professione che esercita, tuttavia la pedanteria è sgradevole in ogni professione. Per lo stesso motivo, vengono attribuiti diversi atteggiamenti alle diverse età della vita. Dall’età avanzata ci aspettiamo quella serietà e quella pacatezza che le infermità, la lunga esperienza e l’esausta sensibilità sembrano rendere naturali e rispettabili, e contiamo invece di trovare nella giovinezza quella sensibilità, quella gaiezza e sprizzante vivacità che l’esperienza ci insegna ad aspettarci dalle impressioni vivaci che tutti gli oggetti interessanti tendono a produrre sui sensi teneri e inesperti di quel primo periodo della vita. Tuttavia, entrambe queste età possono facilmente avere troppe delle particolarità loro proprie. Sono in egual misura spiacevoli sia la civettuola leggerezza della gioventù, sia l’impassibile insensibilità dell’età avanzata. I giovani, secondo il dire comune, piacciono di più quando nel loro comportamento c’è qualcosa delle maniere degli anziani, e gli anziani quando mantengono un po’ della gaiezza giovanile. Entrambi tuttavia possono facilmente eccedere. L’eccessiva freddezza e l’ottusa formalità, che vengono perdonate negli anziani, rendono i giovani ridicoli. La leggerezza, la noncuranza e la frivolezza, tollerate nei giovani, sono disprezzabili negli anziani.

5. Il carattere e gli atteggiamenti che la consuetudine ci porta a considerare appropriati per ciascun rango e professione forse a volte hanno un’appropriatezza indipendente dalla consuetudine, e, se prendessimo in considerazione tutte le diverse circostanze che naturalmente influenzano chi si trova nelle diverse situazioni della vita, li approveremmo per loro stessi. L’appropriatezza del comportamento di una persona non dipende solo dal suo adattarsi a qualche circostanza della sua situazione, ma a tutte le circostanze che, quando riconduciamo a noi il suo caso, sentiamo che dovrebbero naturalmente richiamare la sua attenzione. Se egli sembra troppo occupato da una sola di esse da trascurare del tutto il resto, disapproviamo la sua condotta, come qualcosa che non possiamo condividere del tutto, in quanto non ben adatta a tutte le circostanze della sua situazione. Tuttavia, forse, se l’emozione per l’oggetto che lo interessa principalmente non lo distoglie da qualche altra occupazione, riusciamo lo stesso a simpatizzare con la sua emozione e ad approvarla. Un genitore nella vita privata potrebbe, in occasione della perdita del suo unico figlio, esprimere senza vergogna un grado di pena e tenerezza che sarebbe imperdonabile in un generale a capo di un esercito, quando la gloria e la sicurezza pubblica richiedono una così grande parte della sua attenzione. Come oggetti differenti dovrebbero normalmente occupare l’attenzione di uomini dalle professioni differenti, così dovrebbero naturalmente diventar per loro abituali passioni differenti, e quando ci immedesimiamo nella loro situazione sotto questo riguardo, dobbiamo comprendere che ogni circostanza dovrebbe naturalmente colpirli più o meno a seconda che l’emozione che suscita coincida o contrasti con le abitudini solite e con il temperamento delle loro menti. Non possiamo aspettarci in un prete la medesima sensibilità ai gioiosi piaceri e divertimenti della vita che prevediamo in un ufficiale. L’uomo che ha come occupazione principale quella di ricordare al mondo quale terribile futuro lo aspetti, di annunciare quali potrebbero essere le fatali conseguenze di ogni deviazione dalle regole del dovere, e che deve dare l’esempio della più completa ortodossia sembra il messaggero di notizie che non si possono appropriatamente esprimere con leggerezza o indifferenza. Si presume che la sua mente sia continuamente occupata da cose troppo grandi e solenni, per poter lasciare qualche spazio alle impressioni di quei frivoli oggetti che riempiono l’attenzione del dissipato e del dissoluto. Perciò sentiamo subito che, indipendentemente dalla consuetudine, c’è un’appropriatezza negli atteggiamenti che la consuetudine ha assegnato a questa professione, e che nulla può essere più adatto al carattere di un religioso di quella seria, austera e assorta severità che siamo abituati ad aspettarci nel suo comportamento. Queste riflessioni sono talmente ovvie che non c’è quasi nessuno tanto sconsiderato da non averle mai fatte, e da non essersi mai spiegato in questo modo la propria approvazione per il carattere usuale dei religiosi.

6. Il fondamento del carattere consuetudinario di altre professioni non è cosi ovvio, e la nostra approvazione è fondata del tutto sull’abitudine, senza ricevere conferme o venir ravvivata da riflessioni di questo tipo. Ad esempio, la consuetudine ci porta a connettere alla professione militare il carattere allegro, superficiale e amichevole, e anche, in una certa misura, dissipato. Tuttavia, se dovessimo considerare quale umore o tipo di temperamento sarebbe il più adatto a questa situazione, forse tenderemmo a stabilire che una disposizione mentale molto seria e pensierosa si adatterebbe meglio a chi, esponendo continuamente la propria vita a pericoli fuori dal comune, dovrebbe essere preso dal pensiero della morte e delle sue conseguenze più degli altri uomini. Tuttavia, probabilmente è proprio questa circostanza che fa prevalere tra i militari la disposizione mentale contraria. Vincere la paura della morte richiede uno sforzo così grande, quando la esaminiamo con fermezza e attenzione, che coloro che sono continuamente esposti a essa trovano più facile distoglierne del tutto il pensiero, nascondersi dietro una spensierata sicurezza e indifferenza, e immergersi, a tale scopo, in ogni sorta di divertimento e dissolutezza. Un accampamento militare non è il luogo adatto per un uomo pensieroso e malinconico; persone di tale tempra, tuttavia, sono spesso molto determinate, e sono capaci, con un grande sforzo, di andare incontro con inflessibile risoluzione a una morte inevitabile. Ma essere esposti a un pericolo continuo, sebbene meno imminente, essere obbligati a esercitare i propri sforzi gradualmente, ma per un lungo tempo, esaurisce e deprime la mente, e la rende incapace di qualsiasi felicità e divertimento. Gli uomini allegri e spensierati, che non hanno mai occasione di sforzo, che spensieratamente decidono di non guardare mai davanti a sé, ma di smaltire tutta l’ansia derivante dalla propria situazione in continui piaceri e divertimenti, sopportano più facilmente simili situazioni. Quando, per circostanze particolari, capita che un ufficiale non abbia motivo di ritenersi esposto a un grave pericolo, egli tende a perdere l’allegra e dissipata spensieratezza del proprio carattere. Il capitano di una guardia civica comunemente è un individuo altrettanto sobrio, circospetto e meschino quanto il resto dei suoi concittadini. Per lo stesso motivo, una lunga pace tende molto ad attenuare le differenze tra il carattere civile e quello militare. Tuttavia, la situazione ordinaria dei militari rende talmente il loro solito carattere allegro, e in una certa misura dissoluto, e la consuetudine ha talmente connesso nella nostra immaginazione tale carattere a quel certo stato, che noi tendiamo a disprezzare chi, a causa del suo umore o della sua situazione particolare, è incapace di acquisirlo. Ci divertono, nelle guardie civiche, le espressioni serie e circospette, che sono così lontane da quelle comuni nella loro professione. Loro stessi sembrano spesso vergognarsi della regolarità dei propri atteggiamenti, e, per mantenersi al passo con la moda del proprio mestiere, amano fingere quella superficialità che per loro non è affatto naturale. Qualunque sia il comportamento che siamo abituati a vedere in un discreto gruppo di uomini, quel comportamento finisce per essere associato nella nostra immaginazione con quel certo gruppo, tanto che, non appena vediamo l’uno, contiamo di dover incontrare anche l’altro, e, se l’attesa viene frustrata, ci viene a mancare qualcosa che ci aspettavamo di trovare. Di fronte a un personaggio che chiaramente finge di appartenere a una specie di persone diversa da quella in cui noi saremo inclini a classificarlo, noi siamo imbarazzati, bloccati, e non sappiamo come trattarlo.

7. Le diverse situazioni delle diverse epoche e paesi tendono, allo stesso modo, a dare caratteri diversi alla maggior parte di coloro che in essi vivono, e i loro sentimenti sul particolare grado di ciascuna qualità, biasimevole o degna di lode, varia a seconda del grado più diffuso nel loro paese e nella loro epoca. Un grado di gentilezza che in Inghilterra sarebbe altamente stimato, sembrerebbe forse adulazione effeminata in Russia, e sarebbe ritenuto rude e barbaro alla corte di Francia. Quel grado di ordine e frugalità che in un nobile polacco sarebbe considerato come un’eccessiva parsimonia, sembrerebbe prodigalità in un cittadino di Amsterdam. Ogni epoca e ogni paese considerano il grado in cui ogni qualità è comunemente presente nei loro cittadini più stimati come l’aureo grado medio di quel particolare talento o virtù. E poiché questo grado varia, in quanto le diverse circostanze rendono diverse qualità più o meno abituali per quelle stimate persone, i sentimenti di ogni epoca e ogni paese sull’esatta appropriatezza dei caratteri e dei comportamenti variano di conseguenza.

8. Tra i popoli civili, le virtù che si fondano sull’umanità sono maggiormente coltivate di quelle che si fondano sull’abnegazione e sul controllo delle passioni. Tra i popoli rudi e barbari, al contrario, la cosa è del tutto diversa, e le virtù dell’abnegazione sono maggiormente coltivate di quelle dell’umanità. La generale sicurezza e felicità che prevale in epoche di civiltà e belle maniere offre scarsa possibilità di esercitare il disprezzo del pericolo, la pazienza nel sopportare lo sforzo, la fame, il dolore. La povertà può essere facilmente evitata, e il non curarsene, quindi, quasi cessa di costituire una virtù. L’astinenza dai piaceri diventa meno necessaria, e la mente è più libera di rilassarsi, e di lasciarsi andare alle sue inclinazioni naturali.

9. Tra i selvaggi e i barbari è del tutto diverso. Ogni selvaggio è sottoposto a una specie di disciplina spartana, e a causa della miseria della sua situazione è abituato a ogni sorta di privazione. È in continuo pericolo, esposto alla severità della fame, e spesso muore di indigenza. Le sue condizioni non solo lo abituano a ogni tipo di angoscia, ma gli insegnano a non dare sfogo a nessuna delle passioni che essa tende a suscitare. Dai suoi compatrioti non si può aspettare nessuna simpatia o indulgenza per le sue debolezze. Prima di poter avere forti sentimenti per gli altri, dobbiamo in una certa misura star bene noi stessi. Sotto i severi morsi della miseria, non abbiamo tempo per occuparci di quella del nostro prossimo, e tutti i selvaggi sono troppo occupati con i loro bisogni e le loro necessità, per prestare attenzione a quelli di altre persone. Perciò, un selvaggio, qualsiasi sia la natura della propria angoscia, non si aspetta simpatia da chi gli sta vicino, e perciò detesta mettersi in mostra, lasciandosi sfuggire la minima debolezza. Egli non permette mai che le sue passioni, per quanto furiose e violente, disturbino la serenità del suo atteggiamento o la compostezza della sua condotta e del suo comportamento. I selvaggi del Nord America, ci viene riferito, in ogni occasione ostentano la più grande indifferenza, e si sentirebbero degradati se dovessero mai apparire sopraffatti dall’amore, dalla pena, dal risentimento. Sotto questo riguardo, la loro magnanimità e il loro autocontrollo quasi oltrepassano la concezione degli europei. In un paese in cui tutti gli uomini sono sullo stesso livello per quel che riguarda rango e ricchezza, ci si aspetterebbe che l’attrazione reciproca dei due interessati sia l’unico aspetto che conta nei matrimoni, e che ci si lasci andare a essa senza controllo di sorta. Invece questo è il paese in cui tutti i matrimoni, senza eccezione alcuna, sono concordati dai genitori, e in cui un giovane si sentirebbe per sempre disonorato se mostrasse la minima preferenza per una donna piuttosto che per un’altra, o se non mostrasse la più completa indifferenza per quando dovrà sposarsi e per chi dovrà sposare. La debolezza dell’amore, verso la quale si è così indulgenti in epoche di benevolenza e buone maniere, presso i selvaggi viene considerata come la più imperdonabile delle effeminatezze. Persino dopo il matrimonio, i due coniugi sembrano vergognarsi di un legame fondato su una necessità tanto meschina. Essi non vivono insieme. Si vedono solo furtivamente. Entrambi continuano ad abitare nelle case dei loro rispettivi padri, e l’aperta coabitazione dei due sessi, che in tutti gli altri paesi è permessa senza alcun biasimo, qui è considerata come un’indecente e poco virile sensualità. E non è solo nei riguardi di questa passione gradevole che essi esercitano questo assoluto autocontrollo. Spesso, di fronte ai loro compatrioti, sopportano ingiurie, improperi, e gli insulti più volgari ostentando la maggiore insensibilità, e senza esprimere il minimo risentimento. Quando un selvaggio viene fatto prigioniero in guerra, e riceve, come è normale, la sentenza di morte da parte dei vincitori, la ascolta senza esprimere alcuna emozione, e poi si sottomette ai più terribili tormenti, senza mai autocompiangersi, o rivelare altra passione se non disprezzo per i suoi nemici. Appeso per le spalle su di un lento fuoco, deride i suoi carnefici, descrivendo le torture ben più ingegnose a cui ha sottoposto i loro compagni caduti nelle sue mani. Dopo esser stato scottato e ustionato, e dilaniato in tutte le più tenere e sensibili parti del corpo per molte ore, per prolungare la sua agonia gli viene concessa spesso una breve tregua, e viene trascinato giù dal rogo. Quest’intervallo egli lo impiega discorrendo di argomenti futili, chiedendo notizie del proprio paese, e sembra interessato a tutto tranne che alla sua situazione. Gli spettatori esprimono la medesima insensibilità: la vista di una scena tanto orribile sembra non fare alcuna impressione su di loro, a mala pena guardano il prigioniero, tranne quando danno una mano a torturarlo. Altrimenti fumano, si distraggono con un oggetto qualsiasi, come se non stesse succedendo nulla. Si dice che ogni selvaggio si prepari fin dall’infanzia a questa terribile fine. Per questa occasione egli compone quello che loro chiamano il canto della morte, da cantare una volta caduti nelle mani dei nemici, spirando sotto le torture che essi gli infliggono. Il canto consiste in una serie di insulti contro i carnefici, ed esprime il massimo disprezzo della morte e del dolore. Egli canta questa canzone in occasioni straordinarie: quando va alla guerra, quando incontra sul campo i suoi nemici, od ogni volta che vuole mostrare che ha allenato la sua immaginazione a sopportare le sventure più terribili, e che nessun evento umano può intimidirlo, o far mutare i suoi propositi. Lo stesso disprezzo per la morte e per la tortura è diffuso in tutti i popoli selvaggi. Non c’è un solo negro della costa dell’Africa che non possieda, sotto questo riguardo, un grado di magnanimità troppo spesso inconcepibile per l’animo del suo sordido padrone. La fortuna non ha mai esercitato più crudelmente il suo dominio sull’umanità di quando ha sottomesso questi popoli di eroi alla feccia dell’Europa, a miserabili che non possiedono né le virtù dei paesi da cui provengono, né quelle dei paesi in cui vanno, e la cui abiezione, brutalità e bassezza li espone giustamente al disprezzo dei popoli conquistati.

10. Questa eroica e indomabile fermezza, richiesta a ogni selvaggio dalla consuetudine e dall’educazione ricevuta nel suo paese, non è necessaria per coloro che vengono allevati per vivere in società civilizzate. Se quest’ultimi si lamentano quando soffrono, se si angosciano quando sono addolorati, se si lasciano sopraffare dall’amore, o scomporre dall’ira, vengono facilmente perdonati. Questa debolezza non viene percepita come qualcosa che intacca gli aspetti essenziali del loro carattere. Finché non si lasciano trasportare verso azioni contrarie alla giustizia o all’umanità, perdono solo in parte la loro reputazione, sebbene la serenità del loro contegno o la pacatezza dei loro discorsi o del loro comportamento sia piuttosto incrinata e turbata. Le persone compassionevoli e raffinate, che hanno una maggiore sensibilità per le passioni altrui, riescono più prontamente a prender parte a un comportamento animato e appassionato, e riescono più facilmente a perdonare qualche piccolo eccesso. La persona principalmente interessata si rende conto di questo, e, certa dell’equità dei suoi giudici, si lascia andare a più forti espressioni di passione, e teme di meno di esporsi al loro disprezzo per la violenza delle sue emozioni. Possiamo avventurarci a esprimere maggiormente un’emozione in presenza di un amico che di un estraneo, perché ci aspettiamo maggiore indulgenza dall’uno piuttosto che dall’altro. E, allo stesso modo, le regole del decoro presso i popoli civili ammettono un comportamento più animato di quello approvato presso i popoli barbari. I primi discorrono tra loro con la franchezza degli amici, i secondi con la riservatezza degli estranei. L’emozione e la vivacità con cui i francesi e gli italiani, i due popoli più raffinati del continente, si esprimono anche in occasioni per niente importanti, sorprendono sulle prime gli stranieri ai quali capita di viaggiare presso di loro, e che, educati tra genti dalla sensibilità meno vivace, non riescono a comprendere a fondo questo comportamento appassionato, di cui non hanno mai visto esempi nel loro paese. Un giovane nobiluomo francese, a cui fosse rifiutato un reggimento, piangerebbe davanti a tutta la corte. Un italiano, riferisce l’abate Du Bos, nel venir multato di venti scellini, esprime una maggiore emozione di un inglese condannato a morte. Cicerone, ai tempi della maggiore eleganza di Roma, poteva, senza per questo screditarsi, piangere amaramente davanti a tutto il senato e a tutto il popolo, come è evidente che abbia fatto al termine di quasi tutte le orazioni. È probabile che gli oratori delle più antiche e rozze età di Roma, coerentemente con i loro tempi, non abbiano potuto esprimersi con tanta emozione. Credo che dagli Scipioni, dai Lelii e da Catone il vecchio sarebbe stato considerato come una violazione della natura e dell’appropriatezza mostrare una tale debolezza in pubblico. Quegli antichi guerrieri riuscivano a esprimersi con ordine, gravità, e giudizio, ma si dice che fossero estranei a quella sublime e appassionata eloquenza introdotta a Roma non molti anni prima della nascita di Cicerone, dai Gracchi, da Crasso e da Sulpicio. Questa animata eloquenza, a lungo praticata, con o senza successo, in Italia e in Francia, solo ora sta cominciando a essere introdotta in Inghilterra. Tale è la differenza tra i diversi gradi di autocontrollo richiesti presso nazioni civilizzate o barbare, e tali i diversi criteri con cui essi giudicano l’appropriatezza del comportamento.

11. Questa differenza ne origina altre non meno essenziali. Un popolo ingentilito, abituato a concedere, in una certa misura, via libera ai moti naturali, diviene franco, aperto e sincero. I barbari, al contrario, obbligati a soffocare e a nascondere l’apparenza di ogni passione, acquisiscono necessariamente l’abitudine alla falsità e alla dissimulazione. Tutti quelli che hanno avuto familiarità con popoli selvaggi, sia in Asia, che in Africa, o in America, hanno rilevato che tali popoli sono tutti allo stesso modo impenetrabili, e che, quando decidono di nascondere la verità, nessun interrogatorio riesce a estorcergliela. Non vengono scalfiti nemmeno dalle domande più insidiose. La stessa tortura non riesce a far loro confessare qualcosa che non vogliono dire. Anche le passioni di un selvaggio, sebbene non si esprimano mai attraverso un’emozione esteriore, ma restino nascoste nell’animo di chi soffre, sono, ciononostante, molto violente. Anche se raramente un barbaro mostra sintomi d’ira, tuttavia la sua vendetta, quando egli giunge a metterla in atto, è sempre sanguinaria e terribile. Il minimo affronto lo porta alla disperazione. Il suo contegno e la sua conversazione sono comunque sobri e composti, e non esprimono altro che la più perfetta tranquillità della mente, ma le sue azioni sono spesso furiose e violente. Tra i nord-americani non è raro che persone di tenera età e appartenenti al sesso debole si lascino annegare per aver ricevuto un blando rimprovero dalle loro madri, e questo senza esprimere alcuna passione, e senza dire altro che: non avrai più una figlia. Presso i popoli civili le passioni degli uomini comunemente non sono così furiose o così disperate. Sono spesso appariscenti e vistose, ma sono di rado realmente dolorose, e spesso sembra che non mirino ad altra soddisfazione che quella di convincere lo spettatore che sono giustificate, provocando così la sua simpatia e la sua approvazione.

12. Comunque, tutti questi effetti della consuetudine e della moda sui sentimenti morali sono insignificanti, a paragone di quelli che producono in altri casi, e non è riguardo allo stile generale del carattere e del comportamento che quei principi producono il maggior pervertimento del giudizio, ma riguardo all’appropriatezza o inappropriatezza di usi particolari.

13. I diversi modi che la consuetudine ci insegna ad approvare nelle diverse professioni e nei diversi stati della vita non riguardano cose di grande importanza. Ci aspettiamo verità e giustizia da un vecchio come da un giovane, da un religioso come da un soldato, ed è solo in questioni di scarsa importanza che ricerchiamo i segni distintivi dei loro rispettivi caratteri. Anche riguardo a queste, esiste spesso qualche circostanza inosservata che, se presa in considerazione, ci mostrerebbe che, anche a prescindere dalla consuetudine, c’era un’appropriatezza nel carattere che la consuetudine ci ha insegnato ad attribuire a ciascuna professione. In questo caso, perciò, non possiamo lamentarci di un’eccessiva deviazione del sentimento naturale. Sebbene gli usi dei diversi popoli richiedano diversi gradi della stessa qualità nel carattere che essi ritengono degno di stima, tuttavia la cosa peggiore che si può dire che accada anche qui è che i doveri di una virtù si estendano a volte fino a oltrepassare i confini di qualche altra, entrando con essa in contrasto. La rozza ospitalità in uso tra i Polacchi può contrastare a volte con l’economia e il buon ordine, e la frugalità apprezzata in Olanda può contrastare con la generosità e le buone maniere sociali. La durezza richiesta ai selvaggi fa diminuire la loro umanità, e, forse, la delicata sensibilità richiesta presso i popoli civili a volte distrugge la fermezza mascolina del carattere. In generale, lo stile degli usi di ciascun popolo è quello che si può dire più adatto alla loro situazione. La durezza è il carattere più adatto alla situazione di un selvaggio, la sensibilità a coloro che vivono in una nazione molto civile. Perciò, anche in questo caso non possiamo lamentarci che i sentimenti morali degli uomini siano eccessivamente corrotti.

14. Perciò non è nel caso dello stile generale di condotta che la consuetudine consente di distaccarsi maggiormente da quella che è la naturale appropriatezza dell’azione. Riguardo a usi particolari, la sua influenza è spesso molto più distruttiva per i buoni costumi, e capace di dimostrare legittime e irreprensibili azioni che sconvolgono i più semplici principi del giusto e dell’ingiusto.

15. Ad esempio, ci può essere qualcosa di più barbaro del ferimento di un neonato? La sua debolezza, la sua innocenza, la sua amabilità richiamano compassione persino da parte nemica, e non risparmiare quella tenera età viene considerato come l’azione più terribile di un conquistatore adirato e crudele. Allora, quale dobbiamo immaginare che sia il cuore di un genitore capace di colpire quella debolezza che persino un nemico furente ha timore di violare? Eppure l’esposizione, cioè l’assassinio di un neonato, era una pratica consentita in quasi tutti gli stati della Grecia, persino tra i colti e civili ateniesi, e ogni volta che la situazione economica dei genitori rendeva scomodo allevare il bambino, non veniva considerato vergognoso o biasimevole abbandonarlo alla fame, o alle bestie selvatiche. Probabilmente questa pratica era cominciata in tempi di selvaggia barbarie. Le immaginazioni degli uomini si erano dapprima familiarizzate con essa nel primo periodo del vivere sociale, e il tramandarsi uniforme di questa consuetudine aveva in seguito impedito loro di percepire la sua terribile gravità. Oggi troviamo che questa pratica è ancora diffusa presso tutti i popoli selvaggi, e in quelle rozze e infime condizioni sociali è senza dubbio più giustificabile. L’estrema indigenza di un selvaggio è spesso tale che lui stesso si trova frequentemente esposto ai rigori della fame: spesso muore di pura inedia, e gli è impossibile sostenere sia se stesso che il proprio figlio. Perciò non possiamo stupirci che in questo caso egli lo abbandoni. Qualcuno che, fuggendo da un nemico a cui è impossibile resistere, si libera del proprio bambino, che gli ritarda la fuga, è certamente scusabile, perché, tentando di salvarlo, non potrebbe sperare in altro che nella consolazione di morire insieme a lui. Non dovrebbe perciò sorprenderci molto che in un tale stato della società si possa lasciar decidere a un genitore se allevare o no il proprio figlio. Nelle più tarde età della Grecia, tuttavia, questa stessa decisione veniva permessa per remoti interessi e convenienze, niente affatto scusabili. Una consuetudine ininterrotta, da quell’epoca in poi, ha talmente sostenuto quella pratica, che non solo le dissolute massime del mondo tolleravano quel barbarico diritto, ma anche le dottrine dei filosofi, che avrebbero dovuto essere più corrette e accurate, venivano fuorviate dalla consuetudine stabilita, e in questa, come in altre occasioni, invece di censurare, sostenevano questo orribile abuso, con forzate considerazioni sulla pubblica utilità. Aristotele ne parla come di qualcosa che in molte occasioni il magistrato dovrebbe incoraggiare. Il buon Platone è della stessa opinione, e, con tutto l’amore per l’umanità che sembra animare i suoi scritti, non stigmatizza mai questa pratica. Quando la consuetudine riesce a sanzionare una così terribile violazione dell’umanità, possiamo ben immaginare che non ci sia pressoché nessuna pratica triviale che essa non autorizzi. Molti ritengono che il fatto che una cosa sia comunemente praticata sia una sufficiente giustificazione anche per quella che, per se stessa, è la più ingiusta e irragionevole delle condotte.

16. Esiste un motivo ovvio per il quale la consuetudine non può mai deviare i nostri sentimenti riguardo allo stile e al carattere generale della condotta e del comportamento nella stessa misura in cui ci devia riguardo all’appropriatezza o illegittimità di usanze particolari. Una tale consuetudine non può mai esistere. Una civiltà in cui la tendenza abituale della condotta e del comportamento umano facesse tutt’uno con la terribile pratica di cui ho appena parlato non potrebbe sopravvivere un solo istante.


 
PARTE VI IL CARATTERE DELLA VIRTÙ

 
NTRODUZIONE
1. Quando consideriamo il carattere di ciascun individuo, lo vediamo sotto due diversi aspetti: primo, relativamente all’influenza che può avere sulla propria felicità; secondo, relativamente all’influenza che può avere sulla felicità degli altri.


 
SEZIONE I Il carattere dell’individuo, relativamente alla sua influenza sulla propria felicità, ovvero: la prudenza


1. Gli oggetti che la Natura sembra in primo luogo raccomandare alla cura di ogni individuo sono la conservazione e la salute del corpo. Gli appetiti naturali della fame e della sete, le sensazioni gradevoli o sgradevoli di piacere e dolore, di caldo e di freddo, possono essere considerate come vere e proprie lezioni pronunciate dalla viva voce della Natura, che insegnano all’individuo cosa deve scegliere e cosa evitare a tale scopo. Le prime lezioni che gli vengono impartite da coloro con cui trascorre l’infanzia tendono, per la maggior parte, al medesimo scopo. Il loro obiettivo principale è insegnargli a evitare quel che gli può nuocere.

2. Quando cresce, presto impara che sono necessarie cura e previdenza per assicurarsi i mezzi necessari a soddisfare questi appetiti naturali, per procurarsi piacere ed evitare il dolore, per procurarsi un gradevole livello di temperatura, evitando il caldo e il freddo eccessivi. L’arte di conservare e accrescere quelli che vengono chiamati i suoi beni esteriori consiste nell’appropriato orientamento di questa cura e di questa previdenza.

3. Sebbene i vantaggi dei beni esteriori ci vengano in origine raccomandati per soddisfare le necessità e le comodità del corpo, tuttavia non possiamo vivere a lungo nel mondo senza accorgerci che lo stesso rispetto dei nostri pari, il nostro credito e il nostro rango nella società in cui viviamo dipendono in larga misura dal grado in cui possediamo, o si pensa che possediamo, quei beni. Il desiderio di diventare gli oggetti appropriati di questo rispetto, di meritare e ottenere questo credito e questo rango tra i nostri pari forse è il nostro desiderio più forte, e l’ansia che abbiamo di ottenere tutti i vantaggi dei beni esteriori, conseguentemente, è suscitata e stimolata più da questo desiderio, che da quello di soddisfare tutte le necessità e comodità del corpo, che vengono sempre soddisfatte molto facilmente.

4. Il nostro rango e il credito di cui godiamo presso i nostri pari dipendono molto anche da elementi dai quali un uomo virtuoso forse si augurerebbe che dipendessero del tutto: il nostro carattere e la nostra condotta, o la fiducia, la stima, il benvolere che questi naturalmente suscitano nelle persone con cui viviamo.

5. La cura della salute, delle fortune, del rango e della reputazione dell’individuo, vale a dire la cura di tutti gli oggetti da cui si suppone che dipenda il suo benessere e la sua felicità in questa vita, viene considerata l’oggetto proprio di quella virtù comunemente denominata Prudenza.

6. Abbiamo già osservato che, quando cadiamo da una situazione migliore in una peggiore, soffriamo di più di quanto non ci rallegriamo in caso contrario. Perciò la sicurezza è il primo e principale obiettivo della prudenza. Questa virtù tende a impedirci di esporre la nostra salute, le nostre fortune, il nostro rango, la nostra reputazione a ogni sorta di azzardo. È cauta, piuttosto che intraprendente, e desidera più conservare i vantaggi che già possediamo che spingerci ad acquistarne di maggiori. Per accrescere la nostra fortuna, ci suggerisce metodi che non ci espongono a perdite e azzardi: reale competenza e abilità nel nostro mestiere o nella nostra professione, assiduità e impegno nell’esercitarli, frugalità, e anche un certo grado di parsimonia in tutte le nostre spese.

7. L’uomo prudente cerca sempre di capire seriamente e onestamente quel che sostiene di capire, e non cerca soltanto di convincere gli altri di questo, e, sebbene a volte le sue doti possano non essere brillanti, sono sempre del tutto autentiche. Non si sforza mai di imporsi con espedienti astuti, da abile impostore, né con arie arroganti da pedante presuntuoso, e nemmeno con affermazioni saccenti da superficiale e imprudente bugiardo. Non ostenta nemmeno le abilità che possiede davvero. La sua conversazione è semplice e modesta, e respinge tutte le arti da ciarlatano con le quali altre persone così spesso si impongono alla pubblica attenzione e ottengono una buona reputazione. Per ottenere una buona reputazione nella sua professione, egli tende istintivamente a contare sulla serietà della sua conoscenza e delle sue abilità. E non pensa a coltivarsi i favori di quei piccoli club e circoli che così spesso si ergono a giudici supremi del merito nelle arti e nelle scienze superiori, e che ritengono loro compito lodare le doti e le virtù l’uno dell’altro, denigrando tutto ciò che può entrare in competizione con loro. Se mai entra a far parte di una associazione di questo tipo, è solo per tutelarsi, non con l’intento di imporsi sul pubblico, ma di impedire che le chiacchiere, i mormorii e gli intrighi di quella particolare associazione, o di un’altra dello stesso tipo, si impongano sul pubblico a suo svantaggio.

8. L’uomo prudente è sempre sincero, e il pensiero stesso di esporsi alla vergogna che segue la scoperta della falsità lo disgusta. Ma sebbene sia sempre sincero, non sempre è franco e aperto, e sebbene non dica mai altro che la verità, non si sente sempre tenuto a dire tutta la verità se non è espressamente richiesto. È riservato nei suoi discorsi così come è cauto nelle sue azioni, e non esprime avventatamente e senza necessità la sua opinione su cose o persone.

9. L’uomo prudente, sebbene non sempre si distingua per spiccata sensibilità, è sempre capace di vera amicizia. Ma la sua amicizia non è quell’affezione ardente e appassionata, ma troppo spesso incostante, che appare così gradita alla generosità e all’inesperienza dei giovani. È un attaccamento posato, ma stabile e leale verso pochi compagni fidati e scelti, nella scelta dei quali egli non si lascia stordire da doti abbaglianti, ma è guidato dalla sobria stima della modestia, della discrezione, e della buona condotta. Ma sebbene capace di amicizia, non sempre è molto disposto a una socievolezza generalizzata. Di rado fa vita di società e ancor più raramente frequenta quelle riunioni conviviali che si distinguono per la loro conversazione amena e allegra. Un simile stile di vita potrebbe troppo spesso interferire con la regolarità delle sue abitudini moderate, mettere in crisi l’assiduità della sua laboriosità o distoglierlo dal rigore della sua frugalità.

10. Ma sebbene la sua conversazione non sia sempre vivace o divertente, non è mai offensiva. Egli detesta il pensiero di rendersi colpevole di petulanza o scortesia. Non umilia mai nessuno, e, in tutte le occasioni comuni, tende a porsi al di sotto dei suoi simili, piuttosto che sopra di loro. Sia nella condotta che nella conversazione, osserva attentamente le norme della decenza, e rispetta con scrupolo quasi religioso la buona creanza e l’etichetta. Sotto questo riguardo, egli dà un esempio molto migliore di quello di uomini dalle doti e dalle virtù più splendide, i quali, in tutte le epoche, da quella di Socrate e Aristippo fino a quella di Swift e Voltaire, dall’epoca di Filippo e Alessandro il grande, a quella dello zar Pietro I, si sono troppo spesso distinti per il disprezzo inappropriato e persino insolente di tutte le normali regole della vita e della conversazione, e che hanno per questo offerto esempi pericolosi a quelli che volevano copiarli, e che troppo spesso si sono accontentati di imitare le loro follie, senza nemmeno provare a eguagliare i loro pregi.

11. Nell’assiduità della sua laboriosità e della sua frugalità, nel suo sacrificare assiduamente la comodità e il piacere del momento presente per aspettare un piacere e una comodità ancor più grandi e più durevoli in futuro, l’uomo prudente è sempre sostenuto e ricompensato dalla piena approvazione dello spettatore imparziale e dall’uomo interiore, che dello spettatore imparziale è il rappresentante. Lo spettatore imparziale non si sente sfinito dalle fatiche presenti di quelli di cui sorveglia la condotta, e non si sente sollecitato dalle importune richieste dei loro presenti appetiti. Per lui la loro situazione presente, e quella che probabilmente sarà la loro situazione futura sono quasi del tutto uguali: egli le vede dalla stessa distanza, e ne è colpito quasi nello stesso modo. Tuttavia, sa che per le persone direttamente coinvolte le due situazioni sono ben lungi dall’essere uguali, e che è ben diverso il modo in cui loro ne sono colpite. Perciò non può far altro che approvare, e persino lodare, quell’appropriato esercizio di autocontrollo con cui quelle persone riescono ad agire come se fossero colpite dalla loro situazione presente e da quella futura nello stesso modo in cui lo è lui.

12. L’uomo che vive entro i limiti di quello che guadagna si accontenta della sua situazione, che migliora giorno dopo giorno con continui, per quanto piccoli, risparmi. Man mano si sente autorizzato a rilassarsi, sia nel rigore della sua parsimonia, che nella severità del suo impegno, e sente questo graduale miglioramento del benessere e del piacere con una doppia soddisfazione, poiché ha provato la durezza della loro mancanza. Non è ansioso di cambiare una situazione così confortevole, e non va alla ricerca di nuove imprese e avventure, che metterebbero in pericolo la sicura tranquillità di cui gode al momento, senza poterla accrescere. Se prende parte a qualche nuovo progetto o impresa, si tratta certamente di programmi ben concertati e preparati. Non si verifica mai che egli vi sia spinto e coinvolto senza necessità: ha sempre il tempo e l’agio di riflettere seriamente e a freddo su quali possano essere le loro probabili conseguenze.

13. L’uomo prudente non è desideroso di caricarsi di responsabilità che non rientrano nei suoi doveri. Non lo troviamo mai indaffarato in faccende che non lo riguardano, non si intromette negli affari degli altri, non si propone come consulente o consigliere, non interviene con i suoi consigli quando nessuno glieli chiede. Finché il dovere glielo consente, egli si limita alle sue faccende, e disdegna quella stolta importanza che molti sperano di ottenere mostrando di avere una qualche influenza nella gestione delle faccende degli altri. Detesta prender parte alle dispute tra diversi schieramenti, odia le fazioni, e non è sempre pronto a prestare ascolto alla voce dell’ambizione, anche nel caso sia nobile e grande. Quando viene specificamente chiamato in causa, non rifiuterà di prestar servizio per il suo paese, ma non cospirerà per ottenere una carica, e preferirebbe che i pubblici affari fossero gestiti da altri, piuttosto che prendersi la briga e la responsabilità di gestirli lui. Piuttosto che il vano splendore dell’ambizione soddisfatta, e anche piuttosto che la reale e solida gloria delle più grandi e nobili azioni, nel profondo del suo cuore preferisce la serena gioia di una sicura tranquillità.

14. La prudenza, in breve, quando è diretta esclusivamente alla cura della salute, dei beni, del rango e della reputazione dell’individuo, sebbene sia considerata una virtù del tutto rispettabile, e persino, in qualche grado, amabile e gradevole, tuttavia non è mai considerata come una delle virtù più care e nobilitanti. Esige una certa stima distaccata, ma non sembra che abbia diritto ad ardente amore o ammirazione.

15. La condotta saggia e assennata, quando viene diretta verso propositi più grandi e più nobili della cura della salute, dei beni, del rango e della reputazione dell’individuo è frequentemente e molto appropriatamente chiamata prudenza. Parliamo di prudenza del grande generale, del grande statista, del grande legislatore. In tutti questi casi, la prudenza è unita a molte virtù più grandi e più splendide, come il valore, la profonda e vasta benevolenza, il sacro rispetto per le regole di giustizia, tutte accompagnate da un giusto grado di autocontrollo. Questa superiore prudenza, quando viene spinta ai più alti gradi di perfezione, presuppone necessariamente l’arte, il talento, l’abitudine o la tendenza ad agire con la più perfetta appropriatezza in ogni possibile circostanza e situazione. Presuppone necessariamente la massima perfezione di tutte le virtù morali e intellettuali. Consiste nella migliore testa unita al miglior cuore, nella più perfetta saggezza mescolata alla più perfetta virtù. Rappresenta molto da vicino il carattere del saggio accademico o peripatetico, come la prudenza inferiore rappresenta il carattere del saggio epicureo.

16. La mera imprudenza, o la mera mancanza di cura per se stessi è oggetto di compassione per gli uomini buoni e generosi, mentre per quelli dai sentimenti meno delicati è oggetto di sdegno, o nei casi peggiori di disprezzo, ma mai di odio e indignazione. Quando è unita ad altri vizi, tuttavia, accentua al massimo l’infamia e la disgrazia che di solito li accompagnano. Il furfante astuto, che per la sua abilità e la sua destrezza si salva, se non da gravi sospetti, almeno dalla punizione o dal palese smascheramento, viene troppo spesso accolto nel mondo con un’immeritata indulgenza. Il furfante imprudente e stolto, che, per mancanza di destrezza e abilità, viene accusato e condannato è oggetto di universale odio, disprezzo e derisione. In paesi nei quali i grandi crimini spesso restano impuniti, le azioni più atroci diventano familiari, e smettono di impressionare la gente con quell’orrore con cui vengono accolte in paesi in cui la giustizia è amministrata correttamente. L’ingiustizia è la stessa in entrambi i tipi di paesi, ma l’imprudenza è spesso molto diversa. Nei paesi del secondo tipo, i grandi crimini sono considerati grandi follie. Nei paesi del primo tipo, non sono sempre considerati tali. In Italia, per la maggior parte del sedicesimo secolo, assassinii, omicidi, e persino omicidi a tradimento sembra che siano stati pressoché familiari nelle classi alte. Cesare Borgia invitò a un’amichevole conferenza a Senigallia quattro dei principi suoi vicini, che avevano piccoli possedimenti e armavano piccoli eserciti propri, e li fece uccidere appena arrivati. Questa azione infamante, sebbene certamente non approvata persino in quell’età di crimini, sembra aver contribuito molto poco a gettare discredito sul principe, e tanto meno a farlo cadere in rovina. La sua rovina avvenne qualche anno dopo, per cause del tutto estranee al crimine. Machiavelli, in verità un uomo dalla moralità non limpida persino per i suoi tempi, al tempo del crimine si trovava alla corte di Cesare Borgia, come ministro della repubblica fiorentina. Egli dà un resoconto molto particolareggiato del crimine, nel medesimo stile puro, elegante e sobrio che distingue ogni suo scritto. Ne parla in modo del tutto freddo, si compiace della destrezza con cui Cesare Borgia lo commise, mostra un profondo disprezzo per l’ingenuità e la debolezza delle vittime, ma nessuna compassione per la loro morte misera e prematura, e nessuna indignazione per la crudeltà e l’ipocrisia del loro assassino. La violenza e l’ingiustizia dei grandi conquistatori vengono spesso considerate con stolta meraviglia e ammirazione, quella dei piccoli ladri, rapinatori e assassini vengono considerate sempre con disprezzo, odio e persino orrore. Le prime, sebbene cento volte più cattive e distruttive, se hanno successo, passano per segni di eroico coraggio. Le seconde sono sempre considerate con odio e avversione, come le follie e i crimini dell’umanità più bassa e insignificante. L’ingiustizia delle prime è certamente grande almeno quanto quella delle seconde, ma la loro follia e la loro imprudenza non sono altrettanto grandi. Un uomo malvagio e indegno, ma di molto talento, spesso se ne va per il mondo godendo di un credito maggiore di quanto non meriti. Un uomo malvagio e indegno, ma stolto, sembra sempre il più odioso e disprezzabile di tutti i mortali. La prudenza, unita ad altre virtù, rende il carattere più nobile di tutti gli altri, così l’imprudenza, unita ad altri vizi, lo rende più vile.


 
SEZIONE II Il carattere dell’individuo, relativamente alla sua influenza sulla felicità degli altri

 
INTRODUZIONE
1. Il carattere di ogni individuo può influenzare la felicità degli altri, per la sua disposizione a danneggiarli o per la sua disposizione a far loro del bene.

2. Il risentimento appropriato, causato da un’ingiustizia realmente commessa, o soltanto tentata, è il solo motivo che, agli occhi dello spettatore imparziale, può giustificare il danneggiamento o il disturbo dell’altrui felicità. Se questo avviene per altri motivi, è una violazione delle leggi di giustizia, da frenare o punire con la forza. La saggezza di ogni stato o comunità cerca per quanto può di impiegare la forza della società per frenare quelli che sono soggetti alla sua autorità, in modo tale da impedir loro di danneggiare o disturbare la felicità l’uno degli altri. Le regole che a tale proposito essa stabilisce costituiscono il diritto civile e penale di ogni particolare stato o paese. I principi su cui queste regole sono, o dovrebbero essere, fondate sono gli oggetti di una scienza particolare, di gran lunga la più importante di tutte, ma finora la meno coltivata, la scienza della giurisprudenza naturale, la cui esposizione dettagliata non rientra nei nostri obiettivi presenti. Una sacra e religiosa attenzione a non danneggiare o disturbare in nessun modo la felicità del nostro prossimo, anche nei casi in cui non ci sia nessuna legge a proteggerlo, è propria del carattere dell’uomo del tutto innocente e giusto; un carattere che, quando le sue doti vengono sviluppate, è sempre rispettabile e persino venerabile per se stesso, e non manca quasi mai di essere accompagnato da molte altre virtù, da un forte sentimento per gli altri, da grande umanità e benevolenza. Ma si comprende a sufficienza di quale carattere si tratti, e non c’è bisogno di altre spiegazioni. In questa sezione cercherò soltanto di spiegare il fondamento di quell’ordine che la natura sembra aver delineato per indicarci come distribuire i nostri buoni uffici, o come dirigere o impiegare i nostri limitati poteri di beneficenza primariamente verso gli individui e in secondo luogo verso la società.

3. Troveremo che la stessa infallibile saggezza, che regola ogni altro aspetto della condotta della natura, dirige, anche in questo campo, l’ordine delle sue raccomandazioni, che sono sempre più forti o più deboli a seconda che la nostra beneficenza sia più o meno necessaria, o possa essere più o meno utile.


 
CAPITOLO I L’ordine in cui la Natura raccomanda gli individui alla nostra cura e alla nostra attenzione


1. Ogni uomo, come dicevano gli Stoici, è raccomandato in primo luogo e principalmente alla sua propria cura, e ogni uomo è certamente, in ogni rispetto, più adatto e più capace di prendersi cura di sé di quanto non lo sia nessun altro. Ogni uomo sente i propri piaceri e i propri dolori più profondamente di quelli delle altre persone. I primi sono sensazioni originarie, i secondi immagini riflesse o simpatetiche di quelle sensazioni. I primi possono esser definiti la sostanza, i secondi l’ombra.

2. Dopo se stesso, gli oggetti naturali degli affetti più cari dell’uomo sono i membri della sua famiglia, quelli che vivono nella sua stessa casa, i suoi genitori, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle. Essi sono naturalmente e normalmente le persone la cui felicità o miseria è fortemente influenzata dalla sua condotta. Egli è maggiormente abituato a simpatizzare con loro. Sa meglio come vengono colpiti dagli avvenimenti, e la sua simpatia verso di loro è più precisa e determinata che verso la maggior parte delle altre persone. Si avvicina di più, insomma, a quel che egli sente per se stesso.

