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Ecce Homo. Come si diventa ciò che si
Friedrich Nietzsche

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Content
Prologo
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Perché sono così saggio
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Perché sono così accorto
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Perché scrivo libri così buoni
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La nascita della tragedia
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Le considerazioni inattuali
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Umano, troppo umano. Con due continuazioni
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Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali
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La gaia scienza. («La gaya scienza»)
Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno
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Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire
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Genealogia della morale. Uno scritto polemic
Crepuscolo degli idoli. Come si filosofa col Martello
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Il caso Wagner. Un problema di musicisti
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Perché sono un destino
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Prologo

 
1
In previsione del fatto che fra breve dovrò affrontare l’umanità con l’esigenza più grave che le sia mai stata posta, mi sembra necessario dire chi sono. In fondo è possibile che lo si sappia già: poiché non ho mai mancato di «dare testimonianza di me». Ma la discrepanza tra la grandezza del mio compito e la piccolezza dei miei contemporanei si manifesta nel fatto che non mi hanno udito о anche soltanto visto. Vivo a mio proprio credito, forse è solo un pregiudizio, che io viva?... Mi basta solo parlare con un qualche «dotto» che venga d’estate in Alta Engadina per convincermi che non vivo... In queste circostanze c’è un dovere contro U quale, in fondo, la mia abitudine e ancor più l’orgoglio dei miei istinti si rivolta, dire cioè: Ascoltatemi! poiché io sono questo e quest‘altro. E soprattutto non confondetemi con altri!
 
2
Ad esempio, io non sono affatto uno spauracchio, un mostro morale, — Io sono addirittura una natura opposta a quella specie d’uomo che fino ad oggi è stata venerata come virtuosa. Detto fra noi, mi sembra che proprio ciò inerisca al mio orgoglio. Sono un discepolo del filosofo Dioniso, preferirei piuttosto essere un satiro che un santo. Ma si legga dunque questo scritto. Forse ce l’ha fatta, forse questo scritto non aveva altro scopo che esprimere questo confronto in modo sereno e filantropico. L’ultima cosa che io prometterei, sarebbe «correggere» l’umanità. Non erigerò nuovi idoli; i vecchi possono cominciare ad imparare cosa comporta avere i piedi d’argilla. Rovesciare gli idoli (il mio termine per «ideali») — è questo, piuttosto, che attiene al mio mestiere. La realtà è stata spogliata del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui si è inventato un mondo ideale. Il «mondo reale» e il «mondo apparente» — vedi: il mondo inventato e la realtà... La menzogna dell’ideale è stata fino ad ora la maledizione scagliata contro la realtà, l’umanità stessa è diventata, per suo mezzo, mendace e falsa, giù nei suoi istinti più sotterranei — fino al culto dei valori inversi rispetto a quelli per mezzo dei quali le sarebbe stata garantita la crescita, il futuro, il solenne diritto all’avvenire.
 
3
Chi sa respirare l’aria dei miei scritti, sa che è un’aria delle altitudini, un’aria forte. Bisogna essere fatti per quell’aria, altrimenti non è piccolo il rischio di raffreddarvisi. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa — ma come giacciono tranquille nella luce tutte le cose! come si respira liberamente! Quante cose sentiamo sotto di noi! La filosofia, come l’ho compresa e vissuta fino ad oggi, è la vita volontaria tra i ghiacci e le cime — la ricerca di tutto ciò che di estraneo e di problematico vi è nell’esistenza, di tutto ciò che finora era posto al bando dalla morale. Dalla lunga esperienza che mi ha dato tale peregrinazione nel proibito, ho imparato a considerare le cause, in modo molto diverso da quanto può essere auspicabile, in base alle quali fino ad oggi si è moralizzato e idealizzato: è venuta alla luce, per me, la storia segreta dei filosofi, la psicologia dei loro grandi nomi. Quanta verità sopporta, quanta verità osa uno spirito? Questo è diventato per me, sempre più, il vero criterio di valutazione. Errore (— la fede nell’ideale —) non è cecità, errore è vigliaccheria... Ogni acquisizione, ogni passo avanti nella conoscenza consegue dal coraggio, dalla durezza verso se stessi, dalla pulizia verso se stessi... Io non confuto gli ideali, mi infilo semplicemente i guanti di fronte a loro... Nitimur in vetitum: in questo regno vincerà un giorno la mia filosofia, poiché finora è stata impedita, per principio, sempre e soltanto la verità.
 
4
Tra i miei scritti il mio Zarathustra è parte a sé. Con esso ho fatto all’umanità il dono più grande che finora le sia stato fatto. Questo libro, la cui voce porta oltre i millenni, non è solo il libro più alto che esista, il vero libro delle altitudini — l’intero fenomeno uomo si trova a grande distanza sotto di esso — è anche il più profondo che sia mai nato dalla ricchezza più segreta della verità, una sorgente inesauribile nella quale nessun secchio può scendere senza risalire colmo d’oro e di bontà. Qui non parla un «profeta», uno di quegli orribili ibridi di malattia e di volontà di potenza, che son chiamati «fondatori di religioni». Bisogna, prima di tutto, saper ascoltare l’accento che esce da questa bocca, questo accento alcionio, per non far miseramente torto al senso della sua saggezza.