3. Inoltre, questa simpatia, e gli affetti che su essa si fondano, sono per natura indirizzati più direttamente verso i suoi figli che verso i suoi genitori, e la sua tenerezza per i primi sembra generalmente un principio più attivo della sua reverenza e gratitudine verso i secondi. Nello stato naturale delle cose, come abbiamo già osservato, l’esistenza di un figlio, nei primi tempi, dipende del tutto dalla cura del genitore, quella del genitore non dipende naturalmente dalla cura del figlio. Sembra che agli occhi della natura un bambino sia un oggetto più importante di un uomo anziano, e suscita una simpatia più viva, oltre che più universale. E così deve essere. Un bambino ci fa aspettare, o almeno sperare, ogni cosa. In casi normali, è molto poco quel che possiamo aspettare o sperare da un anziano. La debolezza di un bambino suscita affetto anche nell’uomo più rude e duro. Solo l’uomo buono e virtuoso, invece, non considera con disprezzo e avversione le infermità che accompagnano l’età avanzata. Normalmente, l’uomo anziano muore senza che nessuno lo rimpianga molto. È invece difficile che un bambino muoia senza che qualcuno non ne abbia il cuore spezzato.

4. Le amicizie più antiche, quelle che iniziano naturalmente quando il cuore è più disponibile a questo sentimento, sono quelle tra fratelli e sorelle. Il loro accordo, nel periodo in cui vivono nella stessa famiglia, è necessario per la sua tranquillità e felicità. I fratelli e le sorelle riescono a darsi reciprocamente piacere o dolore più di quanto non vi riesca la maggior parte delle altre persone. La loro situazione rende la loro simpatia reciproca della più grande importanza per la loro comune felicità, e, per la saggezza della natura, la stessa situazione, obbligandoli ad adattarsi l’uno all’altro, rende quella simpatia più abituale, e perciò più vivace, più chiara, e più determinata.

5. I figli dei fratelli e delle sorelle sono uniti tra loro dalla stessa amicizia che continua tra i loro genitori, anche dopo che ognuno di loro si è formato una famiglia propria. Il loro buon accordo aumenta la gioia di quell’amicizia, il loro disaccordo la disturberebbe. Tuttavia, dal momento che di rado i cugini vivono nella stessa famiglia, sebbene siano importanti l’uno per l’altro, lo sono meno di quanto non lo siano i fratelli e le sorelle tra di loro. La loro simpatia reciproca è meno necessaria, e così meno abituale, e perciò proporzionalmente più debole.

6. I figli dei cugini, in rapporto ancor meno diretto, sono ancor meno importanti l’uno per l’altro, e così l’affetto diminuisce gradualmente man mano che la parentela si allenta.

7. Quel che viene chiamato affetto in realtà non è altro che una simpatia abituale. Il nostro interesse per la felicità o per la miseria di chi è oggetto dei nostri affetti, il nostro desiderio di promuovere l’una e impedire l’altra costituiscono o il sentimento effettivo di quella simpatia abituale, o le conseguenze necessarie di quel sentimento. Poiché le parentele esistono di solito in situazioni che creano naturalmente questa simpatia abituale, ci si aspetta che tra i parenti esista un discreto grado di affetto. Di solito, troviamo che di fatto esiste, perciò ci aspettiamo naturalmente che esista, e siamo sorpresi nelle occasioni in cui vediamo che non esiste. Secondo la regola generale che viene così stabilita, le persone imparentate l’una con l’altra dovrebbero sempre avere un certo tipo di affezioni l’una per l’altra, e c’è sempre una grande inappropriatezza, e a volte persino una sorta di empietà, se hanno affezioni d’altro genere. Un padre privo di paterna tenerezza, un figlio privo di reverenza filiale ci appaiono dei mostri, oggetti non solo di odio, ma di orrore.

8. Anche se, in casi particolari, le circostanze che di solito producono quelli che sono chiamati affetti naturali non dovessero verificarsi per qualche motivo, tuttavia, spesso il rispetto per la regola generale prenderà in qualche misura il loro posto, producendo qualcosa che, pur non essendo del tutto uguale, somiglierà molto a quegli affetti. Un padre tende a essere meno attaccato a un figlio che per qualche motivo sia stato da lui separato da piccolo, e che torna a lui solo da adulto. In tale situazione, il padre tende a sentire meno tenerezza paterna per il figlio, il figlio meno reverenza filiale per il padre. I fratelli e le sorelle, quando vengono mandati a studiare in luoghi distanti l’uno dall’altro, tendono a sentire una simile diminuzione d’affetto. Ma per le persone virtuose, che hanno riguardo per i loro doveri, il rispetto per la regola generale produrrà spesso qualcosa che, per quanto per niente affatto uguale, tuttavia somiglia molto a quegli affetti naturali. Anche durante la separazione, il padre e il figlio, i fratelli e le sorelle non sono mai indifferenti l’uno all’altro. Si considerano reciprocamente come persone a cui certi affetti sono dovuti, e vivono nella speranza di trovarsi prima o poi in una situazione adatta a godere di quell’amicizia che sarebbe dovuta naturalmente esistere tra persone così vicine. Finché non si incontrano, spesso succede che il figlio assente, o il fratello assente, siano il figlio o il fratello preferito. Se pure ci sono stati litigi con loro, sono ormai lontani nel tempo, e vengono considerati come screzi infantili, che non vale la pena ricordare. Le cose che hanno sentito raccontare l’uno dell’altro, se riportate da brave persone, sono sempre lusinghiere e positive. Il figlio assente, il fratello assente, sono diversi dagli altri: sono il figlio e il fratello perfetto, e alimentano romantiche speranze sulla felicità che deriverà dall’essere loro amici e dal conversare con loro. Quando dei fratelli vissuti l’uno lontano dall’altro finalmente si incontrano, spesso hanno un’inclinazione talmente forte verso quella simpatia abituale che costituisce l’affetto familiare, che tendono a fingere di averla davvero provata, e a comportarsi di conseguenza. Tuttavia, temo che il tempo e l’esperienza troppo spesso li disilludano. Dopo essere entrati più in familiarità, spesso scoprono l’uno nell’altro abitudini, indoli, inclinazioni diverse da quanto si aspettavano, e alle quali non riescono facilmente ad adattarsi, per mancanza di una simpatia abituale, per mancanza del reale principio e fondamento di quel che viene propriamente chiamato affetto familiare. Non hanno mai condiviso una situazione che li costringesse quasi necessariamente a un tale adattamento, e per quanto desiderino adattarsi, ne sono diventati incapaci. La loro conversazione e i loro rapporti familiari diventano presto meno piacevoli, e per questo meno frequenti. Magari continuano a vivere scambiandosi l’un l’altro i favori essenziali, mostrando all’esterno un corretto rispetto. Ma raramente accade che riescano a godere completamente di quella cordiale soddisfazione, di quella tenera simpatia, di quella apertura e di quella confidenza che esistono naturalmente tra chi è vissuto a lungo in familiarità.

9. Comunque, la regola generale avrà questa seppur minima autorità solo per le persone virtuose e rispettose dei loro doveri, mentre le persone dissolute, vane e corrotte non la osserveranno affatto. Sono tanto lungi dal rispettarla, che, anzi, è raro che ne parlino senza deriderla, e una separazione precoce e lunga non mancherà mai di renderli completamente estranei l’un l’altro. In persone simili, il rispetto per la regola generale può produrre al massimo un atteggiamento freddamente e ostentatamente civile (debole immagine di un vero riguardo), e la minima offesa, la minima opposizione di interessi comunemente fa cessare anche quello.

10. L’abitudine di mandare i ragazzi a studiare in grandi scuole lontane, i giovani in lontani collegi, le ragazze in lontani conventi e convitti sembra aver corrotto la morale domestica negli alti ranghi sociali, sia in Francia che in Inghilterra. Vuoi educare i tuoi figli in modo tale che abbiano senso del dovere verso i genitori, che siano gentili e affezionati con i loro fratelli e sorelle? Mettili nelle condizioni in cui sia necessario esser tali: educali in casa. Dalla casa dei loro genitori, sarà per loro conveniente e vantaggioso uscire ogni giorno per frequentare la scuola: ma falli abitare sempre in casa. Il rispetto per te porrà sempre un utile freno alla loro condotta, e il rispetto per loro potrà porre spesso un freno non inutile alla tua. I vantaggi che eventualmente si acquisiscono con l’educazione pubblica non compensano mai le perdite. L’educazione domestica è un’istituzione naturale, l’educazione pubblica una creazione umana: credo non sia necessario dire quale sia la più saggia.

11. In alcune tragedie e racconti fantastici troviamo molte scene belle e interessanti, incentrate su quella che viene chiamata la forza del sangue, quel meraviglioso affetto che si suppone esista tra parenti stretti, anche prima che sappiano di esserlo. Tuttavia, temo che questa forza del sangue esista solo nelle tragedie e nei racconti, e anche qui non tra tutti i parenti, ma solo tra quelli allevati nella stessa casa, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle. Immaginare un affetto così misterioso tra cugini, tra zie e zii, o tra nipoti sarebbe ridicolo.

12. Presso i popoli di pastori, e in tutti i paesi in cui l’autorità della legge, da sola, non è sufficiente a offrire una perfetta sicurezza a ogni membro dello stato, tutti i diversi rami di una stessa famiglia normalmente scelgono di vivere vicini gli uni agli altri. Spesso la loro associazione è necessaria per difendersi: sono tutti più o meno importanti l’uno per l’altro. La loro concordia rafforza la loro necessaria associazione; la loro discordia la indebolisce sempre, e può anche distruggerla. Hanno più rapporti tra loro, che con membri di altre tribù. I membri più lontani della stessa tribù rivendicano una certa relazione l’uno con l’altro, e per questo, a parità di circostanze, si aspettano un trattamento migliore rispetto agli estranei. Non molti anni fa, nelle Highlands scozzesi, il capotribù era solito considerare l’uomo più povero del clan come suo cugino e parente. Si dice che lo stesso accada presso i Tartari, gli Arabi, i Turchi, e, credo, presso tutti i popoli che vivono in una situazione simile a quella degli abitanti delle Highlands scozzesi all’inizio di questo secolo.

13. Nei paesi commerciali, dove l’autorità della legge è sempre sufficiente a proteggere anche il più debole degli uomini, i discendenti della stessa famiglia, non avendo ragione di rimanere uniti, naturalmente si separano e si disperdono, a seconda dei loro interessi e delle loro inclinazioni. Smettono presto di essere importanti l’uno per l’altro, e nel giro di poche generazioni non solo perdono interesse reciproco, ma anche ogni ricordo della loro origine comune, e del rapporto che esisteva tra i loro antenati. L’interesse per le lontane parentele diventa in ogni paese a mano a mano minore, in proporzione all’aumento del livello di civilizzazione. In Inghilterra esiste un livello di civilizzazione più antico e più completo che in Scozia, e di conseguenza le lontane parentele sono tenute maggiormente in considerazione nel secondo di questi paesi, anche se le differenze tra i due diminuiscono giorno dopo giorno. I nobili di ogni paese, in realtà, sono sempre orgogliosi di ricordare e riconoscere le loro parentele reciproche, per quanto lontane. Il ricordo di tali illustri parentele lusinga non poco il loro orgoglio familiare, e questo ricordo non viene tenuto in vita per affetto o per qualcosa che somiglia all’affetto, ma per la più frivola e infantile delle vanità. Se qualche parente umile, anche se forse più prossimo, provasse a ricordare a quei nobili la sua parentela con la famiglia, lo accuserebbero di essere un cattivo conoscitore della genealogia, mal informato sulla loro storia familiare. Temo che non è in questa classe che dobbiamo aspettarci una straordinaria espansione di quello che viene detto affetto naturale.

14. Ritengo che l’affetto naturale sia più l’effetto della relazione morale che di una supposta relazione fisica tra genitore e figlio. Un marito geloso tratta spesso con odio e avversione l’infelice bambino che lui sospetta frutto dell’infedeltà della moglie, e questo nonostante il collegamento morale, e nonostante il bambino sia cresciuto in casa sua. Quel bambino rappresenta per lui l’eterno monumento al suo disonore e alla disgrazia della sua famiglia.

15. Tra uomini di buon carattere, la necessità e la convenienza del reciproco adattamento produce molto spesso un’amicizia non dissimile da quella che nasce tra chi è nato nella stessa famiglia. I colleghi di lavoro, i soci nel commercio si chiamano fratelli, e spesso si sentono realmente tali. Il loro buon accordo è un vantaggio per tutti, e se sono sufficientemente ragionevoli tendono naturalmente ad andar d’accordo. Noi ce lo aspettiamo, e il loro disaccordo è una specie di piccolo scandalo. I Romani esprimevano questa sorta di attaccamento con la parola necessitudo, che, etimologicamente, sembra indicare qualcosa di imposto dalla necessità della situazione.

16. Anche la circostanza più accidentale di vivere nello stesso quartiere produce un effetto dello stesso tipo. A patto che non ci abbia mai offeso, rispettiamo un uomo che vediamo tutti i giorni. I vicini possono essere molto utili, e anche molto seccanti, l’uno per l’altro. Se sono brave persone, tendono naturalmente ad andar d’accordo. Noi ce lo aspettiamo, ed essere un cattivo vicino è segno di un carattere molto cattivo. Di conseguenza, ci sono certi piccoli servigi che si considerano universalmente dovuti a un vicino piuttosto che ad altre persone che non abbiano con noi tale relazione di vicinanza.

17. Questa disposizione naturale ad adattarsi agli altri e ad adeguare, per quanto possiamo, i nostri sentimenti, principi, emozioni a quelli fissati e radicati nelle persone con cui siamo obbligati a vivere e conversare a lungo è la causa degli effetti contagiosi delle cattive e delle buone compagnie. L’uomo che si accompagna ai saggi e ai virtuosi, anche se non diventa lui stesso saggio e virtuoso, non può evitare di provare almeno rispetto per la saggezza e la virtù, e l’uomo che si accompagna con i depravati e i dissoluti, anche se non diventa come loro, come minimo perderà presto la sua originaria avversione per la depravazione e la dissolutezza. La somiglianza di carattere tra i componenti della stessa famiglia, che a volte si trasmette di generazione in generazione, può forse essere in parte dovuta a questa disposizione ad adeguarci a coloro con cui siamo obbligati a vivere e a conversare a lungo. Tuttavia, il carattere familiare, come il comportamento familiare, sembra dovuto non del tutto alla relazione morale, ma in parte anche alla relazione fisica. Il comportamento familiare certamente si deve del tutto a quest’ultima.

18. Ma di tutti i sentimenti di attaccamento a un individuo, quello fondato del tutto sulla stima e l’approvazione della sua buona condotta e del suo buon comportamento, e confermato dall’esperienza e dalla dimestichezza, è di gran lunga il più rispettabile. Una tale amicizia non deriva da una simpatia forzata, o da una simpatia che all’inizio viene finta, e poi diventa abituale per convenienza e adattamento, ma da una simpatia naturale, dal fatto che sentiamo anche senza volerlo che le persone a cui siamo attaccati sono gli oggetti naturali e appropriati di stima e approvazione: questa amicizia può esistere solo tra uomini virtuosi. Soltanto gli uomini virtuosi possono sentire reciprocamente quella completa confidenza nella condotta e nel comportamento, che li rende certi del fatto che mai si offenderanno l’un l’altro. Il vizio è sempre capriccioso: soltanto la virtù è regolare e ordinata. L’attaccamento fondato sull’amore della virtù, oltre a essere il più virtuoso, è anche il più felice, come del resto il più duraturo e sicuro. Tali amicizie non sono necessariamente limitate a due persone, ma possono essere facilmente estese a tutti i saggi e i virtuosi con cui abbiamo un’intimità di vecchia data, e della cui saggezza e virtù, perciò, possiamo fidarci del tutto. Coloro che vogliono limitare l’amicizia a due sole persone sembrano confondere la saggia sicurezza dell’amicizia con la gelosia e la follia dell’amore. Quei legami avventati, appassionati e folli propri dei giovani, fondati, comunemente, su qualche debole affinità di carattere, del tutto slegati dalla buona condotta, basati forse su una similarità di gusto per gli studi, per gli stessi divertimenti, gli stessi passatempi, o sull’accordo su qualche singolo principio o opinione non accettato comunemente, quei legami che iniziano e finiscono per capriccio, per quanto possano sembrar piacevoli per il tempo in cui durano, non possono affatto meritare il sacro e venerabile appellativo di amicizia.

19. Tuttavia, di tutte le persone che la natura ci segnala come oggetti di una nostra particolare beneficenza, quelle che ne sembrano i destinatari più appropriati sono coloro che hanno già mostrato beneficenza verso di noi. La natura, che ha fatto gli uomini per questa reciproca bontà, così necessaria per la loro felicità, fa sì che ogni uomo diventi oggetto particolare di bontà per quelli verso i quali lui è stato buono. Per quanto la loro gratitudine non corrisponda sempre alla sua beneficenza, tuttavia il senso del suo merito, la gratitudine simpatetica dello spettatore imparziale, le corrisponderà sempre. La generale indignazione degli altri contro la bassezza della loro ingratitudine qualche volta accrescerà persino il senso del suo merito. Nessun uomo benevolo perde mai del tutto i frutti della sua benevolenza. Se non sempre li raccoglie dalle persone che dovrebbero offrirglieli, è difficile che non li raccolga affatto, e maggiorati di dieci volte, da altre persone. La bontà chiama la bontà, e se l’essere amati dai nostri fratelli è il grande oggetto della nostra ambizione, la via più sicura per ottenerlo è mostrare con la nostra condotta che li amiamo davvero.

20. Dopo le persone che sono raccomandate alla nostra beneficenza per il rapporto che hanno con noi, per le loro qualità personali, per servigi che hanno svolto in passato, vengono le persone che sono segnalate non alla nostra amicizia, ma alla nostra benevola attenzione e ai nostri favori: sono persone che si distinguono per la loro situazione particolare, cioè i fortunati e gli sventurati, i ricchi e i potenti, i poveri e i miserabili. Le distinzioni di rango, la pace e l’ordine sociale, si fondano in grande misura sul rispetto che naturalmente proviamo per i primi. Il sollievo e la consolazione della miseria umana dipendono del tutto dalla nostra compassione per i secondi. La pace e l’ordine della società sono più importanti del sollievo dei miserabili. Il nostro rispetto per i potenti, di conseguenza, tende maggiormente a essere eccessivo, il nostro sentimento di partecipazione per i miserabili tende invece a essere insufficiente. I moralisti ci esortano alla carità e alla compassione. Ci mettono in guardia contro il fascino del potere. Ma questo fascino è talmente forte, che i ricchi e i potenti sono troppo spesso preferiti ai saggi e ai virtuosi. La natura ha saggiamente giudicato che la distinzione dei ranghi, la pace e l’ordine della società, avrebbero avuto una sede più sicura nella semplice e tangibile differenza di nascita e di ricchezza che su quella invisibile e spesso incerta di saggezza e virtù. L’occhio poco sensibile della maggior parte dell’umanità riesce bene a percepire la prima di queste differenze, mentre la seconda viene percepita con difficoltà persino dall’acuto discernimento dei saggi e dei virtuosi. Anche nell’ordine di queste raccomandazioni è evidente la benevola saggezza della natura.

21. Forse non è necessario rilevare che la combinazione di due o più di questi fattori di bontà aumenta la bontà stessa. Il favore e la predilezione che, quando non c’è invidia, attribuiamo naturalmente alla grandezza, si accrescono quando a essa sono unite la saggezza e la virtù. Se, nonostante quella saggezza e quella virtù, l’uomo potente dovesse cadere in quelle sventure, in quei pericoli e in quelle angosce a cui le classi sociali più elevate sono spesso maggiormente esposte, ci interesseremmo alla sua sorte molto più di quanto non faremmo per una persona altrettanto virtuosa, ma più umile. I soggetti più interessanti per le tragedie e i racconti fantastici sono le sventure di re e principi virtuosi e magnanimi. Se con saggezza e coraggio essi riescono a districarsi da quelle difficili situazioni, recuperando del tutto la loro precedente superiorità e sicurezza, non potremo evitare di considerarli con la più entusiastica, e a volte anche esagerata, ammirazione. La pena che abbiamo provato per la loro angoscia e la gioia che proviamo adesso per la loro felicità sembrano unirsi, aumentando la predilezione e l’ammirazione che naturalmente abbiamo sia per il loro stato sociale che per la loro personalità.

22. Nel caso tali affezioni benevole, anziché combinarsi tra loro, prendano strade diverse, è forse del tutto impossibile stabilire con delle regole precise quale dovremmo seguire. È all’uomo interiore, all’immaginato spettatore imparziale, grande giudice e arbitro della nostra condotta, che dobbiamo lasciar decidere in quali casi l’amicizia debba cedere alla gratitudine, o la gratitudine all’amicizia; in quali casi la più forte di tutte le affezioni naturali debba cedere a un riguardo per la salvezza di quegli uomini da cui spesso dipende la salvezza di tutta la società, e in quali casi, invece, l’affezione naturale possa esser lasciata prevalere. Se ci mettiamo completamente al posto dello spettatore imparziale, se davvero ci vediamo con i suoi occhi, come ci vede lui, e ascoltiamo con attenzione reverente e diligente quello che ci suggerisce, la sua voce non ci ingannerà mai, e non avremo bisogno di regole casistiche per dirigere la nostra condotta. È spesso impossibile adattare tali regole a tutte le diverse sfumature e gradazioni delle circostanze, dei caratteri, delle situazioni, a tutte le diverse differenze e distinzioni che, sebbene non impercettibili, sono spesso del tutto indefinibili a causa della loro sottigliezza e delicatezza. Nella bella tragedia di Voltaire «L’orfano della Cina», mentre ammiriamo la magnanimità di Zamti, che intende sacrificare la vita del proprio figlio per salvare l’unico debole superstite dell’antica razza dei suoi sovrani e signori, non solo perdoniamo, ma amiamo la materna tenerezza di Idame, che, a rischio di rivelare l’importante segreto del marito, reclama il suo piccolo dalle mani crudeli dei Tartari, in cui è stato consegnato.


 
CAPITOLO II L’ordine in cui la Natura raccomanda le società alla nostra beneficenza


1. Gli stessi principi che dirigono l’ordine in cui gli individui sono raccomandati alla nostra beneficenza dirigono anche l’ordine in cui le sono raccomandate le società. Le società che vengono primariamente e principalmente raccomandate alla nostra beneficenza sono quelle per le quali essa è o può essere della massima importanza.

2. Lo stato o il regno nel quale siamo nati e siamo stati allevati, e sotto la cui protezione continuiamo a vivere, è normalmente la più grande società sul cui benessere o sulla cui miseria la nostra condotta buona o cattiva può avere molta influenza. Perciò è quella che ci viene più vivamente raccomandata dalla natura. In essa non siamo compresi solo noi, ma tutti gli oggetti dei nostri affetti più cari: i nostri figli, i nostri genitori, i nostri parenti, i nostri amici, i nostri benefattori, tutti quelli che amiamo e rispettiamo di più. Dalla prosperità e dalla sicurezza della società dipende in qualche misura la loro prosperità e la loro sicurezza. Perciò la natura ce la rende cara, non solo per i nostri interessi egoistici, ma anche per tutti i nostri personali affetti benevoli. Poiché noi siamo in connessione con essa, la sua prosperità e la sua gloria sembrano farci onore di riflesso. Quando la paragoniamo con altre società dello stesso tipo, siamo fieri della sua superiorità, e restiamo mortificati se essa appare inferiore a loro di qualche grado. Tendiamo a considerare con l’ammirazione più parziale tutti i suoi personaggi illustri del passato (verso quelli del presente l’invidia ci fa avere a volte dei pregiudizi): i suoi guerrieri, i suoi statisti, i suoi poeti, i suoi filosofi, e tutti gli uomini di lettere, e a collocarli al di sopra di quelli delle altre nazioni, a volte del tutto ingiustamente. Il patriota che dà la sua vita per la salvezza, o anche per la vanagloria di questa società, sembra agire con la più giusta appropriatezza. Sembra che egli si consideri nella stessa luce in cui lo considera necessariamente e naturalmente lo spettatore imparziale, e cioè come uno dei tanti, non più importante di chiunque altro per quel giudice equo, ma sempre pronto a sacrificarsi e dedicarsi alla salvezza, al servizio, e persino alla gloria dei molti. Ma per quanto questo sacrificio appaia del tutto giusto e appropriato, sappiamo quanto sia difficile compierlo, e quanto poche siano le persone capaci di farlo. Perciò, la condotta del patriota non solo suscita tutta la nostra approvazione, ma anche tutta la nostra meraviglia e ammirazione, e sembra meritare tutto l’elogio dovuto alla virtù più eroica. Al contrario, il traditore, che, in qualche situazione particolare, persegue il suo piccolo interesse personale sacrificando al nemico l’interesse del suo paese; che, senza dare ascolto al giudizio dell’uomo interiore, preferisce, in modo vile e vergognoso, se stesso a tutti quelli che sono in relazione con lui, sembra il più detestabile dei furfanti.

3. L’amore per la nostra patria ci porta spesso a guardare con gelosia e invidia maligne alla prosperità e all’espansione delle nazioni vicine. Le nazioni vicine e indipendenti che non hanno un’autorità superiore in comune per dirimere le loro questioni, vivono sempre continuamente timorose e sospettose l’una dell’altra. Ogni sovrano, non aspettandosi molta giustizia dai suoi vicini, è portato a trattarli come si aspetta da loro. Il rispetto per le leggi delle nazioni, o per quelle regole che stati indipendenti proclamano o fingono di osservare trattando tra loro, spesso non è altro che una simulazione o una mera dichiarazione d’intenti non seguita da fatti. Vediamo tutti i giorni quelle regole aggirate o apertamente violate per il minimo interesse, per la più insignificante provocazione, e senza nessuna vergogna o rimorso. Ogni nazione prevede, o immagina di prevedere, la sua sottomissione a causa dell’accresciuto potere o dell’espansione dei suoi vicini, e i pregiudizi nazionali, nella loro bassezza, sono spesso fondati sul nobile amore per la patria. La frase con cui si dice che il vecchio Catone chiudesse ogni suo discorso in Senato, qualsiasi fosse l’argomento, «Credo inoltre che Cartagine debba essere distrutta» era la naturale espressione del selvaggio patriottismo di una mente forte, ma rozza, irritata quasi alla follia contro una nazione straniera per la quale la sua nazione aveva tanto sofferto. La frase più umana con cui si dice che Scipione Nasica chiudesse ogni suo discorso, «Credo inoltre che Cartagine non debba essere distrutta», era l’espressione liberale di una mente più aperta e illuminata, che non provava avversione per la prosperità di un antico nemico, se ridotto a uno stato in cui non poteva più nuocere a Roma. La Francia e l’Inghilterra possono avere ciascuna qualche motivo per temere l’accrescimento della potenza militare e navale dell’altra, ma è sicuramente indegno di due così grandi nazioni invidiare la felicità e la prosperità dell’altra, la sua agricoltura, il progresso delle sue industrie, l’espansione dei suoi commerci, la sicurezza e il numero dei suoi scali e dei suoi porti, il suo avanzamento in tutte le arti liberali e nelle scienze. Questi sono tutti contributi al miglioramento del mondo in cui viviamo. L’umanità ne viene beneficiata, la natura umana nobilitata. Ogni nazione non dovrebbe solo cercare di primeggiare in essi, ma, per amore dell’umanità, dovrebbe promuovere, anziché ostacolare, l’eccellenza delle nazioni vicine. Essi sono tutti oggetti appropriati di emulazione, non di pregiudizio o invidia, tra le varie nazioni.

4. L’amore per la nostra patria non sembra derivare dall’amore per l’umanità. Il primo sentimento è del tutto indipendente dal secondo, e a volte sembra persino spingerci ad agire in contraddizione con esso. Gli abitanti della Francia sono forse tre volte quelli della Gran Bretagna. Nella grande società umana, perciò, la prosperità della Francia dovrebbe sembrare un obiettivo molto più importante di quella della Gran Bretagna. Tuttavia, un britannico che non preferisse in ogni situazione la prosperità della Gran Bretagna a quella della Francia non sarebbe ritenuto un buon cittadino britannico. Noi non amiamo la nostra patria solo come parte della grande società dell’umanità, la amiamo per se stessa, indipendentemente da simili considerazioni. Quella saggezza che regola il sistema degli affetti umani e ogni altra parte della natura sembra aver ritenuto che l’interesse della grande società umana sarebbe stato meglio tutelato indirizzando l’attenzione principale di ogni singolo individuo verso quella particolare porzione della società che maggiormente rientrava nella sfera delle sue abilità e del suo intelletto.

5. I pregiudizi e gli odi nazionali si estendono raramente al di là dei popoli vicini. Per esempio, in maniera forse molto superficiale e stupida, noi chiamiamo i francesi nostri nemici naturali, e forse loro, in maniera altrettanto stupida e superficiale, considerano noi allo stesso modo. Nessuno dei due popoli prova invece alcuna invidia per la prosperità della Cina o del Giappone. Tuttavia, è raro che anche il nostro benvolere verso questi paesi distanti abbia un effetto rilevante.

6. La benevolenza più estesa per il bene pubblico, che possa comunemente essere esercitata con qualche considerevole effetto è quella degli statisti, che progettano e stipulano alleanze con i paesi vicini o prossimi per mantenere quello che viene chiamato equilibrio del potere, o la pace e la tranquillità degli stati che partecipano alle trattative. Tuttavia, gli statisti che concepiscono e concludono tali trattati raramente puntano a qualcosa che non sia l’interesse dei loro rispettivi paesi. A volte, però, le loro vedute sono più ampie. Il conte d’Avaux, plenipotenziario di Francia, durante le trattative di Munster, secondo il Cardinal de Retz, un uomo non molto fiducioso nell’altrui virtù, avrebbe sacrificato la sua vita se questo fosse servito a ristabilire, con quel trattato, la generale tranquillità in Europa. Sembra che il re Guglielmo d’Orange fosse realmente zelante per la libertà e l’indipendenza della maggior parte degli stati sovrani d’Europa, spinto forse dalla sua particolare avversione per la Francia, lo stato che più di tutti, ai suoi tempi, minacciava quella libertà e quell’indipendenza. Una parte di questo suo spirito sembra sia disceso sul duca di Marlborough, primo ministro della regina Anna.

7. Ogni stato indipendente è diviso in molti diversi ordini e società, ognuno dei quali ha i suoi particolari poteri, privilegi, e immunità. Ogni individuo è naturalmente più legato al proprio ordine o alla propria società, piuttosto che agli altri, infatti a essi sono generalmente connessi interessi e vanità suoi personali e dei suoi amici e compagni. Per questo egli ambisce a estendere i privilegi e le immunità del suo ordine e si impegna a difenderli contro tentativi di usurpazione da parte degli altri ordini o società.

8. Quella che viene chiamata la costituzione di un particolare stato dipende dalla maniera in cui esso è diviso nei diversi ordini e società che lo compongono, e dalla particolare distribuzione che è stata operata relativamente ai rispettivi poteri, privilegi, immunità.

9. La stabilità di una costituzione dipende dall’abilità di ciascun ordine o società di difendere i suoi poteri, privilegi e immunità dall’usurpazione di tutti gli altri. Quella particolare costituzione viene necessariamente più o meno alterata ogniqualvolta una qualsiasi delle sue parti subordinate viene innalzata o decade a un rango o a una condizione diversi dai precedenti.

10. Tutti questi diversi ordini e società dipendono dallo stato, al quale devono la loro sicurezza e protezione. Il fatto che siano tutti soggetti allo stato, e che la loro esistenza sia subordinata alla sua prosperità e alla sua conservazione è una verità riconosciuta anche dal più parziale dei membri di ciascuno di essi. Spesso, tuttavia, può risultare difficile convincerlo che la prosperità e la conservazione dello stato richiedono una certa diminuzione dei poteri, dei privilegi e delle immunità del particolare ordine o della particolare società a cui egli appartiene. Questa parzialità, per quanto a volte ingiusta, proprio per questo può risultare utile. Controlla lo spirito di innovazione. Tende a mantenere l’equilibrio stabilito tra i diversi ordini e società in cui è diviso lo stato, e, anche se a volte sembra impedire cambiamenti che a un dato momento appaiono popolari e in voga, in realtà contribuisce alla stabilità e alla permanenza dell’intero sistema.

11. L’amore per il nostro paese sembra normalmente comprendere due diversi principi: primo, un certo rispetto e una certa reverenza per la costituzione o forma di governo stabilita; secondo, un sincero desiderio di rendere la condizione dei nostri concittadini più sicura, rispettabile e felice che possiamo. Chi non è disposto a rispettare le leggi e a obbedire alla magistratura civile non è un cittadino; e certamente non è un buon cittadino chi non desidera promuovere con ogni mezzo in suo potere il benessere di tutto l’insieme dei suoi concittadini.

12. In tempi di pace e di calma, questi due principi generalmente coincidono e suggeriscono la stessa condotta. Quando vediamo che il governo costituito mantiene la sicurezza, la rispettabilità e la felicità dei nostri concittadini, sostenerlo sembra evidentemente il miglior modo per conservare tale situazione. Ma in periodi di pubblica insoddisfazione, di fazioni e di disordine, questi due diversi principi possono prendere strade diverse, e persino un uomo saggio può arrivare a ritenere necessario un cambiamento di quella costituzione o di quel governo che nella sua attuale forma appare chiaramente incapace di mantenere la pubblica tranquillità. Tuttavia, in tali casi è spesso richiesto il più grande sforzo di saggezza politica per stabilire quando un vero patriota debba sostenere e cercare di ristabilire l’autorità del vecchio sistema, e quando invece debba cedere al più audace, ma spesso pericoloso, spirito di rinnovamento.

13. Le guerre con lo straniero e le fazioni interne sono due situazioni che offrono le più splendide occasioni per mostrare spirito civico. L’eroe che serve con successo il suo paese in guerra soddisfa i desideri di tutto il popolo, e diventa per questo oggetto di gratitudine e ammirazione universali. In tempi di discordia civile, i capi delle parti avverse, per quanto possano essere ammirati da metà dei loro concittadini, normalmente sono detestati dall’altra metà. Le loro personalità e il merito delle loro azioni rispettive comunemente sembra più dubbio. La gloria acquisita nella guerra contro lo straniero, perciò, è sempre più pura e splendida di quella che si può acquistare nelle lotte civili.

14. Il capo della parte vincente, tuttavia, se ha sufficiente autorità per costringere i suoi compagni ad agire con prudenza e moderazione (cosa abbastanza rara), a volte può rendere al suo paese un servizio molto più essenziale e importante delle più grandi vittorie e delle maggiori conquiste. Può ristabilire e migliorare la costituzione, e, a causa della dubbia e ambigua personalità dei capifazione, può assumere la personalità più grande e nobile: quella del riformatore di un grande stato, e, con la saggezza delle sue istituzioni, assicurare la tranquillità e la felicità interna dei suoi concittadini per molte successive generazioni.

15. In mezzo alla turbolenza e al disordine delle fazioni, un certo spirito di sistema tende a mescolarsi con quello spirito civico fondato sull’amore dell’umanità, su un vero sentimento di partecipazione per i disagi e le angosce a cui posson venir esposti alcuni dei nostri concittadini. Questo spirito di sistema normalmente prende la stessa direzione di quel più nobile spirito civico: lo suscita sempre, e spesso lo infiamma fino alla pazzia del fanatismo. È raro che i capi delle parti insoddisfatte manchino di presentare qualche plausibile piano di riforma, in grado, secondo loro, non solo di eliminare gli inconvenienti e alleviare le angosce lamentate nell’immediato, ma anche di prevenire, per i tempi a venire, una loro riproposizione. Propongono spesso, a tal fine, di rimodellare la costituzione, mutando nelle sue parti più essenziali quel sistema di governo che forse ha garantito, nel corso dei secoli, ai cittadini di un grande impero pace, sicurezza, e anche gloria. La maggior parte dei loro seguaci vengono normalmente inebriati dalla bellezza immaginaria di questo sistema ideale, di cui non hanno esperienza, ma che è stato loro dipinto a tinte abbaglianti dall’eloquenza dei loro capi. I capi stessi, anche se all’inizio non miravano ad altro che all’accrescimento del loro potere, poco a poco vengono ingannati dai loro stessi sofismi, e diventano ansiosi di questa grande riforma come il più debole e il più sciocco dei loro seguaci. Anche se i capi riescono a conservare, come accade comunemente, le loro teste libere da questo fanatismo, non osano deludere le attese dei loro seguaci, ma sono spesso obbligati, per quanto in contrasto con i loro principi e la loro coscienza, ad agire come se anch’essi fossero presi dall’illusione generale. La violenza di parte, rifiutando ogni palliativo, ogni moderazione, ogni ragionevole compromesso, chiedendo troppo, spesso non ottiene nulla, e quegli inconvenienti e quelle angosce, che con una piccola moderazione avrebbero potuto venir rimossi e sanati, vengono lasciati completamente senza alcuna speranza di rimedio.

16. L’uomo il cui spirito civico è spinto da umanità e benevolenza, rispetterà i poteri e i privilegi costituiti degli individui, e ancor più quelli dei grandi ordini e società in cui è diviso lo stato. Anche se dovesse considerarne alcuni in qualche misura abusivi, si limiterà a moderare quel che spesso non può annullare senza ricorrere a una grande violenza. Quando non riesce a sconfiggere con la ragione e la persuasione i radicati pregiudizi della gente, non tenterà di reprimerli con la forza, ma osserverà religiosamente quella che Cicerone definisce giustamente la divina massima di Platone: non usare mai violenza verso il proprio paese, non più che verso i propri genitori. Adatterà, meglio che può, i suoi ordinamenti pubblici alle abitudini e ai pregiudizi consolidati del popolo, e rimedierà, meglio che può, agli inconvenienti che potranno derivare dalla mancanza di quei regolamenti a cui il popolo è restio a sottomettersi. Se non riuscirà ad affermare la giustizia, non disdegnerà di limitare l’ingiustizia, ma, come Solone, non potendo instaurare il miglior sistema legislativo possibile, cercherà comunque di instaurare il migliore proponibile in quel dato contesto.

17. Al contrario, l’uomo animato da spirito di sistema tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Lo realizza completamente in ogni sua parte, senza alcun riguardo per i grandi interessi o per i profondi pregiudizi che possono opporvisi. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera. Non considera che i pezzi sulla scacchiera non hanno altro principio di moto oltre a quello che gli imprime la mano dall’esterno, mentre nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli. Se questi due principi coincidono e agiscono nella stessa direzione, il gioco della società umana procederà facilmente e armoniosamente, e con ogni probabilità avrà buon esito. Se sono opposti e differenti, il gioco procederà infelicemente, e la società sarà sempre immersa nel più profondo disordine.

18. Per dirigere le vedute di uno statista, può senza dubbio essere necessaria qualche idea generale, e anche sistematica, sulla perfezione della politica e della legge. Ma voler per forza stabilire, tutto in una volta e a disprezzo di ogni opposizione, tutto ciò che quell’ordine richiede è spesso segno di estrema arroganza. Significa erigere il proprio giudizio a supremo modello del giusto e dell’ingiusto. Significa credere di essere l’unico uomo saggio e meritevole della società, e ritenere che i propri concittadini debbano conformarsi a sé, e non viceversa. È per questo che, di tutti i teorici della politica, i principi sovrani sono di gran lunga i più pericolosi. Infatti una simile arroganza è per loro del tutto familiare. Essi non nutrono alcun dubbio sull’immensa superiorità del proprio giudizio. Perciò, quando questi riformatori di estrazione imperiale e regale si abbassano a prendere in considerazione la costituzione dello stato affidata al loro governo, è raro che in essa trovino qualcosa di più ingiusto degli ostacoli che essa pone al loro volere. Disprezzano la divina massima di Platone, e ritengono che lo stato sia stato fatto per loro, e non viceversa. Perciò il grande obiettivo della loro riforma sarà quello di rimuovere quegli ostacoli, limitando il potere della nobiltà, abolendo i privilegi di città e province, e rendendo gli individui più importanti e i più importanti ordini dello stato incapaci, quanto quelli più deboli e insignificanti, di opporsi ai loro voleri.


 
CAPITOLO III La benevolenza universale


1. Sebbene sia raro che i nostri effettivi buoni uffici possano estendersi a una società più vasta di quella del nostro paese, il nostro benvolere non è circoscritto in alcun confine, ma può estendersi fino ad abbracciare l’immensità dell’universo. Non possiamo formarci l’idea di un essere innocente e sensibile senza desiderarne la felicità, o senza provare una certa avversione per la sua infelicità, quando la immaginiamo distintamente. L’idea di un essere malvagio, per quanto sensibile, provoca naturalmente il nostro odio, ma il malvolere che gli rivolgiamo in questo caso è realmente l’effetto della nostra benevolenza universale. È l’effetto della simpatia che proviamo per l’infelicità e il risentimento degli altri esseri innocenti e sensibili, la cui felicità è disturbata dalla sua cattiveria.

2. Questa benevolenza universale, per quanto nobile e generosa, non può procurare alcuna felicità durevole all’uomo che non sia del tutto convinto che tutti gli abitanti dell’universo, dal più umile al più potente, sono tutti sotto l’immediata cura e protezione del grande, benevolo e onnisciente Essere che dirige ogni movimento della natura, mantenendo sempre in essa la maggior quantità possibile di felicità, spinto dalla sua immutabile perfezione. Al contrario, il solo sospetto di un mondo senza padre è la riflessione più triste per questa benevolenza universale, perché fa pensare che tutte le regioni sconosciute dello spazio infinito non siano piene d’altro che di miseria e infelicità sconfinate. Tutto lo splendore della più completa prosperità non riesce mai a illuminare le tenebre che un’idea così terribile stende sull’immaginazione, e, al contrario, in un uomo saggio e virtuoso, tutta la sofferenza per la disgrazia più triste non basta a inaridire la gioia che sgorga dalla convinzione completa e abituale della verità del sistema opposto.

3. L’uomo saggio e virtuoso è sempre animato dalla volontà che il suo interesse privato venga sacrificato all’interesse pubblico del suo particolare ordine o della sua particolare società. Inoltre desidera sempre che l’interesse del suo ordine o della sua società sia sacrificato al più grande interesse dello stato o del regno, di cui il suo ordine non è che una parte subordinata. Perciò desidererà allo stesso modo che tutti quegli interessi inferiori siano sacrificati al più grande interesse dell’universo, all’interesse della grande società di tutti gli esseri sensibili e intelligenti, della quale Dio stesso è il diretto amministratore e governante. Se in lui è profondamente radicata la convinzione abituale e completa che questo Essere benevolo e sapientissimo non ammette all’interno del suo sistema di governo alcun male particolare che non sia necessario per il bene universale, dovrà considerare tutte le sventure che possono colpire lui, i suoi amici, la sua società, o il suo paese come sventure necessarie per la prosperità dell’universo, e perciò come qualcosa a cui non solo deve sottomettersi con rassegnazione, ma che deve anche desiderare sinceramente e devotamente, una volta che gli siano note le connessioni e le dipendenze tra le cose.

4. Questa magnanima rassegnazione alla volontà di Colui che dirige l’universo non sembra affatto al di là delle possibilità umane. I buoni soldati, che amano il loro generale e hanno fiducia in lui, spesso marciano verso una postazione sperduta, da cui non sperano di tornare, più sereni e solerti che se fosse una postazione non difficile né pericolosa. Marciando verso una postazione sicura, non sentirebbero altro che la noia del dovere ordinario, marciando verso l’altra, sentono che stanno compiendo quanto di più nobile per un uomo. Sanno che il loro generale non li avrebbe inviati verso quella postazione se non fosse stato necessario per salvare l’esercito, per vincere la guerra. Sacrificano volentieri i limitati sistemi delle loro esistenze per un sistema più grande. Rivolgono un affettuoso addio ai loro camerati, ai quali augurano ogni gioia e successo, e marciano non solo con sottomessa obbedienza, ma spesso con grida di gioiosa esaltazione, verso quella postazione fatale, ma splendida e gloriosa, a cui sono stati inviati. Nessun condottiero di eserciti può meritare una fiducia più illimitata, un affetto più ardente e zelante del gran Condottiero dell’universo. Nelle più grandi calamità pubbliche e private, un uomo saggio dovrebbe riflettere che egli, i suoi amici e i suoi compatrioti sono stati destinati a una zona sperduta dell’universo; che se non fosse stato necessario per il bene comune non avrebbero ricevuto tale destinazione; e che rientra nel loro dovere non solo rassegnarsi umilmente a tale destinazione, ma cercare di accettarla con zelo e gioia. Un uomo saggio dovrebbe certamente essere in grado di fare quello a cui un buon soldato è sempre pronto.

5. L’idea di quell’Essere divino, la cui benevolenza e la cui saggezza progettano e dirigono dall’eternità l’immensa macchina dell’universo, in modo tale da produrre sempre la maggior quantità possibile di felicità, è certamente il più sublime di tutti gli oggetti dell’umana contemplazione. Ogni altro pensiero al confronto sembra insignificante. È raro che non riteniamo oggetto della più alta venerazione l’uomo che crediamo assorto in questa sublime contemplazione, e sebbene la sua vita sia del tutto contemplativa, spesso lo consideriamo con una sorta di rispetto religioso, molto superiore a quello che riserviamo a chi è attivamente e utilmente al servizio della società. Le «Meditazioni» di Marco Aurelio, che vertono principalmente su questo argomento, hanno contribuito a far ammirare il suo personaggio più di tutte le imprese del suo regno giusto, pio e benevolo.

6. Tuttavia, l’amministrazione del gran sistema dell’universo, la cura della felicità universale di tutti gli esseri sensibili e razionali è qualcosa che riguarda Dio, e non l’uomo. All’uomo è riservato un settore molto più modesto, ma più adatto ai suoi deboli poteri e alla sua limitata capacità di comprensione: la cura della propria felicità, di quella della sua famiglia, dei suoi amici, del suo paese. Il fatto che egli sia occupato nella contemplazione del settore più sublime non giustifica la sua negligenza verso il più modesto, ed egli non deve esporsi all’accusa che si dice Avidio Cassio abbia rivolto, forse ingiustamente, a Marco Aurelio, dicendogli che, intento nelle sue speculazioni filosofiche, e assorto nella contemplazione dell’armonia del cosmo, trascurava quella dell’impero romano. Neanche la più sublime speculazione di un filosofo contemplativo riesce a compensare la negligenza verso il più piccolo dovere attivo.


 
SEZIONE III Il dominio di sé
1. L’uomo che agisce secondo le regole della perfetta prudenza, della severa giustizia, e dell’appropriata benevolenza può esser considerato perfettamente virtuoso. Ma la più perfetta conoscenza di quelle regole non lo rende, da sola, capace di agire in questa maniera. Le sue stesse passioni tendono a sviarlo, lo tentano, lo portano a violare tutte le regole che a sangue freddo approva. La più perfetta conoscenza delle regole, se non è sostenuta dal più perfetto dominio di sé, non sempre lo renderà capace di compiere il suo dovere.

2. Sembra che alcuni dei migliori moralisti dell’antichità abbiano diviso le passioni in due classi diverse: primo, quelle che non possono essere trattenute, nemmeno per un momento solo, senza richiedere un forte dominio di sé; secondo, quelle facili da controllare per un momento o per un breve periodo, ma che nel corso della vita tendono a produrre gravi deviazioni, per le loro continue e pressoché incessanti sollecitazioni.

3. La prima classe è costituita dalla paura e dalla collera, insieme ad altre passioni mescolate o connesse con loro. L’amore per il benessere, l’amore per il piacere, l’amore per gli elogi e per molte altre gratificazioni egoistiche costituiscono la seconda classe. Una paura eccessiva o una collera furiosa sono spesso difficili da trattenere anche per un solo momento. L’amore per l’agio, per il piacere, per gli elogi, e per altre gratificazioni egoistiche è sempre facile da controllare per un momento, o anche per un breve periodo di tempo, ma, per le sue continue sollecitazioni, ci fa cadere in debolezze di cui in seguito abbiamo tutti i motivi per vergognarci. Si può spesso dire che le passioni del primo tipo ci trascinino verso il dovere, e che le altre ce ne allontanino. Gli antichi moralisti chiamavano il dominio delle prime fermezza, coraggio, forza di volontà, e il dominio delle seconde temperanza, decenza, modestia e moderazione.

4. Il dominio di questi due tipi di passioni ha una sua propria bellezza, indipendentemente da quella che gli deriva dalla sua utilità, e dal fatto che ci rende capaci in ogni situazione di agire secondo i dettami della prudenza, della giustizia, dell’appropriata benevolenza, e sembra meritare per se stesso un certo grado di stima e ammirazione. In un caso, la stima e l’ammirazione sono suscitate dalla forza e dalla grandezza dello sforzo compiuto; nell’altro, dalla regolarità, dalla costanza, e dall’incessante fermezza di quello sforzo.

5. L’uomo che nel pericolo, o sotto tortura, o quando si avvicina la morte, conserva inalterata la sua tranquillità, e non si lascia sfuggire né una parola né un gesto che non si accordi perfettamente con i sentimenti dello spettatore più indifferente ispira necessariamente un altissimo grado di ammirazione. Se soffre per la causa della libertà e della giustizia, per il bene dell’umanità e per l’amore del suo paese, suscita la più tenera compassione per le sue sofferenze, la più violenta indignazione contro i suoi ingiusti persecutori, la più calda gratitudine simpatetica per le sue benevole intenzioni, il più alto senso del suo merito, e tutti questi sentimenti si uniscono e si associano con l’ammirazione per la sua grandezza d’animo, ammirazione che spesso si infiamma fino a diventare entusiastica ed estatica venerazione. Gli eroi della storia antica e moderna che vengono ricordati con più favore e affetto sono soprattutto quelli che, per la causa della verità, della libertà e della giustizia, sono morti sul patibolo, conservando anche in quella fatale circostanza un comportamento sereno e dignitoso. Se i nemici di Socrate gli avessero consentito di morire tranquillo nel suo letto, la gloria di quel grande filosofo non avrebbe mai acquistato quell’abbagliante splendore che l’accompagna nel corso dei secoli. Guardando i ritratti di uomini illustri della storia inglese incisi da Vertue e Howbraken, credo che non ci sia nessuno che non senta che la scure, incisa sotto alcuni dei più illustri, come Sir Thomas More, Raleigh, Russel, Sydney, a segnalare che questi uomini morirono decapitati, conferisce una maggiore dignità e suscita un interesse verso i personaggi sotto cui è affissa molto maggiore di quello suscitato dai futili simboli araldici che spesso accompagnano quei ritratti.

6. E questa grandezza d’animo non dà lustro solo agli uomini innocenti e virtuosi, ma attira qualche grado di favorevole riguardo anche sui più grandi criminali. Quando un ladro o un bandito viene condotto al patibolo, e si comporta con compostezza e fermezza, anche se approviamo completamente la punizione che gli viene inflitta, spesso non possiamo fare a meno di rammaricarci che un uomo che possedeva una forza tanto grande e nobile sia stato capace di commettere crimini tanto bassi.

7. La guerra è la grande scuola per acquistare ed esercitare una simile grandezza d’animo. La morte, diciamo, è la regina dei terrori, e l’uomo che ha sconfitto la paura della morte non si perde facilmente d’animo davanti a nessun altro male naturale. In guerra, gli uomini familiarizzano con la morte, e perciò guariscono necessariamente da quell’orrore superstizioso con cui la vede l’uomo debole e inesperto. La considerano soltanto come perdita della vita, e non ritengono che sia un oggetto di avversione più di quanto la vita non sia oggetto di desiderio. Inoltre, imparano dall’esperienza che molti di quelli che sembrano grandi pericoli non sono così grandi come appaiono, e che con il coraggio, l’impegno e l’attenzione c’è spesso una buona probabilità di districarsi con onore in situazioni che all’inizio non sembrano offrire speranza. La paura della morte viene così ridimensionata, e aumenta la fiducia e la speranza di evitarla. Imparano a esporsi al pericolo con minore riluttanza. Sono meno ansiosi di uscire da situazioni pericolose, e tendono di meno a perdere la testa quando ci si trovano. È questo abituale disprezzo del pericolo e della morte quel che nobilita la professione del soldato, e nella concezione naturale degli uomini la ricopre di un rango e di una dignità superiori a ogni altra professione. L’esercizio di questa professione, condotto con abilità e successo al servizio del proprio paese, è caratteristico di tutti gli eroi più amati in ogni epoca.

8. Le grandi imprese militari, sebbene contrarie a ogni principio di giustizia, e condotte senza alcun riguardo per l’umanità, a volte ci interessano, e ci ispirano persino una certa stima, proprio per i personaggi privi di scrupoli che le conducono. Ci interessano persino le imprese dei pirati, e leggiamo con una certa stima e ammirazione la storia degli uomini più indegni che, nel perseguire i loro scopi criminali, hanno sopportato maggiori fatiche, sormontato difficoltà più grandi e affrontato pericoli più gravi di quelli di cui l’ordinario corso della storia dia un resoconto.

9. Dominare la collera in molte occasioni appare non meno generoso e nobile del dominare la paura. L’espressione appropriata di una giusta indignazione è presente in molti dei più splendidi e ammirati passaggi di eloquenza antica e moderna. Le Filippiche di Demostene, le Catilinarie di Cicerone derivano tutta la loro bellezza dalla nobile appropriatezza con cui tale passione è espressa. Ma questa giusta indignazione non è altro che collera controllata e appropriatamente attenuata fino al livello in cui lo spettatore imparziale può prendervi parte. La passione rumorosa e vistosa che oltrepassa quel limite è sempre odiosa e offensiva, e non ci interessa per chi la prova, ma per chi ne è vittima. La nobiltà del saper perdonare appare in molte occasioni superiore persino all’appropriatezza del risentimento. Quando la parte offesa riceve appropriate scuse, o quando, anche senza tali scuse, il pubblico interesse richiede che due mortali nemici si accordino per compiere qualche importante dovere, l’uomo che sa liberarsi di ogni animosità e sa trattare cordialmente la persona che l’ha offeso merita giustamente la nostra più grande ammirazione.

10. Il dominio della collera, tuttavia, non appare sempre in queste splendide tinte. La paura è contraria alla collera, e spesso costituisce un limite a essa, ma in tal caso tutta la nobiltà di questa limitazione è cancellata dalla bassezza del motivo che la causa. La collera spinge ad attaccare, e spesso occorre una sorta di coraggio e di disprezzo della paura per lasciarsi andare a essa. Lasciarsi andare alla collera è spesso motivo di vanto, lasciarsi andare alla paura non lo è mai. Gli uomini vanitosi o deboli, quando si trovano tra persone a loro inferiori, o che non osano opporre resistenza, spesso ostentano irascibilità, e credono così di mostrare coraggio. Gli spacconi raccontano frottole sulla propria arroganza, pensando così, se non di diventare più amabili e rispettabili per chi li ascolta, almeno di spaventarli. La moderna pratica del duello, che in certi casi si può dire che incoraggi la vendetta privata, forse contribuisce a rendere ancor più disprezzabile il dominio dell’ira dovuto alla paura. C’è sempre un che di dignitoso nel dominio della paura, qualsiasi sia il motivo su cui si fonda. Lo stesso non vale per il dominio dell’ira, che non è mai perfettamente gradevole, a meno che non si fondi del tutto sul senso della decenza, della dignità, dell’appropriatezza.

11. Agire secondo i dettami della prudenza, della giustizia, e della beneficenza non sembra molto degno di merito, se non c’è alcuna tentazione a fare il contrario. Ma agire con fredda deliberazione in mezzo ai grandi pericoli e alle più grandi difficoltà; osservare religiosamente le sacre regole di giustizia, disprezzando sia i grandi interessi che possono tentarci che le grandi offese che possono spingerci a violarle; non tollerare mai che la benevolenza del nostro carattere sia smorzata o scoraggiata dalla malignità e dall’ingratitudine degli individui verso cui l’abbiamo esercitata è segno della più alta saggezza e virtù. Il dominio di sé non solo è in se stesso una grande virtù, ma sembra che tutte le altre virtù derivino da esso il loro principale lustro.

12. Il dominio della paura, il dominio dell’ira sono sempre poteri grandi e nobili. Quando sono diretti da giustizia e benevolenza, non solo sono grandi virtù, ma accrescono lo splendore di quelle. Tuttavia, a volte sono diretti da motivazioni molto diverse, e in questo caso, sebbene restino grandi e rispettabili, possono risultare estremamente pericolosi. Il valore più intrepido può essere impiegato per la causa più ingiusta. Un’apparente tranquillità e serenità di fronte a grandi provocazioni può a volte nascondere la più crudele e determinata decisione di vendicarsi. La forza mentale richiesta da una simile dissimulazione, sebbene sia sempre necessariamente corrotta dalla bassezza della menzogna, è stata tuttavia ammirata spesso da molte persone dotate di non disprezzabile giudizio. La capacità di dissimulare di Caterina de’ Medici viene spesso celebrata dall’acuto storico Davila, quella di Lord Digby, poi duca di Bristol, dal serio e coscienzioso Lord Clarendon, quella del primo Ashley, conte di Shaftesbury, dal saggio Locke. Persino Cicerone, anche se in realtà non ritiene che questo carattere falso sia dotato di gran dignità, tuttavia lo considera capace di una certa flessibilità di maniere, che può essere, nonostante tutto, piacevole e rispettabile. Egli ne trova esempi nell’Ulisse di Omero, nell’ateniese Temistocle, nello spartano Lisandro, e nel romano Marco Crasso. Questo carattere capace di cupa e profonda dissimulazione è diffuso più comunemente in periodi di disordine, in mezzo alla violenza delle fazioni e nella guerra civile, quando la legge diventa in gran misura impotente, quando la più perfetta innocenza da sola non riesce ad assicurare l’incolumità, e l’esigenza di difesa personale obbliga la maggior parte degli uomini a ricorrere alla destrezza, all’adulazione, al falso adattamento a quella che in quel momento è la parte vincente. Anche questo carattere falso è spesso accompagnato dal coraggio più freddo e determinato, poiché normalmente chi viene scoperto rischia la morte. Può servire indifferentemente per esasperare o per addolcire la furiosa animosità delle fazioni avverse che lo impone, e, sebbene a volte possa risultare utile, almeno altrettante volte rischia di essere molto pericoloso.

13. Il dominio delle passioni meno violente e turbolente sembra tendere di meno a scopi pericolosi. La temperanza, la decenza, la modestia e la moderazione sono sempre amabili, e raramente possono essere dirette a un cattivo fine. È da questi incessanti sforzi di autocontrollo che l’amabile virtù della castità, le rispettabili virtù dell’operosità e della frugalità derivano le loro sobrie qualità. La condotta di tutti coloro che si accontentano di percorrere le umili orme della vita riservata e pacifica deriva dallo stesso principio la sua bellezza e la sua grazia, una bellezza e una grazia che, anche se molto meno abbagliante, non sempre è meno piacevole di quella che accompagna le azioni più splendide degli eroi, degli statisti, dei legislatori.

14. Dopo quanto è già stato detto, in molte parti di questo trattato, sulla natura del dominio di sé, non ritengo necessario entrare ancora in dettagli su questa virtù. In questo luogo osserverò soltanto che il livello dell’appropriatezza, cioè il grado di una passione approvato dallo spettatore imparziale, è diversamente collocato nelle varie passioni. In alcune, l’eccesso è meno sgradevole del difetto, e in tali passioni il livello dell’appropriatezza sembra essere collocato in alto, cioè più vicino all’eccesso che al difetto. In altre passioni, il difetto è meno sgradevole dell’eccesso, e in tali passioni il livello dell’appropriatezza sembra essere collocato in basso, cioè più vicino al difetto che all’eccesso. Le prime sono le passioni per le quali lo spettatore è più disposto a provare simpatia, le seconde, quelle per le quali lo è di meno. Le prime, inoltre, sono passioni in cui il sentimento immediato o l’immediata sensazione nella persona principalmente interessata è gradevole, le altre quelle in cui è sgradevole. Si può enunciare come regola generale che le passioni con cui lo spettatore imparziale è più disposto a simpatizzare, e il cui livello d’appropriatezza si può perciò dire alto, sono quelle che danno alla persona principalmente interessata un sentimento o una sensazione immediata gradevole; e che, al contrario, le passioni con cui lo spettatore imparziale è meno disposto a simpatizzare, e il cui livello d’appropriatezza si può dire perciò basso, sono quelle che danno alla persona principalmente interessata un sentimento o una sensazione immediata più o meno sgradevole, o persino dolorosa. Questa regola generale, per quanto ho avuto occasione di osservare, non ammette eccezioni. Qualche esempio servirà a spiegarla e contemporaneamente a dimostrarne la verità.

15. La disposizione verso le affezioni che tendono a unire gli uomini in società, cioè la disposizione verso la bontà, la gentilezza, l’affetto naturale, la stima, può a volte essere eccessiva. Tuttavia, anche l’eccesso di questa disposizione rende un uomo degno d’interesse per tutti. Anche se la critichiamo, continuiamo a considerarla con indulgenza, e anche con gentilezza, ma mai con disgusto. Ne siamo più spiacenti che irati. Per la persona stessa che prova tali affezioni, lasciarsi andare a esse in molte occasioni è non solo gradevole, ma bellissimo. In verità, in alcune occasioni, quando queste affezioni sono dirette verso oggetti non meritevoli, come troppo spesso accade, la persona che le prova è esposta a un’autentica e profonda angoscia. Anche in simili casi, tuttavia, una mente ben disposta considera quella persona con la più sentita pietà, e prova la più grande indignazione verso chi fa mostra di disprezzarla per la sua debolezza e imprudenza. Al contrario, il difetto di questa disposizione, che viene chiamato durezza di cuore, nel rendere un uomo insensibile ai sentimenti e alle angosce degli altri, allo stesso modo rende gli altri altrettanto insensibili verso i suoi, e, privandolo dell’amicizia del mondo intero, lo priva dei migliori e più consolanti piaceri sociali.

16. La disposizione verso le affezioni che dividono gli uomini gli uni dagli altri, e che tendono a spezzare i legami della società, vale a dire la disposizione verso l’ira, l’odio, l’invidia, la malizia, la vendetta, tende, al contrario, a essere più offensiva per il suo eccesso piuttosto che per il suo difetto. L’eccesso rende un uomo disprezzabile e miserabile a se stesso, e oggetto di odio, e a volte persino di orrore, per gli altri. Raramente qualcuno lamenta il difetto di tale disposizione, che tuttavia in certi casi può essere carente. La mancanza di un’appropriata indignazione è un grave difetto in un carattere virile, e in molte occasioni rende un uomo incapace di proteggere se stesso o i propri amici dagli insulti e dalle ingiustizie. Anche il principio che, quando è eccessivo e mal indirizzato, dà origine all’odiosa e detestabile passione dell’invidia, può essere carente. L’invidia è quella passione che vede con maligna avversione la superiorità di coloro che hanno realmente diritto a esser considerati superiori. Chi sopporta tranquillamente che coloro che non hanno nessun titolo per essere suoi superiori tentino di diventarlo viene giustamente accusato di mancanza di carattere. Questa debolezza normalmente si fonda sull’indolenza, a volte invece sulla timidezza, sull’avversione per i contrasti, per il trambusto, per le sollecitazioni esterne, e altre volte su di una magnanimità esagerata, che crede di poter continuare per sempre a disprezzare i vantaggi che disprezza, e a cui perciò facilmente rinuncia. Tuttavia, a questa debolezza comunemente segue rimpianto e pentimento, e quel che all’inizio ha l’apparenza della magnanimità spesso alla fine cede il posto a un’invidia maligna, e a un odio per quella superiorità ottenuta da altri, che spesso ne sono poi diventati realmente degni, proprio per il fatto di averla ottenuta. Per vivere bene nel mondo, in ogni occasione è altrettanto necessario difendere la nostra dignità e il nostro rango, come la nostra vita e la nostra fortuna.

17. La nostra sensibilità verso i pericoli e le angosce personali, così come quella verso le provocazioni da noi stessi subite, tende a essere molto più offensiva per il suo eccesso che per il suo difetto. Non c’è nessun carattere più disprezzabile di quello di un codardo, mentre viene molto ammirato il carattere di chi affronta intrepido la morte, mantenendo la propria tranquillità e la propria presenza di spirito in mezzo ai pericoli più terribili. Stimiamo l’uomo che sopporta il dolore fisico e persino la tortura con virilità e fermezza, e abbiamo scarsa considerazione per chi in tali situazioni mostra cedimento, e si abbandona a inutili grida e lamenti da donnicciola. Un’indole irritabile, troppo sensibile alla minima avversità, deprime l’uomo che la possiede, e lo rende offensivo per gli altri. Un’indole calma, che non permette che la propria tranquillità sia disturbata dalle piccole offese o dai piccoli contrattempi della vita di ogni giorno, ma che, in mezzo ai mali naturali e morali che infestano il mondo, accetta di soffrire un po’ per gli uni e un po’ per gli altri, una tale indole è una benedizione per l’uomo che la possiede, e dà tranquillità e sicurezza a tutti quelli che lo circondano.

18. Tuttavia, la nostra sensibilità verso le offese da noi subite e verso le nostre sventure, sebbene di solito sia eccessiva, può a volte essere troppo debole. L’uomo poco sensibile verso le proprie sventure lo sarà ancor meno verso quelle degli altri, e sarà meno disposto ad alleviarle. L’uomo che prova scarso risentimento per le offese da lui subite ne proverà ancor meno per quelle subite dagli altri, e sarà meno disposto a proteggerli o a vendicarli. Una sciocca insensibilità verso gli eventi della vita umana esaurisce necessariamente ogni viva e pronta attenzione per l’appropriatezza della nostra condotta, che costituisce la vera essenza della virtù. Quando siamo indifferenti riguardo al risultato delle nostre azioni, non ci preoccupiamo della loro appropriatezza. L’uomo che sente tutta l’angoscia della disgrazia che lo ha colpito, che sente tutta la bassezza dell’ingiustizia che gli è stata fatta, ma che sente ancor più quel che la sua dignità richiede, che non si lascia guidare dalle passioni indisciplinate che la sua situazione naturalmente ispira, ma che sa dirigere il suo comportamento e la sua condotta secondo quelle passioni attenuate e controllate che l’ospite del suo cuore, il semidio interiore, approva e gli consiglia, solo un tale uomo è davvero virtuoso, è il solo vero e appropriato oggetto di amore, rispetto e ammirazione. C’è una tale differenza tra l’insensibilità e quella nobile fermezza, quel profondo dominio di sé fondato sul senso della dignità e dell’appropriatezza, che in presenza della prima il merito della seconda in molti casi scompare del tutto.

19. Ma sebbene la totale mancanza di sensibilità verso le offese, i pericoli e le angosce personali faccia scomparire, in tali situazioni, tutto il merito del dominio di sé, tuttavia quella sensibilità può facilmente essere troppo viva, e questo accade di frequente. Quando il senso dell’appropriatezza, quando l’autorità del giudice interiore riesce a controllare questa estrema sensibilità, quell’autorità deve senza dubbio apparire nobile e grande. Ma lo sforzo richiesto può essere troppo grande e troppo impegnativo. L’individuo, con grande sforzo, può riuscire a comportarsi in modo perfetto, ma al prezzo di una violenta lotta interiore tra i due principi, che distrugge la pace e la felicità interiore. L’uomo saggio dotato dalla natura di questa spiccata sensibilità, e di sentimenti troppo vivaci, non sufficientemente smussati e temprati dall’educazione o da un appropriato esercizio, eviterà, per quanto il dovere e l’appropriatezza glielo permetteranno, le situazioni che non gli sono del tutto congeniali. L’uomo che, per la propria costituzione debole e delicata, è troppo sensibile al dolore, alla privazione, e a ogni sorta di male fisico non dovrebbe intraprendere con leggerezza la professione militare. L’uomo troppo suscettibile non dovrebbe entrare avventatamente nelle dispute faziose. Per quanto il senso dell’appropriatezza possa essere abbastanza forte da dominare l’eccessiva sensibilità, tuttavia la tranquillità mentale sarà comunque disturbata dallo sforzo compiuto. In un tale disordine il giudizio non riesce sempre a mantenere la sua normale acutezza e precisione, e per quanto un uomo possa avere intenzione di agire appropriatamente, spesso agirà avventatamente e imprudentemente, in una maniera di cui lui stesso in seguito si vergognerà. Una certa audacia, una certa saldezza di nervi e una certa robustezza di costituzione, sia naturali che acquisite, sono senza dubbio le migliori basi per tutte le manifestazioni del dominio di sé.

20. Sebbene la guerra e le lotte di fazioni siano certamente la migliore scuola per addestrare ogni uomo a questa durezza e fermezza di carattere, sebbene siano il miglior rimedio per curarlo dalle opposte debolezze, tuttavia, se il giorno della contesa dovesse arrivare prima che egli abbia imparato completamente la sua lezione, prima che il rimedio abbia avuto tempo di produrre il suo effetto, le conseguenze potrebbero non essere gradevoli.

21. Allo stesso modo, la nostra sensibilità ai piaceri, agli svaghi e ai divertimenti della vita umana può essere offensiva sia per il suo eccesso che per il suo difetto. Dei due, comunque, l’eccesso sembra meno sgradevole del difetto. Sia per lo spettatore che per la persona principalmente interessata una decisa propensione alla gioia dà certamente più piacere di una sorda insensibilità verso gli oggetti di svago e divertimento. Ci affascina la gaiezza dei giovani, e persino l’allegria dei bambini, ma diventiamo presto insofferenti della piatta e scialba serietà delle persone mature. Ma quando la propensione alla gioia non è limitata dal senso dell’appropriatezza, quando è inadatta al momento o al luogo, all’età o alla situazione della persona, quando, per seguirla, la persona trascura il suo interesse o il suo dovere, essa viene giustamente biasimata come eccessiva e dannosa, sia per l’individuo che per la società. Tuttavia, nella maggior parte dei casi la colpa non è tanto nella forza della propensione alla gioia, quanto nella debolezza del senso dell’appropriatezza e del dovere. Un giovane che non è attratto dai passatempi e dagli svaghi naturali e adatti alla sua età, che parla solo dei suoi libri o dei suoi impegni, viene considerato formale e pedante, e se si astiene dai divertimenti, anche se si tratta di divertimenti inappropriati, non per questo gli attribuiamo qualche merito, dal momento che non sembrano attirarlo molto.

22. Il principio dell’autostima può essere eccessivo oppure scarso. È talmente gradevole avere un alto concetto di sé, e talmente sgradevole il contrario, che per la persona stessa, non c’è dubbio, un certo grado di eccesso è molto meno sgradevole di qualsiasi grado di difetto. Ma per lo spettatore imparziale, si può forse supporre, le cose devono apparire in modo del tutto diverso, e per lui il difetto sarà sempre meno sgradevole dell’eccesso. Senza dubbio, anche nei nostri compagni ci infastidisce più l’eccesso di autostima che il difetto. Quando si pongono al di sopra di noi, o tentano di farlo, la loro autostima mortifica la stima che abbiamo di noi stessi. Il nostro orgoglio e la nostra vanità ci spingono ad accusare loro di vanità e orgoglio, e non siamo più spettatori imparziali della loro condotta. Quando queste stesse persone, tuttavia, tollerano che qualcun altro ostenti verso di loro una superiorità che non gli è propria, non solo le biasimiamo, ma le consideriamo disprezzabili e meschine. Al contrario, quando, in mezzo ad altre persone, si spingono troppo in avanti, e si arrampicano fino a un’altezza che secondo noi è sproporzionata rispetto al loro merito, anche se non approviamo del tutto la loro condotta, spesso ne siamo divertiti, e, se non siamo invidiosi, quasi sempre ci dispiace meno che se avessero tollerato di abbassarsi a un grado inferiore a quello loro proprio.

23. Valutando il nostro merito personale, o giudicando il nostro carattere e la nostra condotta, esistono due diversi criteri con cui fare naturalmente il confronto. Uno è l’idea della massima appropriatezza e perfezione, per quanto riusciamo a comprenderla. L’altro è il grado di approssimazione a questa idea che viene normalmente raggiunto nel mondo, e a cui possono di fatto esser giunti la maggior parte dei nostri amici e conoscenti, dei nostri rivali e dei nostri avversari. Molto raramente (anzi, credo mai) tentiamo di giudicare noi stessi senza rivolgere maggiore o minore attenzione a entrambi questi diversi criteri. Ma l’attenzione di uomini diversi, e anche l’attenzione dello stesso uomo in momenti diversi, spesso è divisa in maniera ineguale tra i due criteri, e a volte tende soprattutto verso l’uno, altre volte verso l’altro.

24. Se teniamo in considerazione il criterio della perfezione, anche il più saggio e il migliore di noi tutti non vedrà nel suo carattere e nella sua condotta altro che debolezza e imperfezione, e non troverà alcun terreno per l’arroganza e la presunzione, ma solo per l’umiltà, il rimorso e il pentimento. Se teniamo in considerazione il secondo criterio, possiamo essere diversamente impressionati, e sentirci sia superiori che inferiori rispetto a esso.

25. L’uomo saggio e virtuoso fa riferimento soprattutto al primo dei due criteri: l’idea della massima appropriatezza e perfezione. Nella mente di ogni uomo esiste un’idea di questo genere, che si è formata gradualmente sulla base dell’osservazione del carattere e della condotta suoi e degli altri. È il risultato della lenta, graduale, e progressiva opera del semidio interiore, il grande giudice e arbitro della condotta. Questa idea è delineata più o meno accuratamente in ogni uomo, i suoi colori sono più o meno precisi, i suoi contorni più o meno accurati, a seconda della delicatezza e dell’acutezza della sensibilità delle osservazioni fatte, e a seconda della cura e dell’attenzione usate nel farle. Nell’uomo saggio e virtuoso le osservazioni sono state fatte con la più acuta e delicata sensibilità, e nel farle è stata impiegata la maggior cura e attenzione. Giorno dopo giorno qualche tratto viene da lui migliorato, e viene apportata qualche correzione. Egli ha studiato questa idea più degli altri, la comprende più distintamente, se ne è formata un’immagine più corretta, ed è molto più profondamente preso dalla sua divina e squisita bellezza. Egli cerca più che può di far coincidere il suo carattere con questo archetipo di perfezione. Ma si tratta di imitare il lavoro di un artista divino, che non può mai essere eguagliato. Egli avverte il successo parziale di tutti i suoi più grandi sforzi, e nota con pena e afflizione in quanti aspetti la copia mortale sia diversa dall’originale immortale. Ricorda con ansia e umiliazione quante volte ha violato le regole della perfetta appropriatezza, sia nelle parole che nelle azioni, sia nella condotta che nella conversazione, per mancanza di giudizio o di carattere, e quanto si è allontanato da quel modello su cui intendeva disegnare il suo carattere e la sua condotta. Ma quando rivolge la sua attenzione al secondo dei due criteri, e cioè al grado di perfezione raggiunto comunemente dai suoi amici e conoscenti, può rendersi conto della propria superiorità. Ma poiché la sua attenzione principale è sempre diretta verso il primo criterio, necessariamente si sente più umiliato per il primo paragone di quanto non si senta esaltato per il secondo. Non è mai così entusiasta di sé tanto da guardare dall’alto in basso chi gli è inferiore. Avverte così distintamente la propria imperfezione, sa così bene con quanta difficoltà è riuscito ad avvicinarsi alla rettitudine, senza tuttavia raggiungerla, che non riesce a disprezzare l’ancor maggiore imperfezione degli altri. Lungi dall’insultare la loro inferiorità, la considera con indulgente commiserazione, ed è sempre pronto ad aiutare ogni loro progresso con il consiglio e con l’esempio. Se capita che in qualche attività specifica essi siano superiori a lui (chi è così perfetto da non avere chi lo superi in molte delle sue capacità?), sapendo bene quanto sia difficile primeggiare, lungi dall’invidiare la loro superiorità, la considera con stima e onore, e non manca mai di elogiarla come merita. Insomma, la sua mente, il suo comportamento, il suo contegno sono chiaramente caratterizzati da autentica modestia, da una moderata considerazione per i propri meriti, e allo stesso tempo da un pieno senso del merito altrui.

26. In tutte le arti liberali e dell’ingegno, nella pittura, nella poesia, nella musica, nell’eloquenza, nella filosofia, il grande artista avverte sempre l’effettiva imperfezione delle sue opere migliori, e sente meglio di ogni altro quanto siano lontane dalla perfezione ideale di cui si è fatto una certa idea, che imita meglio che può, ma che dispera di poter mai eguagliare. Solo l’artista minore è sempre del tutto soddisfatto delle proprie realizzazioni. Egli non riesce bene a concepire la perfezione ideale, e non vi si sofferma molto nei suoi pensieri, degnandosi di confrontare le proprie opere solo con quelle di artisti di livello ancor più basso. Boileau, il grande poeta francese (in alcune delle sue opere forse non inferiore ai più grandi poeti antichi e moderni), era solito dire che nessun grand’uomo è mai soddisfatto delle proprie opere. Santeuil (scrittore di versi latini, che per questo suo talento da scolaro aveva la velleità di ritenersi poeta) gli assicurava di esserlo completamente delle proprie. Boileau rispondeva, forse con una certa maligna ambiguità, che certamente egli era l’unico grand’uomo a esserlo. Boileau, giudicando le proprie opere, le confrontava con il criterio di perfezione ideale che, nel suo particolare campo dell’arte poetica, aveva così profondamente meditato e concepito più distintamente possibile. Santeuil, giudicando le proprie opere, le confrontava, credo, con quelle degli altri poeti latini del suo tempo, che nella maggior parte erano lungi dall’essergli superiori. Ma ispirare la condotta e la conversazione di tutta la vita a una qualche rassomiglianza con questa perfezione ideale è molto più difficile di quanto non lo sia ispirare a un’analoga rassomiglianza una qualsiasi opera delle altre produzioni artistiche. L’artista lavora indisturbato, in pace, nel pieno possesso di tutto il suo talento, della sua esperienza, e di tutte le sue conoscenze. L’uomo saggio deve mantenere l’appropriatezza della propria condotta in salute e in malattia, quando ha successo e quando invece subisce delle delusioni, nei momenti di fatica e in quelli di pigrizia, come in quelli di vivace attenzione. Nemmeno il più improvviso e imprevisto presentarsi di difficoltà e angoscia deve mai sorprenderlo. L’ingiustizia degli altri non deve mai condurlo all’ingiustizia, le violenze di fazioni non devono mai confonderlo, e le privazioni e i pericoli della guerra non devono mai scoraggiarlo o spaventarlo.

27. Di tutte le persone che, nel giudicare il proprio merito, il proprio carattere e la propria condotta, fanno riferimento soprattutto al secondo criterio, e cioè al grado ordinario di perfezione comunemente raggiunto dagli altri, ce ne sono alcune che si sentono giustamente e realmente molto superiori a esso, e sono riconosciute tali anche da ogni spettatore intelligente e imparziale. Poiché, tuttavia, l’attenzione di tali persone è rivolta principalmente al criterio di perfezione ordinaria, e non ideale, esse non avvertono molto le proprie debolezze e le proprie imperfezioni: possiedono scarsa modestia, spesso sono superbe, arroganti e presuntuose, grandi ammiratrici di se stesse, e sprezzanti verso gli altri. Nonostante il loro carattere sia in generale molto meno corretto e il loro merito molto inferiore rispetto a quello dell’uomo di virtù reale e modesta, tuttavia la loro estrema presunzione, fondata sulla loro eccessiva autoammirazione, abbaglia la massa, e spesso si impone anche su coloro che emergono all’interno di essa. Il frequente, e spesso sorprendente, successo dei più ignoranti ciarlatani e impostori, sia civili che religiosi, dimostra a sufficienza quanto le masse si lascino facilmente trasportare dalle pretese più stravaganti e infondate. Ma quando quelle pretese sono sostenute da un alto grado di reale e solido merito, quando vengono mostrate con tutto lo splendore che l’ostentazione può conferir loro, quando sono sostenute da alto rango e da grande potere, quando sono state spesso esercitate con successo, e per questo sono acclamate dalle masse, allora anche l’uomo di sobrio giudizio spesso partecipa all’ammirazione generale. Lo stesso clamore di quelle sciocche acclamazioni spesso contribuisce a confonderlo, e, vedendo quei grandi uomini solo da una certa distanza, spesso li ammira sinceramente, più di quanto non facciano loro stessi. Nel caso non ci sia invidia, ci piace ammirare i caratteri che sono davvero degni di ammirazione, e per questo siamo naturalmente disposti a completarli e perfezionarli nella nostra fantasia. L’eccessiva autoammirazione di quei grandi uomini viene capita bene e compresa a fondo, e anche in parte derisa, da quegli uomini saggi che hanno con loro rapporti più stretti, e che in segreto sorridono di quelle orgogliose pretese, considerate invece con reverenza e quasi con adorazione da chi le guarda da lontano. Così è stato in ogni epoca per la maggior parte degli uomini che si sono procurati la fama più appariscente e la reputazione più universale, una fama e una reputazione che si è estesa anche ai posteri.

28. Senza un qualche grado di questa eccessiva autoammirazione, raramente si consegue un gran successo nel mondo o una grande autorità sui sentimenti e le opinioni degli uomini. Le personalità più splendide, gli uomini che hanno compiuto le azioni più illustri, che hanno guidato le più grandi rivoluzioni, sia politiche che ideologiche, i combattenti più vittoriosi, i più grandi statisti e legislatori, gli eloquenti fondatori e capi delle sette e dei partiti più in voga non si sono distinti tanto per il loro grande merito reale, quanto per un certo grado di presunzione e di autoammirazione del tutto sproporzionata rispetto a quel merito. Forse questa presunzione era necessaria non solo per spingerli verso imprese che una mente lucida non avrebbe mai progettato, ma anche per ottenere dai loro seguaci una sottomissione e un’obbedienza che li sostenesse in tali imprese. Perciò, quando questa presunzione viene coronata dal successo, spesso li inganna, portandoli a una vanità molto vicina all’insania e alla follia. Sembra che Alessandro il Grande non abbia solo sperato di essere considerato come un dio dagli altri, ma che anche lui stesso abbia almeno fantasticato di esserlo. Sul suo letto di morte, una situazione davvero poco divina, chiese ai suoi amici di aggiungere il nome della madre Olimpia alla lista di divinità in cui lui stesso era stato inserito molto tempo prima. Socrate, tra l’ammirazione dei suoi seguaci e discepoli, tra l’universale elogio del pubblico, dopo che l’oracolo, seguendo probabilmente l’eco di quell’elogio, l’aveva indicato come il più saggio degli uomini, anche se per la sua grande saggezza non si spinse fino a fantasticare di essere un dio, affermò tuttavia di ricevere segreti e frequenti consigli da un certo essere invisibile e divino. La sana mente di Cesare non fu così sana da impedirgli di compiacersi della sua divina discendenza da Venere, e di ricevere davanti al tempio di questa presunta genitrice, senza alzarsi dal suo seggio, i senatori romani, quando quegli uomini illustri gli fecero omaggio di una serie di decreti che gli conferivano i più strani onori. Sembra che questa insolenza, unita ad altri atti di infantile vanità, che non ci si aspettava da un’intelligenza una volta così sottile e vasta, esasperando la pubblica gelosia, abbia incoraggiato i suoi assassini e affrettato la loro cospirazione. La religione e i costumi dei tempi moderni offrono ai grandi uomini scarso incoraggiamento a credersi dei o profeti. Il successo, tuttavia, unito al gran favore popolare, spesso ha talmente cambiato le menti dei grandi uomini, da portarli ad attribuirsi un’importanza e un’abilità di molto superiori a quelle realmente possedute, e da trascinarli in avventure imprudenti e rovinose. È una caratteristica piuttosto peculiare del grande duca di Marlborough quella di non esser stato mai trascinato in una singola azione imprudente, di non essersi quasi mai lasciato sfuggire una parola o un’espressione avventata, in dieci anni di successo splendido e ininterrotto, che nessun altro generale può vantare. Credo che a nessun grande guerriero recente si possa attribuire la stessa freddezza e padronanza di sé: non certo al principe Eugenio di Savoia, non al precedente re di Prussia, Federico il Grande, non al principe di Condé, e nemmeno a Gustavo Adolfo di Svezia. Turenne sembra quello che più si è avvicinato al grande duca di Marlborough: ma molte diverse circostanze della sua vita dimostrano a sufficienza che egli non era affatto altrettanto perfetto.

29. Negli umili progetti della vita privata, come nelle ambiziose e orgogliose occupazioni tipiche delle situazioni più elevate, le grandi abilità e le imprese accompagnate all’inizio dal successo hanno spesso incoraggiato iniziative che alla fine hanno portato necessariamente alla bancarotta e alla rovina.

30. La stima e l’ammirazione che ogni spettatore imparziale concepisce per l’effettivo merito di quelle persone coraggiose, magnanime e di mente elevata, essendo un sentimento ben fondato e giusto, è costante e permanente, e del tutto indipendente dalla loro buona o cattiva sorte. Per quel che riguarda, invece, l’ammirazione che lo spettatore imparziale tende a concepire per la loro eccessiva autostima e presunzione, le cose stanno diversamente. Quando hanno successo, egli ne viene spesso del tutto conquistato e sopraffatto. Il successo gli offusca lo sguardo, impedendogli di cogliere non solo la grande imprudenza, ma spesso anche la grande ingiustizia delle loro imprese. Lungi dal biasimare questa mancanza nel loro carattere, spesso egli la considera con entusiastica ammirazione. Quando invece non hanno fortuna, le cose cambiano nome e colore: quel che prima appariva eroica grandezza d’animo riprende il suo più appropriato appellativo di avventatezza e follia stravagante, e il nero dell’avidità e dell’ingiustizia, nascosto prima sotto lo splendore della prosperità, viene in luce, coprendo il lustro delle loro imprese. Se Cesare avesse perso, anziché vincere, la battaglia di Farsalo, il suo personaggio occuperebbe ora un posto di poco superiore a quello di Catilina, e anche l’uomo più debole considererebbe ora le sue imprese contro le leggi del suo paese in colori più scuri di quanto non abbia fatto a suo tempo lo stesso Catone, con tutta la sua animosità di uomo di parte. Se Cesare avesse perso quella battaglia, il suo reale merito, la giustezza del suo gusto, la semplicità e l’eleganza dei suoi scritti, l’appropriatezza della sua eloquenza, il suo talento militare, le sue risorse di fronte alle situazioni difficili, il suo giudizio freddo e sereno di fronte al pericolo, il suo fedele attaccamento agli amici, la sua generosità senza eguali verso i nemici sarebbero stati riconosciuti, come lo è oggi il merito di Catilina, che ebbe molte grandi qualità; ma l’insolenza e l’ingiustizia dell’insaziabile ambizione di Cesare avrebbero oscurato ed estinto la gloria del suo merito. In questo caso, come in altri casi già menzionati, la Fortuna ha una grande influenza sui sentimenti morali dell’umanità, e, a seconda che sia favorevole o avversa, può rendere lo stesso personaggio oggetto di generale amore e ammirazione, o di universale odio e disprezzo. Questo grande disordine nei nostri sentimenti morali, tuttavia, non è affatto privo di una sua utilità, e qui come in altre occasioni possiamo ammirare la saggezza di Dio anche nelle debolezze e nelle follie umane. La nostra ammirazione per il successo si fonda sullo stesso principio del nostro rispetto per la ricchezza e la grandezza, ed è allo stesso modo necessaria per stabilire la distinzione dei ranghi e l’ordine della società. Per mezzo di questa ammirazione per il successo, ci viene insegnato a sottometterci più facilmente ai superiori che il corso delle cose ci assegna, a considerare con reverenza, e a volte persino con una certa rispettosa affezione, quella violenza che ha avuto l’appoggio della Fortuna, e alla quale non siamo più in grado di resistere. Non parlo solo della violenza di personaggi come Cesare o Alessandro, ma anche di quella dei più selvaggi e brutali barbari, come Attila, Gengis Khan, Tamerlano. La plebaglia tende istintivamente a considerare questi grandi conquistatori con ammirazione, anche se, senza dubbio, si tratta di un’ammirazione ingenua e sciocca. Tuttavia, attraverso questa ammirazione, le viene insegnato a sottomettersi con minore riluttanza al dominio che una forza irresistibile le impone, e dal quale nessuna riluttanza può liberarla.

31. Per quanto l’uomo che ha un’eccessiva stima di se stesso possa sembrare a volte, nei periodi di prosperità, avere qualche vantaggio sull’uomo dalla corretta e severa virtù, per quanto l’elogio delle masse, e di tutti quelli che li vedono da lontano, sia spesso maggiore per l’uno che per l’altro, tuttavia, se mettiamo in conto ogni cosa, forse in tutti i casi risulterà che il bilancio dei vantaggi è di gran lunga favorevole all’uomo virtuoso. L’uomo che non si attribuisce nessun altro merito oltre a quello che realmente gli appartiene, e non pretende che gli sia attribuito da altri, non teme umiliazioni, e non ha paura di essere smascherato, ma può confidare tranquillamente sulla solidità e sull’autenticità della sua reputazione. Può darsi che i suoi ammiratori non siano molto numerosi né acclamanti, ma più un uomo saggio lo vede da vicino e lo conosce, più lo ammira. Per un uomo davvero saggio, l’approvazione giudiziosa e ben ponderata di un singolo uomo saggio è una soddisfazione più profonda di tutti i rumorosi applausi di diecimila ammiratori ignoranti, per quanto entusiasti. Si comporterà come Parmenide, il quale, leggendo un discorso filosofico in un’assemblea pubblica, e notando che tutti tranne Platone se ne erano andati, continuò lo stesso a leggerlo, dicendo che Platone, anche da solo, era per lui un pubblico sufficiente.

32. Per l’uomo che ha un’eccessiva stima di sé le cose stanno diversamente: più gli uomini saggi lo vedono da vicino, meno lo ammirano. Nell’ebbrezza della prosperità, la loro stima sobria ed equilibrata è talmente insufficiente a soddisfare la sua smodata autoammirazione, che lui la considera come pura malignità e invidia. Sospetta persino dei suoi più cari amici. La loro compagnia gli diventa insopportabile. Li evita, e ricambia i loro favori non solo con ingratitudine, ma anche con crudeltà e ingiustizia. Affida le sue confidenze agli adulatori e ai traditori, che fingono di idolatrare la sua vanità e la sua presunzione, finché quel carattere che all’inizio, per quanto manchevole, era nonostante tutto amabile e rispettabile, diventa alla fine disprezzabile e odioso. Nell’ebbrezza della prosperità, Alessandro uccise Clito, per aver preferito le imprese di suo padre Filippo alle sue; fece morire Callistene sotto le torture, poiché aveva rifiutato di adorarlo al modo dei Persiani, e uccise il grande amico di suo padre, il venerabile Parmenione, dopo aver fatto torturare e giustiziare, in base a un sospetto infondato, l’unico figlio che restava a quel vecchio uomo, dopo che tutti gli altri erano morti al suo servizio. Di Parmenione, Filippo era solito dire che gli Ateniesi erano fortunati nel trovare dieci generali l’anno, mentre lui in tutto il corso della sua vita non aveva trovato altri che Parmenione. Era sulla vigilanza e l’attenzione di Parmenione che Filippo poteva riporre fiducia e sicurezza, e grazie a esse poteva permettersi di dire, nei momenti di festa e di divertimento: «Beviamo pure, amici miei, possiamo farlo in tutta tranquillità, giacché Parmenione non beve mai». Solo per la presenza e per il consiglio di Parmenione Alessandro ottenne tutte le sue vittorie, e senza di lui non avrebbe vinto nemmeno una battaglia. Gli umili, ammirati adulatori a cui Alessandro alla sua morte lasciò potere e autorità si divisero l’impero, e, dopo aver così derubato la sua famiglia e i suoi parenti della sua eredità, misero a morte l’uno dopo l’altro ogni singolo discendente, maschio o femmina che fosse.

33. Spesso non solo perdoniamo l’eccessiva autostima di quei personaggi in cui notiamo una grande superiorità che li distingue dal livello ordinario degli uomini, ma vi prendiamo parte completamente, simpatizzando con essa. Li definiamo coraggiosi, magnanimi, di mente elevata, tutti termini che implicano un considerevole grado di lode e di ammirazione. Ma non possiamo prender parte e simpatizzare con l’eccessiva autostima di quei personaggi in cui non riusciamo a distinguere questa superiorità, anzi, la troppa stima che hanno di se stessi ci disgusta e ci ripugna, e solo con difficoltà riusciamo a perdonarla o sopportarla. La definiamo orgoglio e vanità, due termini che implicano, il secondo sempre e il primo nella maggior parte dei casi, un grado considerevole di biasimo.

34. Tuttavia, l’orgoglio e la vanità sono due vizi che, nonostante si somiglino, essendo entrambi modificazioni dell’eccessiva stima di sé, per molti aspetti si differenziano l’uno dall’altro.

35. L’uomo orgoglioso è sincero, e nel profondo del suo cuore è convinto della propria superiorità, anche se spesso può essere difficile riuscire a capire su cosa sia fondata tale convinzione. Egli non desidera altro che di esser considerato dagli altri nella stessa luce in cui lui realmente considera se stesso, quando si mette al loro posto. Agli altri non chiede più di quel che ritiene gli sia giustamente dovuto. Se gli altri mostrano di non rispettarlo quanto lui rispetta se stesso, resta più offeso che mortificato, e prova un risentimento indignato, come se avesse patito un’offesa reale. Però non si degna di spiegare su cosa si basino le sue pretese. Non si abbassa a cercare l’altrui stima, anzi, fa persino mostra di disprezzarla, e si sforza di mantenersi nello stato che attribuisce a se stesso non tanto per far sentire agli altri la sua superiorità, ma per farli render conto della loro inferiorità. Più che suscitare la stima degli altri verso di sé, sembra voler mortificare la stima che gli altri hanno verso loro stessi.

36. Invece l’uomo vanitoso non è sincero, e nel profondo del suo cuore è raramente convinto della superiorità che vorrebbe vedersi attribuita. Vorrebbe esser considerato in tinte più splendenti di quelle in cui riesce a vedersi lui quando si mette al posto degli altri e suppone che sappiano tutto ciò che lui sa. Perciò, quando gli altri mostrano di considerarlo in tinte diverse, forse quelle che gli si addicono, resta più mortificato che offeso. Non si lascia sfuggire occasione di mostrare per quali motivi vorrebbe vedersi attribuire quel carattere a cui aspira, e per questo esibisce, senza alcuna necessità, le buone qualità e le doti che possiede in grado tollerabile, e arriva persino a ostentarne altre che non possiede affatto, o che possiede in misura minima. Lungi dal disprezzare l’altrui stima, la cerca con assiduità. Lungi dal voler mortificare la stima che gli altri hanno di loro stessi, è felice di incoraggiarla con lusinghe, sperando in un contraccambio. Lusinga per esser lusingato. Si sforza di piacere, e cerca di portare gli altri ad avere una buona opinione di lui, seducendoli con la gentilezza e la compiacenza, e a volte persino con reali buoni servigi, anche se spesso accompagnati da un’ostentazione superflua.

37. L’uomo vanitoso vede quale rispetto viene attribuito al rango e alla ricchezza, e desidera usurparlo, come desidera usurpare quello per i talenti e le virtù. Per questo, i suoi abiti, le persone al suo seguito, il suo livello di vita fanno pensare che egli appartenga a un rango più alto e disponga di una ricchezza maggiore di quanto in realtà non sia. Per sostenere, nel primo periodo della sua vita, questa sciocca idea che vuol dare di sé, spesso si riduce sul lastrico molto prima della vecchiaia. Tuttavia, per tutto il periodo in cui persiste nelle sue spese, la sua vanità è appagata nel vedersi non nella luce in cui gli altri lo vedrebbero se sapessero tutto di lui, ma nella luce in cui crede di aver indotto gli altri a vederlo. Questa è forse la più comune di tutte le illusioni che derivano dalla vanità. Spesso tentano di metterla in pratica anche gli stranieri che visitano altri paesi, o che da una provincia lontana giungono nella capitale del loro paese. La loro follia, per quanto indegna di un uomo ragionevole, non è poi così grave come può esserlo in altre circostanze. Se infatti la loro permanenza è breve, non rischiano di farsi scoprire e, dopo aver soddisfatto la loro vanità per qualche mese o qualche anno, se ne possono tranquillamente ritornare a casa, e mettersi a risparmiare per riparare i danni della passata prodigalità.

38. È raro che l’uomo orgoglioso possa essere accusato di una follia simile. Il senso della propria dignità lo rende attento a conservare la sua indipendenza, e quando egli non dispone di una grande ricchezza cerca sempre di essere frugale e accorto in tutte le sue spese, pur mantenendosi a un livello accettabile. Le spese ostentate del vanitoso lo offendono. Forse eclissano le sue, ma lo fanno indignare, perché mostrano sfacciatamente un livello di vita diverso dal reale, e quindi egli ne parla sempre con un grave e severo tono di rimprovero.

39. L’uomo orgoglioso non si sente sempre a suo agio in compagnia dei suoi pari, e ancor meno in compagnia dei suoi superiori. Non riesce a mettere da parte le sue altere pretese, ma davanti a loro si sente intimidito, e non può mostrarle. Quindi ricerca una compagnia più umile, verso la quale ha scarso rispetto, che non sceglie volontariamente e che non trova affatto piacevole: quella dei suoi inferiori, degli adulatori e di chi dipende da lui. È raro che faccia visita ai suoi superiori, o, se lo fa, è più per mostrare di avere i titoli per frequentare un tale compagnia, che per una reale soddisfazione. È quel che lord Clarendon racconta del conte d’Arundel, che qualche volta andava a corte perché solo lì poteva trovare un uomo a lui superiore, ma che poiché lì poteva trovare un uomo a lui superiore, ci andava molto di rado.

40. La cosa è del tutto diversa per l’uomo vanitoso. Egli ricerca la compagnia dei suoi superiori quanto l’orgoglioso la evita. Sembra ritenere che il loro splendore si rifletta su chi li circonda. Frequenta le corti dei re e le udienze dei ministri, e si dà arie di essere un candidato a ricoprire alte cariche, quando in realtà possiede un bene ben più prezioso, se solo sapesse goderne: quello di non esserlo. È fiero di venire ammesso ai conviti dei potenti, e ancor più fiero di vantarsi con gli altri della familiarità con cui viene trattato in quelle occasioni. Cerca per quanto può di accompagnarsi con gente alla moda, con chi dirige l’opinione pubblica, con uomini di talento, uomini colti, uomini noti, ed evita la compagnia dei suoi migliori amici ogni volta che l’incerto favore del pubblico si allontana da loro. Con le persone di cui cerca il favore, non si fa scrupolo di usare ogni mezzo per questo scopo: ostentazione superflua, pretese infondate, adesione acritica, spesso adulatoria, anche se adulatoria in modo piacevole e vivace, e mai esagerata e servile come quella dei parassiti. Al contrario, l’uomo orgoglioso non adula mai, e spesso è addirittura scontroso.

41. Comunque, nonostante tutte le sue pretese infondate, la vanità è quasi sempre una passione vivace e gaia, e molto spesso buona. L’orgoglio è sempre una passione seria, tetra e severa. Le menzogne dell’uomo vanitoso sono tutte menzogne innocenti, che mirano a innalzare lui, non a sminuire gli altri. A voler esser giusti, l’orgoglioso non si abbassa mai a mentire, ma quando lo fa non si tratta certo di menzogne innocenti, ma malvagie, che mirano a sminuire gli altri. Egli è indignato di fronte all’ingiusta superiorità che viene loro attribuita. Li guarda con malignità e invidia, e parlando di loro spesso cerca per quanto può di assottigliare le basi su cui è fondata la loro superiorità. Se circola qualche calunnia su di loro, anche se non è stato lui a metterla in giro, spesso prova piacere nel crederla vera e nel riportarla anche con un certo grado di esagerazione. Le peggiori menzogne della vanità sono quelle che chiamiamo bugie innocenti; le menzogne dettate dall’orgoglio hanno tutt’altro carattere.

42. L’avversione che proviamo per l’orgoglio e la vanità di solito ci porta a classificare le persone che accusiamo di questi vizi al di sotto del comune livello, piuttosto che al di sopra. Questo nostro giudizio è tuttavia molto spesso errato, e sia l’orgoglioso che il vanitoso sono spesso (forse nella maggior parte dei casi) sensibilmente al di sopra del livello comune, sebbene non quanto l’uno ritiene di essere, e l’altro vorrebbe esser creduto. Se li confrontiamo con le loro pretese, possono apparirci disprezzabili, ma quando li confrontiamo con la maggior parte dei loro rivali e dei loro concorrenti possono apparirci diversi, molto al di sopra del livello comune. Quando esiste questa reale superiorità, l’orgoglio è spesso accompagnato da molte virtù rispettabili: verità, onestà, alto senso dell’onore, amicizia cordiale e duratura, fermezza e risoluzione inflessibili. La vanità è invece spesso accompagnata da molte virtù amabili: umanità, gentilezza, disponibilità in piccole faccende, e a volte anche autentica generosità in quelle più grandi, una generosità, però, che spesso cerca di farsi notare il più possibile, mostrandosi nelle tinte più splendide. Nel secolo scorso, i Francesi venivano accusati dai loro rivali e dai loro nemici di vanità, gli Spagnoli di orgoglio, e le nazioni straniere li consideravano rispettivamente il popolo più amabile e il più rispettabile.

43. Le parole vanitoso e vanità non hanno mai un’accezione positiva. Spesso, quando scherziamo su qualcuno, diciamo che la vanità lo rende migliore, o che è più divertente che offensiva, ma la consideriamo tuttavia come un aspetto debole e ridicolo del suo carattere.

44. Le parole orgoglioso e orgoglio, al contrario, a volte hanno un’accezione positiva. Spesso di un uomo diciamo che è troppo orgoglioso, o che ha troppo nobile orgoglio per sopportare di compiere un’azione volgare. In questo caso, confondiamo l’orgoglio con la magnanimità. Aristotele, un filosofo che certamente conosceva il mondo, nel delineare il carattere dell’uomo magnanimo, gli attribuisce molte delle caratteristiche che negli ultimi due secoli sono state comunemente attribuite al carattere degli Spagnoli. Egli sostiene che l’uomo magnanimo è fermo in tutte le sue risoluzioni, lento e persino tardo nelle azioni; che ha una voce seria, un modo di parlare ponderato, un passo e un modo di muoversi lento; che appare indolente e persino pigro, per niente disposto a darsi da fare per piccole cose, ma pronto ad agire con determinata ed efficace risoluzione nelle occasioni importanti e illustri; che non ama il pericolo, e non desidera esporsi a pericoli di poco conto, ma solo a pericoli gravi, nei quali non ha alcun riguardo per la propria vita.

45. L’uomo orgoglioso normalmente è troppo soddisfatto di se stesso per pensare che il suo carattere richieda correzioni. L’uomo che si sente perfetto, ovviamente disprezza ogni miglioramento. La sua presunzione e il suo assurdo concetto di superiorità normalmente lo accompagnano dalla giovinezza all’età avanzata, ed egli muore, come dice Amleto, con tutti i suoi peccati sul capo, senza aver ricevuto l’estrema unzione, né aver fatto penitenza.

46. Per l’uomo vanitoso le cose frequentemente stanno in modo diverso. Quando la stima e l’ammirazione degli altri vengono richieste per qualità e talenti che sono oggetti naturali e appropriati di stima e ammirazione, non è altro che amore per la vera gloria, una passione che, se non è la migliore passione della natura umana, è certamente una delle migliori. La vanità spesso non è altro che un tentativo di usurpare prematuramente la gloria, prima che sia dovuta. Sebbene vostro figlio, sotto i venticinque anni, non sia altro che un bellimbusto, non disperate di vederlo, prima dei quaranta, diventare saggio e valente, ed esperto in tutti quei talenti e quelle virtù che ora non fa altro che pretendere di possedere. Il gran segreto dell’educazione è dirigere la vanità verso oggetti appropriati. Non tollerate mai che egli si stimi per qualità volgari, ma non scoraggiate la sua aspirazione verso quelle davvero importanti. Non aspirerebbe mai a esse se non desiderasse vivamente di possederle. Incoraggiate questo desiderio, offritegli ogni mezzo per facilitare tale acquisizione, e non offendetevi troppo, se a volte dovesse darsi arie di averle raggiunte un po’ troppo prima del tempo.

47. Queste sono le caratteristiche distintive dell’orgoglio e della vanità, quando ciascuno di questi due vizi agisce secondo il carattere che gli è proprio. Ma l’uomo orgoglioso è spesso vanitoso, e l’uomo vanitoso è spesso orgoglioso. Non c’è nulla di più naturale dell’uomo che, avendo un concetto di sé maggiore di quanto non meriti, desidera che gli altri abbiano di lui un concetto ancor maggiore, o dell’uomo che, desiderando che gli altri abbiano di lui un concetto maggiore di quello che lui stesso ha, ha di se stesso un concetto maggiore di quanto non meriti. Poiché capita di frequente che questi due vizi siano presenti nello stesso carattere, le loro caratteristiche necessariamente si confondono, e spesso troviamo la superficiale e impertinente ostentazione della vanità unita alla più maligna e ironica insolenza dell’orgoglio. A volte, per questo, non sappiamo classificare un particolare carattere, e siamo incerti se sia da mettere tra gli orgogliosi o tra i vanitosi.

48. Gli uomini il cui merito supera notevolmente il livello comune a volte si sottovalutano, altre si sopravvalutano. Nel primo caso i loro caratteri, anche se non sono molto nobili, spesso non sono sgradevoli in società. I loro amici si sentono molto più a loro agio in compagnia di un uomo modesto e senza pretese. Tuttavia, se non sono persone più giudiziose e generose del normale, anche se lo trattano in modo gentile, è raro che lo rispettino molto, e il calore della loro gentilezza riesce raramente a compensare la freddezza del loro rispetto. Gli uomini che non possiedono una capacità di giudizio superiore all’ordinario non classificano mai una persona a un livello più alto di quanto non faccia lui stesso. Affermano che, pur essendo adatto ad affrontare una data situazione o a ricoprire un dato incarico, egli sembra dubitare di se stesso, e quindi danno la preferenza a qualche sciocco che non mostra di avere dubbi sulle proprie capacità. Se pure possiedono un’adeguata capacità di giudizio, se non sono abbastanza generosi non mancano mai di trarre vantaggio dalla semplicità di quell’uomo modesto, mostrando verso di lui una superiorità inopportuna, a cui non hanno affatto diritto. La buona natura di quell’uomo può aiutarlo a sopportare questa loro arroganza per un certo periodo, ma alla fine egli diventa insofferente, spesso quando ormai è troppo tardi, e quando il posto che doveva essergli assegnato è perduto per sempre ed è usurpato, a causa della sua riluttanza, da persone meno meritevoli ma più intraprendenti. Un uomo che possiede un tale carattere deve ritenere di essere stato molto fortunato nella scelta delle persone da frequentare, se nel corso della sua vita viene trattato sempre con giustizia, anche da parte di coloro che, per la gentilezza usata in passato nei loro confronti, avrebbe avuto motivi per considerare i suoi migliori amici. Una giovinezza troppo poco ambiziosa e priva di pretese è seguita frequentemente da una vecchiaia insignificante, lamentosa e insoddisfacente.

49. Quelle sfortunate persone che la natura ha posto molto al di sotto del livello ordinario sembrano a volte considerarsi ancora più in basso. Questa umiltà sembra talora farli cadere nell’idiozia. Chi decidesse di esaminare con attenzione gli idioti, scoprirà che in molti di loro le facoltà intellettive non sono affatto inferiori a quelle di molte altre persone, che, pur essendo considerate tarde e stupide, non vengono definite idiote. A molti idioti, per mezzo di una normale istruzione, è stato insegnato a leggere, scrivere e contare in modo accettabile. Ci sono invece molte persone non definite idiote che, nonostante abbiano ricevuto un’istruzione accurata, e nonostante in età avanzata tentino di colmare le loro lacune, non sono mai riuscite ad acquisire in grado accettabile nessuna di queste tre abilità. Per istintivo orgoglio, tuttavia, esse si mettono allo stesso livello delle persone a loro simili per età e situazione, e con coraggio e fermezza mantengono la posizione che gli è propria. Per un istinto opposto, invece, l’idiota si sente inferiore in qualsiasi gruppo di cui entra a far parte. Se viene trattato male, cosa che capita spesso, è capace di andare su tutte le furie, ma non ci sono buone maniere capaci di portarlo a conversare con gli altri da pari a pari. Tuttavia, se mai si riesce a conversare con un idiota, si scoprirà che le sue risposte sono abbastanza pertinenti, e persino sensate, anche se sempre contraddistinte dalla sua coscienza della propria inferiorità. Sembra volersi ritirare in se stesso e sparire dallo sguardo degli altri, e sembra avvertire che, nonostante l’apparente condiscendenza, gli altri non possono evitare di considerarlo molto al di sotto di loro. Forse la maggior parte degli idioti soffre di un certo intorpidimento e di una certa pigrizia delle facoltà intellettive, ma ce ne sono altri in cui queste facoltà non appaiono più intorpidite o più pigre che in altre persone che non vengono definite idiote. Ma l’istinto d’orgoglio, necessario a mantenerli sullo stesso livello degli altri, manca del tutto nei primi e non nei secondi.

50. Perciò, quel grado di autostima che contribuisce alla felicità e alla soddisfazione della persona che lo prova è allo stesso modo piacevole per lo spettatore imparziale. È raro che l’uomo che stima se stesso come dovrebbe, e non più di quanto dovrebbe, non ottenga dagli altri tutta la stima che pensa gli sia dovuta. Egli non desidera più di quanto gli è dovuto, e ne è completamente soddisfatto.

51. Al contrario, l’orgoglioso e il vanitoso sono sempre insoddisfatti. L’uno si tormenta indignato di fronte a quella che ritiene l’ingiusta superiorità degli altri. L’altro teme continuamente la vergogna che lo aspetta nel caso si scoprisse che le sue pretese non hanno fondamento. Le pretese di un uomo davvero magnanimo, quando sono sostenute da splendide abilità e virtù e dalla fortuna, si impongono sulla massa delle persone, del cui elogio egli non si cura, ma non si impongono mai sugli uomini saggi alla cui approvazione egli invece tiene molto, e dei quali è ansioso di conquistare la stima. Sente che essi sospettano della sua presunzione, e spesso subisce la crudele sventura di diventare il nemico, prima nascosto e segreto e poi aperto, vendicativo e furioso, proprio di quelle persone la cui amicizia gli avrebbe dato grande felicità, a poterne godere senza sospetti.

52. Sebbene la nostra avversione verso i vanitosi e gli orgogliosi ci porti a classificarli piuttosto al di sotto del loro appropriato livello, tuttavia raramente ci spingiamo fino al punto di far loro del male, a meno che non subiamo qualche particolare offesa personale. Normalmente cerchiamo, per nostra tranquillità, di mostrarci condiscendenti e di adattarci alla loro follia. Con gli uomini che si sottovalutano, invece, se non possediamo una capacità di giudizio e una generosità al di sopra del comune, siamo quasi sempre ingiusti, almeno quanto essi lo sono verso loro stessi, e spesso molto di più. L’uomo che si sottovaluta non solo è più infelice nei propri sentimenti dell’orgoglioso e del vanitoso, ma è molto più esposto a ogni sorta di maltrattamento da parte degli altri. In quasi tutti i casi, è un bene essere troppo orgogliosi piuttosto che troppo umili, e nel sentimento di autostima un certo eccesso sembra, sia alla persona che allo spettatore imparziale, meno spiacevole del difetto.

53. Come in tutte le altre emozioni, passioni e abitudini, quindi, anche in questa il grado più gradevole per lo spettatore imparziale è contemporaneamente quello più gradevole per la persona stessa che la prova, e quindi a seconda che l’eccesso o il difetto siano meno offensivi per il primo, così sono in proporzione meno sgradevoli per il secondo.


 
CONCLUSIONE DELLA SESTA PARTE
1. La preoccupazione per la nostra felicità ci suggerisce la virtù della prudenza, la preoccupazione per la felicità degli altri, le virtù della giustizia e della beneficenza; la prima di queste due virtù ci impedisce di ferire l’altrui felicità, la seconda ci spinge a favorirla. Indipendentemente da qualsiasi considerazione per quelli che sono, o dovrebbero essere, o a certe condizioni sarebbero i sentimenti degli altri, in un primo momento la virtù della prudenza ci viene suggerita dalle nostre affezioni egoiste, le altre due virtù dalle nostre affezioni benevole. Tuttavia, la considerazione per i sentimenti degli altri in un secondo momento rafforza e dirige la pratica di tutte e tre quelle virtù, e non c’è uomo che nel corso di tutta la sua vita, o almeno di buona parte di essa, non abbia seguito regolarmente e costantemente le orme della prudenza, della giustizia e dell’appropriata beneficenza senza esser stato indirizzato nella sua condotta soprattutto da una considerazione per i sentimenti dell’immaginato spettatore imparziale, del grande ospite del cuore, del grande giudice e arbitro della condotta. Se nel corso della giornata ci siamo per qualche verso allontanati dalle regole che egli ci prescrive; se siamo stati troppo o troppo poco frugali, se siamo stati troppo o troppo poco operosi, se inavvertitamente o volontariamente abbiamo ferito in qualche aspetto l’interesse o la felicità del nostro prossimo, se abbiamo trascurato un’opportunità semplice e appropriata per favorire quell’interesse e quella felicità, è questo ospite interiore che alla sera ci chiama a render conto di tutte quelle omissioni e violazioni, e i suoi rimproveri ci fanno spesso arrossire, sia per la nostra leggerezza e disattenzione verso la nostra felicità, sia per l’ancor più grande indifferenza e disattenzione verso la felicità altrui.

2. Ma sebbene le virtù della prudenza, della giustizia e della beneficenza possano esserci suggerite, nelle diverse occasioni, quasi nello stesso modo da due principi diversi, quelle del dominio di sé sono in molte occasioni principalmente e quasi del tutto raccomandate da un solo principio: il senso dell’appropriatezza, la considerazione per i sentimenti dell’immaginato spettatore imparziale. Senza la limitazione posta da questo principio, ogni passione nella maggior parte dei casi si precipiterebbe, se mi è concessa l’espressione, verso la sua gratificazione. L’ira si abbandonerebbe a tutta la sua furia; la paura a tutti i suoi violenti turbamenti. Nessun riguardo per il luogo o il momento potrebbe indurre la vanità a frenare la sua esagerata e inopportuna ostentazione, o impedire alla sensualità di dare scandalo in modo indecente. Il rispetto per quelli che sono, o dovrebbero essere, o a certe condizioni sarebbero i sentimenti degli altri è l’unico principio che nella maggior parte delle occasioni riporta tutte queste passioni ribelli e turbolente entro quei limiti che lo spettatore imparziale può condividere e con cui può simpatizzare.

3. In verità, in alcune occasioni queste passioni vengono trattenute non tanto per un senso della loro inappropriatezza, quanto per una prudente considerazione delle cattive conseguenze che potrebbero derivare lasciandosi andare a esse. In tali casi, le passioni, per quanto trattenute, non sempre sono domate, ma spesso rimangono a covare nell’animo con tutta la furia che avevano in origine. L’uomo che non dà sfogo alla propria collera solo perché ha paura, non sempre la mette da parte: spesso non fa altro che riservarsi di sfogarla in un momento più sicuro. Ma l’uomo che, raccontando a qualche altra persona l’offesa che gli è stata fatta, sente all’istante la passione che l’agitava raffreddarsi e calmarsi per simpatia con i sentimenti più moderati del suo compagno, e all’istante li fa suoi, e arriva a vedere l’offesa non più nei colori neri e terribili in cui l’aveva vista all’inizio, ma nella luce più delicata e tenue in cui la vede naturalmente il suo compagno, quell’uomo non solo trattiene la sua collera, ma la doma. La passione si ridimensiona, e diventa meno capace di spingerlo verso la vendetta violenta e sanguinaria a cui aveva forse pensato all’inizio.

4. Le passioni che vengono trattenute per il senso dell’appropriatezza sono tutte in qualche misura moderate e domate da esso. Ma quelle che vengono trattenute solo da prudenti considerazioni sono, al contrario, spesso infiammate proprio perché trattenute, e qualche volta (molto tempo dopo esser state provocate, e quando più nessuno se ne ricorda), esplodono in modo assurdo e inatteso, e dieci volte più violento.

5. Tuttavia la collera, come tutte le altre passioni, in molte occasioni può essere appropriatamente trattenuta da considerazioni prudenti. A tal fine è necessario un certo esercizio di fermezza e dominio di sé. Lo spettatore imparziale al massimo considererà lo sforzo compiuto con quella fredda stima dovuta a un tipo di condotta che non è altro che il risultato della prudenza, ma mai con quell’ammirazione calorosa con cui ripercorre le stesse passioni quando è il senso dell’appropriatezza a moderarle e sconfiggerle, portandole a un livello da lui condivisibile. Quando le passioni vengono trattenute unicamente nel primo modo, e cioè per prudenza, lo spettatore imparziale può riuscire a cogliere in esse un certo grado di appropriatezza, e, se vogliamo, anche di virtù: ma sono una virtù e un’appropriatezza molto inferiori a quelle che sente sempre con trasporto e ammirazione quando le passioni vengono trattenute nel secondo modo.

6. Le virtù della prudenza, della giustizia e della beneficenza non tendono a produrre altro che i più gradevoli effetti. La considerazione di questi effetti le raccomanda dapprima a chi compie l’azione, e poi allo spettatore imparziale. Quando approviamo il carattere dell’uomo prudente, avvertiamo con particolare compiacimento la sicurezza della quale gode camminando sotto la tutela di quella virtù calma e ponderata. Quando approviamo il carattere dell’uomo giusto, avvertiamo con altrettanto compiacimento la sicurezza che tutti quelli che sono in rapporto con lui nella società e negli affari devono ricevere dal suo scrupolo di non offendere o di non ferire. Quando approviamo il carattere dell’uomo benefico, prendiamo parte alla gratitudine di tutti coloro che rientrano nella sfera dei suoi buoni uffici, e anche noi, come loro, abbiamo il più alto senso del suo merito. Quando approviamo tutte queste virtù, il nostro senso dei loro piacevoli effetti e della loro utilità per la persona che agisce o per qualche altra persona si unisce al senso della loro appropriatezza, e costituisce sempre una parte considerevole, spesso la maggiore, di quell’approvazione.

7. Ma nella nostra approvazione delle virtù del dominio di sé, il compiacimento per i loro effetti il più delle volte non ha che una piccola parte, e a volte non ne ha alcuna. Quegli effetti possono a volte essere gradevoli, e a volte sgradevoli, e sebbene la nostra approvazione senza dubbio sia più forte nel primo caso, nel secondo non è affatto del tutto assente. Il valore più eroico può essere usato indifferentemente in una causa giusta o in una causa ingiusta, e sebbene senza dubbio sia molto più amato e ammirato nel primo caso, anche nel secondo appare una qualità importante e rispettabile. In questa, come in tutte le virtù del dominio di sé, la qualità più splendida e abbagliante sembra sempre la grandezza e la fermezza con cui la virtù stessa viene esercitata e il forte senso dell’appropriatezza necessario per questo esercizio: troppo spesso si presta poca attenzione agli effetti di queste virtù.


 
PARTE VII I SISTEMI DI FILOSOFIA MORALE

 
SEZIONE I
Le questioni che dovrebbero esser prese in esame in una teoria dei sentimenti morali

1. Se esaminiamo le più celebrate e famose teorie sulla natura e l’origine dei nostri sentimenti morali, troveremo che quasi tutte coincidono con una o con l’altra parte del resoconto che ho cercato di dare, e se consideriamo a fondo le cose dette, non avremo difficoltà a spiegare quali punti di vista o aspetti della natura abbiano portato ogni singolo autore a delineare il suo particolare sistema. Ogni sistema morale che abbia mai avuto un qualche peso nel mondo deriva in ultima analisi dall’uno o dall’altro dei principi che ho tentato di mettere in luce. Poiché tutti questi sistemi si fondano su principi naturali, in qualche misura sono tutti nel giusto. Ma poiché molti di loro derivano da una visione parziale e imperfetta della natura, molti sono in qualche misura errati.

2. Trattando dei principi della morale, ci sono due questioni da considerare: in primo luogo, in cosa consista la virtù, ovvero quale sia il tipo di indole e il modo di condotta che costituiscono il carattere eccellente e degno di lode, il carattere che è oggetto naturale di stima, onore e approvazione. In secondo luogo, quali siano il potere o la facoltà della mente che ci raccomandano tale carattere, qualsiasi esso sia, ovvero, in altre parole, come e per quali mezzi avvenga che la mente preferisca un modo di condotta a un altro, chiami l’uno corretto e l’altro scorretto, consideri l’uno oggetto di approvazione, onore e ricompensa, l’altro di disapprovazione, biasimo e punizione.

3. Esaminiamo la prima questione quando consideriamo se la virtù consista nella benevolenza, come ritiene il dott. Hutcheson, o nell’agire in maniera adatta alle diverse relazioni in cui ci troviamo come sostiene il dottor Clarke, o nella ricerca saggia e prudente della nostra reale e solida felicità, come è opinione di altri moralisti.

4. Esaminiamo la seconda questione quando consideriamo se il carattere virtuoso, qualsiasi esso sia, ci sia raccomandato dall’amor di sé, che ci fa percepire che questo carattere tende maggiormente a promuovere il nostro interesse privato; o invece ci sia raccomandato dalla ragione, che ci indica la differenza tra un carattere e l’altro, come ci indica quella tra vero e falso; o ci sia raccomandato da un potere o una percezione chiamata senso morale, in base al quale questo carattere virtuoso ci gratifica e ci piace, come il carattere contrario ci ripugna e dispiace; oppure, infine, ci sia raccomandato da qualche altro principio nella natura umana, come una modificazione della simpatia, o qualcosa di simile.

5. Comincerò col considerare i sistemi che sono stati delineati riguardo alla prima di queste due questioni, cioè la natura della virtù, e passerò poi a esaminare i sistemi riguardanti la seconda.


 
SEZIONE II I diversi resoconti sulla natura della virtù

 
INTRODUZIONE
1. I diversi resoconti che sono stati dati sulla natura della virtù, o sul tipo di indole propria del carattere migliore e lodevole, possono essere ricondotti a tre diversi gruppi. Secondo alcuni moralisti, l’indole virtuosa non consiste in una certa specie di affezioni, ma nel controllare e indirizzare appropriatamente tutte le nostre affezioni, che possono essere virtuose o viziose a seconda degli obiettivi che perseguono, e a seconda del modo in cui li perseguono. Perciò, secondo questi autori la virtù consiste nell’appropriatezza.

2. Secondo altri, la virtù consiste nel perseguire con giudizio il nostro proprio interesse e la nostra propria felicità, o nel controllare e indirizzare appropriatamente quelle affezioni egoistiche che tendono unicamente a questo fine. Perciò, nell’opinione di questi autori la virtù consiste nella prudenza.

3. Un altro gruppo di autori afferma che la virtù consiste unicamente in quelle affezioni che mirano alla felicità degli altri, e non in quelle egoistiche. Perciò, secondo loro, la benevolenza disinteressata è l’unica motivazione che può imprimere su un’azione il carattere della virtù.

4. È evidente quindi che o il carattere della virtù deve essere attribuito indifferentemente a tutte le nostre affezioni, quando sono controllate e indirizzate appropriatamente, oppure deve essere riservato soltanto a qualche gruppo particolare di cose. La grande divisione che riguarda le nostre affezioni è quella tra le affezioni egoistiche e benevole. Perciò, se il carattere della virtù non può essere attribuito indifferentemente a tutte le nostre affezioni ben controllate e indirizzate, deve esser riservato o a quelle che mirano alla nostra privata felicità, o a quelle che mirano direttamente alla felicità altrui. Perciò, se la virtù non consiste nell’appropriatezza, deve consistere o nella prudenza o nella benevolenza. È difficile pensare che si possa dare un resoconto sulla natura della virtù diverso da questi tre. Cercherò di dimostrare come tutti gli altri resoconti che sono stati forniti, pur sembrando diversi da questi tre, alla fine coincidano con uno o l’altro di essi.


 
CAPITOLO I I sistemi che fanno coincidere la virtù con l’appropriatezza


1. Secondo Platone, Aristotele e Zenone la virtù consiste nell’appropriatezza della condotta, ovvero nel giusto rapporto tra l’affezione che ci spinge ad agire e l’oggetto che la suscita.

2. I. Nel sistema di Platone l’anima è considerata come un piccolo stato o una piccola repubblica, composta da tre diverse facoltà od ordini.

3. La prima è la facoltà di giudicare, la facoltà che determina non solo i mezzi appropriati per raggiungere un certo fine, ma anche i fini che vale la pena perseguire, e il valore che dovremmo attribuire a ciascuno. Platone, molto appropriatamente, ha chiamato «ragione» questa facoltà, attribuendole il diritto di essere il principio che governa il tutto. Sotto questa denominazione, è evidente che egli non ha raccolto soltanto la nostra facoltà di giudicare il vero e il falso, ma anche quella di giudicare l’appropriatezza o inappropriatezza dei desideri e delle affezioni.

4. Egli ha ridotto a due classi o ordini le diverse passioni e i diversi appetiti, oggetti naturali di questo principio regolatore, ma spesso ribelli al loro legislatore. La prima classe comprende le passioni fondate sull’orgoglio e il risentimento, cioè su quella parte dell’anima che gli scolastici chiamano anima irascibile; l’ambizione, l’animosità, l’amore per l’onore, il timore della vergogna, il desiderio di vittoria, di superiorità, di vendetta, in breve, tutte le passioni che si suppone denotino o derivino da ciò che nella nostra lingua chiamiamo metaforicamente spirito o fuoco naturale. La seconda classe comprende le passioni fondate sull’amore per il piacere, cioè su quella parte dell’anima che gli scolastici chiamano anima concupiscibile: gli appetiti corporali, l’amore del benessere e della sicurezza, e tutte le gratificazioni dei sensi.

5. Accade di rado di non osservare il piano di condotta prescritto dal principio guida, che a mente fredda ci eravamo dati come il più appropriato da perseguire, se non quando siamo spinti dall’uno o dall’altro gruppo di passioni: o da ambizione e risentimento ingovernabile, o da inopportune sollecitazioni del benessere e del piacere presenti. Ma sebbene questi due ordini di passioni tendano così tanto a sviarci, sono tuttavia considerate come parti necessarie della natura umana, che ci sono state date da un lato per difenderci dalle offese, per affermare nel mondo il nostro rango e la nostra dignità, per farci tendere a ciò che è nobile e onorevole, e per poter distinguere chi agisce in questa stessa maniera, dall’altro lato per venire incontro al sostentamento e alle necessità del corpo.

6. Nella forza, nell’acutezza e nella perfezione del principio guida, è riposta l’essenziale virtù della prudenza, che secondo Platone consiste in una giusta e chiara capacità di individuare, sulla base di idee generali e scientifiche, i fini appropriati da perseguire e i mezzi adatti per ottenerli.

7. Quando le passioni del primo gruppo, quelle derivanti dall’anima irascibile, possiedono quel grado di forza e fermezza che le mette in grado, sotto la direzione della ragione, di disprezzare tutti i pericoli nel perseguire ciò che è onorevole e nobile, esse ci conducono alla virtù della forza e della grandezza d’animo. Questo ordine di passioni, secondo il sistema di Platone, è di una natura più nobile e generosa dell’altro. In molte occasioni queste passioni vengono considerate come ausiliarie della ragione nel controllare e reprimere gli appetiti più bassi e brutali. Quando l’amore per il piacere ci spinge a compiere azioni che disapproviamo, spesso andiamo in collera contro noi stessi, diventiamo oggetto del nostro stesso risentimento e della nostra stessa indignazione: la parte irascibile della nostra natura viene infatti chiamata in aiuto dall’anima razionale contro quella concupiscibile.

8. Quando la parte razionale, quella irascibile e quella concupiscibile della nostra natura sono in perfetta concordia tra loro, quando le passioni irascibili o quelle concupiscibili non tendono ad alcuna gratificazione che non sia approvata dalla ragione, e quando la ragione non comanda nulla che le altre due parti dell’anima non abbiano già intenzione di compiere, allora questo felice accordo, questa perfetta e completa armonia dell’anima costituiscono quella virtù che in greco è espressa con una parola che noi normalmente traduciamo temperanza, ma che potrebbe esser tradotta più appropriatamente con morigeratezza, o sobrietà e moderazione mentale.

9. La giustizia, l’ultima e la più importante delle quattro virtù cardinali, ha luogo, secondo il sistema platonico, quando ciascuna di queste tre facoltà mentali compie gli uffici che le sono propri, senza tentare di interferire con quelli delle altre, quando la ragione dirige e la passione ubbidisce, e quando ogni passione compie il proprio dovere, e si dirige tranquillamente e decisamente verso il suo oggetto appropriato, con il grado di forza e di energia adatto al valore di ciò che si persegue. In questo consiste quella virtù completa, quella perfetta appropriatezza di condotta, che Platone, seguendo alcuni degli antichi pitagorici, chiama Giustizia.

10. Bisogna osservare che la parola che esprime la giustizia in greco ha diversi significati, e poiché la stessa cosa avviene, per quanto ne so, anche in tutte le altre lingue, deve esistere una qualche affinità naturale tra queste varie significazioni. Secondo uno dei sensi della parola, si dice che usiamo giustizia verso il nostro prossimo quando ci asteniamo dal compiere nei suoi confronti un male positivo, e non lo danneggiamo né nella persona, né nella proprietà, né nella reputazione. Ho trattato della giustizia intesa in questo senso in una delle parti precedenti, affermando che l’osservanza di questa virtù può essere estorta con la forza, e che la sua violazione espone a punizione. In un altro senso, si dice che non usiamo giustizia al nostro prossimo, a meno che non proviamo nei suoi riguardi tutto quell’amore, quel rispetto e quella stima che sono adatti e appropriati in base al suo carattere, alla sua situazione e al suo rapporto con noi, comportandoci di conseguenza. È in questo senso che si dice che facciamo un’ingiustizia verso un uomo meritevole che è in rapporto con noi, anche se ci asteniamo dal danneggiarlo in qualsiasi modo, se non ci impegniamo a servirlo e ad attribuirgli il posto che lo spettatore imparziale vorrebbe vedergli attribuito. Il primo senso della parola giustizia corrisponde a ciò che Aristotele e gli scolastici chiamano giustizia commutativa, e a ciò che Grozio chiama justitia expletrix, che consiste nell’astenersi da quello che è degli altri, e nel compiere volontariamente quel che potremmo appropriatamente essere forzati a compiere. Il secondo senso della parola corrisponde a ciò che alcuni hanno chiamato giustizia distributivae alla justitia attributrix di Grozio, che consiste nella beneficenza, nell’uso conveniente di ciò che ci appartiene, e nell’utilizzarlo per quei fini caritatevoli e generosi che sono più convenienti nella nostra situazione. La giustizia intesa in questo senso comprende tutte le virtù sociali. La parola giustizia viene intesa in un ulteriore senso, ancor più esteso dei due precedenti, per quanto molto simile al secondo, e presente, per quanto ne so, in tutte le lingue. È in questo senso che si dice che siamo ingiusti, quando non sembra che valutiamo un particolare obiettivo con quel grado di stima, o che non lo perseguiamo con quel grado di ardore che secondo lo spettatore imparziale sarebbero adeguati. Così, si dice che facciamo ingiustizia a una poesia o a un dipinto, quando non lo ammiriamo abbastanza, e che facciamo loro più che giustizia quando li ammiriamo troppo. Allo stesso modo, si dice che non facciamo giustizia a noi stessi quando non sembra che mostriamo sufficiente attenzione a ciascun particolare oggetto di interesse personale. In quest’ultimo senso, quel che viene chiamato giustizia è la stessa cosa dell’accurata e perfetta appropriatezza di condotta, e di comportamento, e comprende non solo i compiti della giustizia commutativa e distributiva, ma anche quelli di ogni altra virtù: della prudenza, della forza d’animo, della temperanza. Evidentemente è quest’ultimo il senso inteso da Platone con la parola giustizia, che secondo lui comprende in sé la perfezione di ogni tipo di virtù.

11. Questo è il resoconto di Platone sulla natura della virtù, o di quell’indole che è oggetto appropriato di lode e approvazione. Secondo lui, la virtù consiste in quello stato mentale in cui ogni facoltà rispetta i confini della propria sfera, senza interferire con quelli delle altre facoltà, e compie i propri uffici con quel preciso grado di forza e di vigore che le è proprio. È evidente che il suo resoconto coincide sotto ogni riguardo con quel che abbiamo detto precedentemente sull’appropriatezza della condotta.

12. II. La virtù, secondo Aristotele, consiste nell’abitudine al giusto mezzo indicato dalla retta ragione. Secondo lui, ogni particolare virtù è collocata in una posizione di mezzo tra due opposti vizi, che consistono l’uno nell’esser troppo colpiti da una particolare specie di oggetti, l’altro nell’esserlo troppo poco. Così, la virtù della forza d’animo e del coraggio si trova nel mezzo tra i due opposti vizi della codardia e della presuntuosa temerarietà, che consistono il primo nell’esser troppo colpiti dagli oggetti che suscitano timore, il secondo nell’esserlo troppo poco. Allo stesso modo, la virtù della frugalità si trova nel mezzo tra l’avarizia e la prodigalità, che consistono la prima nell’esser troppo attenti agli oggetti del proprio interesse egoistico, l’altra nell’esserlo troppo poco. Così, la magnanimità si trova nel mezzo tra l’arroganza e la pusillanimità, che consistono la prima in un sentimento eccessivo, l’altra in un sentimento troppo debole del proprio valore e della propria dignità. Non è necessario osservare che questo resoconto della virtù corrisponde esattamente a quel che abbiamo detto precedentemente sull’appropriatezza e inappropriatezza della condotta.

13. Secondo Aristotele la virtù non consiste tanto in queste affezioni moderate e giuste, quanto nell’abitudine alla moderazione. Per comprendere questo punto, è necessario osservare che la virtù può essere considerata come una qualità di un’azione, o come una qualità di una persona. Considerata come una qualità dell’azione, essa consiste, secondo Aristotele, nella ragionevole moderazione dell’affezione da cui deriva l’azione, sia che questa disposizione sia abituale per la persona, oppure che non lo sia. Considerata come una qualità della persona, la virtù consiste nell’abitudine a questa ragionevole moderazione, nell’esser diventata la consueta e usuale disposizione della mente. In tal modo, l’azione che deriva da un occasionale slancio di generosità è senza dubbio un’azione generosa, ma l’uomo che la compie non necessariamente è una persona generosa, perché quella potrebbe essere la sua unica azione di quel tipo. La motivazione e la disposizione d’animo che l’hanno spinto a quell’azione possono essere del tutto giusti e appropriati, ma poiché sembra che quel felice stato d’animo sia stato più l’effetto di un umore accidentale che di una qualità stabile e permanente nel suo carattere, non può conferire un grande onore all’agente. Quando definiamo un carattere generoso o caritatevole, o virtuoso in qualsiasi rispetto, intendiamo che la disposizione espressa da ciascuno di questi appellativi è la disposizione usuale e consuetudinaria della persona. Ma singole azioni, di qualsiasi tipo esse siano, per quanto appropriate e adatte, non bastano a stabilire una disposizione usuale. Se una singola azione fosse sufficiente a imprimere il carattere della virtù sulla persona che la compie, anche gli uomini più insignificanti potrebbero reclamare il diritto di esser definiti virtuosi, poiché non c’è nemmeno un uomo che non abbia almeno una volta agito con prudenza, giustizia, temperanza e forza d’animo. Ma sebbene le singole azioni, per quanto lodevoli, non facciano meritare che una piccola lode alla persona che le compie, una singola azione cattiva, anche se compiuta da qualcuno che normalmente si comporta in modo corretto, diminuisce di molto, e spesso distrugge del tutto, la nostra opinione della sua virtù. Una singola azione di questo tipo mostra a sufficienza che le sue abitudini di vita non sono perfette, e che egli non è così affidabile come potevamo supporre dal suo comportamento usuale.

14. Aristotele, facendo consistere l’abitudine nelle abitudini pratiche, probabilmente intendeva opporsi alla dottrina di Platone, che sembra esser stato dell’opinione che i sentimenti giusti e i giudizi ragionevoli su ciò che si deve fare o evitare fossero, da soli, sufficienti a costituire la virtù perfetta. La virtù, secondo Platone, potrebbe essere considerata come una specie di scienza, ed egli riteneva che non ci fosse alcun uomo che potesse vedere chiaramente e dimostrativamente ciò che era giusto e ciò che era errato, senza poi comportarsi di conseguenza. La passione può spingerci ad agire in modo contrario alle opinioni dubbiose e incerte, ma non contro i giudizi chiari ed evidenti. Aristotele, al contrario, era dell’opinione che nessuna convinzione dell’intelletto fosse capace di fornire abitudini buone e radicate, e che la buona morale non deriva dalla conoscenza, ma dall’azione.

15. III. Secondo Zenone, fondatore della dottrina stoica, ogni animale viene raccomandato dalla natura alla cura di se stesso, e fornito del principio dell’amor di sé, che lo porta a conservare non solo la sua esistenza, ma anche tutte le diverse parti della sua natura, nello stato più perfetto possibile.

16. L’amor di sé dell’uomo abbraccia, se così si può dire, il suo corpo e tutte le sue diverse membra, la sua mente e tutte le sue diverse facoltà e poteri, e mira a preservarli e conservarli nella condizione migliore e più perfetta. La natura spinge a scegliere tutto quello che può garantire questo stato di esistenza, e a respingere tutto quello che può distruggerlo. Così, la salute, la forza, e l’agilità fisica, e tutti i beni esteriori che possono conservarle, come la ricchezza, il potere, gli onori, il rispetto e la stima di quelli con cui viviamo, ci sono stati indicati dalla natura come ciò che dobbiamo scegliere, e il cui possesso è da preferire alla mancanza. Al contrario, la malattia, l’infermità, l’inabilità, il dolore fisico, e tutti i disagi esteriori che li originano, come la povertà, la mancanza d’autorità, il disprezzo o l’odio di quelli con cui viviamo ci sono stati indicati come ciò che è da sfuggire ed evitare. In ciascuna di queste due opposte classi, ci sono oggetti che meritano maggiormente di essere scelti o evitati rispetto ad altri della loro stessa classe: ad esempio, nella prima classe, la salute evidentemente è preferibile alla forza, e la forza all’agilità, la reputazione al potere e il potere alla ricchezza. E così nella seconda classe, la malattia va evitata più dell’inabilità fisica, l’ignominia più della povertà, e la povertà più della mancanza di potere. La virtù e l’appropriatezza della condotta consistono, secondo Zenone, nello scegliere e nel respingere tutti i diversi oggetti e le circostanze seguendo le indicazioni date dalla natura; nel selezionare sempre, in mezzo ai tanti oggetti di scelta che ci vengono presentati, quello più degno di essere scelto, quando non possiamo ottenerli tutti, e anche nel selezionare, in mezzo ai tanti oggetti da respingere, quello da evitare per ultimo, quando non possiamo evitarli tutti. Scegliendo e respingendo con questo giusto e accurato discernimento, dando a ciascun oggetto il preciso grado di attenzione che merita, secondo il posto che occupa in questa scala naturale di cose, secondo gli stoici noi manteniamo la perfetta rettitudine di condotta che costituisce l’essenza della virtù. Questo è ciò che essi chiamano vivere coerentemente, vivere secondo natura, obbedire a quelle leggi e a quella direzione che la natura, e l’Autore della natura, ha prescritto per la nostra condotta.

17. Fin qui l’idea stoica dell’appropriatezza non è molto diversa da quella di Aristotele e degli antichi peripatetici.

18. Secondo gli Stoici, tra gli oggetti primari che la natura ci ha raccomandato di scegliere, c’è la prosperità della nostra famiglia, dei nostri parenti, dei nostri amici, del nostro paese, dell’umanità e dell’universo in generale. La natura, inoltre, ci ha insegnato che se la prosperità di due esseri è da preferire a quella di uno solo, la prosperità di molti, o di tutti, deve esserle infinitamente preferibile. Ci ha insegnato che noi non siamo altro che uno solo, e che, di conseguenza, se la nostra prosperità è in contrasto con quella del tutto, o di una parte considerevole del tutto, deve cedere di fronte a ciò che è maggiormente preferibile. Dal momento che tutti gli avvenimenti di questo mondo, secondo gli Stoici, sono diretti dalla provvidenza di un Dio saggio, potente e buono, possiamo star certi che tutto ciò che accade tende alla prosperità e alla perfezione del tutto. Perciò, se personalmente ci troviamo in una situazione di povertà, di malattia, o in una disgrazia simile, dobbiamo, prima di tutto, esercitare i nostri maggiori sforzi per uscire da queste circostanze disagiate, compatibilmente con la giustizia e il dovere verso gli altri. Ma se, dopo tutto quello che riusciamo a fare, questo dovesse risultare impossibile, dobbiamo rassegnarci al fatto che l’ordine e la perfezione dell’universo richiedono che noi restiamo in una tale situazione. Come la prosperità del tutto dovrebbe apparirci preferibile alla nostra, visto che non siamo che una parte insignificante, così, di fronte al fallimento degli sforzi fatti per migliorare la nostra situazione, dobbiamo infine accettarla con piacere, se vogliamo mantenere quella completa appropriatezza e rettitudine del sentimento e della condotta in cui consiste la perfezione della nostra natura. Se però ci si dovesse presentare qualche opportunità di liberarci dei nostri problemi, diventerebbe nostro dovere coglierla: sarebbe infatti evidente che l’ordine dell’universo non richiede più che noi continuiamo a restare in quella situazione, e che il gran Direttore del mondo chiaramente ci invita a uscirne, indicandoci la strada che dobbiamo seguire a tale scopo. Lo stesso accade per le avversità che riguardano i nostri parenti, i nostri amici, il nostro paese. Se, senza violare alcun obbligo sacro, fosse in nostro potere prevenire o porre fine alle loro disgrazie, sarebbe certamente nostro dovere farlo: sarebbe infatti evidente che l’appropriatezza dell’azione, la regola che Giove ci ha dato per dirigere la nostra condotta, richiede questo da noi. Ma se per noi fosse del tutto impossibile liberare sia noi stessi che i nostri cari dai disagi, dovremmo considerare questo evento come il più fortunato che poteva capitarci, perché potremmo esser certi che esso tende alla prosperità e all’ordine del tutto, che sono gli obiettivi per noi più desiderabili, se siamo saggi e giusti. Sarebbe il nostro interesse finale considerato come parte del tutto, e la prosperità del tutto dovrebbe essere non solo l’oggetto principale, ma l’unico oggetto del nostro desiderio.

19. «In che senso» chiede Epitteto «si dice che alcune cose sono in accordo con la nostra natura, e altre contrarie? Solo nel senso in cui ci consideriamo separati e distaccati da tutte le altre cose. Allo stesso modo, si potrebbe dire che rientra nella natura del piede esser sempre pulito. Ma se lo si considera come un piede, e non come qualcosa di staccato dal resto del corpo, gli può capitare a volte di sporcarsi, di riempirsi di spine, e persino di essere amputato per il bene del corpo, e se il piede lo rifiuta, allora non è più un piede. La stessa cosa vale per noi. Cosa sei? Un uomo. Se ti consideri come qualcosa di separato e distaccato, sarà gradevole per la tua natura vivere fino alla vecchiaia, diventare ricco, ed essere in salute. Ma se ti consideri un uomo, e parte del tutto, proprio a causa di quel tutto potrà capitarti a volte di star male, di dover affrontare i disagi di una traversata in mare, di trovarti in stato di bisogno, e anche di morire precocemente. Perché ti lamenti di questo? Non sai che così facendo cessi di essere un uomo, come il piede cessa di esser piede?»

20. Un uomo saggio non si lamenta mai per il destino che la Provvidenza gli ha assegnato, e non pensa che l’universo sia in uno stato di confusione quando egli non è in ordine. Non si considera come un tutto, separato e distaccato da ogni altra parte della natura, come un oggetto di cui prendersi cura in sé e per sé. Egli si considera nella luce in cui immagina che lo consideri il gran genio della natura umana e del mondo. L’uomo saggio prende parte, se così si può dire, ai sentimenti di quell’Essere divino, e si considera come un atomo, una particella, di un sistema immenso e infinito, di cui necessariamente e diversamente disporre a seconda della convenienza del tutto. Sicuro della saggezza che dirige tutti gli eventi della vita umana, qualsiasi destino gli capiti, egli lo accetta con gioia, certo che, se conoscesse bene tutte le connessioni e le dipendenze delle diverse parti dell’universo, quello sarebbe proprio il destino che vorrebbe. Se è vita, egli è contento di viverla, se è morte, dal momento che la natura non ha più bisogno della sua presenza su questa terra, egli va allora dove la natura lo chiama. Un filosofo cinico, le cui dottrine sotto questo riguardo sono simili a quelle degli Stoici, sostiene: «Accetto con la stessa gioia e soddisfazione qualsiasi cosa possa capitarmi: ricchezza e povertà, piacere o dolore, salute o malattia, per me tutto è uguale, e non desidero che gli dei cambino sotto qualche riguardo la mia destinazione. Se potessi domandare loro qualcosa al di là di quello che la loro bontà mi concede, sarebbe soltanto di informarmi in anticipo di ciò che vogliono che si faccia di me, in modo da potermi volontariamente mettere in quella situazione, dimostrando con quale ardore scelgo la parte che mi hanno assegnato». «Se desiderano che io mi imbarchi» dice Epitteto «sceglierò la migliore nave e il miglior pilota, aspetterò il tempo più favorevole che le mie circostanze e il mio dovere mi consentiranno. La prudenza e l’appropriatezza, i principi che gli Dei mi hanno dato per dirigere la mia condotta, mi richiedono questo, e nient’altro. E se, nonostante tutto, si dovesse levare una tempesta, che né la forza del vascello, né l’abilità del pilota riuscissero a fronteggiare, non mi preoccuperò delle conseguenze. Tutto ciò che potevo fare è stato già fatto. Coloro che dirigono la mia condotta non mi ordinano mai di essere miserabile, ansioso, o timoroso. Annegare o giungere in porto non è affar mio, ma di Giove. Io mi affido completamente alla sua decisione, e non interrompo mai il mio riposo per mettermi a pensare a quel che Lui deciderà, ma non faccio altro che accettare tutto quello che capita con la stessa indifferenza e sicurezza.»

21. Da questa completa fiducia nella benevola saggezza che governa l’universo, e da questa totale rassegnazione a qualsiasi ordine che la saggezza ritenga appropriato stabilire, segue necessariamente che per il saggio stoico tutti gli eventi della vita umana devono essere in larga misura indifferenti. La sua felicità consiste interamente per prima cosa nella contemplazione della felicità e della perfezione del gran sistema dell’universo, del buon governo della grande repubblica degli dei e degli uomini, di tutti gli esseri sensibili e razionali, e, in secondo luogo, nel compiere il proprio dovere, nell’agire appropriatamente nelle questioni di questa grande repubblica, per quanto piccola possa essere la parte a noi assegnata dalla saggezza divina. L’appropriatezza o inappropriatezza dei suoi sforzi può avere grandi conseguenze per lui, mentre non può averne alcuna il proprio successo o insuccesso, che non possono suscitare né gioia né sofferenza, né desiderio né avversione appassionati. Se preferisce alcuni eventi ad altri, se qualche situazione è oggetto della sua scelta e qualche altra oggetto del suo rifiuto, questo non avviene perché egli considera l’una migliore dell’altra, o perché pensa che la sua felicità sarebbe completa in quella che viene definita una situazione fortunata, più che in quella che viene definita una situazione angosciosa, ma perché l’appropriatezza dell’azione, la regola che gli Dei gli hanno dato per dirigere la sua condotta, gli richiede di scegliere e rifiutare in questo modo. Tutte le sue affezioni sono assorbite da due affezioni più generali: il compimento del proprio dovere, e la maggiore felicità possibile per tutti gli esseri razionali e sensibili. Per soddisfare quest’ultima affezione, egli si affida con la più perfetta sicurezza alla saggezza e al potere del grande sovrintendente dell’universo. La sua unica ansia riguarda la soddisfazione della prima affezione, ma per l’appropriatezza dell’azione, e non per il risultato. Qualsiasi sia il risultato, egli si rimette a un potere e a una saggezza superiori, affinché esso sia indirizzato a promuovere il grande fine che egli stesso è più desideroso di promuovere.

22. Una volta che abbiamo acquisito, nello scegliere e nel rifiutare, quell’appropriatezza che in origine ci era stata suggerita solo per interesse verso le cose scelte e rifiutate, allora l’ordine, la grazia, la bellezza che individuiamo in tale condotta, e la felicità che ne risulta, ci appaiono necessariamente di valore molto maggiore dell’effettivo ottenimento di tutti i diversi oggetti di scelta, o l’effettiva messa da parte di quelli di rifiuto. Dall’osservazione di questa appropriatezza della scelta deriva la felicità e la gloria, dal non considerarla deriva la disgrazia della natura umana.

23. Ma per un uomo saggio, le cui passioni siano state del tutto soggette ai principi regolatori della sua natura, l’accurata osservazione di questa appropriatezza è facile in ogni circostanza. In una situazione prospera, egli ringrazia Giove per avergli riservato delle circostanze facilmente dominabili, in cui c’era scarsa tentazione di fare il male. Nelle avversità, egli allo stesso modo ringrazia il regista di questo spettacolo della vita umana per avergli opposto un valente atleta, sul quale, malgrado la contesa sicuramente più violenta, la vittoria è più gloriosa ed egualmente certa. Quale vergogna può esserci nel trovarci senza alcuna colpa da parte nostra in una situazione angosciosa, nella quale ci comportiamo con perfetta appropriatezza? Ma in tale situazione, allora, non c’è nemmeno alcun male, ma, al contrario, il più gran bene e il maggior vantaggio. Un uomo coraggioso si esalta davanti a pericoli in cui la fortuna l’ha spinto senza alcuna avventatezza da parte sua. Quei pericoli gli danno infatti la possibilità di esercitare il suo intrepido eroismo, che lo rende consapevole della sua superiore appropriatezza e della meritata approvazione. L’uomo padrone di tutti i movimenti del proprio corpo non teme di misurare la propria forza e la propria attività con chi è più forte di lui. E, allo stesso modo, l’uomo padrone di tutte le sue passioni non teme nessuna delle situazioni che il sovrintendente dell’universo potrebbe ritenere appropriate per lui. La bontà di quell’Essere divino lo ha fornito delle virtù che lo rendono superiore in ogni situazione. Se si tratta di situazioni piacevoli, egli è fornito della temperanza necessaria a trattenersi di fronte al piacere; se si tratta di situazioni dolorose, ha la costanza per sopportarle; se si tratta di pericolo o di morte, ha la magnanimità e la forza per fronteggiarli. Gli eventi della vita umana non possono mai trovarlo impreparato, o incerto su come mantenere quell’appropriatezza di sentimenti e di condotta che, secondo quel che lui stesso percepisce, costituisce sia la sua gloria che la sua felicità.

24. Sembra che gli Stoici abbiano considerato la vita umana come un gioco d’abilità, nel quale, tuttavia, opera anche il caso, o almeno quel che si intende volgarmente per «caso». In tali giochi la posta in palio è normalmente una sciocchezza, e tutto il piacere del gioco consiste nel giocare bene, con correttezza e abilità. Se malgrado tutta la sua abilità, tuttavia, il giocatore, per l’influenza del caso, dovesse perdere, la perdita gli provocherebbe allegria, più che una seria sofferenza. Egli non ha fatto mosse false, non ha fatto nulla di cui doversi vergognare, ha goduto del tutto del piacere del gioco. Se, al contrario, il cattivo giocatore, nonostante tutti i suoi sbagli, dovesse vincere, il successo non gli darà che una scarsa soddisfazione. Egli è mortificato dal ricordo di tutti gli errori commessi. Anche mentre gioca, non riesce a godersi il piacere che il gioco gli procura. Poiché non conosce bene le regole del gioco, la paura, il dubbio e l’esitazione precedono ogni sua mossa, e poi, quando si accorge che era sbagliata, la mortificazione arriva a completare lo spiacevole circolo delle sue sensazioni. La vita umana, con tutti i vantaggi che possono accompagnarla, secondo gli Stoici, dovrebbe essere considerata come una posta da due soldi, cioè come una questione troppo insignificante per meritare un’ansiosa preoccupazione. L’unica nostra preoccupazione non dovrebbe riguardare la posta in gioco, ma il metodo appropriato per giocare. Se riponiamo la nostra felicità nella posta da vincere, la riponiamo in qualcosa che dipende da cause che non sono in nostro potere, e che sono fuori dalla nostra possibilità di controllo. In questo modo ci esponiamo a perenne paura e disagio, e spesso a delusioni tristi e mortificanti. Se invece riponiamo la nostra felicità nel giocare bene, nel giocare lealmente, con intelligenza e abilità, in breve, se riponiamo la nostra felicità nell’appropriatezza della nostra condotta, la riponiamo in qualcosa che, con un’appropriata disciplina, istruzione e attenzione può essere del tutto in nostro potere, e sotto la nostra direzione. La nostra felicità in questo modo è del tutto al sicuro, lontana dalla portata della fortuna. Se il risultato delle nostre azioni è fuori dal nostro potere, non ci dà alcuna preoccupazione, e non proviamo di fronte a esso né timore né ansia, né tristezza né alcuna seria delusione.

25. Gli Stoici sostengono che anche la vita umana, insieme a tutti i vantaggi o svantaggi da cui è accompagnata, può, a seconda delle diverse circostanze, essere oggetto appropriato di scelta o di rifiuto. Se nella nostra situazione concreta ci sono più circostanze in accordo con la natura piuttosto che contrarie a essa, più circostanze da scegliere che da rifiutare, allora in questo caso la vita è il principale oggetto appropriato di scelta, e l’appropriatezza della condotta richiede che noi restiamo in vita. Se, al contrario, nella nostra situazione concreta ci sono più circostanze contrarie alla natura piuttosto che in accordo con essa, senza probabili speranze di miglioramento, più circostanze oggetto di rifiuto che di scelta, la vita stessa, in questo caso, diventa, per un uomo saggio, oggetto di rifiuto, ed egli non solo è libero di uscirne, ma l’appropriatezza della condotta, la regola che gli dei gli hanno dato per dirigere la sua condotta, glielo richiede. Dice Epitteto: «Mi viene ordinato di non abitare a Nicopoli; e non vi abito. Mi viene ordinato di non abitare ad Atene; e non abito ad Atene. Mi viene ordinato di non abitare a Roma; e non abito a Roma. Mi viene ordinato di abitare nella piccola isola rocciosa di Giaros. Vado e abito lì. Ma a Giaros la casa brucia. Se il fuoco è limitato, lo domino e rimango in quella casa. Se è troppo esteso, me ne vado in una casa dalla quale nessun tiranno potrà trascinarmi via. Ho sempre in mente che la porta è aperta, che posso passeggiare dove voglio, per poi ritirarmi in quella casa ospitale che è sempre aperta a tutti, poiché al di là dei miei abiti, al di là del mio corpo, non c’è alcun uomo vivente che abbia qualche potere su di me». Se la vostra situazione è troppo spiacevole, se la vostra casa brucia troppo, dicono gli Stoici, andatevene con ogni mezzo. Ma andatevene senza pentirvi, senza mormorii e lamenti. Andatevene calmi, contenti, gioiosi, rivolgendo grazie agli dei, che nella loro infinita bontà vi hanno aperto il sicuro e quieto porto della morte, sempre pronto a riceverci quando fuggiamo dall’oceano tempestoso della vita umana; che hanno preparato questo sacro, inviolabile e grande asilo sempre aperto, sempre accessibile, del tutto al riparo dalla furia e dall’ingiustizia umana, e abbastanza grande da contenere tutti quelli che desiderano ritirarsi in esso, oltre a tutti quelli che non lo desiderano. Un asilo che libera l’uomo da ogni pretesa di lamentarsi o di fingere che possa esserci alcun male nella vita, tranne quello che deriva dalla sua follia e dalla sua debolezza.

26. Gli Stoici, nei pochi frammenti dei loro scritti filosofici che sono giunti fino a noi, a volte parlano di abbandonare la vita con una gioia, con una leggerezza, che potrebbe indurci a credere, se consideriamo questi passi isolatamente, che essi ritengano che possiamo toglierci la vita tutte le volte che ci salta in mente, gratuitamente e capricciosamente, per il minimo dispiacere e la minima difficoltà. «Quando cenate insieme a una certa persona» dice Epitteto «vi lamentate delle lunghe storie che vi racconta sulle sue guerre in Misia. “Amici miei” lui racconta, “ora che vi ho detto come conquistai tale postazione, vi racconterò come fui designato a tal’altra.” Ma se non sopportate di essere tediato dalle sue lunghe storie, non accettate il suo invito a cena. Se accettate il suo invito, non avete il minimo diritto di lamentarvi delle sue storie. Lo stesso discorso vale per quelli che chiamate i mali della vita umana. Non lamentatevi di ciò di cui potete in ogni momento liberarvi.» Tuttavia, nonostante queste espressioni gioiose e leggere, l’alternativa di abbandonare la vita o di rimanervi, secondo gli Stoici è una questione che merita la più seria e importante deliberazione. Non dovremmo mai abbandonare la vita se non siamo chiaramente chiamati da quel potere superiore che ci ha in origine posto in essa. Ma non dobbiamo considerarci chiamati a compiere tale gesto solo al termine fissato e inevitabile della vita umana. Ogni volta che la provvidenza di quel potere superiore rende la nostra condizione in vita nel complesso oggetto adeguato più di rifiuto che di scelta, la grande regola che ci ha dato per dirigere la nostra condotta ci richiede di abbandonare la vita. Possiamo dire in questo caso che prestiamo ascolto alla voce terribile e benevola di quell’essere divino che ce lo ordina chiaramente.

27. È per questo motivo che, secondo gli Stoici, un uomo saggio potrebbe avere il dovere di togliersi la vita, pur essendo del tutto felice, mentre, al contrario, un uomo debole potrebbe avere il dovere di restare in vita, pur essendo inevitabilmente depresso. Se nella situazione dell’uomo saggio ci fossero più circostanze da rifiutare che da scegliere, l’intera situazione diventerebbe oggetto di rifiuto, e la regola che gli dei gli hanno dato per dirigere la sua condotta gli richiederebbe di uscirne al più presto. Tuttavia egli sarebbe del tutto felice anche per tutto il tempo in cui ritenesse appropriato restarvi. Non ha riposto la sua felicità nel raggiungere gli obiettivi della sua scelta, o nell’evitare quelli del suo rifiuto, ma nello scegliere e nel rifiutare sempre con accurata appropriatezza; non nel successo, ma nella convenienza dei suoi sforzi e dei suoi impegni. Se, nella situazione dell’uomo debole, al contrario, ci fossero più circostanze da scegliere che da rifiutare, l’intera situazione diventerebbe oggetto di scelta, e sarebbe suo dovere restarvi. Ma sarebbe comunque infelice, non sapendo come gestire quelle circostanze favorevoli. Anche se avesse buone carte, egli non saprebbe come giocarle, e non potrebbe provare alcuna soddisfazione né durante il gioco, né alla sua conclusione, qualsiasi fosse il risultato.

28. La dottrina secondo la quale in alcune occasioni è appropriato morire volontariamente, sebbene sia una concezione su cui gli Stoici insistono più di ogni altra antica scuola filosofica, è tuttavia comune a tutte le scuole, anche a quella pacifica e indolente degli Epicurei. Nell’età in cui fiorirono i fondatori di tutte le principali scuole filosofiche antiche, durante la guerra del Peloponneso e per molti anni dopo la sua conclusione, tutte le diverse repubbliche della Grecia erano al loro interno quasi sempre perturbate da violenti scontri di fazione, e all’esterno coinvolte nelle guerre più sanguinose, nelle quali ciascuna cercava non solo superiorità e dominio, ma anche il completo annientamento di tutti i nemici, o almeno la loro riduzione allo stato più vile, la schiavitù domestica, la vendita di tutti, uomini, donne, bambini, al miglior offerente, come branchi di bestiame. Il fatto che la maggior parte di questi stati fossero di piccole dimensioni, inoltre, esponeva la maggior parte di essi all’evento non improbabile di cadere nella stessa disgrazia che avevano inflitto o tentato di infliggere ai loro vicini. In questo disordinato stato di cose, l’innocenza più perfetta, unita al più alto rango e ai maggiori servizi pubblici, non offriva a nessun uomo, nemmeno in casa sua e in mezzo ai propri parenti e concittadini, la sicurezza di non essere condannato alla punizione più crudele e ignominiosa, a causa del prevalere di qualche fazione bellicosa a lui ostile. Se fosse stato fatto prigioniero in guerra, o se la sua città fosse stata conquistata, sarebbe stato esposto a offese e insulti se possibile ancora maggiori. Ma ogni uomo naturalmente, o piuttosto, necessariamente, cerca di familiarizzarsi nell’immaginazione con le disgrazie a cui la sua situazione prevedibilmente può esporlo. È impossibile che un marinaio non pensi spesso a tempeste, naufragi e affondamenti, e a quello che proverebbe e a come si comporterebbe in simili circostanze. Allo stesso modo, sarebbe stato impossibile che un patriota o un eroe greco non avesse cercato di familiarizzarsi, nella sua immaginazione, con tutte le diverse calamità a cui sapeva che la sua situazione lo esponeva frequentemente o, meglio, costantemente. Come un selvaggio americano prepara il suo canto funebre, e riflette su come dovrebbe comportarsi una volta caduto in mano al nemico, e messo a morte tra le torture, tra i loro insulti e la loro derisione, così, allo stesso modo, un patriota o un eroe greco non poteva evitare di riflettere spesso su quello che avrebbe dovuto patire e fare una volta bandito dalla città, o catturato, o fatto schiavo, o torturato, o condotto al patibolo. Ma i filosofi di tutte le diverse scuole rappresentavano molto correttamente la virtù, cioè la condotta saggia, giusta, ferma e moderata, come la strada certa e infallibile verso la felicità anche in questo mondo. Tuttavia questa condotta non sempre proteggeva la persona che la seguiva, anzi, a volte la esponeva a tutte le calamità frequenti in quell’epoca di pubblici disordini. Perciò i filosofi tentavano di mostrare che la felicità era del tutto, o almeno in larga misura, indipendente dalla fortuna. Gli Stoici sostenevano che era del tutto indipendente, gli Accademici e i Peripatetici che lo era in larga misura. La condotta saggia, prudente, e buona era, in primo luogo, la condotta più adatta ad assicurare il successo in ogni genere di impresa, e, in secondo luogo, nel caso di mancato successo, quella in grado di consolare la mente. L’uomo virtuoso, nonostante l’insuccesso, avrebbe goduto della completa approvazione del suo cuore, e avrebbe potuto ancora sentire che, per quanto le cose esteriori potessero essere infauste, egli avrebbe goduto comunque di calma, pace, e tranquillità interiori. Inoltre, avrebbe potuto di solito consolarsi con la certezza di possedere l’amore e la stima di ogni spettatore intelligente e imparziale, che non avrebbe mancato di ammirare la sua condotta, e di dispiacersi per la sua sventura.

29. Allo stesso tempo, quei filosofi cercavano di mostrare che le maggiori sventure a cui la vita umana è esposta potevano essere sopportate più facilmente di quanto si immagina di solito. Cercavano di indicare tutte le comodità di cui un uomo può godere anche quando è ridotto in povertà, condannato all’esilio, esposto all’ingiustizia del clamore popolare, oppresso dalla cecità, dalla sordità, dalla vecchiaia, dalla morte che si avvicina. Indicavano inoltre le considerazioni che potevano aiutare a mantenere la propria fermezza anche sotto le agonie del dolore e persino della tortura, nella malattia, nella sofferenza per la morte dei figli, degli amici, dei parenti. I pochi frammenti giunti fino a noi di tutto quello che gli antichi filosofi hanno scritto su questi argomenti costituiscono forse uno dei lasciti più istruttivi e più interessanti dell’antichità. Il coraggio e la virilità delle loro dottrine contrastano in modo clamoroso con il tono scoraggiato, lamentoso e lacrimevole di alcuni sistemi moderni.

30. Ma mentre quei filosofi antichi cercavano di suggerire tutte le considerazioni da fare per armare, come dice Milton, di tenace pazienza il cuore indurito, come di un triplo strato d’acciaio, nello stesso tempo si impegnavano a convincere i loro seguaci che nella morte non c’è né può esserci alcun male, e che quando la situazione diventa insostenibile il rimedio è a portata di mano, la porta è aperta, e si può uscire quando si vuole senza paura. Se non esiste altro mondo oltre a quello presente, essi sostengono, la morte non può essere un male, e se esiste un altro mondo anche in esso saranno presenti gli dei, e un uomo giusto non deve temere alcun male quando si trova sotto la loro protezione. Quei filosofi, in breve, hanno preparato un canto funebre, se così si può dire, che i patrioti e gli eroi greci potevano usare nelle occasioni appropriate, e credo si possa riconoscere che, tra tutte le diverse scuole, siano stati gli Stoici a preparare il canto di gran lunga più eroico e coraggioso.

31. Tuttavia non sembra che il suicidio sia stato molto comune tra i Greci. Tranne Cleomene al momento non riesco a ricordare nessun altro patriota o eroe greco morto di mano propria. La morte di Aristomene, così come quella di Aiace è molto anteriore all’epoca della storia propriamente detta. Quel che si racconta sulla morte di Temistocle, sebbene risalga a un’epoca storica posteriore, porta tutti i segni di una romantica favola. Di tutti i Greci di cui Plutarco ha scritto le vite, Cleomene sembra l’unico morto suicida. Teramene, Socrate e Focione, che certo non mancavano di coraggio, sopportarono di essere imprigionati, e si sottomisero pazientemente alla morte cui l’ingiustizia dei loro concittadini li aveva condannati. Il valoroso Eumene lasciò che i suoi soldati ribelli lo consegnassero ad Antigono, e fu lasciato morire di fame, senza aver mai tentato alcuna reazione violenta. Il generoso Filopemene sopportò di esser fatto prigioniero dai Messeni, fu gettato in una cella e probabilmente avvelenato. Di molti filosofi si dice che siano morti in questo modo, ma le loro vite sono state scritte in modo talmente fiabesco che si può prestare scarso credito alle storie che su di loro si raccontano. Della morte di Zenone lo stoico esistono tre diversi resoconti. Secondo uno di questi, Zenone, dopo aver vissuto per novantotto anni nel più perfetto stato di salute, cadde un giorno uscendo dalla sua scuola, e sebbene si fosse soltanto slogato un dito, colpì il terreno con la mano dicendo, con le parole della Niobe di Euripide: Vengo, perché mi chiami? e subito andò a casa e si impiccò. Viene da pensare che a quell’età avrebbe potuto avere più pazienza. Secondo un altro resoconto, alla stessa età, e in seguito a un incidente di nessun conto, egli si lasciò morire di fame. Secondo il terzo resoconto, di gran lunga il più probabile, sostenuto anche dall’autorità di un contemporaneo, Perseo, suo schiavo e poi suo discepolo e amico, che deve aver avuto l’opportunità di essere bene informato, egli morì a settantadue anni di morte naturale. Il primo resoconto è dato da Apollonio di Tiro, attivo al tempo di Cesare Augusto, due o trecento anni dopo la morte di Zenone. Non so a chi si debba il secondo resoconto. Apollonio, anche lui uno Stoico, probabilmente riteneva di rendere omaggio al fondatore di una scuola che così spesso parlava di suicidio, raccontando che Zenone era morto di sua mano. Sebbene degli uomini di cultura, dopo la morte, si parli di più che dei più grandi principi o statisti loro contemporanei, mentre sono in vita sono talmente oscuri e insignificanti che le loro avventure sono raramente registrate dagli storici del loro tempo. Gli storici delle epoche posteriori, per soddisfare la curiosità del pubblico, pur non avendo documenti autentici per sostenere o contraddire le loro narrazioni, sembra che spesso li abbiano descritti come dettava loro la fantasia, e quasi sempre aggiungendo particolari meravigliosi. In questo caso il meraviglioso, sebbene non sostenuto da nessuna autorità, sembra abbia prevalso sul probabile, anche se questo era sostenuto dalla migliore autorità. Diogene Laerzio dà chiaramente la preferenza alla storia di Apollonio. Luciano e Lattanzio sembra abbiano dato credito alla storia della morte violenta in età molto avanzata.

32. Sembra che questa moda del suicidio sia stata molto più diffusa tra i valorosi Romani, piuttosto che tra i vivaci, ingegnosi e concilianti Greci. Anche tra i Romani, non sembra che la moda fosse diffusa nell’antico e virtuoso periodo repubblicano. La storia che si racconta comunemente sulla morte di Attilio Regolo, sebbene sia probabilmente una favola, non sarebbe mai stata inventata se si fosse ritenuto disonorevole per quell’eroe sottomettersi pazientemente alle torture che si dice gli siano state inflitte dai Cartaginesi. Credo che nel tardo periodo repubblicano una tale sottomissione sarebbe stata considerata disonorevole: nelle diverse guerre civili che hanno preceduto la fine del sistema repubblicano, molti degli eminenti uomini di tutti i diversi partiti in competizione scelsero di morire per mano propria piuttosto che cadere nelle mani dei nemici. La morte di Catone, celebrata da Cicerone, criticata da Cesare e diventata oggetto di una seria controversia tra quelli che forse sono i due più grandi avvocati mai vissuti, ha impresso un carattere di splendore, poi durato a lungo, su questo modo di morire. L’eloquenza di Cicerone era superiore a quella di Cesare, e l’ammirazione per Catone superò di gran lunga le critiche, e gli amanti della libertà, per molto tempo, guardarono a Catone come al più illustre martire del partito repubblicano. Il cardinal de Retz osserva che il capo di un partito può fare quello che vuole e che finché i suoi amici hanno fiducia in lui, egli non può mai sbagliare, una massima che sua Eminenza ha spesso sperimentato di persona. Sembra che Catone, oltre alle sue altre virtù, sia stato un ottimo compagno di bevute. I suoi nemici lo accusavano di essere un ubriacone, ma, sostiene Seneca, chiunque accusava Catone di questo vizio avrebbe trovato più facile provare che l’ubriachezza è una virtù, piuttosto che attribuire un vizio a Catone.

33. Nel periodo imperiale questo modo di morire sembra sia stato a lungo di moda. Nelle epistole di Plinio troviamo un resoconto di diverse persone che hanno scelto di morire in questa maniera piuttosto per vanità e ostentazione, che per un motivo che anche uno Stoico sobrio e giudizioso avrebbe potuto considerare appropriato o necessario. Sembra che persino le donne, che raramente mancano di seguire le mode, abbiano spesso scelto, senza nessuna necessità, di morire in questo modo, a volte accompagnando nella tomba il proprio marito, come le donne del Bengala. Il diffondersi di questa moda ha certamente causato molte morti che altrimenti non si sarebbero verificate. Ma la mortalità dovuta a questo, che forse è il più alto esercizio della vanità e dell’impertinenza umana, probabilmente non può mai essere molto alta.

34. Il principio del suicidio, che ci spinge a considerare in alcune occasioni tale azione violenta come un oggetto di elogio e di approvazione, sembra un artificio filosofico. La Natura, quando è in piena forza e salute, non sembra mai spingerci al suicidio. Esiste, in realtà, una specie di malinconia (una delle malattie a cui la natura umana è sfortunatamente soggetta) che sembra accompagnata da quella che si potrebbe chiamare un’irresistibile tendenza all’autodistruzione. In situazioni di notevole agiatezza, e a volte anche a disprezzo dei più seri e profondi sentimenti religiosi, questa malattia ha spesso condotto le sue vittime a quella fatale conclusione. Le sventurate persone che muoiono in questo modo miserabile sono oggetti appropriati non di critica, ma di commiserazione. Tentare di punirle, quando sono al di là della portata della punizione umana, è tanto assurdo quanto ingiusto. La punizione non può che ricadere sui loro amici e parenti, che sono sempre completamente innocenti, e per i quali già rappresenta una grave disgrazia perdere un amico in questo modo terribile. La Natura in piena forza e salute ci spinge a evitare ogni genere di angoscia in tutte le occasioni, e spesso ci spinge a evitarla, anche a rischio, o con la certezza, di morire per difenderci da essa. Ma quando non siamo stati capaci di difenderci, e non siamo morti in questo tentativo, nessun principio naturale, nessun riguardo per l’approvazione dell’immaginato spettatore imparziale, per il giudizio dell’uomo interiore, sembra spingerci a sfuggire dall’angoscia distruggendo noi stessi. È solo la coscienza della nostra debolezza, della nostra incapacità di sopportare la nostra disgrazia con virilità e fermezza appropriate, che può spingerci a prendere questa risoluzione. Non ricordo di aver mai letto o sentito di nessun selvaggio d’America che, fatto prigioniero da qualche tribù nemica, si sia suicidato, per evitare di essere messo a morte tra le torture, in mezzo agli insulti e alla derisione dei suoi nemici. Egli ripone la propria gloria nel sopportare quei tormenti con virilità, e nel ritorcere quegli insulti verso i suoi nemici con un disprezzo e una derisione dieci volte più grandi.

35. Il disprezzo della vita e della morte, e, allo stesso tempo, la più totale sottomissione all’ordine della Provvidenza, insieme alla più completa accettazione di qualsiasi evento il corso delle vicende umane possa riservarci, possono essere considerate le due dottrine fondamentali su cui poggia l’intera fabbrica della morale stoica. Epitteto, con il suo carattere indipendente ed esaltato, ma spesso troppo duro, può essere considerato come il grande apostolo della prima di queste due dottrine, il dolce e benevolo Marco Aurelio come l’apostolo della seconda.

36. Epitteto, schiavo affrancato di Epafrodito, che in gioventù era stato soggetto all’insolenza di un padrone brutale, e che in età più avanzata fu bandito da Roma e da Atene per la gelosia di Domiziano, e obbligato a vivere a Nicopoli, e che si aspettava continuamente di essere esiliato a Giaros o anche messo a morte dallo stesso tiranno, riuscì a conservare la sua tranquillità soltanto nutrendo nella sua mente un totale disprezzo per la vita. Egli non si esalta mai così tanto, la sua eloquenza non è mai così animata come quando descrive la futilità e la nullità di tutti i piaceri e di tutti i dolori che la vita riserva.

37. Marco Aurelio, l’imperatore pio, il sovrano assoluto di tutto il mondo civile, che certo non aveva particolari motivi per lamentarsi del posto che il destino gli aveva assegnato, si compiace nel descrivere la propria accettazione del corso ordinario delle cose, e nell’indicare bellezze anche dove l’osservatore volgare non ne vede alcuna. Esiste appropriatezza, e anche una grazia accattivante, egli osserva, nella vecchiaia come nella giovinezza, e la debolezza e la decadenza della prima sono altrettanto conformi alla natura quanto la freschezza e il vigore dell’altra. La morte è una giusta e appropriata conclusione della vecchiaia, come la giovinezza lo è della fanciullezza, e l’età adulta della giovinezza. In un altro passo, osserva che come qualche volta diciamo che un medico ha prescritto a un malato di cavalcare, di fare un bagno freddo, o di camminare a piedi scalzi, allo stesso modo dovremmo dire che la Natura, il gran direttore e medico dell’universo, ha prescritto a tale uomo una malattia, o l’amputazione di una gamba, o la perdita di un figlio. Per le prescrizioni dei normali medici, il paziente beve amare pozioni, affronta operazioni dolorose, e si sottomette serenamente a ogni cosa senza avere la certezza che dopo starà bene. Il paziente può allo stesso modo sperare che le dure prescrizioni della suprema medicina della natura contribuiranno alla sua salute, alla sua prosperità e felicità finale, e può stare del tutto certo che quelle prescrizioni non solo contribuiscono, ma sono indispensabili per la salute, per la prosperità e felicità dell’universo, per il progresso e l’avanzamento del grande piano di Giove. Se così non fosse, l’universo non le avrebbe prodotte, il suo onnisciente architetto e direttore non avrebbe mai permesso che si verificassero. Anche la più piccola delle parti coesistenti dell’universo si adatta esattamente alle altre, e tutte insieme contribuiscono a comporre un sistema immenso e interconnesso, e allo stesso modo ognuno degli eventi successivi che si susseguono l’un l’altro, anche quello che apparentemente è il più insignificante, è parte, e una parte necessaria, della grande catena di cause ed effetti che non hanno avuto inizio e non avranno fine, e che, dal momento che risultano necessariamente dalla disposizione e sistemazione originaria del tutto, sono tutti necessari nella loro essenza, non solo per la sua prosperità, ma per la sua continuazione e conservazione. Chi non accetta serenamente qualsiasi cosa gli capiti, chi si dispiace per quel che gli capita, chi vorrebbe che non fosse capitato a lui, vuole, per quanto è in suo potere, fermare il corso dell’universo, rompere quella grande catena di successioni che garantisce la continuazione e la conservazione di quel sistema, e mettere disordine e scompiglio nell’intera macchina del mondo per ricavare qualche piccola agevolazione personale. Dice Marco Aurelio in un altro luogo: «O mondo, tutto ciò che è conveniente per te lo è anche per me. Nessuno dei tuoi doni stagionali è per me tardivo o prematuro, ogni frutto è per me un frutto di stagione. Tutte le cose derivano da te, tutte le cose sono in te, perché tu sei tutte le cose. Chi dice di Atene “Amata città di Cecrope”, non dovrebbe forse dire dell’universo “amata città di dio?”».

38. Da queste dottrine davvero sublimi gli Stoici, o almeno alcuni di loro, tentarono di dedurre tutti i loro paradossi.

39. Il saggio stoico cerca di prender parte alle vedute del gran sovrintendente dell’universo, e di vedere le cose nella stessa luce in cui le osserva quell’Essere divino. Ma per il grande sovrintendente dell’universo tutti i diversi eventi che rientrano nell’ordine della sua provvidenza, ciò che a noi appare più grande o ciò che appare più piccolo, lo scoppio d’una bolla d’aria, come dice Pope, e lo scoppio del mondo, ad esempio, sono del tutto uguali, sono allo stesso modo parti della grande catena scritta dall’eternità, tutti allo stesso modo effetti della stessa saggezza infallibile, della stessa universale e sconfinata benevolenza. Per il saggio stoico, allo stesso modo, i diversi eventi sono del tutto uguali. Nel corso degli eventi gli è stata assegnata una piccola parte, nella quale egli ha qualche potere e una certa possibilità di direzione. In questa parte egli cerca di agire più appropriatamente possibile, e di comportarsi secondo quegli ordini che, come ha compreso, gli sono stati assegnati. Ma non si preoccupa con ansia e passione del successo o dell’insuccesso dei suoi sforzi più sinceri. La maggiore prosperità e la totale distruzione della piccola parte assegnatagli, del piccolo sistema che gli è stato affidato, gli è completamente indifferente. Se la prosperità o la distruzione dipendessero da lui, sceglierebbe l’una ed eviterebbe l’altra. Ma poiché non dipendono da lui, egli si affida a una saggezza superiore, ed è perfettamente certo che l’evento che si verifica, qualsiasi esso sia, è proprio l’evento che lui stesso avrebbe ardentemente e devotamente desiderato, se avesse conosciuto bene tutte le connessioni e le dipendenze delle cose. Ciò che lui fa sotto l’influenza e la direzione di quei principi è sempre perfetto, e quando tende un dito, per fare un esempio che gli Stoici usano spesso, compie un’azione che sotto ogni riguardo è altrettanto meritevole, altrettanto degna di lode e ammirazione quanto quella di dare la vita per il bene del proprio paese. Come per il gran sovrintendente dell’universo il più grande e il più piccolo esercizio del potere, la formazione o la dissoluzione del mondo, sono ugualmente facili, ugualmente ammirevoli, ugualmente effetti della stessa divina saggezza e benevolenza, così per il saggio stoico quella che noi chiamiamo la grande azione non richiede più sforzo della piccola, è ugualmente facile, deriva esattamente dagli stessi principi, e non è sotto alcun riguardo più meritevole, né degna di un più alto grado di lode o ammirazione.

40. Tutti quelli che sono giunti a questo grado di perfezione sono ugualmente felici, e allo stesso modo tutti quelli che non riescono a raggiungerlo, per quanto vi si possano avvicinare, sono ugualmente infelici. Come l’uomo — essi sostengono — che è appena sotto la superficie dell’acqua non può respirare meglio di chi è a centinaia di metri sotto, così l’uomo che non ha completamente domato tutte le sue passioni private, parziali ed egoistiche, che non ha altro profondo desiderio che quello della felicità universale, che non è completamente emerso dagli abissi della miseria e del disordine in cui la sua ansia per la gratificazione di quelle passioni private, parziali ed egoistiche lo ha sprofondato, non può respirare meglio all’aria aperta della libertà e dell’indipendenza, non può godere di più della sicurezza e della felicità del saggio, che se fosse del tutto lontano da questa situazione. Dal momento che tutte le azioni dell’uomo saggio sono perfette, e perfette allo stesso modo, così tutte quelle dell’uomo che non è giunto a questa suprema saggezza sono colpevoli, e, come alcuni Stoici sostengono, ugualmente colpevoli. Come una verità, essi dicono, non può essere più vera, o una falsità più falsa di un’altra, così un’azione onorevole non può essere più onorevole, e un’azione vergognosa più vergognosa di un’altra. Sbagliare un bersaglio di poco o di centinaia di metri è lo stesso, così l’uomo che ha agito in modo inappropriato e senza una ragione sufficiente in una situazione insignificante è colpevole quanto quello che ha fatto lo stesso in un’azione importante; l’uomo che ha ucciso un gallo in modo inappropriato e senza una ragione sufficiente e quello che ha assassinato suo padre sono sullo stesso piano.

41. Se il primo di questi paradossi dovrebbe apparire sufficientemente violento, il secondo è evidentemente troppo assurdo per meritare una seria considerazione. In realtà è talmente assurdo che non si può evitare di sospettare che sia stato in qualche modo capito male o mal riportato. In ogni modo, non posso credere che uomini come Zenone o Cleante, uomini dalla semplice e dalla sublime eloquenza, possano essere gli autori di questo o della maggior parte degli altri paradossi stoici, che sono generalmente soltanto dei sofismi ridicoli, e rendono talmente poco onore ai loro sistemi che non ne darò ulteriore resoconto. Sono piuttosto incline ad attribuirli a Crisippo, che fu discepolo e seguace di Zenone e Cleante, ma che, da tutto quello che ci è stato tramandato su di lui, sembra sia stato solo un pedante dialettico, senza gusto o eleganza di nessun tipo. Probabilmente fu il primo a ridurre le dottrine stoiche a un sistema scolastico e tecnico di definizioni artificiali, divisioni, sottodivisioni, uno degli espedienti più efficaci, forse, per estinguere ogni grado di buon senso che ci può essere in dottrine morali o metafisiche. Si può supporre facilmente che un tale uomo abbia preso in senso troppo letterale qualche animata espressione dei suoi maestri nel descrivere la felicità dell’uomo dalla perfetta virtù, e l’infelicità di chiunque non possieda quel carattere.

42. Sembra che gli Stoici ammettano in generale che possa esserci un certo grado di abilità anche tra coloro che non possiedono virtù e felicità perfette. Essi dividono i virtuosi in gruppi diversi, a seconda del livello dei loro progressi, e chiamano le imperfette virtù che essi sono capaci di esercitare non rettitudine, ma appropriatezza, convenienza, azione decente e adatta, per la quale si può assegnare una plausibile o probabile ragione, quel che Cicerone esprime con il termine officia, e Seneca, io credo più esattamente, con il termine convenientia. La dottrina riguardante queste virtù imperfette ma affidabili sembra abbia costituito quella che può essere chiamata la moralità pratica degli Stoici. È l’argomento del De Officiis di Cicerone, e si dice lo sia stato anche di un altro libro scritto da Marco Bruto, ora perduto.

43. Il piano e il sistema che la Natura ci ha dato per la nostra condotta sembra del tutto diverso da quello della filosofia stoica.

44. Per natura, gli eventi che colpiscono immediatamente quel piccolo ambito nel quale abbiamo possibilità di gestione e direzione, gli eventi che colpiscono immediatamente noi stessi, i nostri amici, il nostro paese, sono gli eventi che ci interessano di più, e che principalmente suscitano i nostri desideri e le nostre avversioni, le nostre speranze e le nostre paure, le nostre gioie e le nostre sofferenze. Se quelle passioni dovessero essere, come tendono a essere, troppo violente, la Natura ci ha fornito un rimedio e una correzione appropriati: la presenza reale o immaginaria dello spettatore imparziale, l’autorità dell’uomo interiore, sempre a portata di mano per riportare quelle passioni all’appropriato tono e livello di moderazione.

45. Se, nonostante i nostri sforzi più sinceri, tutti gli eventi che possono colpire questo piccolo ambito dovessero rivelarsi sfortunati e disastrosi, la Natura non ci lascia affatto privi di consolazione. Tale consolazione può derivare non solo dalla completa approvazione dall’uomo interiore, ma, se possibile, da un principio ancor più nobile e generoso, da una ferma confidenza e da una reverenziale sottomissione a quella benevola saggezza che dirige tutti gli eventi della vita umana, e che, possiamo star certi, non avrebbe mai consentito che quelle sventure capitassero, se non fossero state indispensabili per il bene del tutto.

46. La Natura non ci prescrive questa sublime contemplazione come il grande interesse e la grande occupazione della nostra vita, ce la indica soltanto come consolazione delle nostre sventure. È invece la filosofia stoica a prescrivercela come il grande interesse e la grande occupazione della nostra vita. Tale filosofia ci insegna a non interessarci ardentemente e ansiosamente di nessun evento che sia estraneo al buon ordine delle nostre menti, all’appropriatezza della nostra scelta e del nostro rifiuto, tranne che di quegli eventi che riguardano un ambito in cui non abbiamo né dobbiamo avere alcuna capacità di gestione e di direzione, l’ambito del gran Sovrintendente dell’universo. Con la perfetta apatia che questa filosofia ci prescrive, con l’ordine che essa ci dà non solo di moderare, ma di sradicare tutte le nostre affezioni private, parziali ed egoistiche, col non permettere a noi stessi di provare per quel che può capitare a noi stessi, ai nostri amici, al nostro paese nemmeno le passioni simpatetiche e ridotte dello spettatore imparziale, essa cerca di renderci del tutto indifferenti e tranquilli riguardo al successo o all’insuccesso di qualsiasi cosa la Natura ci abbia prescritto come occupazione o faccenda appropriata della nostra esistenza.

47. Si può dire che i ragionamenti della filosofia, per quanto possano confondere l’intelletto e lasciarlo perplesso, non possono mai spezzare la necessaria connessione che la Natura ha posto tra cause ed effetti. Le cause che naturalmente suscitano i nostri desideri e le nostre avversioni, le nostre speranze e le nostre paure, le nostre gioie e le nostre sofferenze, senza dubbio, nonostante tutti i ragionamenti dello stoicismo, continuano a produrre su ciascun individuo, a seconda del suo effettivo grado di sensibilità, i loro effetti appropriati e necessari. I giudizi dell’uomo interiore, tuttavia, possono essere molto influenzati da quei ragionamenti, che possono insegnare al grande ospite interiore a dominare tutte le nostre affezioni private, parziali ed egoistiche, fino a raggiungere una tranquillità più o meno perfetta. Il grande proposito di tutti i sistemi morali è quello di dirigere i giudizi di questo ospite interiore. Non c’è dubbio che la filosofia stoica abbia avuto grande influenza sul carattere e sulla condotta dei suoi seguaci, e certamente, nonostante a volte abbia potuto incitarli verso una violenza non necessaria, la sua tendenza generale è stata quella di spingerli ad azioni della più eroica magnanimità e della più grande benevolenza.

48. IV. Oltre a questi sistemi morali antichi, ci sono alcuni sistemi moderni per i quali la virtù consiste nell’appropriatezza, cioè nella convenienza dell’affezione in base alla quale agiamo rispetto alla causa o oggetto che la suscita. Tra questi, c’è il sistema del dottor Clarke, che ripone la virtù nell’agire conformemente alle relazioni delle cose, nel regolare la nostra condotta conformemente all’adeguatezza o incongruenza che può esserci nel riferire certe azioni a certe cose, o a certe relazioni; il sistema di Woollaston, che ripone la virtù nell’agire secondo la verità delle cose, secondo la loro propria natura ed essenza, o nel trattarle per come sono realmente, e non per come non sono; il sistema di Lord Shaftesbury, che ripone la virtù nel mantenere un appropriato equilibrio delle affezioni, e nel non consentire a nessuna passione di oltrepassare la sua sfera appropriata. Tutti questi sistemi sono descrizioni più o meno appropriate della stessa idea fondamentale.

49. Nessuno di questi sistemi offre o pretende di offrire un metro preciso o sicuro con cui poter accertare o giudicare questa adeguatezza o appropriatezza dell’affezione. Quel metro non si può trovare altro che nei sentimenti simpatetici dello spettatore imparziale e ben informato.

50. Del resto, la descrizione della virtù che questi sistemi danno (o almeno intendono o hanno intenzione di dare, visto che alcuni degli autori moderni non sono molto felici nel loro modo di esprimersi), è senza dubbio del tutto giusta, benché limitata. Non c’è virtù senza appropriatezza, e quando c’è appropriatezza è richiesto un certo grado di approvazione. Ma tuttavia questa descrizione è imperfetta. Infatti, sebbene l’appropriatezza sia un ingrediente essenziale di ogni azione virtuosa, non sempre è l’ingrediente unico. Le azioni benefiche possiedono un’altra qualità per cui sembrano meritare non solo approvazione, ma anche ricompensa. Nessuno di questi sistemi dà conto chiaramente o sufficientemente di quel superiore grado di stima che sembra dovuto a tali azioni, o della diversità di sentimento che esse naturalmente suscitano. La descrizione del vizio non è più completa. Infatti, allo stesso modo, sebbene l’inappropriatezza sia un ingrediente necessario di ogni azione viziosa, non sempre è l’unico ingrediente, e spesso troviamo una notevole appropriatezza in azioni del tutto innocue e insignificanti. Azioni deliberate di tendenza pericolosa per coloro con i quali viviamo possiedono, oltre all’inappropriatezza, una loro qualità peculiare, per cui sembrano meritare non solo disapprovazione, ma punizione, e sembrano non solo oggetti di avversione, ma anche di risentimento e di vendetta: nessuno di questi sistemi dà conto chiaramente e sufficientemente del fatto che detestiamo profondamente le azioni di questo tipo.


 
CAPITOLO II I sistemi che fanno coincidere la virtù con la prudenza


1. Il più antico dei sistemi per i quali la virtù coincide con la prudenza, e di cui ci sono giunti considerevoli frammenti, è quello di Epicuro, che si dice abbia preso in prestito tutti i principi fondamentali della sua filosofia da alcuni filosofi che l’hanno preceduto, in particolare da Aristippo, sebbene sia molto probabile, nonostante questa insinuazione dei suoi nemici, che almeno il modo di applicare quei principi sia personale.

2. Secondo Epicuro, il piacere e il dolore fisico sono gli oggetti ultimi del desiderio e dell’avversione naturale. Non ritiene nemmeno necessario provare che sono gli oggetti naturali di queste passioni. A volte, in realtà, sembra che evitiamo il piacere fisico, ma tuttavia non perché di piacere si tratta, ma solo perché per goderne potremmo perdere qualche piacere maggiore, o esporci a qualche dolore che è da evitare più di quanto quel piacere sia da desiderare. Allo stesso modo, sembra che a volte scegliamo il dolore fisico, ma tuttavia non perché di dolore si tratta, ma perché sopportandolo possiamo evitarne uno maggiore, od ottenere qualche piacere di maggiore importanza. Quindi è ampiamente evidente che il dolore e il piacere fisico sono oggetti naturali di desiderio e di avversione. E non è meno evidente, secondo Epicuro, che essi sono gli unici oggetti ultimi di quelle passioni. Qualsiasi altra cosa sia da noi desiderata o evitata, lo è, secondo lui, a causa della sua tendenza a produrre l’una o l’altra di queste sensazioni. La tendenza a procurare piacere rende desiderabile il potere e la ricchezza, come la tendenza contraria a produrre dolore rende la povertà e l’insignificanza oggetti di avversione. L’onore e la reputazione sono stimati perché la stima e l’amore di coloro con i quali viviamo sono di grande importanza nel procurare piacere e nel difenderci dal dolore. L’ignominia e la cattiva fama, al contrario, vanno evitate perché l’odio, il disprezzo e il risentimento di coloro con i quali viviamo distruggono ogni sicurezza e ci espongono necessariamente ai più gravi mali fisici.

3. Tutti i piaceri e i dolori della mente secondo Epicuro derivano in ultima analisi da quelli del corpo. La mente è felice mentre pensa ai trascorsi piaceri fisici, e spera che ce ne saranno altri, ed è triste quando pensa ai dolori che il corpo ha sopportato in passato, e teme per il futuro gli stessi dolori, o altri ancora maggiori.

4. Ma i piaceri e i dolori della mente, per quanto in ultima analisi derivino da quelli fisici, sono molto più grandi dei loro originali. Il corpo sente solo la sensazione dell’istante presente, mentre la mente sente anche quelle passate e quelle future, le une nel ricordo, le altre nell’anticipazione, e di conseguenza soffre e gioisce molto di più. Epicuro osserva che quando proviamo il più grande dolore fisico, troviamo sempre, se vi prestiamo attenzione, che non è il dolore del momento presente ciò che principalmente ci tormenta, ma l’angoscioso ricordo del passato, o l’ancor più orribile terrore del futuro. Il dolore di ogni singolo istante, considerato in se stesso, e separato da tutto ciò che viene prima e dopo, è una sciocchezza, che non vale nemmeno la pena considerare. Tuttavia è l’unica cosa di cui si può dire che il corpo soffra. Allo stesso modo, quando proviamo il più grande piacere, troveremo sempre che la sensazione fisica, la sensazione dell’istante presente, non gioca che una minima parte nella nostra felicità, che il nostro gioire deriva o dal sereno ricordo del passato, o dall’ancor più gioiosa anticipazione del futuro, e che è la mente a contribuire in modo determinante al nostro piacere.

5. Perciò, dal momento che la nostra felicità e la nostra infelicità dipendono principalmente dalla mente, se questa parte della nostra natura è ben disposta, se i nostri pensieri e le nostre opinioni sono come dovrebbero essere, non è molto importante il modo in cui è colpito il corpo. Anche quando siamo sottoposti a un grande dolore fisico, possiamo ancora godere di una considerevole felicità, se la nostra ragione e il nostro giudizio mantengono la loro superiorità. Possiamo soffermarci a ricordare il passato, e a sperare in un piacere futuro; possiamo addolcire il rigore dei nostri dolori, ricordando che cos’è ciò che dobbiamo necessariamente sopportare nella situazione in cui ci troviamo: nient’altro che la sensazione fisica, il dolore dell’istante presente, che non può mai essere troppo grande; ricordando che qualsiasi tormento noi patiamo per paura che quel dolore continui non è altro che l’effetto di un’opinione della mente, che può essere corretta da sentimenti più adeguati, dalla considerazione che, se i nostri dolori diventano violenti, probabilmente dureranno poco, e se durano a lungo saranno probabilmente lievi, e intervallati da pause in cui staremo bene, e che, a ogni modo, la morte è sempre a portata di mano per liberarci e porre fine a tutte le nostre sensazioni piacevoli o dolorose, e che per questo non può essere considerata come un male. Quando ci siamo noi, dice Epicuro, la morte non c’è, e quando c’è la morte non ci siamo noi: per questo la morte non è nulla per noi.

6. Se l’effettiva sensazione di reale dolore fisico è così poco da temere, tanto meno quella di piacere è da desiderare. Per sua natura, la sensazione di piacere è meno forte di quella di dolore. Se perciò quest’ultima può togliere così poco alla felicità di una mente ben disposta, l’altra non può aggiungerle quasi niente. Quando il corpo è libero dal dolore e la mente dalla paura e dall’ansia, anche la più viva sensazione di piacere fisico diventa poco importante, e per quanto possa mutare la felicità della nostra situazione, non si può propriamente dire che l’accresca.

7. Perciò, nel benessere del corpo e nella sicurezza e tranquillità della mente consiste, secondo Epicuro, lo stato più perfetto della natura umana, la più completa felicità di cui l’uomo possa godere. Realizzare questo grande desiderio naturale è l’unico obiettivo di tutte le virtù, che secondo Epicuro non sono desiderabili per se stesse, ma per la loro tendenza a creare e mantenere questa situazione.

8. La prudenza, ad esempio, per quanto sia, secondo questa filosofia, la fonte e il principio di tutte le virtù, non è desiderabile in se stessa. Quello stato mentale attento, solerte e circospetto, sempre vigile e sollecito verso le più remote conseguenze di ciascuna azione, non può essere una cosa piacevole e gradevole per se stessa, ma solo per la sua tendenza a procurare i più grandi beni e a tener lontani i più grandi mali.

9. Anche la temperanza, che consiste nell’astenersi dal piacere, nel reprimere e nel moderare la nostra naturale passione per il divertimento, non è mai desiderabile in se stessa. Tutto il valore di questa virtù deriva dalla sua utilità, dal fatto che consente di posporre il benessere presente in nome di un maggior benessere futuro, o di evitare un maggior dolore che può derivare da esso. La temperanza, in breve, altro non è che prudenza nei piaceri.

10. La fermezza, che ci fa sostenere la fatica del lavoro, sopportare il dolore fisico, esporre al pericolo o alla morte, è ancor meno desiderabile in se stessa. Questi mali vengono scelti solo per evitarne altri maggiori. Ci sottomettiamo al lavoro per evitare la vergogna e il dolore ancora maggiori che derivano dalla povertà, e ci esponiamo al pericolo e alla morte per difendere la nostra libertà e le nostre proprietà, che sono mezzi e strumenti di piacere e felicità, oppure per difendere la nostra patria, dalla cui salvezza dipende necessariamente la nostra. La fermezza ci rende capaci di compiere tutto questo serenamente, come fosse la miglior cosa da fare nella nostra situazione presente, e in realtà non è altro che prudenza, buona capacità di giudizio, e presenza mentale nell’apprezzare appropriatamente il dolore fisico, la fatica e il pericolo, scegliendo sempre il male minore per evitare il maggiore.

11. Il caso è lo stesso per quel che riguarda la giustizia. Astenersi da ciò che appartiene agli altri non è desiderabile in sé, e certamente sarebbe preferibile se ciò che gli altri possiedono fosse nostro. Tuttavia, dobbiamo astenerci da quello che appartiene agli altri, perché comportandoci diversamente provocheremmo il risentimento e l’indignazione dell’umanità. La sicurezza e la tranquillità della nostra mente ne risulterebbero del tutto distrutte. Saremmo presi dalla paura e dalla costernazione al pensiero della punizione che, nella nostra immaginazione, gli uomini saranno sempre pronti a infliggerci, e dalla quale nessun potere, nessuna arte, nessuna mediazione saranno mai sufficienti a proteggerci. L’altra specie di giustizia che consiste nel compiere appropriati buoni uffici per diverse persone a cui siamo legati, come i vicini, i parenti, gli amici, i benefattori, i superiori o i nostri pari, ci viene raccomandata dalle stesse ragioni. Agire appropriatamente in tutte queste diverse relazioni ci procura la stima e l’amore di coloro con cui viviamo, così come agire in modo inappropriato suscita il loro disprezzo e il loro odio. Se agiamo nel primo modo ci assicuriamo benessere e tranquillità, i grandi e ultimi oggetti di tutti i nostri desideri; se agiamo nel secondo modo li mettiamo in pericolo. Tutta la virtù della giustizia, perciò, la più importante di tutte le virtù, non consiste in altro che in una condotta discreta e prudente verso chi ci è vicino.

12. Questa è la dottrina di Epicuro sulla natura della virtù. Può sembrare straordinario che questo filosofo, descritto come un uomo dai modi gentili, non abbia mai osservato che, qualsiasi sia la tendenza delle nostre virtù o degli opposti vizi riguardo al nostro benessere e alla nostra sicurezza fisica, i sentimenti che essi naturalmente suscitano negli altri sono gli oggetti di un desiderio o di un’avversione ancora più appassionata di quanto non lo siano tutte le altre loro conseguenze; che per una mente ben disposta è più importante essere amabile, rispettabile, oggetto appropriato di stima, che tutto il benessere e la sicurezza che l’amore, il rispetto e la stima possono procurarci; che, al contrario, essere odioso, disprezzabile, oggetto appropriato di indignazione è più terribile di tutto quello che possiamo esser costretti a sopportare nel nostro corpo a causa dell’odio, del disprezzo e dell’indignazione, e che di conseguenza il nostro desiderio per un carattere e la nostra avversione per l’altro non può derivare dalla considerazione degli effetti che ciascuno dei due diversi caratteri può produrre sul nostro corpo.

13. Questo sistema è senza dubbio inconciliabile con quello che ho cercato di delineare. Tuttavia non è difficile scorgere da quale parte, se così posso dire, da quale punto di vista o aspetto della natura questo sistema derivi la sua probabilità. In base alla saggia disposizione dell’Autore della natura, la virtù, in tutte le situazioni ordinarie, anche riguardo a questa vita, è reale saggezza, e il mezzo più sicuro e più diretto per ottenere sicurezza e benessere. Il successo o l’insuccesso delle nostre imprese deve dipendere in gran parte dall’opinione buona o cattiva che gli altri hanno comunemente di noi, e dalla generale disposizione di coloro con i quali viviamo ad assisterci o a opporsi a noi. Ma il modo migliore, più sicuro, più facile e più diretto per ottenere dagli altri giudizi favorevoli ed evitare quelli sfavorevoli è senza dubbio quello di renderci oggetti appropriati dei primi giudizi e non dei secondi. Dice Socrate: «Desideri ottenere la reputazione di buon musicista? L’unico modo sicuro per riuscirci è diventarlo. Desideri esser ritenuto capace di servire la tua patria come generale o come statista? Anche in questo caso il modo migliore è acquisire l’arte e l’esperienza della guerra e del governo, e diventare davvero adatto a essere un generale o uno statista. E allo stesso modo, se vuoi essere riconosciuto sobrio, moderato, giusto ed equo, il miglior modo per acquisire questa reputazione è diventare sobrio, moderato, giusto ed equo. Se davvero riuscirai a renderti amabile, rispettabile, e oggetto appropriato di stima, otterrai in breve tempo l’amore, il rispetto, e la stima di coloro con i quali vivi». Perciò, dal momento che la pratica della virtù è generalmente così vantaggiosa, e la pratica del vizio è così lontana dal nostro interesse, la considerazione di queste opposte tendenze senza dubbio conferisce ulteriore bellezza e appropriatezza all’una, e nuova deformità e inappropriatezza all’altra. La temperanza, la magnanimità, la giustizia e la beneficenza vengono così approvate non solo per le loro proprie caratteristiche, ma anche perché in più portano il segno di una grande saggezza e di una reale prudenza. E allo stesso modo, i vizi contrari dell’intemperanza, della pusillanimità, dell’ingiustizia, o quelli della malvagità e del sordido egoismo, vengono disapprovati non solo per le caratteristiche loro proprie, ma perché in più portano il segno della follia e della debolezza. Sembra che Epicuro, nel descrivere le diverse virtù, si sia occupato solo di quest’unica specie di appropriatezza: quella che di solito è presente in coloro che cercano di convincere gli altri a osservare una condotta regolare. Quando gli uomini, con la loro pratica, e forse anche con le loro massime, mostrano chiaramente che la bellezza naturale della virtù non ha un grande effetto su di loro, come è possibile convincerli a seguirla, se non descrivendo la follia della loro condotta, e le sofferenze che per questo dovranno probabilmente alla fine patire?

14. Riportando tutte le diverse virtù a quest’unica specie di appropriatezza, Epicuro si lascia andare a una tendenza che è naturale in tutti gli uomini, ma che i filosofi sono particolarmente inclini a coltivare con particolare entusiasmo, considerandola un mezzo per mostrare il loro ingegno: la tendenza a dar conto di tutte le apparenze con il minimo possibile di principi. Epicuro, senza dubbio, si è lasciato andare ancora di più a questa tendenza, quando ha riportato tutti gli oggetti primari di desiderio e avversione naturale ai piaceri e ai dolori fisici. Il grande padre della filosofia atomistica, che con così grande piacere aveva dedotto tutti i poteri e le qualità dei corpi dalle qualità più ovvie e familiari, come la figura, il moto, e l’aggregazione delle particelle di materia, senza dubbio provò una soddisfazione simile nel dedurre, allo stesso modo, tutti i sentimenti e le passioni della mente da quelli più ovvi e familiari.

15. Il sistema di Epicuro concorda con quelli di Platone, Aristotele e Zenone nel far coincidere la virtù con l’agire nel modo più adatto a ottenere gli oggetti primari del desiderio naturale. Si differenzia da tutti loro in due altri aspetti: primo, nel dar conto di questi oggetti primari di desiderio naturale; secondo, nel dar conto dell’eccellenza della virtù, cioè della ragione per cui tale qualità debba essere stimata.

16. Secondo Epicuro, gli oggetti primari del desiderio naturale consistono nel piacere e nel dolore fisico, e in nient’altro, mentre secondo gli altri tre filosofi esistono molti altri oggetti desiderabili per loro stessi, come la conoscenza, la felicità dei nostri parenti, dei nostri amici, della nostra patria.

17. Neanche la virtù, secondo Epicuro, merita di essere perseguita per se stessa, e non è uno degli oggetti ultimi dell’appetito naturale, ma è da preferire solo a causa della sua tendenza a prevenire il dolore fisico e a procurare benessere e piacere. Secondo l’opinione degli altri tre, al contrario, la virtù è desiderabile non solo come mezzo per procurare gli altri oggetti primari dei nostri desideri, ma come qualcosa che in se stessa vale più di tutti loro. Essi ritengono che, poiché l’uomo è nato per l’azione, la sua felicità non deve consistere puramente nella piacevolezza delle sue sensazioni passive, ma anche nell’appropriatezza delle sue attività.


 
CAPITOLO III I sistemi che fanno coincidere la virtù con la benevolenza


1. Il sistema che fa coincidere la virtù con la benevolenza è molto antico, anche se non quanto quelli di cui ho già parlato. Sembra sia stata la dottrina di quei filosofi che durante e dopo il regno di Augusto si diedero il nome di Eclettici, e che dichiaravano di seguire principalmente le opinioni di Platone e Pitagora, e che per questo sono comunemente noti come tardo platonici.

2. Secondo questi autori, nella natura divina il solo principio di azione è la benevolenza o l’amore, che dirige l’esplicarsi di tutti gli altri attributi. La saggezza della divinità viene impiegata per trovare i mezzi adatti a produrre i fini suggeriti dalla sua bontà, come il suo infinito potere viene impiegato per metterli in atto. Tuttavia, la benevolenza è l’attributo supremo e principale cui gli altri sono subordinati, e da cui deriva in ultima analisi tutta l’eccellenza, o tutta la moralità, se mi si consente tale espressione, delle operazioni divine. Tutta la perfezione e la virtù della mente umana consiste in una certa rassomiglianza o partecipazione alle perfezioni divine, e, di conseguenza, nell’esser pervasi dallo stesso principio della benevolenza, e dell’amore che influenza tutte le azioni divine. Le azioni degli uomini che possiedono questa caratteristica sono le uniche degne di lode, le uniche che possono reclamare qualche merito davanti a Dio. Solo per le azioni di carità e di amore possiamo imitare, come a noi si addice, la condotta divina, possiamo esprimere la nostra umile e devota ammirazione per le sue infinite perfezioni, possiamo, coltivando nella nostra mente lo stesso principio divino, innalzare le nostre affezioni verso una maggiore rassomiglianza con i suoi sacri attributi, e diventare così oggetti più appropriati del Suo amore e della Sua stima, fino ad arrivare a quell’immediata confidenza e comunicazione con Dio che è il grande obiettivo di questa filosofia.

3. Questo sistema ha goduto di grande stima da parte degli antichi padri della chiesa cristiana, e dopo la Riforma fu adottato da molti teologi di grande pietà e cultura, e di grande amorevolezza, in particolare da Ralph Cudworth ed Henry More, e da John Smith di Cambridge. Ma di tutti i seguaci antichi e moderni di questo sistema, il più acuto, il più distinto, il più filosofico e, ciò che è più importante, il più sobrio e più giudizioso, è senz’altro il defunto Hutcheson.

4. L’idea che la virtù consista nella benevolenza trova sostegno in molte manifestazioni della natura umana. È già stato osservato che l’appropriata benevolenza è l’affezione più dolce e piacevole, che ci viene raccomandata da una doppia simpatia, che, avendo una tendenza necessariamente benefica, è oggetto appropriato di gratitudine e ricompensa, e che per tutti questi motivi sembra possedere un merito superiore a ogni altra affezione. È stato osservato anche che persino le debolezze della benevolenza non ci sono molto spiacevoli, laddove le debolezze delle altre passioni ci appaiono sempre disgustose. Chi non aborrisce l’eccessiva malizia, l’eccessivo egoismo, o l’eccessivo risentimento? Ma l’eccessiva indulgenza di un amico troppo parziale non è altrettanto offensiva. Solo le passioni benevole possono manifestarsi senza alcun riguardo o attenzione all’appropriatezza, conservando qualcosa di attraente. C’è qualcosa di piacevole anche nell’istintivo benvolere che compie buoni uffici senza fermarsi a riflettere se con questa condotta sia oggetto appropriato di biasimo o di approvazione. Con le altre passioni non è la stessa cosa. Nel momento in cui cessano di essere accompagnate dal senso dell’appropriatezza, smettono di essere gradevoli.

5. Come la benevolenza attribuisce alle azioni che derivano da essa una bellezza superiore a quella propria di tutte le altre azioni, così la sua mancanza, e ancor più l’inclinazione contraria, conferiscono una particolare deformità a qualsiasi cosa mostri una tale caratteristica. Le azioni pericolose sono spesso punibili solo per la ragione che mostrano di non tenere sufficientemente in conto la felicità del nostro prossimo.

6. Oltre a ciò, Hutcheson osserva che quando in un’azione che si suppone derivata da affezioni benevole viene scoperto qualche altro movente, il nostro senso del merito di quell’azione diminuisce nella misura in cui si crede che quell’azione sia stata influenzata da quel movente. Se si dovesse scoprire che un’azione che si suppone derivata dalla gratitudine in realtà deriva dall’attesa di un altro favore, o che una che si suppone derivata dal senso civico in realtà deriva dalla speranza di una ricompensa pecuniaria, tutta la nozione del merito o della lode dovuta a queste azioni ne risulterebbe completamente distrutta. Perciò, dal momento che la mescolanza di moventi egoistici, come in una lega vile, diminuisce o fa scomparire del tutto il merito che altrimenti sarebbe attribuito a ogni azione, Hutcheson ritiene evidente che la virtù debba consistere soltanto nella pura e disinteressata benevolenza.

7. Al contrario, quando si scopre che azioni che si suppongono derivate da un movente egoistico derivano invece da un movente benevolo, questo aumenta il nostro senso del loro merito. Se ritenessimo che una persona cerca di aumentare la sua fortuna solo per compiere buoni uffici, la ameremmo e stimeremmo di più. E questa osservazione sembra confermare ancor più la conclusione che solo la benevolenza può stampare su un’azione il marchio della virtù.

8. Infine, Hutcheson ritiene che una prova evidente della correttezza di questo resoconto sulla virtù sia che, in tutte le dispute dei casisti sulla rettitudine della condotta, il bene pubblico è il principio a cui essi costantemente fanno riferimento, riconoscendo quindi universalmente che qualsiasi cosa tenda a promuovere la felicità umana è giusta, lodevole e virtuosa, e il con trario ingiusto, biasimevole e vizioso. Nei recenti dibattiti sull’obbedienza passiva e sul diritto di resistenza, l’unico punto di controversia tra uomini sensati è se, quando le prerogative del popolo vengono violate, una totale sottomissione non sia probabilmente accompagnata da mali più gravi di quelli che accompagnano le brevi insurrezioni. Ma nemmeno una volta è stato messo in questione il principio secondo il quale ciò che tende alla felicità umana è moralmente buono.

9. Quindi, dal momento che la benevolenza è l’unico movente capace di conferire a un’azione il carattere della virtù, maggiore è la benevolenza mostrata da un’azione, maggiore la lode che l’azione merita.

10. Le azioni che tendono alla felicità di una grande comunità, poiché dimostrano una più vasta benevolenza di quelle che tendono soltanto alla felicità di un sistema di dimensioni più ridotte, sono proporzionalmente più virtuose. L’affetto più virtuoso, perciò, è quello che ha come oggetto la felicità di tutti gli esseri razionali. Al contrario, il meno virtuoso di tutti quelli a cui si può in qualche misura attribuire il carattere della virtù è quello che non tende ad altro che alla felicità di un individuo, quale un figlio, un fratello, o un amico.

11. La virtù perfetta consiste nell’orientare tutte le nostre azioni in modo tale da promuovere il maggior bene possibile; nel sottomettere tutte le affezioni inferiori al desiderio della felicità generale dell’umanità; nel considerare se stesso nient’altro che uno dei tanti, la cui prosperità va perseguita solo fino al punto in cui si può accordare o può collaborare con quella generale.

12. L’amor di sé è un principio che non può mai essere virtuoso in nessun grado o direzione, e che quando ostacola il bene generale diventa vizioso. Quando non produce altro effetto che quello di far sì che l’individuo si prenda cura della propria felicità, è semplicemente innocente, e sebbene non meriti lode alcuna, non rischia nemmeno di esser biasimato. Perciò le azioni più virtuose sono quelle compiute nonostante l’opposizione di qualche forte motivo di interesse egoistico: esse dimostrano la forza e il vigore del principio di benevolenza.

13. Hutcheson è tanto lungi dal concedere che l’amor di sé possa in qualche caso essere un movente per azioni virtuose, che secondo lui persino il piacere per l’autoapprovazione, il conforto che riceviamo dall’elogio della nostra coscienza, diminuisce il merito di un’azione benevola. Egli ritiene che questo sia un movente egoistico, che, giocando un ruolo nelle azioni, dimostra la debolezza di quella benevolenza pura e disinteressata che è l’unica capace di stampare sulla condotta il marchio della virtù. Tuttavia, nei comuni giudizi degli uomini, questo riguardo per l’approvazione che diamo a noi stessi è tanto lungi dall’esser considerato come un elemento che sminuisce la virtù di un’azione, che piuttosto viene visto come l’unico movente che merita l’appellativo di virtuoso.

14. Questo è il resoconto sulla natura della virtù dato in questo amabile sistema, un sistema che ha una particolare tendenza a nutrire e sostenere nell’animo umano la più nobile e piacevole di tutte le affezioni, e non solo a limitare l’ingiustizia dell’amor di sé, ma in qualche misura anche a scoraggiare del tutto quel principio, rappresentandolo come qualcosa che non può mai nobilitare chi ne viene influenzato.

15. Come alcuni dei sistemi che ho esposto precedentemente non spiegano a sufficienza da dove derivi la peculiare superiorità della suprema virtù della beneficenza, allo stesso modo questo sistema mostra il difetto contrario, quello di non spiegare a sufficienza da dove derivi la nostra approvazione delle virtù d’ordine inferiore, come la prudenza, la vigilanza, la circospezione, la temperanza, la costanza, la fermezza. Le sole qualità di cui questo sistema si occupa sono l’intento e lo scopo delle nostre affezioni, gli effetti benefici o dannosi che esse tendono a produrre, mentre trascura del tutto la loro appropriatezza o inappropriatezza, il loro essere convenienti o meno alla causa che le suscita.

16. In molte occasioni, anche la considerazione per la nostra personale felicità e per il nostro personale interesse appare un principio d’azione del tutto lodevole. Si suppone che l’abitudine all’economia, all’industriosità, alla discrezione, all’attenzione, all’applicazione e alla riflessione sia generalmente coltivata per motivi di interesse egoistico, ma nello stesso tempo queste sono qualità degne di lode, che meritano la stima e l’approvazione di ognuno. La mescolanza di un movente egoistico, è vero, spesso sembra macchiare la bellezza delle azioni che dovrebbero derivare da un’affezione benevola. La causa di ciò, tuttavia, non è che l’amor di sé non può mai essere il movente di un’azione virtuosa, ma che il principio benevolo in questo caso particolare sembra mancare del suo dovuto grado di forza, ed essere del tutto inadatto al suo oggetto. Perciò il carattere dell’agente sembra evidentemente imperfetto, e biasimevole piuttosto che lodevole. Invece, la mescolanza di un movente benevolo in un’azione che abbia già nell’amor di sé una spinta sufficiente non è altrettanto in grado di diminuire il nostro senso dell’appropriatezza dell’azione, o della virtù di chi quell’azione compie. Non siamo preparati a sospettare che una persona manchi di egoismo: questo non è affatto il lato debole della natura umana, o il difetto di cui tendiamo a essere sospettosi. Tuttavia, se potessimo davvero credere di un uomo che, se non fosse per riguardo alla sua famiglia e ai suoi amici, egli non si prenderebbe appropriata cura della propria salute, della propria vita, dei propri averi, cosa verso la quale basterebbe a spingerlo l’autoconservazione, riterremmo senza dubbio questa una sua mancanza, per quanto una di quelle amabili mancanze, che rendono una persona più oggetto di pietà che di odio o disprezzo. Tuttavia, farebbe diminuire la dignità e la rispettabilità del suo carattere. La mancanza di cura e di economia sono universalmente disapprovate, ma non perché derivino da una mancanza di benevolenza, bensì perché derivano da una mancanza dell’attenzione appropriata per gli oggetti di interesse egoistico.

17. Sebbene il criterio con cui i casisti spesso stabiliscono cosa sia giusto o ingiusto nella condotta umana sia la sua tendenza al benessere o al disordine della società, da ciò non segue che un riguardo per il benessere della società debba essere l’unico movente virtuoso dell’azione, ma solo quello che, in ogni disputa, dovrebbe uscire vincitore su tutti gli altri moventi.

18. Forse la benevolenza può essere l’unico principio d’azione per la divinità, e ci sono molti argomenti non improbabili che tendono a persuaderci che le cose stanno così. Non è così facile riuscire a concepire quale sia, se non la benevolenza, un altro movente in base a cui un essere indipendente e perfetto, che non ha bisogno di nulla che provenga dal di fuori, possa agire. Ma in qualsiasi modo stiano le cose riguardo a Dio, una creatura così imperfetta come l’uomo, che ha bisogno di così tante cose a sostegno della propria esistenza, deve spesso agire in base a molti altri moventi. La condizione della natura umana sarebbe troppo dura se le affezioni che, per la natura stessa del nostro essere, spesso influenzano la nostra condotta non potessero apparire mai virtuose, o non meritassero mai la stima e la lode di nessuno.

19. I tre sistemi che identificano la virtù con l’appropriatezza, quello che la identifica con la prudenza, e quello che la identifica con la benevolenza sono i principali resoconti sulla natura della virtù. Tutte le altre descrizioni della virtù, per quanto possano apparire diverse, sono facilmente riconducibili all’uno o all’altro.

20. Il sistema che identifica la virtù con l’obbedienza al volere divino può esser classificato tra quelli che identificano la virtù con la prudenza, o tra quelli che la identificano con l’appropriatezza. Quando viene chiesto perché dovremmo obbedire al volere divino, questa domanda, che sarebbe empia e assurda se mettesse in dubbio il nostro dovere di obbedienza, ammette soltanto due risposte. Si può rispondere che dobbiamo obbedire al volere di Dio perché Egli è un essere dal potere infinito, che ci ricompenserà per l’eternità in caso di obbedienza, e punirà per l’eternità in caso contrario. Oppure, si può rispondere che, indipendentemente da ogni riguardo per la nostra felicità, o da ricompense e punizioni di qualsiasi sorta, esiste una coerenza e un’adeguatezza nell’obbedienza di una creatura al suo creatore, nella sottomissione di un essere limitato e imperfetto a uno dall’infinita e illimitata perfezione. È impossibile concepire che si possano dare altre risposte oltre queste due. Se la risposta appropriata è la prima, allora la virtù consiste nella prudenza, o nell’appropriato perseguimento del nostro interesse e nella nostra felicità finale, poiché è per questo che siamo obbligati a obbedire al volere di Dio. Se la risposta appropriata è la seconda, la virtù deve consistere nell’appropriatezza, dal momento che il fondamento del nostro obbligo di obbedienza consiste nella convenienza o coerenza dei sentimenti di umiltà e sottomissione alla superiorità dell’oggetto che li suscita.

21. Anche il sistema che identifica la virtù con l’utilit coincide con quello che la identifica con l’appropriatezza. Secondo questo sistema, tutte quelle qualità della mente che sono gradevoli o vantaggiose per la persona stessa o per altri vengono approvate come virtuose, mentre le qualità contrarie vengono disapprovate come viziose. Ma la gradevolezza o l’utilità di ciascuna affezione dipende dal grado preciso che essa deve possedere. Ogni affezione è utile quando è circoscritta entro un certo grado di moderazione, ed è svantaggiosa quando oltrepassa i confini appropriati. Secondo questo sistema, perciò, la virtù non consiste in nessuna affezione particolare, ma nel grado appropriato di tutte le affezioni. L’unica differenza tra questo sistema e quello che io ho tentato di delineare è che secondo questo sistema la misura naturale e originaria di questo grado appropriato è l’utilità, e non la simpatia, cioè la corrispondente affezione dello spettatore.


 
CAPITOLO IV I sistemi licenziosi


1. Tutti i sistemi che ho esposto fin qui presuppongono che esista una distinzione reale ed essenziale tra il vizio e la virtù, quali che siano tali qualità; che esista una differenza reale ed essenziale tra l’appropriatezza e l’inappropriatezza di ciascuna affezione, tra la benevolenza e ogni altro principio di azione, tra la reale prudenza e miope follia o sconsiderata temerarietà. Tutti questi sistemi, inoltre, contribuiscono a incoraggiare le disposizioni lodevoli, e a scoraggiare quelle biasimevoli.

2. Forse può essere vero che alcuni di questi sistemi tendono in qualche misura a spezzare l’equilibrio delle affezioni e a disporre la mente verso alcuni particolari principi d’azione, più di quanto questi non lo meritino. I sistemi antichi, che identificano la virtù con l’appropriatezza, sembrano raccomandare principalmente le virtù grandi, gravi, rispettabili, le virtù della padronanza di sé e del dominio di sé: la forza d’animo, la magnanimità, l’indipendenza dalla fortuna, il disprezzo degli accidenti esteriori, come il dolore, la povertà, l’esilio, la morte. È nell’esercizio di queste grandi virtù che consiste la nobile appropriatezza della condotta. Al confronto, le virtù delicate, amabili, gentili, tutte le virtù dell’indulgente umanità, sono scarsamente sottolineate, e, al contrario, sembrano spesso considerate, soprattutto dagli Stoici, come mere debolezze, che al saggio non conviene lasciar albergare nel proprio cuore.

3. Al contrario, il sistema che identifica la virtù con la benevolenza, mentre favorisce e incoraggia fortemente tutte le virtù dolci, sembra ignorare del tutto le qualità della mente più gravi e rispettabili. Non concede loro nemmeno l’appellativo di virtù: le definisce abilità morali, e le tratta come qualità che non meritano lo stesso tipo di stima e di approvazione dovuto a ciò che viene appropriatamente denominato virtù. Tutti i principi di azione che tendono soltanto al nostro interesse egoistico vengono trattati in modo se possibile peggiore. Secondo questo sistema, lungi dal possedere un merito proprio, tali principi fanno diminuire il merito della benevolenza, quando cooperano con essa; viene inoltre asserito che non si può nemmeno immaginare che la prudenza, quando viene impiegata solamente per promuovere l’interesse privato, sia una virtù.

4. Ancora, il sistema che fa coincidere la virtù unicamente con la prudenza, mentre incoraggia fortemente le abitudini caute, vigili, sobrie, giudiziose e moderate, sembra degradare allo stesso modo le virtù amabili e quelle rispettabili, privando le prime della loro bellezza, e le seconde della loro grandezza.

5. Ma, nonostante questi difetti, la tendenza generale di questi tre sistemi è quella di incoraggiare le migliori e più lodevoli abitudini della mente umana, e sarebbe un bene per la società, se gli uomini in generale, o almeno quelli che pretendono di vivere secondo una norma dettata dalla filosofia, regolassero la loro condotta secondo i precetti di uno qualsiasi di questi sistemi: infatti da ciascuno dei tre si può imparare qualcosa di apprezzabile e peculiare. Se fosse possibile ispirare nella mente forza e magnanimità per mezzo di precetti ed esortazioni, a tale scopo sarebbero sufficienti gli antichi sistemi che identificano la virtù con l’appropriatezza. O se fosse possibile, con gli stessi mezzi, addolcire la mente con sentimenti dettati dall’umanità, risvegliare le affezioni di gentilezza e amore verso coloro con i quali viviamo, alcune delle immagini che ci presenta il sistema fondato sulla benevolenza sembrerebbero in grado di produrre tale effetto. Possiamo imparare dal sistema di Epicuro, anche se senza dubbio è il più imperfetto dei tre, quanto la pratica delle virtù amabili e rispettabili sia coerente con i nostri interessi, con il nostro benessere, con la nostra sicurezza e con la nostra tranquillità anche in questa vita. Epicuro identifica la felicità con l’ottenimento di benessere e sicurezza, e si dedica in modo particolare a mostrare che la virtù non è solo il mezzo migliore e più sicuro, ma anche l’unico, per acquistare quei beni inestimabili. Gli effetti positivi della virtù sulla nostra tranquillità e pace interiore sono stati celebrati soprattutto da altri filosofi; Epicuro, senza tralasciare questo argomento, ha insistito soprattutto sull’influenza di questa amabile qualità sulla nostra prosperità e sicurezza esteriore. È per questo che i suoi scritti erano tanto studiati nel mondo antico da uomini di tutte le diverse concezioni filosofiche. È da lui che Cicerone, gran nemico del sistema epicureo, prende a prestito le prove migliori per dimostrare che solo la virtù può assicurarci la felicità. Seneca, per quanto appartenesse alla setta degli Stoici, quella che più si opponeva a Epicuro, tuttavia lo cita più di quanto non citi qualsiasi altro filosofo.

6. C’è tuttavia un altro sistema che sembra cancellare del tutto la distinzione tra vizio e virtù e che per questo mostra una tendenza pericolosa: mi riferisco al sistema di Mandeville. Sebbene le tesi di questo autore siano erronee quasi sotto ogni riguardo, tuttavia esistono nella natura umana alcune apparenze che, viste in un certo modo, a un primo sguardo depongono a favore di quelle tesi. Queste apparenze, descritte e sottolineate dall’eloquenza vivace e animata, sebbene a volte volgare e un po’ rozza, di Mandeville, conferiscono alle sue dottrine un’aria di verità e di probabilità che tende a convincere i lettori ingenui.

7. Mandeville ritiene che tutto ciò che viene fatto per un senso dell’appropriatezza, per un riguardo verso quanto è encomiabile e degno di lode, sia fatto in realtà per amore della lode e dell’encomio, o, secondo la sua espressione, per vanità. Egli osserva che l’uomo è per natura molto più interessato alla propria felicità che a quella degli altri, ed è impossibile che nel suo cuore possa mai preferire la loro prosperità alla sua. Tutte le volte che sembra farlo, possiamo star certi che in questo modo riesce a imporsi su di noi, e che perciò sta agendo per motivi egoistici come in tutte le altre occasioni. Tra le altre passioni egoistiche dell’uomo, la vanità è una delle più forti, ed egli si lascia facilmente adulare e lusingare dall’elogio di chi gli sta intorno. Quando mostra di sacrificare il proprio interesse a quello dei propri compagni, sa che la sua condotta lusingherà il loro amor proprio, e che essi non mancheranno di esprimere la loro soddisfazione ricoprendolo di ogni sorta di lodi. Il piacere che si aspetta da questo supera l’interesse che egli trascura per procurarselo. Perciò la sua condotta in questa occasione è altrettanto egoista, e deriva da un’altrettanto bassa motivazione quanto ogni altra. Tuttavia, egli è adulato e adula se stesso con la credenza di essere del tutto disinteressato, poiché, se così non fosse, non sembrerebbe meritare alcun encomio, ai propri occhi come a quelli degli altri. Perciò, il senso civico, la preferenza per interessi pubblici rispetto a quelli privati, secondo Mandeville non è che pura menzogna e tentativo di imporsi sugli altri, e la virtù di cui tanto si vantano gli uomini, e che è tra loro oggetto di emulazione, non è altro che il risultato di adulazione suscitata dall’orgoglio.

8. Al momento non mi occuperò di stabilire se le azioni più generose e animate da spirito civico possano essere considerate come derivanti dall’amor di sé. Non credo che la risposta a questa domanda sia importante per stabilire la realtà della virtù, dal momento che l’amor di sé spesso può essere un virtuoso motivo d’azione. Cercherò soltanto di mostrare che il desiderio di compiere qualcosa di onorevole e nobile, il desiderio di diventare oggetti appropriati di stima e approvazione, non può essere appropriatamente definito vanità. Nemmeno l’amore per la fama e la reputazione fondata, il desiderio di acquistare stima per qualcosa che ne è davvero degno, meritano quell’appellativo. Nel primo caso si tratta di amore per la virtù, la più nobile e migliore passione della natura umana. Nel secondo caso si tratta di autentica gloria, una passione senza dubbio inferiore alla prima, ma che in quanto a dignità la segue a breve distanza. È colpevole di vanità chi desidera esser lodato per qualità che non sono affatto degne di lode, o che almeno non lo sono nel grado in cui lui se lo aspetta; chi cerca di farsi stimare per frivoli ornamenti esteriori, o per le maniere frivole del suo comportamento ordinario. È colpevole di vanità chi desidera esser lodato per qualcosa che merita lode, ma che lui sa perfettamente che non è merito suo. Lo sciocco bellimbusto che si dà arie di importanza per la quale non ha alcun titolo, lo stupido mentitore che si vanta di avventure mai vissute, l’insensato plagiario, che si finge autore di opere per le quali non ha alcun titolo, sono appropriatamente accusati di vanità. È colpevole di vanità anche chi non si accontenta dei sentimenti silenziosi di stima e approvazione; chi sembra più orgoglioso delle espressioni e delle acclamazioni esteriori di quei sentimenti, piuttosto che dei sentimenti stessi; chi non è mai soddisfatto se non quando le lodi gli rimbombano negli orecchi, e sollecita ansiosamente e inopportunamente tutti i segni esteriori di rispetto; chi è fiero di titoli, complimenti, di ricevere visite, attenzioni, di essere notato in luoghi pubblici con deferenza e attenzione. La frivola passione della vanità è del tutto diversa dall’amore per la virtù e per la gloria, ed è tipica dell’umanità più umile e bassa, quanto quelle lo sono dell’umanità nobile e grande.

9. Ma per quanto queste tre passioni, cioè il desiderio di renderci oggetti appropriati di onore e stima, diventando onorevoli e stimabili; il desiderio di acquistare onore e stima meritandoli realmente; il frivolo desiderio di lode a ogni costo, siano nettamente diversi; per quanto i primi due vengano sempre approvati, mentre l’ultimo viene sempre disprezzato, esiste tuttavia una lontana affinità tra loro, che, sottolineata dall’umoristica e divertente eloquenza di questo vivace autore, gli ha permesso di imporsi sui suoi lettori. C’è affinità tra vanità e amore per la vera gloria, in quanto entrambe queste passioni tendono ad acquistare stima e approvazione. Ma esse differiscono in questo, che l’una è una passione giusta, ragionevole, ed equilibrata, mentre l’altra è ingiusta, assurda e ridicola. L’uomo che desidera stima per qualcosa di realmente stimabile non desidera altro che qualcosa alla quale ha davvero diritto, e che non può essergli rifiutato senza una sorta di torto. Al contrario, chi la desidera per qualità non stimabili domanda qualcosa a cui non ha diritto. Il primo viene facilmente soddisfatto, non è geloso e sospettoso di non essere abbastanza stimato, e si preoccupa raramente di ricevere segni esteriori della nostra considerazione. Al contrario, il secondo non è mai soddisfatto, è pieno di gelosia e sospetto di non essere stimato quanto desidera, perché segretamente sa di desiderare più di quanto merita. Considera come un affronto mortale e come espressione di voluto disprezzo la minima scarsezza di complimenti. È agitato e impaziente, e teme continuamente che gli altri perdano il rispetto che hanno per lui, ed è per questo che è sempre ansioso di ottenere nuove espressioni di stima, e non riesce a star calmo che con continue attenzioni e con una continua adulazione.

10. Esiste un’affinità anche tra il desiderio di diventare onorevole e stimabile e il desiderio di onore e stima, tra l’amore per la virtù e l’amor per la vera gloria. Si rassomigliano l’un l’altro non solo sotto questo riguardo, e cioè per il fatto che entrambi tendono a essere realmente onorevoli e nobili, ma anche per il fatto che l’amore per la vera gloria assomiglia a quel che viene normalmente definito vanità, perché ha una certa relazione con i sentimenti altrui. L’uomo dotato di grande magnanimità, che desidera la virtù per se stessa, ed è del tutto indifferente riguardo alle opinioni che gli altri hanno di lui, tuttavia si rallegra al pensiero di quelle che dovrebbero essere le opinioni sul suo conto, perché è cosciente del fatto che, anche se non dovesse essere onorato o elogiato, resterebbe comunque oggetto appropriato di elogio e onore, e se gli uomini fossero calmi, sinceri, coerenti con loro stessi, e adeguatamente informati dei motivi e delle circostanze della sua condotta, non mancherebbero di attribuirgli onore ed elogio. Sebbene egli disprezzi le opinioni che gli altri hanno realmente sul suo conto, ha la più alta considerazione per quelle che dovrebbero avere. Il grande ed elevato motivo della sua condotta è potersi ritenere degno di quegli onorevoli sentimenti, e, quale che sia l’idea che gli altri uomini possono avere sul suo carattere, sapere che, mettendosi al loro posto e considerando non quale sia, ma quale dovrebbe essere la loro opinione, egli avrebbe sempre per esso un’alta considerazione. Perciò, come anche nell’amore per la virtù c’è qualche riferimento non a quella che realmente è, ma a quella che dovrebbe essere secondo ragione e secondo appropriatezza l’opinione degli altri, anche sotto questo rispetto c’è qualche affinità tra l’amore per la virtù e l’amore per la vera gloria. Tuttavia, allo stesso tempo, essi sono molto diversi tra loro. L’uomo che agisce soltanto per un riguardo verso quanto è giusto e conveniente fare, per un riguardo verso l’oggetto appropriato di stima e approvazione, anche se questi sentimenti non dovessero mai essergli tributati, agisce per il motivo più sublime e divino concepibile dalla natura umana. Al contrario, l’uomo che, desiderando di meritare approvazione, allo stesso tempo è ansioso di ottenerla, per quanto anch’egli sia essenzialmente lodevole, tuttavia mostra nelle sue motivazioni una maggiore mescolanza di debolezze umane. Rischia di rimanere mortificato dall’ignoranza e dall’ingiustizia degli uomini, e la sua felicità è esposta all’invidia dei suoi rivali e alla follia del pubblico. La felicità dell’altro, al contrario, è del tutto al sicuro e del tutto indipendente dalla fortuna e dal capriccio di quelli con cui vive. Egli non ritiene di meritare il disprezzo e l’odio che può esser a lui rivolto a causa dell’ignoranza degli uomini, e per questo non ne è mortificato. Gli uomini lo disprezzano e lo odiano solo per una falsa nozione del suo carattere e della sua condotta. Se lo conoscessero meglio, lo stimerebbero e amerebbero. Propriamente parlando, non è lui che essi odiano e disprezzano, ma un’altra persona che scambiano per lui. Se a una festa mascherata incontriamo un nostro amico sotto le sembianze di un nostro nemico, egli si divertirebbe più che offendersi se, ingannati dallo scambio di persona, dovessimo trattarlo male. Tali sono i sentimenti di un uomo realmente magnanimo esposto a un’ingiusta critica: tuttavia accade raramente che la natura umana arrivi a tale grado di fermezza. Per quanto solo gli uomini più deboli e vili si rallegrino per la falsa gloria, tuttavia, per una strana incoerenza, quelli che appaiono più risoluti e determinati sono spesso mortificati dalla falsa ignominia.

11. Mandeville non si accontenta di rappresentare i frivoli motivi della vanità come origine di tutte le azioni comunemente denominate virtuose, ma cerca di indicare molti altri aspetti dell’imperfezione della virtù umana. Egli sostiene che la virtù non riesce mai a raggiungere quel completo disinteresse per se stessi a cui tende, e invece di una vittoria sulle nostre passioni, comunemente non è altro che un dissimulato abbandono a esse. Quando le nostre riserve verso il piacere non raggiungono la più ascetica astinenza, Mandeville le tratta come lusso e sensualità grossolana. Secondo lui, è lusso tutto quello che supera quanto è strettamente necessario per la conservazione, e per questo vede questo vizio persino nell’uso di abiti puliti, o nell’abitare in una casa dignitosa. Considera sensualità allo stesso modo l’attrazione sessuale tra persone regolarmente sposate e quella gratificata in modo del tutto disdicevole, e deride la temperanza e la castità praticabili a costo di un così piccolo sacrificio quale il matrimonio. L’ambiguità del suo linguaggio, qui come in altre occasioni, copre gli ingegnosi sofismi del suo ragionamento. Ci sono alcune delle nostre passioni che non hanno altri nomi tranne quelli che designano il loro grado offensivo e spiacevole. Lo spettatore tende a notarle più in questo grado che in ogni altro. Quando quelle passioni colpiscono i sentimenti dello spettatore, quando gli fanno provare antipatia e disagio, egli è necessariamente obbligato a occuparsene, e per questo dà loro un nome. Quando invece si accordano con lo stato naturale della sua mente, egli tende a non occuparsene affatto, e non dà loro nemmeno un nome, o, se gliene dà uno, si tratta di un nome che sottolinea piuttosto la soggezione e il controllo della passione, più che il grado che essa raggiunge prima di venir soggiogata e controllata. Così, i termini comuni usati per indicare l’amore per il piacere e l’amore per il sesso denotano un grado vizioso e offensivo di quelle passioni. I termini temperanza e castità, d’altra parte, sembrano sottolineare il controllo e la soggezione a cui le passioni sono sottoposte, piuttosto che il grado che si consente loro di mantenere. Perciò, quando Mandeville riesce a mostrare che quelle passioni sussistono comunque a un certo grado, immagina così di aver del tutto demolito la realtà delle virtù della temperanza e della castità, mostrando che non sono altro che inganni, che si impongono per la mancanza di attenzione e per la stupidità degli uomini. Tuttavia, quelle virtù non richiedono una completa insensibilità agli oggetti delle passioni che intendono governare. Tendono solo a limitare la violenza di quelle passioni in modo tale che non danneggino l’individuo, e non offendano la società.

12. Il grande errore del libro di Mandeville è quello di rappresentare ogni passione come completamente viziosa, quando lo sia in qualche suo grado e direzione. Così, egli tratta come vanità ogni cosa che abbia qualche riferimento a quelli che sono o dovrebbero essere i sentimenti degli altri, e per mezzo di questo sofisma arriva alla sua conclusione preferita, secondo la quale i vizi privati sono beni pubblici. Se l’amore per la magnificenza, un certo gusto per le arti eleganti e per le comodità della vita, per tutto ciò che è bello negli abiti, nell’arredamento, nelle varie attrezzature, per l’architettura, la scultura, la pittura e la musica va considerato come lusso, sensualità e ostentazione, anche in coloro che si trovano in situazioni che consentono senza alcuna sconvenienza l’abbandono a tali passioni, è certo che il lusso, la sensualità e l’ostentazione sono beni pubblici, poiché senza tali qualità a cui Mandeville ritiene appropriato attribuire un nome così obbrobrioso le arti belle non avrebbero nessun incoraggiamento, e declinerebbero per mancanza di impiego. Alcune popolari dottrine ascetiche diffuse prima di Mandeville, che identificavano la virtù nella completa estirpazione e annichilimento di tutte le nostre passioni, sono il fondamento reale di questo sistema licenzioso. È facile per Mandeville provare, per prima cosa, che questa totale vittoria sulle nostre passioni non si avvera mai, e in secondo luogo che, se si avverasse universalmente, sarebbe pericolosa per la società, perché porrebbe fine a ogni attività industriale e commerciale, e a ogni occupazione umana. Con la prima affermazione egli intende provare che non esiste la vera virtù, e che quella che pretende di esser tale non è che una finzione che inganna gli uomini; con la seconda affermazione vuole provare che i vizi privati sono beni pubblici, poiché senza di essi nessuna società potrebbe essere prospera e florida.

13. Questo è il sistema di Mandeville, che a suo tempo fece tanto scalpore nel mondo, e che, per quanto forse non abbia dato luogo a una quantità di vizio maggiore di quanta ce ne sarebbe stata in sua assenza, ha come minimo insegnato a quel vizio, che pure deriva da altre cause, ad apparire con maggiore sfrontatezza, e a confessare la corruzione dei motivi che lo animano con un’impudente audacia che non si era mai vista prima di allora.

14. Ma per quanto questo sistema possa apparire distruttivo, non si sarebbe mai imposto su un così vasto numero di persone, e non avrebbe mai messo tanto in allarme i sostenitori di migliori principi, se non avesse per qualche sua parte confinato con la verità. Un sistema di filosofia naturale può apparire molto plausibile, e trovare a lungo generale accoglienza nel mondo, anche se non ha alcun fondamento nella natura, e nessuna somiglianza con la verità. I vortici di Descartes sono stati considerati per quasi un secolo come un resoconto del tutto soddisfacente della rivoluzione dei corpi celesti. Tuttavia in seguito tutta l’umanità è stata convinta dalla dimostrazione che tutte queste pretese cause di questi meravigliosi fenomeni non solo non esistono realmente, ma sono del tutto impossibili, e se esistessero non potrebbero comunque produrre gli effetti descritti. Ma per i sistemi di filosofia morale le cose stanno diversamente, e un autore che pretende di dar conto dell’origine dei nostri sentimenti morali non può ingannarci in modo così grossolano, allontanandosi così tanto dalla verità. Quando un viaggiatore ci dà un resoconto di qualche paese lontano, può farci credere le più infondate e assurde finzioni come se fossero fatti accertati. Ma quando una persona pretende di informarci di cosa accade nel vicinato, o dei fatti del nostro quartiere, per quanto anche in questo caso, se non siamo attenti a verificare con i nostri occhi, possa ingannarci, tuttavia anche la più grossa menzogna che può raccontarci deve in qualche modo mostrare qualche aspetto di verità. Un autore che si occupa di filosofia naturale, e pretende di indicare le cause dei grandi fenomeni dell’universo, è come se raccontasse di un paese molto lontano: può dirci quello che vuole, e finché il suo racconto si mantiene entro limiti di verosimiglianza, può star sicuro che gli crederemo. Ma quando si propone di spiegare le origini dei nostri desideri e delle nostre affezioni, o dei nostri sentimenti di approvazione e disapprovazione, non pretende solo di dar conto degli affari del nostro quartiere, ma proprio di quelli della nostra stessa casa. Per quanto anche in questo campo tendiamo a lasciarci ingannare, come quei pigri proprietari che si affidano a un amministratore che li imbroglia, tuttavia non ammettiamo resoconti che non mantengano una qualche somiglianza con la verità. Almeno alcune parti devono essere esatte, e quelle più importanti devono avere un qualche fondamento, altrimenti l’inganno viene scoperto, anche con la poca attenzione che gli dedichiamo. L’autore che indichi come causa di ogni sentimento naturale qualche principio che non abbia alcuna relazione con esso e non somigli a nessun altro principio che abbia una tale connessione sembra assurdo e ridicolo anche al lettore più disattento e inesperto.


 
SEZIONE III I diversi sistemi che sono stati costruiti riguardo al principio dell’approvazione

 
INTRODUZIONE
1. Dopo l’indagine sulla natura della virtù, l’altra importante questione della filosofia morale riguarda il principio di approvazione, il potere o la facoltà mentale che ci rende alcuni caratteri gradevoli o sgradevoli, che ci fa preferire una linea di condotta a un’altra, denominare l’una giusta e l’altra ingiusta, e considerare l’una oggetto di approvazione, onore e ricompensa, l’altra oggetto di biasimo, critica e punizione.

2. Di questo principio di approvazione sono stati dati tre diversi resoconti. Secondo alcuni, noi approviamo e disapproviamo sia le nostre azioni che quelle degli altri solo in base all’amor di sé, cioè in base alla loro tendenza a promuovere la nostra felicità o il nostro svantaggio. Secondo altri, è la ragione, la stessa facoltà per mezzo della quale distinguiamo il vero dal falso, che ci mette in grado di distinguere tra ciò che è adeguato e inadeguato nelle azioni e nelle affezioni. Secondo altri, questa distinzione è solo l’effetto di un immediato sentimento o sensazione, e deriva dalla soddisfazione o dal disgusto che certe azioni o affezioni ci ispirano. L’amor di sé, la ragione e il sentimento, perciò, sono le tre diverse origini che sono state indicate per il principio di approvazione.

3. Prima di procedere a spiegare questi tre diversi sistemi, devo osservare che la risoluzione di questa seconda questione riguardante il principio di approvazione, sebbene di grande importanza in campo speculativo, non lo è di alcuna in campo pratico. La questione sulla natura della virtù ha necessariamente qualche influenza sulle nostre nozioni di giusto e ingiusto in molti casi particolari. Quella sul principio di approvazione non può avere un tale effetto. Indagare da quale congegno o meccanismo interiore derivino queste diverse nozioni o sentimenti è una mera curiosità filosofica.


 
CAPITOLO I I sistemi che deducono il principio di approvazione dall’amor di sé


1. Coloro che danno conto del principio di approvazione facendolo derivare dall’amor di sé non lo fanno tutti nella stessa maniera, e in tutti i loro diversi sistemi è presente una buona dose di confusione e imprecisione. Secondo Hobbes e molti dei suoi seguaci, l’uomo è portato a cercar rifugio nella società non per un amore naturale verso la propria specie, ma perché senza l’assistenza degli altri è incapace di sopravvivere nel benessere e nella sicurezza. Per questo, la società gli diventa necessaria, ed egli considera tutto ciò che tende alla conservazione e al vantaggio della società come qualcosa che ha una remota tendenza a promuovere i suoi stessi interessi, e, al contrario, tutto ciò che è tale da disturbare o distruggere la società egli lo considera come dannoso e pericoloso per se stesso. La virtù è il grande sostegno e il vizio è il grande disturbatore della società umana. Perciò la virtù è gradevole, e il vizio offensivo per ogni uomo, dal momento che l’una gli fa prevedere la prosperità e l’altro la rovina e il disordine di quanto è necessario alla comodità e alla sicurezza della propria esistenza.

2. È indiscutibile che la tendenza della virtù a promuovere l’ordine della società e la tendenza opposta del vizio, considerate in maniera distaccata e filosofica, riflettano una notevole bellezza sull’una e una notevole deformità sull’altro, come ho già osservato in una precedente occasione. La società umana, quando la contempliamo in una luce astratta e filosofica, appare come una grande, immensa macchina, i cui movimenti armoniosi e regolari producono migliaia di effetti gradevoli. In ogni altra bella e nobile macchina prodotta dall’arte umana, qualsiasi cosa tenda a rendere i suoi movimenti più dolci e facili riceve una certa bellezza da questo effetto, e al contrario, qualsiasi cosa tenda a ostruirli a causa di ciò risulta spiacevole; allo stesso modo, la virtù, che è come un fine lubrificante per gli ingranaggi della società, necessariamente piace, laddove il vizio altrettanto necessariamente offende, come spregevole ruggine, che fa stridere e cigolare gli ingranaggi gli uni sugli altri. Perciò, questo resoconto sull’origine dell’approvazione e disapprovazione, dal momento che le fa derivare da un riguardo per l’ordine della società, riconduce a quel principio che attribuisce bellezza all’utilità, che ho spiegato in un’occasione precedente, ed è da qui che questo sistema deriva tutta l’apparenza di probabilità che possiede. Quando questi autori descrivono gli innumerevoli vantaggi che una vita civile e socievole offre rispetto a quella selvaggia e solitaria; quando si dilungano in trattazioni sulla necessità della virtù e del buon ordine per il mantenimento dell’una, e dimostrano come la prevalenza del vizio e della disobbedienza alle leggi tenda infallibilmente a riportarci indietro verso l’altra, il lettore resta affascinato dalla novità e dalla grandezza delle vedute che gli si aprono. Egli vede chiaramente una nuova bellezza nella virtù, e una nuova deformità nel vizio che prima non aveva mai notato, e comunemente è così affascinato dalla scoperta, che raramente si sofferma a riflettere che questa visione politica, che non ha mai avuto prima nella sua vita, non può assolutamente essere la base dell’approvazione o disapprovazione con cui egli è stato sempre abituato a considerare queste diverse qualità.

3. Quando questi autori, d’altra parte, deducono dall’amor di sé l’interesse che abbiamo per il benessere della società e la stima che per questo motivo attribuiamo alla virtù, essi non intendono che quando in questa epoca elogiamo la virtù di Catone e detestiamo la scelleratezza di Catilina i nostri sentimenti siano influenzati dalla nozione del beneficio che riceviamo dall’uno e del danno che patiamo a causa dell’altra. Non è perché la prosperità o la sovversione della società, in quelle epoche e nazioni remote, venga considerata come dotata di influenza sulla nostra felicità o sulla nostra miseria attuale, che secondo quei filosofi noi stimiamo i caratteri virtuosi e biasimiamo quelli turbolenti. Essi non hanno mai ritenuto che i nostri sentimenti fossero influenzati dai benefici o dai danni che potevano derivarci dagli uni o dagli altri, ma che fossero influenzati dai benefici o dai danni che ce ne sarebbero potuti derivare, se fossimo vissuti in quelle epoche e paesi lontani, o da quelli che potrebbero derivarci ora, se incontrassimo caratteri di quello stesso tipo. In breve, l’idea della quale questi autori andavano in cerca, ma che non sono stati mai capaci di portare alla luce distintamente, era l’idea della simpatia indiretta che sentiamo per la gratitudine o il risentimento di coloro che hanno ricevuto il beneficio o sofferto il danno derivante da quegli opposti caratteri. Ed era a questa idea che essi si riferivano in modo indistinto quando dicevano che non è l’idea di quel che abbiamo ottenuto o sofferto che ci spinge all’elogio o all’indignazione, ma la concezione o l’immaginazione di quel che potremmo guadagnare o patire se dovessimo trovarci ad agire in società insieme a simili soci.

4. Tuttavia, la simpatia non può in nessun senso esser considerata come un principio egoistico. Quando simpatizzo con la tua sofferenza o la tua indignazione, si può in realtà sostenere che la mia emozione sia fondata sull’amor di sé, perché essa deriva dal ricondurre il tuo caso a me stesso, dal mettermi nella tua situazione, e dal concepire quel che proverei nella stessa circostanza. Ma per quanto si sostenga in modo del tutto appropriato che la simpatia deriva da un immaginario scambio di situazione con la persona principalmente coinvolta, tuttavia non si suppone che questo mio immaginario scambio avvenga nella mia persona e nel mio carattere, ma in quella della persona con cui simpatizzo. Quando mi dolgo insieme a te per la perdita del tuo unico figlio, per prender parte alla tua pena non considero quel che io, una persona di tale carattere e di tale professione, soffrirei se avessi un figlio, e se questo figlio dovesse sventuratamente morire, ma considero quel che soffrirei se fossi davvero te, e non solo cambio con te le mie circostanze esteriori, ma anche la persona e il carattere. La mia pena, perciò, è del tutto per te, e niente affatto per me stesso: perciò non è affatto egoistica. Come può essere considerata egoistica quella passione che non deriva nemmeno dall’immaginare qualcosa che è capitata a me, o che è in rapporto con me, nella mia persona e nel mio carattere, ma che è del tutto riservata a ciò che è in rapporto con te? Un uomo può simpatizzare con una partoriente, per quanto sia impossibile che egli possa immaginare di sopportare lui stesso i suoi dolori nella propria persona e nel proprio carattere. Tuttavia, l’intero resoconto della natura umana che deduce tutti i sentimenti e le affezioni dall’amor di sé, che ha suscitato tanto clamore nel mondo, ma che, per quanto ne so io, ancora non è stato mai spiegato interamente e distintamente, mi sembra derivato da qualche interpretazione errata e confusa del sistema della simpatia.


 
CAPITOLO II I sistemi che fanno della ragione il principio di approvazione


1. È ben noto che secondo la dottrina di Hobbes lo stato di natura è uno stato di guerra, e prima dell’istituzione di un governo civile non può esistere tra gli uomini alcuna società sicura o pacifica. Perciò, conservare la società significa secondo lui sostenere il governo civile, e distruggere il governo civile equivale a porre fine alla società. Ma l’esistenza del governo civile dipende dall’obbedienza accordata al supremo magistrato. Nel momento in cui egli perde la sua autorità, ogni governo ha termine. Perciò, come l’autoconservazione insegna agli uomini a elogiare tutto quel che tende a promuovere il benessere della società, e a biasimare tutto quel che potrebbe danneggiarla, così, se essi pensassero e parlassero in modo coerente, lo stesso principio dovrebbe insegnar loro a elogiare in ogni occasione l’obbedienza al magistrato civile, e a biasimare ogni disobbedienza e ogni ribellione. Le stesse idee di lodevole e biasimevole dovrebbero coincidere con quelle di obbedienza e disobbedienza. Le leggi del magistrato civile, perciò, dovrebbero essere considerate come gli unici criteri ultimi di quel che è conforme alla giustizia e all’ingiustizia, di quel che è giusto e ingiusto.

2. L’intenzione dichiarata di Hobbes, nel diffondere queste nozioni, era quella di sottomettere le coscienze degli uomini direttamente al potere civile, sottraendole a quello ecclesiastico, la cui turbolenza e ambizione egli aveva imparato, dagli esempi offerti dalla sua stessa epoca, a considerare come la fonte principale dei disordini della società. Per questo la sua dottrina era particolarmente offensiva per i teologi, che quindi non mancarono di sfogare contro di lui la loro indignazione con grande asprezza e severità. Allo stesso modo, la dottrina di Hobbes era offensiva per tutti i sani moralisti, in quanto supponeva che non esistesse una distinzione naturale tra giusto e ingiusto, che erano piuttosto mutevoli e intercambiabili, e dipendevano dal mero arbitrio del magistrato civile. Perciò il resoconto di Hobbes venne attaccato da tutte le parti e con ogni sorta di armi, dalla sobria ragione come dalla furente declamazione.

3. Per confutare una dottrina così odiosa, era necessario provare che prima di ogni legge o istituzione positiva, la mente è naturalmente dotata di una facoltà per mezzo della quale distinguere in certe azioni e affezioni le qualità del lodevole, giusto e virtuoso, e in altre le qualità del biasimevole, ingiusto e vizioso.

4. Cudworth osservò giustamente che la legge non poteva essere la fonte originaria di tali distinzioni, dal momento che in base alla supposizione di tale legge deve essere giusto obbedirle e ingiusto disobbedirle, o indifferente obbedirle o disobbedirle. Quella legge alla quale è indifferente obbedire o disobbedire non poteva, è evidente, essere la fonte di quelle distinzioni, e non poteva esserlo nemmeno quella a cui era giusto obbedire e ingiusto disobbedire, dal momento che anche questo presupponeva che avessimo già le nozioni delle idee di giusto e di ingiusto, e che l’obbedienza alla legge fosse conforme all’idea di giusto, mentre la disobbedienza fosse conforme all’idea di ingiusto.

5. Perciò, dal momento che la mente possiede una nozione di tali distinzioni che precede ogni legge, sembra conseguirne necessariamente che essa deriva tale nozione dalla ragione, che indica le differenze tra giusto e ingiusto, allo stesso modo che tra verità e falsità. E questa conclusione, che, per quanto vera in qualche aspetto, è piuttosto avventata per altri, fu accolta più facilmente in un’epoca in cui la scienza astratta della natura umana non era che all’inizio, e prima che i diversi compiti e poteri di tutte le diverse facoltà della mente umana fossero attentamente esaminati e distinti l’uno dall’altro. Quando questa controversia con Hobbes fu portata avanti con il più grande calore e impegno, non si pensò a nessun’altra facoltà dalla quale poter supporre la derivazione di tali idee. Perciò, la dottrina più diffusa in questo periodo diventò quella secondo la quale l’essenza della virtù e del vizio non consiste nella conformità o disaccordo delle azioni umane con la legge di un superiore, ma nella loro conformità o disaccordo con la ragione, che venne così considerata come la fonte originaria e il principio di approvazione e disapprovazione.

6. Il fatto che la virtù consista nella conformità alla ragione in qualche rispetto è vero, e questa facoltà può essere considerata molto giustamente, in qualche senso, la fonte e il principio dell’approvazione e della disapprovazione, e di tutti i fondati giudizi sul giusto e l’ingiusto. È attraverso la ragione che scopriamo quelle regole generali di giustizia per mezzo delle quali dovremmo regolare le nostre azioni: ed è attraverso la medesima facoltà che formiamo quelle idee più vaghe e indeterminate di quel che è prudente, decente, generoso o nobile, che portiamo sempre con noi, e per mezzo delle quali ci sforziamo per quanto possiamo di modellare il tenore della nostra condotta. Le massime generali della moralità si formano, come tutte le altre massime generali, per esperienza e per induzione. Noi osserviamo in una grande varietà di casi particolari quel che piace e quel che dispiace alle nostre facoltà morali, quando queste approvano o disapprovano, e, per induzione da questa esperienza, stabiliamo tali regole generali. Ma l’induzione è sempre considerata come una delle operazioni della ragione, perciò si dice molto appropriatamente che noi deriviamo tutte le massime e le idee generali dalla ragione. Tuttavia, è per mezzo di queste che noi regoliamo la maggior parte dei nostri giudizi morali, che sarebbero estremamente incerti e precari se dipendessero del tutto da ciò che è sottoposto a così tante variazioni come il sentimento e la sensazione immediata, alterabili in modo essenziale dai diversi stati di salute e di umore. Perciò, dal momento che i nostri più fondati giudizi su giusto e ingiusto sono regolati da massime e idee derivate per induzione dalla ragione, si può dire molto appropriatamente che la virtù consiste in una conformità alla ragione, e in questo senso questa facoltà può essere considerata come la fonte e il principio di approvazione e disapprovazione.

7. Ma sebbene la ragione sia senza dubbio la fonte delle regole generali della morale, e di tutti i giudizi morali che formiamo per mezzo di quelle regole, è del tutto assurdo e incomprensibile supporre che le prime percezioni di giusto e ingiusto possano essere derivate dalla ragione, anche in quei casi particolari sulla cui esperienza sono formate le regole generali. Queste prime percezioni, come tutti gli altri esperimenti su cui si fondano tutte le regole generali, non possono essere oggetti di ragione, ma di un immediato senso e sensazione. È osservando che in una vasta varietà di esempi un certo tenore di condotta costantemente piace in un certo modo alla mente, e che un altro costantemente le dispiace, che noi formiamo le regole generali della moralità. Ma la ragione non può rendere un particolare oggetto gradevole o sgradevole in se stesso per la mente. La ragione può mostrare che quell’oggetto è il mezzo per ottenerne qualche altro che è naturalmente piacevole o spiacevole, e in questa maniera può renderlo gradevole o sgradevole in vista di qualcos’altro. Ma nulla può essere gradevole o sgradevole per se stesso se non è reso tale da un immediato senso o sensazione. Perciò, se la virtù, in ciascun esempio particolare, piace necessariamente per se stessa, e se il vizio certamente dispiace alla mente, non può essere la ragione, ma l’immediato senso e sensazione che in questa maniera ci concilia con l’uno e ci allontana dall’altro.

8. Il piacere e il dolore fisico sono i grandi oggetti immediati del nostro desiderio e della nostra avversione, ma la distinzione tra piacere e dolore non è operata dalla ragione, ma da un immediato senso e sensazione. Perciò, se la virtù è desiderabile in se stessa, e il vizio, allo stesso modo, è oggetto di avversione, non può essere la ragione che distingue all’origine tra queste diverse qualità, ma l’immediato senso e sensazione.

9. Tuttavia, dal momento che la ragione può in un certo senso essere considerata come il principio dell’approvazione e della disapprovazione, questi sentimenti sono stati disattentamente a lungo considerati come derivanti in origine dalle operazioni di questa facoltà. Hutcheson ebbe il merito di essere il primo a individuare con un certo grado di precisione in quale rispetto si possa affermare che tutte le distinzioni morali derivano dalla ragione, e in quale rispetto siano invece fondate su un immediato senso e sensazione. Nelle sue illustrazioni sul senso morale ne ha dato una spiegazione così completa, e, secondo la mia opinione, così incontestabile, che, se ancora esiste qualche controversia su questo argomento, non posso attribuirla ad altro che alla scarsa attenzione a quel che ha scritto quel gentiluomo, oppure a un attaccamento superstizioso a certe forme di espressione, una debolezza non molto insolita tra i dotti, specialmente in argomenti così interessanti quanto quello di cui stiamo discutendo al momento, in cui un uomo virtuoso è spesso restio a rinunciare persino all’appropriatezza di una singola frase a cui è abituato.


 
CAPITOLO III I sistemi che fanno del sentimento il principio di approvazione


1. I sistemi che fanno del sentimento il principio di approvazione si possono dividere in due classi differenti.

2. I. Secondo alcuni, il principio di approvazione è fondato su un sentimento di natura peculiare, su un particolare potere di percezione esercitato dalla mente alla vista di certe azioni o affezioni. Poiché alcune di esse colpiscono questa facoltà in una maniera gradevole e altre in una maniera sgradevole, vengono rispettivamente impresse con i caratteri del giusto, del lodevole, del virtuoso, e con quelli dell’ingiusto, del biasimevole e del vizioso. Poiché questo sentimento è di una natura peculiare, distinta da qualunque altra, ed è l’effetto di un particolare potere di percezione, essi gli danno un nome particolare, e lo chiamano senso morale.

3. II. Secondo altri, per dar conto del principio di approvazione, non c’è motivo di supporre un nuovo potere di percezione di cui non si è mai sentito parlare prima; essi ritengono che la Natura, qui come in tutti gli altri casi, agisca secondo la più rigorosa economia, e produca una moltitudine di effetti da una e unica causa, e la simpatia, un potere che è stato messo in rilievo da sempre, e di cui la mente è evidentemente dotata, è, secondo loro, sufficiente a dar conto di tutti gli effetti attribuiti a questa facoltà peculiare.

4. I. Hutcheson si è preso una gran pena di mostrare che il principio di approvazione non è fondato sull’amor di sé. Ha anche dimostrato che non può derivare da alcuna operazione della ragione. Non restava altro, secondo lui, che supporre che il principio di approvazione fosse una facoltà di tipo peculiare, di cui la Natura ha dotato la mente umana, al fine di produrre questo particolare e importante effetto. Una volta esclusi l’amor di sé e la ragione, non pensava che ci fosse un’altra facoltà mentale nota che potesse in qualche rispetto rispondere a questo scopo.

5. Egli ha chiamato questo nuovo potere di percezione senso morale, e ha supposto che fosse in qualche modo analogo ai sensi esterni. Come i corpi intorno a noi, colpendo i sensi in una certa maniera, sembrano possedere le diverse qualità del suono, del gusto, dell’odore, del colore, così le varie affezioni della mente umana, toccando questa facoltà particolare in una certa maniera, sembrano possedere le diverse qualità dell’amabile e dell’odioso, del virtuoso e del vizioso, del giusto e dell’ingiusto.

6. I vari sensi o poteri di percezione da cui la mente umana deriva tutte le sue idee semplici, sono, secondo questo sistema, di due tipi differenti: gli uni vengono chiamati sensi diretti o antecedenti, gli altri sensi riflessi o conseguenti. I sensi diretti sono quelle facoltà da cui la mente deriva la percezione di quella specie di cose che non presuppongono la precedente percezione di altre. Così, i suoni e i colori sono oggetti dei sensi diretti. Sentire un suono o vedere un colore non presuppone l’antecedente percezione di nessun’altra qualità od oggetto. I sensi riflessi o conseguenti, d’altra parte, sono quelle facoltà da cui la mente deriva la percezione di quelle specie di cose che presuppongono la precedente percezione di altre. Così, l’armonia e la bellezza sono oggetti dei sensi riflessi. Al fine di percepire l’armonia di un suono, o la bellezza di un colore, dobbiamo prima percepire il suono o il colore. Il senso morale viene considerato come una facoltà di questo secondo tipo. Quella facoltà che Locke chiama riflessione, dalla quale egli deriva le idee semplici delle diverse passioni ed emozioni della mente umana è, secondo Hutcheson, un senso diretto interno. Quella facoltà, ancora, per mezzo della quale percepiamo la bellezza o la deformità, la virtù o il vizio di quelle diverse passioni ed emozioni, è un senso riflesso interno.

7. Hutcheson cerca di fornire un ulteriore sostegno a questa dottrina mostrando che è in accordo con il principio dell’analogia della natura, visto che la mente è dotata di una varietà di altri sensi riflessi esattamente simili al senso morale, come un senso della bellezza e della deformità negli oggetti esterni, un senso pubblico per mezzo del quale simpatizziamo con la felicità o la miseria dei nostri simili, un senso della vergogna e dell’onore, e un senso del ridicolo.

8. Ma nonostante tutte le pene che questo ingegnoso filosofo si è preso per provare che il principio di approvazione è fondato su un particolare potere di percezione, su qualcosa di analogo ai sensi esterni, ci sono alcune conseguenze che lui stesso riconosce derivanti da questa dottrina, che forse saranno da molti considerate come una sua confutazione sufficiente. Egli ammette che le qualità che appartengono agli oggetti di ogni senso non possono, senza una grande assurdità, essere attribuite al senso stesso. Chi ha mai pensato di chiamare il senso della vista nero o bianco, il senso dell’udito acuto o basso, il senso del gusto dolce o amaro? E, secondo lui, è allo stesso modo assurdo chiamare le nostre facoltà morali virtuose o viziose, moralmente buone o cattive. Queste qualità appartengono agli oggetti di quelle facoltà, non alle facoltà stesse. Perciò, se un uomo fosse costituito in modo tanto assurdo da approvare la crudeltà e l’ingiustizia come le maggiori virtù, e da disapprovare l’equità e l’umanità come i più pietosi vizi, tale costituzione mentale potrebbe in realtà essere considerata come un inconveniente sia per l’individuo che per la società, e allo stesso modo come strana, sorprendente, e innaturale in se stessa, ma non potrebbe, senza la più grande assurdità, essere denominata viziosa o moralmente cattiva.

9. Tuttavia, certamente, se vedessimo un uomo che grida di ammirazione e di elogio assistendo a una barbara e immeritata esecuzione, ordinata da qualche insolente tiranno, non ci riterremmo affatto colpevoli di nessuna grande assurdità se denominassimo questo comportamento vizioso e moralmente cattivo al più alto grado, per quanto esso non esprima altro che facoltà morali depravate, cioè un’assurda approvazione di quest’azione orrida, come fosse qualcosa di nobile, magnanimo, e grande. Il nostro cuore, credo, alla vista di un tale spettatore, dimenticherebbe per un attimo la sua simpatia per la vittima, e non sentirebbe altro che orrore ed esecrazione al pensiero di un individuo così spregevole e miserabile. Proveremmo maggiore abominio per lui che per il tiranno, che potrebbe esser stato spinto alla sua azione dall’intensa passione della gelosia, dalla paura, dal risentimento, e sarebbe per questo più scusabile. Ma i sentimenti dello spettatore apparirebbero del tutto privi di causa e motivazione, e perciò perfettamente e completamente detestabili. Non esiste alcuna perversione di sentimenti o affezioni a cui il nostro cuore sarebbe più avverso a prender parte, o che rifiuterebbe con maggiore odio e indignazione di una perversione di questo tipo, e lungi dal considerare una tale costituzione della mente solo come qualcosa di strano o sconveniente, e in nessun rispetto viziosa o moralmente cattiva, la considereremmo piuttosto come l’ultimo e più terribile stadio della depravazione morale.

10. I sentimenti morali corretti, al contrario, appaiono naturalmente lodevoli e moralmente buoni a un certo grado. L’uomo la cui censura e il cui elogio si accordano con grande accuratezza in ogni occasione con il valore o il demerito dell’oggetto sembra meritare anche un certo grado di approvazione morale. Ammiriamo la delicata precisione dei suoi sentimenti morali: essi guidano i nostri giudizi, e, a causa della loro giustezza sorprendente e fuori dal comune, suscitano anche la nostra meraviglia e il nostro elogio. In realtà non possiamo esser sempre sicuri che la condotta di una tale persona corrisponda sotto ogni riguardo alla precisione e all’accuratezza dei suoi giudizi sulla condotta altrui. La virtù richiede tanto abitudine e risoluzione mentale, quanto delicatezza di sentimenti, e sfortunatamente, nei casi in cui l’ultima qualità è al più alto grado di perfezione, le prime due a volte mancano. Tale disposizione mentale, tuttavia, sebbene possa a volte essere accompagnata da imperfezioni, è incompatibile con qualsiasi cosa sia volgarmente criminale, ed è il più felice fondamento sul quale può essere costruita la sovrastruttura della perfetta virtù. Ci sono molti uomini che sono animati da buone intenzioni e si propongono seriamente di fare ciò che credono sia il loro dovere, ma che nonostante questo sono sgradevoli, per la rudezza dei loro sentimenti morali.

11. Si può forse dire che, nonostante il principio di approvazione non sia fondato su alcun potere di percezione che sia in qualche rispetto analogo ai sensi esterni, può tuttavia essere fondato su un sentimento peculiare che risponde a questo particolare proposito e a nessun altro. L’approvazione e la disapprovazione, si può sostenere, sono certe sensazioni o emozioni che sorgono nella mente alla vista di diversi caratteri e azioni; e come il risentimento può essere definito senso delle ingiurie, o la gratitudine senso dei benefici, così l’approvazione e la disapprovazione possono essere molto appropriatamente denominate senso del giusto e dell’ingiusto, o senso morale.

12. Ma questo resoconto delle cose, per quanto non esposto alle stesse obiezioni dei precedenti, è esposto ad altre obiezioni a cui è allo stesso modo impossibile controbattere.

13. Prima di tutto, a qualsiasi variazione possa esser sottoposta una particolare emozione, essa conserva comunque le caratteristiche generali che la distinguono come emozione di quel tale tipo, e queste caratteristiche generali sono sempre più impressionanti e notevoli di qualsiasi variazione a cui può essere sottoposta in casi particolari. Così, la collera è un’emozione di un certo tipo, e di conseguenza le sue caratteristiche generali sono sempre maggiormente distintive rispetto a tutte le variazioni a cui è sottoposta in casi particolari. La collera rivolta contro un uomo è senza dubbio diversa rispetto a quella contro una donna, e questa lo è rispetto a quella contro un bambino. In ciascuno di questi tre casi, la generica passione della collera riceve una diversa modificazione dal carattere particolare del suo oggetto, come può essere osservato facilmente dalla persona attenta. Ma tuttavia le caratteristiche generali della passione predominano in tutti e tre i casi. Per riconoscerle, non occorre una raffinata osservazione, al contrario, un’attenzione molto fine è necessaria per scoprire le loro variazioni: ognuno si accorge della prima, quasi nessuno dell’ultima. Perciò, se l’approvazione e la disapprovazione fossero, come la gratitudine e il risentimento, emozioni di un tipo particolare, diverse da ogni altro, dovremmo aspettarci che in tutte le variazioni a cui l’una o l’altra può essere sottoposta, manterrebbe comunque le caratteristiche generali che la contrassegnano come un’emozione di quel particolare tipo, riconoscibile chiaramente, evidentemente e facilmente. Ma di fatto accade qualcosa di molto diverso. Se esaminiamo quel che realmente sentiamo quando in diverse occasioni approviamo o disapproviamo, scopriremo che la nostra emozione in un caso è spesso totalmente differente dalla nostra emozione nell’altro, e che tra esse non si può assolutamente trovare alcuna caratteristica in comune. Cosi l’approvazione con la quale consideriamo un sentimento tenero, delicato e umano è del tutto diversa da quella che ci colpisce nel caso di un sentimento grande, coraggioso e magnanimo. La nostra approvazione di entrambi può, in occasioni diverse, essere perfetta e totale, ma il primo sentimento ci addolcisce, l’altro ci esalta, e non c’è somiglianza di sorta tra le emozioni che essi suscitano in noi. Ma secondo quel sistema che ho cercato di stabilire, deve essere necessariamente così. Dal momento che le emozioni della persona che approviamo sono, nei due casi, del tutto opposte l’una all’altra, e dal momento che la nostra approvazione deriva dalla simpatia con queste opposte emozioni, quel che sentiamo in un’occasione non può avere somiglianza di sorta con quel che sentiamo nell’altra. Ma questo non potrebbe accadere se l’approvazione consistesse in una peculiare emozione che non avesse nulla in comune con i sentimenti che noi approviamo, ma che sorgesse alla vista di quei sentimenti, come ogni altra passione alla vista del suo oggetto appropriato. La stessa cosa vale per la disapprovazione. Il nostro orrore per la crudeltà non ha somiglianza di sorta con il nostro disprezzo per la vigliaccheria. Quella che sentiamo alla vista di questi due diversi vizi è una diversissima specie di discordanza tra le nostre menti e quella della persona di cui consideriamo i sentimenti e il comportamento.

14. In secondo luogo, ho già osservato che non solo le diverse passioni o affezioni della mente umana che vengono approvate o disapprovate appaiono moralmente buone o cattive, ma che anche l’approvazione appropriata o inappropriata appare ai nostri sentimenti naturali impressa con gli stessi caratteri. Perciò mi chiedo come avviene che, secondo questo sistema, approviamo o disapproviamo l’approvazione appropriata o inappropriata. Credo che a questa domanda non si possa dare che una sola ragionevole risposta. Bisogna dire che quando l’approvazione con cui il nostro prossimo considera la condotta di una terza persona coincide con la nostra, noi approviamo la sua approvazione, e la consideriamo moralmente buona in qualche misura, e che al contrario, quando non coincide con i nostri propri sentimenti la disapproviamo, e la consideriamo in qualche misura moralmente cattiva. Perciò si deve ammettere che, almeno in quest’unico caso, la coincidenza o l’opposizione dei sentimenti tra l’osservatore e la persona osservata costituisce l’approvazione o disapprovazione morale. E se questo accade in un caso, chiedo, perché non in ogni altro? Ovvero, perché immaginare un nuovo potere di percezione per dar conto di questi sentimenti?

15. Contro ogni resoconto del principio di approvazione che lo fa dipendere da un sentimento particolare, distinto da qualunque altro, obietto che è strano che questo sentimento, che senza dubbio nelle intenzioni della Provvidenza doveva essere il principio che governa la natura umana, sia stato finora così poco notato, da non avere un nome in nessuna lingua. La parola senso morale è di creazione molto recente, e non può ancora esser considerata parte della lingua inglese. La parola approvazione è stata destinata solo negli ultimi anni a denotare specificamente cose di questo tipo. Propriamente parlando, approviamo qualcosa che è del tutto di nostra soddisfazione, come la forma di un edificio, il meccanismo di una macchina, il sapore di un piatto di carne. La parola coscienza non denota immediatamente alcuna facoltà morale per mezzo della quale noi approviamo o disapproviamo. La coscienza suppone, in realtà, l’esistenza di una tale facoltà, e propriamente significa il nostro esser consci di aver agito in accordo o contrariamente alle sue direttive. Tenuto conto che l’amore, l’odio, la gioia, la sofferenza, la gratitudine, il risentimento, insieme a molte altre passioni che si suppone siano tutte soggette a questo principio, sono già da tempo sufficientemente avvertite da acquisire il titolo per mezzo del quale esser conosciute, non sorprende che quella che tutte le governa sia stata finora così poco notata che, se escludiamo alcuni filosofi, nessuno ha ritenuto che valesse la pena darle un nome?

16. Quando approviamo un carattere o un’azione, i sentimenti che proviamo, secondo il sistema sopra esposto, hanno quattro origini, in qualche rispetto diverse l’una dall’altra. In primo luogo, simpatizziamo con le motivazioni dell’agente; in secondo luogo, prendiamo parte alla gratitudine di coloro che ricevono beneficio dalle sue azioni; in terzo luogo, osserviamo che la sua condotta era in accordo con le regole generali in base alle quali solitamente agiscono quelle due simpatie; e, da ultimo, quando consideriamo tali azioni come facenti parte di un sistema di comportamento che tende a promuovere la felicità dell’individuo o della società, esse sembrano guadagnare una certa bellezza da questa utilità, non dissimile da quella che attribuiamo a una macchina ben progettata. Dopo aver sottratto, in ciascun caso particolare, tutto ciò che si deve riconoscere che deriva dall’uno o dall’altro di questi quattro principi, sarei contento di sapere cosa resta, e consentirei liberamente che questo sovrappiù fosse ascritto a un senso morale, o a qualche altra facoltà particolare, a patto che qualcuno indichi precisamente in cosa consista questo sovrappiù. Forse ci si potrebbe aspettare che se esistesse un simile principio peculiare, come si suppone sia il senso morale, dovremmo sentirlo, in alcuni casi particolari, separato e distaccato da ogni altro, come spesso sentiamo la gioia, la sofferenza, la speranza, la paura, pure e non mescolate con altre emozioni. Immagino che questo non si possa nemmeno pretendere. Non ho mai sentito riportare un esempio in cui si potesse dire che questo principio agisse da solo e non mescolato con la simpatia o l’antipatia, con la gratitudine o il risentimento, con la percezione dell’accordo o disaccordo di un’azione con una regola stabilita, o infine con quel generale gusto per la bellezza e l’ordine che viene suscitato tanto da oggetti inanimati quanto da oggetti animati.

17. II. Esiste un altro sistema che tenta di spiegare con la simpatia l’origine dei nostri sentimenti morali, diverso da quello che ho cercato di delineare io. Si tratta del sistema che ripone la virtù nell’utilità, e spiega il piacere con cui lo spettatore contempla l’utilità di una qualità, con la simpatia per la felicità di quelli che si giovano di quella qualità. Questa simpatia è diversa sia da quella per mezzo della quale prendiamo parte alle motivazioni dell’agente, sia da quella per mezzo della quale condividiamo la gratitudine delle persone che beneficiano delle sue azioni. È lo stesso principio per mezzo del quale approviamo una macchina ben progettata. Ma nessuna macchina può essere l’oggetto delle due ultime specie di simpatie che ho menzionato. Ho già accennato a questo sistema nella quarta parte del presente trattato.


 
SEZIONE IV Il modo in cui i diversi autori hanno trattato le regole pratiche della moralità
1. È stato già osservato nella terza parte di questo trattato che le regole di giustizia sono le uniche regole precise e accurate della moralità, che quelle di tutte le altre virtù sono approssimative, vaghe e indeterminate; che le prime possono essere paragonate alle regole grammaticali, le altre a quelle regole che i critici formulano per l’ottenimento di un tipo di composizione sublime ed elegante, e che ci forniscono un’idea generale della perfezione a cui dovremmo tendere, piuttosto che fornirci direttive certe e infallibili per acquisirla.

2. Dal momento che le diverse regole della moralità ammettono gradi così differenti di accuratezza, quegli autori che hanno cercato di raccoglierle e sintetizzarle in sistemi lo hanno fatto in due maniere diverse: un gruppo ha seguito in ogni aspetto quel metodo approssimativo a cui veniva naturalmente indirizzato dalla considerazione di una delle due specie di virtù; un altro gruppo ha cercato altrettanto universalmente di introdurre nei propri precetti quel genere di accuratezza di cui solo alcune virtù sono suscettibili. I primi hanno scritto da critici, i secondi da grammatici.

3. I primi, tra i quali possiamo annoverare tutti i moralisti antichi, si sono accontentati di descrivere in modo generale i diversi vizi e le diverse virtù, e di sottolineare la deformità e la miseria della disposizione viziosa, come la felicità e l’appropriatezza di quella virtuosa, ma non hanno mostrato l’intento di formulare molte regole precise da far valere senza eccezione in tutti i casi particolari. Hanno solo cercato di accertare, per quanto il linguaggio ne può essere capace, primo, in cosa consista il sentimento del cuore su cui si fonda ciascuna virtù particolare, quale sorta di sensazione interna o emozione costituisca l’essenza dell’amicizia, dell’umanità, della generosità, della giustizia, della magnanimità, e di tutte le altre virtù, come di tutti i vizi a esse opposti; secondo, quale sia il modo generale di agire, l’ordinario tono e tenore di condotta a cui ciascuno di quei sentimenti tende a indirizzarci, o come avviene che un uomo amichevole, generoso, coraggioso, giusto e umano sceglie di agire in situazioni ordinarie.

4. Disegnare il sentimento del cuore sul quale ogni virtù particolare è fondata è un compito per il quale occorre una matita delicata e accurata, ma, nonostante ciò, tuttavia, è possibile eseguirlo con un certo grado di esattezza. È impossibile, in realtà, esprimere tutte le variazioni a cui ciascun sentimento è o dovrebbe essere sottoposto a seconda di tutte le possibili variazioni di circostanze: queste sono infinite, e al linguaggio mancano i nomi per designarle tutte. Ad esempio, il sentimento dell’amicizia che possiamo provare per un anziano è diverso da quello che possiamo provare per un giovane; quello che abbiamo verso un uomo austero è diverso da quello che proviamo per uno dalle maniere più gentili e delicate, e ancor diverso da quello che proviamo per un uomo di gioiosa vivacità e spirito. L’amicizia che concepiamo per un uomo è diversa da quella che ci lega a una donna, anche quando non è accompagnata da nessun’altra passione più grossolana. Quale autore è in grado di enumerare e accertare queste e tutte le altre infinite variazioni a cui questo sentimento può essere sottoposto? Ma tuttavia il sentimento generale dell’amicizia e dell’attaccamento familiare che è così comune a tutte queste variazioni può essere accertato con un sufficiente grado di accuratezza. Il disegno che se ne trarrà, per quanto sempre incompleto sotto molti riguardi, tuttavia può avere una tale somiglianza con l’originale tanto da consentirci di riconoscerlo quando ci imbattiamo in esso, e anche di distinguerlo dagli altri sentimenti con i quali ha una considerevole rassomiglianza, come il benvolere, il rispetto, la stima, l’ammirazione.

5. Descrivere in linea generale quale sia il modo ordinario di agire a cui ogni virtù tende a spingerci è ancora più facile. In realtà è quasi impossibile descrivere il sentimento o l’emozione interna su cui tale virtù si fonda, senza fare qualcosa di questo tipo. È impossibile esprimere col linguaggio, se così posso dire, i tratti invisibili di tutte le diverse modificazioni della passione come essi si mostrano all’interno. Non c’è altro modo di contrassegnarli e distinguerli l’uno dall’altro, se non col descrivere gli effetti che essi producono senza quelle modificazioni; le alterazioni del contegno, dell’aria e del comportamento esteriore cui danno occasione; le decisioni che suggeriscono, le azioni a cui spingono. È così che Cicerone, nel primo libro del suo De Officiis, cerca di indirizzarci verso la pratica delle quattro virtù cardinali, e che Aristotele nelle parti pratiche della sua Etica ci indica le diverse abitudini con cui egli vorrebbe che noi regolassimo il nostro comportamento, come la liberalità, la magnificenza, la magnanimità, e persino la giovialità e il buonumore, qualità che quell’indulgente filosofo ci ha insegnato degne di un posto nel catalogo delle virtù, nonostante la leggerezza dell’approvazione che naturalmente concediamo a esse non sembri dar loro diritto a un nome tanto venerabile.

6. Le opere di questi filosofi ci offrono rappresentazioni gradevoli e vivaci dei modi di comportamento. Con la vivacità delle loro descrizioni infiammano il nostro naturale amore per la virtù, e acuiscono il nostro aborrimento del vizio; con la giustezza e la sottigliezza delle loro osservazioni possono spesso aiutare a correggere e a stabilire i nostri sentimenti naturali sull’appropriatezza della condotta, e, suggerendoci molte graziose e delicate attenzioni, ci educano a una giustezza di comportamento più corretta di quella a cui avremmo pensato senza tali istruzioni. Nella trattazione così fatta delle regole della moralità consiste la scienza propriamente denominata Etica, una scienza che, per quanto non consenta la più accurata precisione, come non la ammette l’attività della critica, è tuttavia molto utile e gradevole. Più di ogni altra è suscettibile degli abbellimenti dell’eloquenza, attraverso i quali attribuisce, se questo è possibile, una nuova importanza alle più piccole regole del dovere. I suoi precetti, quando vengono così rivestiti e adornati, sono capaci di produrre la più nobile e durevole impressione sulla gioventù flessibile, e poiché secondano la naturale magnanimità di quell’età generosa, riescono a ispirare, almeno per qualche tempo, le decisioni più eroiche, e così tendono a stabilire e rafforzare le abitudini migliori e più utili di cui la mente umana sia suscettibile. Qualsiasi precetto ed esortazione possa servire a spingerci alla pratica della virtù è opera dell’etica presentata attraverso l’eloquenza.

7. II. Il secondo gruppo di moralisti, tra i quali possiamo annoverare tutti i casisti – dal medioevo ai nostri tempi — della chiesa cristiana, come anche coloro che in questo secolo e in quello precedente hanno trattato quella che viene definita la giurisprudenza naturale, non si accontentano di caratterizzare in questo modo quel tenore di condotta che intendono raccomandarci, ma cercano di formulare regole precise ed esatte per dirigere ogni circostanza del nostro comportamento. Dal momento che la giustizia è l’unica virtù riguardo alla quale possono appropriatamente darsi regole così esatte, è questa la virtù presa principalmente in considerazione da questi due diversi gruppi di scrittori. Tuttavia, essi ne trattano in maniera molto diversa.

8. Quelli che scrivono sulla base dei principi della giurisprudenza considerano soltanto quel che la persona a cui l’obbligo è dovuto dovrebbe ritenersi autorizzata a esigere con la forza; quel che ogni spettatore imparziale approverebbe che quella persona esigesse; o quel che un giudice o arbitro a cui quella persona abbia sottoposto il suo caso, e che abbia iniziato a renderle giustizia, dovrebbe obbligare l’altra persona a subire o a compiere. I casisti, d’altra parte, non esaminano tanto cosa possa appropriatamente essere estorto con la forza, quanto cosa la persona in obbligo dovrebbe ritenersi forzata a fare per il più sacro e scrupoloso riguardo per le regole generali di giustizia, e per il più coscienzioso terrore di danneggiare il prossimo o di violare l’integrità del proprio carattere. Il fine della giurisprudenza è quello di prescrivere regole per le decisioni dei giudici e degli arbitri. Il fine della casistica è quello di prescrivere regole per la condotta di un uomo buono. Osservando tutte le regole della giurisprudenza, supponendo che siano sempre perfette, non meriteremmo altro che di essere liberi da punizioni esteriori. Osservando le regole della casistica, supponendo che siano come devono essere, avremmo diritto a una notevole lode, per la precisa e scrupolosa delicatezza del nostro comportamento.

9. Può succedere spesso che un uomo buono si ritenga forzato, per un sacro e coscienzioso riguardo per le regole generali di giustizia, a compiere molte azioni che sarebbe altamente ingiusto estorcergli, o che sarebbe ingiusto per un giudice o arbitro imporgli con la forza. Per dare un esempio dei più noti: un bandito, con la minaccia della morte, obbliga un viaggiatore a promettergli una certa somma di denaro. Una questione molto dibattuta è se una tale promessa, estorta in questo modo con ingiusta forza, debba essere considerata obbligatoria.

10. Considerata come una questione di giurisprudenza, la decisione non ammette dubbi. Sarebbe assurdo supporre che il bandito possa essere autorizzato a usare la forza per costringere l’altro a rispettare la promessa. Estorcere la promessa è un crimine che merita la più dura punizione, ed estorcerne il rispetto sarebbe solo aggiungere un altro crimine al precedente. Non può lagnarsi di aver subito alcun torto chi è solo stato ingannato dalla persona che avrebbe potuto giustamente ucciderlo. Supporre che un giudice debba imporre l’obbligo di tali promesse, o che il magistrato debba consentire che esse sostengano un’azione legale, sarebbe la più ridicola assurdità. Perciò, se consideriamo questa questione come una questione di giurisprudenza, non possiamo aver dubbi sulla decisione.

11. Ma se la consideriamo come una questione di casistica, non sarà così facile da stabilire. È se non altro molto più dubbio che un uomo buono, per un coscienzioso riguardo per quella sacra regola di giustizia che ordina di rispettare tutte le promesse serie, non si senta legato a rispettarla. È indiscutibile che non si deve alcun riguardo alla delusione dello scellerato che l’ha messo in questa situazione, che al rapinatore non viene fatta alcuna offesa, e che di conseguenza nulla può essere estorto con la forza. Ma si può forse invece discutere ragionevolmente se non si debba prestare qualche riguardo alla propria dignità e onore, alla inviolabile sacralità di quella parte del proprio carattere che fa provare reverenza per la legge della verità e aborrimento verso ogni cosa si avvicini all’inganno e alla falsità. Quindi i casisti sono molto divisi su questa faccenda. Un gruppo di loro, nel quale possiamo annoverare Cicerone tra gli antichi, e tra i moderni Puffendorf, Barbeyrac, suo commentatore, e soprattutto Hutcheson, che nella maggior parte dei casi non è affatto un casista approssimativo, stabiliscono senza esitazione che nessun riguardo è dovuto a tale promessa, e che pensarla altrimenti non è altro che debolezza e superstizione. Un altro gruppo, nel quale annoveriamo alcuni degli antichi padri della chiesa e alcuni moderni casisti molto eminenti, sono stati di opinione diversa e hanno ritenuto che anche queste promesse fossero obbliganti.

12. Se consideriamo la faccenda secondo i comuni sentimenti dell’umanità, scopriremo che si ritiene che sia dovuto un certo riguardo anche a una promessa estorta con la forza, ma che è impossibile determinare, con una regola generale applicabile a tutti i casi senza eccezione, quanto riguardo le si debba. Non sceglieremmo come nostro amico e compagno un uomo che è stato del tutto franco e tranquillo nel fare una simile promessa, e che poi l’ha violata senza il minimo scrupolo. Un gentiluomo che dovesse promettere a un rapinatore cinque sterline, senza poi mantenere la promessa, incorrerebbe in un certo biasimo. Tuttavia, se la somma promessa fosse molto grande, avremmo più dubbi su che cosa sarebbe stato appropriato fare. Ad esempio, se fosse una somma tale che il suo pagamento avrebbe rovinato la famiglia di chi l’aveva promessa, se fosse stata tanto grande da esser sufficiente a promuovere i più utili propositi, sembrerebbe in qualche misura criminale, se non altro estremamente inappropriato, gettarla in mani tanto miserabili solo per semplice puntiglio. L’uomo che per mantenere la parola data a un ladro dovesse mettersi lui stesso a rubare, o gettar via centomila sterline, anche potendo disporre di questa ingente somma, apparirebbe al senso comune dell’umanità assurdo e stravagante al più alto grado. Un tale spreco sembrerebbe incoerente con il suo dovere, con quel che egli doveva a se stesso e ad altri, sembrerebbe perciò qualcosa che non poteva affatto essere autorizzato dal riguardo per una promessa estorta con la forza. Tuttavia, fissare con una regola precisa il grado di riguardo dovuto a tale promessa, o fino a quale somma si debba mantenerla, è evidentemente impossibile: dipende dai caratteri delle persone, dalle loro condizioni economiche, dalla solennità della loro promessa, e anche dalle circostanze in cui è avvenuto l’incontro. Se colui che ha promesso è stato trattato dal rapinatore con galanteria, dote che a volte si può trovare in persone dai caratteri più scellerati, sembrerà che egli gli debba più che in altre occasioni. Si può dire in generale che l’esatta appropriatezza richiede l’osservanza di tutte le promesse di questo tipo, quando non è in contrasto con altri doveri più sacri, come il riguardo per l’interesse pubblico, o il riguardo per coloro ai quali dovremmo esser spinti a provvedere dalla gratitudine, dall’affetto naturale, o dalle leggi dell’appropriata beneficenza. Ma, come abbiamo notato in precedenza, non possediamo regole precise per determinare quali azioni esteriori siano richieste dal rispetto di tali motivazioni, e di conseguenza non sappiamo quando queste virtù siano in disaccordo con l’osservanza di tali promesse.

13. Tuttavia, bisogna osservare che tutte le volte che tali promesse vengono violate, questo avviene sempre con una sorta di disonore per la persona che le ha fatte. Dopo che sono state fatte, possiamo convincerci che è inappropriato osservarle. Ma c’è tuttavia una certa colpa nell’averle fatte. Se non altro, si tratta di un allontanamento dalle massime più alte e più nobili della magnanimità e dell’onore. Un uomo prode dovrebbe morire, piuttosto che fare una promessa che non può mantenere senza follia, né violare senza ignominia: infatti un certo grado di ignominia accompagna sempre una situazione di questo tipo. La slealtà e la falsità sono vizi così pericolosi, così terribili, e allo stesso tempo lasciarsi andare a essi è così facile e in molte occasioni così sicuro, che verso di essi siamo particolarmente sospettosi. Per questo motivo la nostra immaginazione unisce l’idea di vergogna a tutte le violazioni della parola data, in ogni circostanza e in ogni situazione. La slealtà e la falsità somigliano, sotto questo riguardo, alla violazione della castità nel sesso debole, una virtù della quale per ragioni simili siamo eccessivamente gelosi; nutriamo sentimenti altrettanto delicati verso il rispetto della parola e verso la castità. La violazione della castità disonora irreparabilmente. Nessuna circostanza, nessuna richiesta insistente può giustificarla, nessuna sofferenza, nessun pentimento ripararla. Siamo così sottili sotto questo riguardo, che per noi persino uno stupro disonora, e nella nostra immaginazione l’innocenza della mente non riesce a lavare la sporcizia del corpo. Il caso è lo stesso per la violazione della parola solennemente data, anche al più indegno degli uomini. Mantenere la fede è una virtù così necessaria, che la riteniamo in generale dovuta anche a coloro a cui non è dovuto altro, e che riteniamo legittimo uccidere e annientare. È inutile che la persona colpevole di non aver mantenuto la parola ripeta con insistenza di aver promesso per salvarsi la vita, e di aver infranto la sua promessa perché mantenerla era inconciliabile con qualche altro rispettabile dovere. Queste circostanze possono alleviare, ma non possono cancellare del tutto il disonore. La persona che non ha mantenuto fede alla parola data appare colpevole di un’azione che nell’immaginazione degli uomini è inseparabilmente connessa con un certo grado di vergogna. Ha infranto una promessa che aveva solennemente giurato di mantenere, e il suo carattere, se non irreparabilmente macchiato e sporcato, ne risulta come minimo ridicolizzato, in un modo difficilmente eliminabile del tutto, e credo che nessun uomo passato attraverso un’avventura di questo tipo sarebbe orgoglioso di raccontarla.

14. Questo esempio può servire a mostrare in cosa consiste la differenza tra la casistica e la giurisprudenza, anche quando entrambe considerano gli obblighi delle regole generali di giustizia.

15. Ma sebbene questa differenza sia reale ed essenziale, sebbene queste due scienze si propongano fini molto diversi, il fatto che si occupano dello stesso oggetto le ha rese così simili, che la maggior parte degli autori il cui obiettivo dichiarato è trattare di giurisprudenza hanno risolto le diverse questioni prese in esame a volte secondo i principi di tale scienza, e a volte secondo quelli della casistica, senza distinguere, e forse senza esser loro stessi coscienti dei casi in cui facevano uso dell’una o dell’altra.

16. La dottrina dei casisti, tuttavia, non è affatto relegata alla considerazione di quel che uno scrupoloso riguardo per le regole generali di giustizia ci richiede, ma comprende molte altre parti del dovere cristiano e morale. Ciò che sembra abbia dato occasione alla coltivazione di questa scienza è il costume della confessione auricolare, introdotta dalla superstizione cattolica romana in tempi di barbarie e ignoranza. Per mezzo di questa istituzione, ogni persona doveva rivelare al confessore le azioni più segrete, e persino i pensieri che potevano essere sospettati di recedere minimamente dalle regole della purezza cristiana. Il confessore informava il penitente se e in quale rispetto era venuto meno al suo dovere, e quale penitenza doveva fare prima che egli potesse assolverlo nel nome della divinità offesa.

17. La consapevolezza, o anche il solo sospetto di aver compiuto il male, è un peso per ogni mente, ed è accompagnato da ansia e terrore in tutti coloro che non sono induriti da una lunga abitudine all’iniquità. Gli uomini, in questa come in altre situazioni angosciose, sono naturalmente ansiosi di alleviare il peso dell’oppressione dei loro pensieri confessando l’agonia della loro mente a qualche persona sulla cui segretezza e discrezione possono contare. La vergogna che provano nel riconoscere la propria colpa è pienamente ricompensata dall’alleviamento della loro inquietudine, a cui è raro che la simpatia del confidente non dia luogo. Essa li aiuta a scoprire di non essere del tutto indegni di riguardo; che per quanto la loro condotta passata possa esser criticata, la loro disposizione presente è per lo meno approvata, ed è forse sufficiente a compensare l’altra, almeno tanto da garantirgli un qualche grado di stima da parte dei loro amici. Un clero numeroso e astuto, in quei tempi di superstizione, si è insinuato nella confidenza di quasi ogni famiglia privata. Gli ecclesiastici possedevano tutta la scarsa cultura che il periodo poteva offrire, e i loro modi, per quanto in molti rispetti rudi e disordinati, erano raffinati e regolari a confronto con quelli tipici dell’età in cui vivevano. Essi perciò venivano considerati non solo come i grandi direttori di tutti i doveri religiosi, ma anche di tutti quelli morali. Essere in familiarità con loro conferiva una certa reputazione a chi era così felice da possederla, e ogni segno della loro disapprovazione imprimeva la più profonda ignominia su tutti quelli che avevano la sventura di scontrarsi con essa. Considerati come i grandi giudici del giusto e dell’ingiusto, erano naturalmente consultati riguardo a tutti gli scrupoli che venivano in mente, ed era un onore per ogni persona esser nota per avere quei santi uomini come confidenti di tutti quei segreti, e per non compiere alcun passo importante o delicato senza il loro consiglio e la loro approvazione. Perciò non fu difficile per il clero dar per stabilita come regola generale che i religiosi dovessero essere i confidenti di quel che era già una moda confidar loro, e di quello di cui sarebbero stati confidenti anche senza che fosse stabilita una simile regola. Essere qualificati come confessori divenne così una parte necessaria della formazione dei religiosi e degli ecclesiastici, e per questo essi furono condotti a raccogliere i cosiddetti casi di coscienza, situazioni sottili e delicate nelle quali è difficile stabilire dove risieda l’appropriatezza della condotta. Essi ritenevano che tali raccolte potessero servire sia ai direttori delle coscienze che a quelli che dovevano essere diretti: di qui l’origine dei libri di casistica.

18. I doveri morali che caddero nella considerazione dei casisti furono soprattutto quelli che possono, almeno in qualche misura, essere circoscritti all’interno di regole generali, e la cui violazione è accompagnata naturalmente da un certo grado di rimorso, e un certo timore di dover patire una punizione. Il fine dell’istituzione che ha dato origine alle opere di casistica era quello di alleviare i terrori della coscienza che accompagnano l’infrazione di quei doveri. Ma non ogni difetto di virtù è accompagnato da severi pentimenti, e nessuno va dal suo confessore a chiedere l’assoluzione per non aver compiuto l’azione più generosa, più amichevole e più magnanima che era possibile compiere nelle sue circostanze. Nelle mancanze di questo genere, la regola violata comunemente non è molto determinata, e inoltre generalmente è di una tale natura che per quanto la sua osservanza potrebbe far meritare onore e ricompensa, la sua violazione non sembra esporre ad alcun positivo biasimo, censura o punizione. Sembra che i casisti abbiano considerato l’esercizio di tali virtù come una sorta di supererogazione, che non si può esigere, e che perciò non era per loro necessario trattare.

19. Perciò, le infrazioni dei doveri morali che arrivavano di fronte al tribunale del confessore, e che per questo erano di competenza della casistica, erano principalmente di tre diversi tipi:

20. In primo luogo, e principalmente, l’infrazione delle regole di giustizia. Tali regole sono tutte espresse e positive, e la loro violazione è naturalmente accompagnata dalla consapevolezza di meritare, e dal timore di patire, punizione da parte di Dio e degli uomini.

21. In secondo luogo, l’infrazione delle regole della castità. Queste violazioni nei casi più gravi sono autentiche violazioni delle regole di giustizia, e nessuno può rendersene colpevole senza arrecare la più imperdonabile offesa a qualcun altro. Nei casi meno gravi, quando non consistono in altro che in una violazione della buona creanza che dovrebbe essere osservata nei rapporti tra i due sessi, non possono esser giustamente considerate come violazioni delle regole di giustizia. Tuttavia, sono generalmente violazioni di una regola del tutto evidente, e, almeno in uno dei due sessi, tendono a coprire di ignominia chi se ne è reso colpevole, e di conseguenza a essere accompagnate, nella persona scrupolosa, da un certo grado di vergogna e contrizione.

22. In terzo luogo, le infrazioni delle regole di veracità. Va osservato che la violazione della verità non è sempre violazione della giustizia, per quanto in molte occasioni lo sia, e di conseguenza non espone sempre a punizioni esteriori. Il vizio della comune menzogna, per quanto sia una miserabile bassezza, spesso non danneggia nessuno, e in questo caso non può essere dovuta vendetta o soddisfazione, né alla persona di cui si è abusato, né ad altri. Ma per quanto la violazione della verità non sia sempre un’infrazione della giustizia, è sempre la violazione di una regola molto evidente, e tende sempre a ricoprire di vergogna la persona che se ne è resa colpevole.

23. Sembra che nei bambini sia presente un’istintiva disposizione a credere a qualsiasi cosa venga loro detta. Sembra che la natura abbia ritenuto necessario per la loro conservazione che essi riponessero, almeno per un certo tempo, un’implicita fiducia in coloro a cui è affidata la cura della loro tenera età e delle prime e più necessarie parti della loro istruzione. Di conseguenza, la loro credulità è eccessiva, e occorre una lunga e varia esperienza della falsità degli uomini per condurli a un grado ragionevole di diffidenza e sfiducia. Negli adulti, i livelli di credulità sono senza dubbio molto diversi. I più saggi e più esperti sono generalmente i meno creduli. Ma non esiste quasi nessun uomo che non sia più credulo di quanto dovrebbe essere, e che non dia, in molte occasioni, credito a storie che non solo si rivelano poi del tutto false, ma che con il minimo grado di riflessione e attenzione avrebbe potuto scoprire che non potevano essere vere. La disposizione naturale è sempre a credere. Solo l’acquisita saggezza ed esperienza insegnano l’incredulità, e raramente la insegnano abbastanza. Anche il più saggio e il più cauto di tutti noi dà spesso credito a storie tali, da lasciarlo in seguito stupito e meravigliato per il fatto di aver potuto pensare di credervi.

24. L’uomo a cui crediamo è necessariamente, nelle cose per le quali gli crediamo, la nostra guida e il nostro direttore, e noi lo guardiamo con un certo grado di stima e rispetto. Ma come nell’ammirare altre persone ci viene il desiderio di essere ammirati a nostra volta, così nell’essere guidati e diretti ci viene il desiderio di diventare noi stessi guide e direttori. Come non possiamo sempre essere soddisfatti solo di essere ammirati, a meno che non siamo allo stesso tempo persuasi di essere a un certo grado degni di ammirazione, così non possiamo sempre esser soddisfatti solo di esser creduti, a meno che non siamo nello stesso tempo consapevoli di esser davvero degni di credito. Come il desiderio di lode e quello dell’esser degni di lode, per quanto molto simili, sono tuttavia due desideri distinti e separati, così il desiderio di esser creduti e quello di esser degni di credito, per quanto anch’essi molto simili, sono allo stesso modo desideri distinti e separati.

25. Il desiderio di esser creduti, il desiderio di persuadere, di guidare e dirigere altre persone, sembra uno dei nostri più forti desideri naturali. È forse l’istinto sul quale si fonda la facoltà del linguaggio, la facoltà caratteristica della natura umana. Nessun altro animale possiede tale facoltà, e non possiamo scoprire in nessun altro animale alcun desiderio di guidare e dirigere il giudizio dei suoi simili. La grande ambizione, il desiderio di reale superiorità, il desiderio di guidare e dirigere sembra del tutto peculiare dell’uomo, e il linguaggio è il grande strumento dell’ambizione, della reale superiorità, della guida e della direzione dei giudizi e della condotta di altre persone.

26. È sempre mortificante non essere creduti, e lo è doppiamente quando sospettiamo che questo avviene perché siamo ritenuti indegni di credito e capaci di ingannare seriamente e intenzionalmente. Dire a un uomo che mente è il più mortale degli affronti. Ma chi inganna seriamente e intenzionalmente è necessariamente consapevole di meritare tale affronto, è consapevole di non meritare di esser creduto, e di non meritare ogni titolo a quella fiducia dalla quale soltanto può derivare ogni tipo di agio, benessere, o soddisfazione nella società dei suoi simili. L’uomo che avesse avuto la sventura di immaginare che nessuno credeva una singola parola di quel che lui diceva, si sentirebbe il reietto della società umana, avrebbe timore persino del solo pensiero di entrare in essa, o di presentarvisi di fronte e, credo, sarebbe difficile che egli non morisse di disperazione. Tuttavia, è probabile che nessun uomo abbia mai avuto una giusta ragione per avere questa umiliante opinione di se stesso. Sono disposto a credere che anche il più famigerato mentitore dice la verità almeno venti volte per ogni volta in cui mente deliberatamente, e come nella persona più cauta la disposizione a credere tende a prevalere sulla disposizione a dubitare e a diffidare, così, in coloro che hanno il minor riguardo per la verità, la disposizione naturale a essere sinceri prevale in molte occasioni sulla disposizione a ingannare, o ad alterare e contraffare la verità.

27. Siamo mortificati quando ci capita di ingannare altre persone, anche se involontariamente, e dopo esser stati a nostra volta ingannati. Per quanto questa falsità involontaria possa spesso non essere segno di mancanza di veracità, di mancanza del più perfetto amore della verità, è sempre in qualche misura un segno della mancanza di giudizio, di memoria, un segno di inappropriata credulità, di un certo grado di precipitazione e avventatezza. Fa sempre diminuire la nostra autorità nel persuadere, e fa sospettare che non siamo adatti a guidare e dirigere. L’uomo che talvolta imbroglia per errore, tuttavia, è molto diverso da quello capace di ingannare volontariamente. Al primo si può dare tranquillamente fiducia in molte occasioni, al secondo raramente.

28. La franchezza e la schiettezza ispirano fiducia. Ci fidiamo di un uomo che sembra disposto a fidarsi di noi. Pensiamo di vedere chiaramente la via per la quale intende condurci, e ci abbandoniamo con piacere alla sua guida e direzione. Al contrario, la riservatezza e la dissimulazione attirano la diffidenza, Abbiamo timore di seguire l’uomo che va non sappiamo dove. Il grande piacere della conversazione e della società, inoltre, deriva da una certa corrispondenza di sentimenti e opinioni, da una certa armonia delle menti, che come tanti strumenti musicali si accordano e vanno a tempo l’uno con l’altro. Ma non si può ottenere questa deliziosa armonia a meno che non ci sia una libera comunicazione di sentimenti e opinioni. Desideriamo tutti, per questo motivo, sentire reciprocamente quanto l’altro sia colpito, penetrare l’uno nel cuore dell’altro, e osservare i sentimenti e le affezioni che sono realmente presenti in esso. L’uomo che ci consente di abbandonarci a questa passione naturale, che ci invita nel suo cuore, che ci lascia per così dire aperti i cancelli del suo animo, sembra esercitare una specie di ospitalità più deliziosa di qualunque altra. Nessun uomo di ordinario buon umore può mancare di piacere se ha il coraggio di esternare i suoi sentimenti naturali così come li sente, e per il motivo che li sente. È questa schietta sincerità che rende gradevole anche il balbettìo di un bambino. Per quanto semplici e imperfetti siano i modi di vedere delle persone espansive, noi proviamo piacere nel prendervi parte, e ci sforziamo, per quanto possiamo, di abbassare il nostro intelletto al livello delle loro capacità, e di considerare ogni argomento sotto la particolare luce in cui sembra l’abbiano considerato loro. Questa passione di scoprire i reali sentimenti degli altri è per natura così forte, che spesso degenera in una curiosità seccante e impertinente di impicciarsi di quei segreti che il nostro prossimo ha motivi del tutto giustificati per nascondere, e in molte occasioni è richiesta prudenza e un forte senso dell’appropriatezza per dominare questa, così come tutte le altre passioni della natura umana, e per ridurla a un livello che uno spettatore imparziale possa approvare. Deludere questa curiosità, tuttavia, quando è mantenuta in limiti appropriati e non mira a qualcosa che si abbia un giusto motivo per nascondere, è a sua volta ugualmente sgradevole. L’uomo che elude le nostre più innocenti domande, che non dà soddisfazione alle nostre più inoffensive indagini, che si rifugia semplicemente in un’impenetrabile oscurità, sembra come costruire un muro nel proprio animo. Noi ci precipitiamo per entrarvi dentro con tutto l’ardore di un’innocua curiosità, e ci sentiamo a un tratto respinti all’indietro con la violenza più rude e offensiva.

29. L’uomo di carattere riservato e dissimulatore, per quanto raramente sia molto amabile, non viene privato di rispetto o disprezzato. Sembra provare freddezza nei nostri riguardi, e noi proviamo altrettanta freddezza nei suoi. Non è molto lodato o amato, ma nemmeno molto odiato o biasimato. Tuttavia raramente ha occasione di pentirsi della sua cautela, e tende generalmente ad apprezzare molto se stesso per la sua prudente riservatezza. Perciò, per quanto la sua condotta possa esser stata molto colpevole, e a volte persino offensiva, molto raramente può esser disposto a portare il suo caso davanti ai casisti, o a immaginare di avere qualche occasione per ottenere la loro assoluzione o approvazione.

30. Non è sempre così per l’uomo che, a causa di una falsa informazione, per inavvertenza, per precipitazione e avventatezza, abbia involontariamente ingannato. Per quanto si possa trattare di una faccenda di scarsa importanza, come per esempio dare notizie di poco conto, se egli è un reale amante della verità, si vergogna della propria negligenza, e non manca mai di cogliere la prima opportunità di riconoscerla pienamente. Se si tratta di una faccenda di qualche importanza, la sua contrizione è ancora maggiore, e se qualche conseguenza sfortunata o fatale è derivata dall’errata informazione che egli ha fornito, è difficile che riesca a perdonarsela. Per quanto non colpevole, si sente al più alto grado quel che gli antichi chiamavano capro espiatorio, ed è ansioso e impaziente di compiere ogni specie di riparazione in suo potere. Una tale persona poteva tendere spesso a portare il suo caso davanti ai casisti, che in genere gli erano favorevoli, e per quanto a volte lo condannassero giustamente per la sua avventatezza, lo assolvevano universalmente dall’ignominia della menzogna.

31. Ma l’uomo che aveva l’occasione più frequente di consultare i casisti era quello capace di giocare con le parole e con riserve mentali, l’uomo che seriamente e deliberatamente intendeva ingannare, ma che, allo stesso tempo, voleva illudersi di aver realmente detto la verità. Nei suoi confronti i casisti si comportavano in svariate maniere. Quando approvavano decisamente i motivi del suo inganno, a volte lo assolvevano, per quanto, volendo render loro giustizia, bisogna dire che generalmente e molto più frequentemente lo condannavano.

32. L’oggetto principale delle opere dei casisti, perciò, era il coscienzioso riguardo dovuto alle regole di giustizia; fino a che punto dobbiamo rispettare la vita e la proprietà del nostro prossimo; il dovere del risarcimento; le leggi della castità e della modestia; stabilire in cosa consistono quelli che nel loro linguaggio sono chiamati i peccati di concupiscenza; le regole della veracità e l’obbligo dei giuramenti, delle promesse e dei contratti di ogni tipo.

33. Si può dire in generale dei casisti che essi hanno cercato, senza alcun risultato, di dirigere con regole precise quel che spetta solo alla sensibilità e al sentimento giudicare. Come è possibile stabilire per mezzo di regole il punto esatto in cui, in ciascun caso, un delicato senso di giustizia comincia a precipitare in una frivola e debole scrupolosità di coscienza? Quando è che la segretezza e la riservatezza cominciano a diventare dissimulazione? Fin dove si può spingere una gradevole ironia, e in quale punto preciso comincia a degenerare in una detestabile menzogna? Qual è il punto più alto della libertà e disinvoltura di comportamento che può essere considerata aggraziata e conveniente, e quand’è che comincia a precipitare verso una negligente e spensierata licenziosità? Riguardo a tutte queste faccende, quel che va bene in un caso difficilmente andrà bene esattamente allo stesso modo in un altro, e quel che costituisce l’appropriatezza e la felicità del comportamento varia in tutti i casi al minimo variare della situazione. Perciò i libri di casistica sono generalmente tanto inutili quanto comunemente noiosi. Potrebbero essere di scarsa utilità per uno che li consultasse all’occasione, anche supponendo che la loro decisione sia giusta, perché, nonostante la moltitudine dei casi in essi raccolti, a causa dell’ancor più grande varietà di circostanze è una coincidenza fortuita se in mezzo a tutti quei casi se ne trova uno esattamente parallelo a quello in considerazione. Uno che sia realmente ansioso di compiere il proprio dovere deve essere molto sciocco se può immaginare di conceder loro molto peso; e per uno che invece è negligente verso il proprio dovere, lo stile di quegli scritti non è certo tale da suscitare una sua maggiore attenzione. Nessuno di essi tende ad animarci verso quel che è generoso e nobile. Nessuno di essi tende a indirizzarci dolcemente verso quel che è gentile e umano. Molti di essi, al contrario, tendono piuttosto a insegnarci a usare sotterfugi con la nostra coscienza, e con le loro vane sottigliezze servono ad autorizzare innumerevoli scappatoie che eludono i più essenziali articoli del nostro dovere. Quella frivola accuratezza che i casisti tentavano di introdurre in materie che non la ammettono, quasi necessariamente li attirava in quei pericolosi errori, e allo stesso tempo rendeva le loro opere aride e sgradevoli, piene di astruse distinzioni metafisiche, ma incapaci di suscitare nel cuore quelle emozioni che è la principale utilità dei libri di morale suscitare.

34. Le due parti utili della filosofia morale, perciò, sono l’Etica e la Giurisprudenza: la casistica deve essere rifiutata integralmente, e sembra che i moralisti antichi che hanno giudicato molto meglio sono stati coloro che, nel trattare gli stessi argomenti, non hanno ostentato alcuna accurata esattezza, ma si sono accontentati di descrivere in linee generali qual è il sentimento su cui si fondano la giustizia, la modestia e la veracità, e qual è il modo ordinario di agire verso il quale tali virtù comunemente ci spingono.

35. In realtà, sembra che qualcosa di non dissimile alla dottrina dei casisti sia stata tentata da diversi filosofi. Troviamo qualcosa del genere nel terzo libro del De Officiis di Cicerone, dove egli tenta, come un casista, di dare regole per la nostra condotta in molti casi sottili, nei quali è difficile stabilire dove possa risiedere precisamente l’appropriatezza. Inoltre, da altri passaggi dello stesso libro, sembra che diversi altri filosofi abbiano prima di lui tentato qualcosa del genere. Tuttavia, non sembra che né lui né loro abbiano mirato a offrire un sistema completo di questo tipo, ma che abbiano soltanto avuto l’intenzione di mostrare come possano capitare delle situazioni in cui è dubbio se il livello più alto di appropriatezza consista nel seguire o nel recedere da quelle che nei casi ordinari sono le regole del dovere.

36. Ogni sistema di legge positiva può essere considerato un tentativo più o meno imperfetto di costruire un sistema di giurisprudenza naturale, o di fornire un’enumerazione delle particolari regole di giustizia. Dal momento che la violazione della giustizia è una questione che gli uomini non rimetteranno mai l’uno all’altro, il magistrato pubblico è costretto a impiegare il potere che la società gli ha conferito per rinforzare la pratica di questa virtù. Senza questa precauzione, la società civile diventerebbe una scena sanguinosa e disordinata, poiché ogni uomo si vendicherebbe con le proprie mani tutte le volte che ritenesse di essere stato offeso. Per prevenire la confusione che risulterebbe dal farsi giustizia da sé, il magistrato, presso tutti i governi che hanno acquistato una considerevole autorità, si impegna a rendere giustizia a tutti, e promette di ascoltare ogni denuncia di offesa ricevuta, e di ripararla. Inoltre, in tutti gli stati ben governati non solo sono designati giudici per dirimere le controversie tra gli individui, ma sono prescritte regole per indirizzare le decisioni di quei giudici, e in generale si tende a far coincidere queste regole con quelle della giustizia naturale. In realtà non sempre questo accade in ogni occasione. A volte quella che viene chiamata la costituzione dello stato, vale a dire l’interesse del governo, a volte l’interesse di particolari ordini di uomini che tiranneggiano il governo, allontanano le leggi positive dello stato da quel che prescriverebbe la giustizia naturale. In alcuni paesi, la rudezza e la barbarie della gente impedisce ai sentimenti naturali di giustizia di giungere a quell’accuratezza e a quella precisione cui essi giungono naturalmente presso popoli più civilizzati. Le loro leggi sono, come le loro maniere, grossolane, rudi e incapaci di distinzioni. In altri paesi la sfortunata costituzione delle corti di giustizia impedisce persino che si stabilisca un regolare sistema di giurisprudenza, per quanto le maniere progredite della gente siano tali da poterne ammettere di molto accurati. In nessun paese le decisioni della legge positiva coincidono esattamente, in ciascun caso, con le regole che il senso naturale di giustizia detterebbe. Perciò, i sistemi di legge positiva, per quanto meritino la più grande autorità, in quanto sono testimonianze dei sentimenti dell’umanità nelle diverse età e nazioni, tuttavia non possono essere mai considerati come sistemi accurati delle regole di giustizia naturale.

37. Ci si potrebbe aspettare che i ragionamenti dei giuristi sulle diverse imperfezioni e perfezionamenti delle leggi dei diversi paesi avrebbero dovuto dare occasione a una ricerca su quali siano le regole naturali della giustizia, indipendentemente da tutte le istituzioni positive. Ci si sarebbe potuti aspettare che quei ragionamenti li avrebbero dovuti condurre a tentare di stabilire un sistema di quella che potrebbe essere appropriatamente chiamata giurisprudenza naturale, ovvero una teoria dei principi generali che dovrebbero percorrere le leggi di tutte le nazioni, ed esserne a fondamento. Ma sebbene i ragionamenti dei giuristi abbiano effettivamente prodotto qualcosa del genere, e sebbene nessun uomo abbia sistematicamente trattato delle leggi di ciascun particolare paese senza mescolare nella sua opera molte osservazioni di questo tipo, nel mondo si è pensato molto tardi a un tale sistema generale, e molto tardi la filosofia del diritto ha cominciato a essere trattata per se stessa, senza riguardo per le istituzioni particolari di ciascuna nazione. In nessuno dei moralisti antichi troviamo tentativi di enumerazione particolareggiata delle regole di giustizia. Cicerone nel suo De Officiis e Aristotele nella sua Etica trattano della giustizia nella stessa maniera generale in cui trattano tutte le altre virtù. Nelle leggi di Cicerone e Platone, dove ci saremmo naturalmente potuti aspettare qualche tentativo di enumerazione di quelle regole di equità naturale, che dovrebbero essere rinforzate dalle leggi positive di ogni paese, non c’è tuttavia nulla del genere. Le loro leggi sono leggi di amministrazione civile (police), non di giustizia. Grozio sembra esser stato il primo a tentare di dare al mondo qualcosa di simile a un sistema di quei principi che dovrebbero percorrere le leggi di tutte le nazioni, ed esserne il fondamento: e il suo trattato sul diritto in guerra e in pace, pur con tutte le sue imperfezioni, è forse a tutt’oggi l’opera più completa su questo argomento. In un altro discorso cercherò di dare un resoconto dei principi naturali del diritto e del governo, e dei diversi rivoluzionari mutamenti che hanno subito nelle diverse epoche e periodi della società, non solo per quel che riguarda la giustizia, ma per quel che riguarda l’amministrazione civile (police), le finanze e l’esercito, e ogni altra questione sia oggetto del diritto, perciò non mi inoltrerò ora in ulteriori dettagli riguardo alla storia della giurisprudenza.


 

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