«Sono le parole più tranquille quelle che portano la tempesta, pensieri che avanzano con passi di colomba guidano il mondo —.» I fichi cadono dagli alberi, sono buoni e dolci: e mentre cadono si rompe loro la rossa buccia. Io sono un vento del nord per i fichi maturi.

Così, simili a fichi, cadono innanzi a voi questi insegnamenti, amici miei: ora bevete il solo succo, la loro dolce polpa! è autunno, tutt’intorno, e cielo puro e meriggio! —

Qui non parla un fanatico, qui non si «predica», qui non si pretende la fede: da un’infinita pienezza di luce e profondità di gioia cade, goccia a goccia, parola su parola — una tenera lentezza è il ritmo di questi discorsi. Tali cose toccano solo ai più eletti; è un privilegio senza pari essere uditori: non è per tutti avere orecchie per Zarathustra... Con tutto ciò Zarathustra non sarà un seduttore? Ma cosa dice dunque egli stesso, quando per la prima volta ritorna nella sua solitudine? Proprio il contrario di ciò che direbbe in tal caso un qualche «saggio», «santo», «salvatore del mondo», о un qualche altro décadent... Non solo egli parla in modo diverso, egli è anche diverso...

Solo dunque me ne vado, о miei discepoli! Voi pure, andatevene ora e soli! Così io voglio.

Andatevene da me e guardatevi da Zarathustra! E meglio ancora: vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato.

L’uomo della conoscenza non deve solo saper amare i suoi nemici, deve anche saper odiare i suoi amici.

Si ripaga male il maestro, se si rimane sempre scolari. E perché non volete strappare le foglie della mia corona?

Voi mi venerate: ma se la vostra venerazione un giorno cadesse? Guardatevi, che non vi schiacci una statua!

Voi dite di credere a Zarathustra? Ma che importa Zarathustra? Voi siete i miei fedeli, ma che importano tutti i fedeli!

Non vi eravate ancora cercati: e trovaste me. Così fanno tutti i fedeli, perciò ogni fede è di così poco conto.

Ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando voi tutti mi avrete rinnegato, tornerò in mezzo a voi...

Friedrich Nietzsche

In questo giorno di perfezione in cui ogni cosa giunge a maturazione e il grappolo non è il solo a diventar scuro, un raggio di sole è appena caduto sulla mia vita: ho guardato dietro di me, ho guardato lontano davanti a me, non vidi mai tante cose così buone in una volta sola. Non ho sepolto invano, oggi, il mio quarantaquattresimo anno, mi è stato possibile seppellirlo, — ciò che in esso era vita è salvo, è immortale. Il rovesciamento di tutti i valori, i Ditirambi di Dioniso e, per mia ricreazione, il Crepuscolo degli idoli — Tutti doni di questo anno, addirittura del suo ultimo trimestre! Come potrei non essere grato all’intera mia vita?

E così mi racconto la mia vita.
 
Perché sono così saggio

 
1
La felicità della mia esistenza, la sua unicità forse, sta nella sua fatalità: per parlare per enigmi, in quanto mio padre sono già morto, in quanto mia madre vivo ancora e invecchio. Questa doppia origine, per cosi dire dal più alto come dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e insieme cominciamento — se c’è qualcosa che spieghi quella neutralità, quella libertà da ogni fazione di fronte al problema della vita nel suo complesso, che forse mi contraddistingue, è proprio questo. Io ho, per i segni dell’ascesa e del declino, più fiuto di quanto un uomo abbia mai avuto, io sono, in questo, il maestro par excellence, — conosco l’una e l’altro, sono l’una e l’altro. — Mio padre morì a trentasei anni: era tenero, amàbile e morboso, come un essere destinato solo a passare oltre — piuttosto un ricordo benevolo della vita, che la vita stessa. Nello stesso anno in cui la sua vita declinò, declinò anche la mia: nel trentaseiesimo anno la mia vitalità toccò il punto più basso, — vivevo ancora, tuttavia senza vedere a tre passi davanti a me. Allora — era il 1879 — lasciai la cattedra di Basilea, passai l’estate a St. Moritz, come un’ombra, e l’inverno seguente, il più privo di sole della mia vita, a Naumburg, ero un’ombra. Fu il mio minimum: «Il viandante e la sua ombra», nacque in quel periodo. Senza alcun dubbio allora mi intendevo di ombre... L’inverno seguente, il mio primo inverno genovese, quell’addolcimento e quella spiritualizzazione che un estremo impoverimento del sangue e dei muscoli comporta quasi inevitabilmente, portò alla nascita di Aurora. La limpidezza perfetta e la serenità, l’esuberanza quasi dello spirito, che quest’opera riflette, si accordano in me non solo con la più profonda debolezza fisiologica, ma addirittura con un eccesso di sensazioni dolorose. Nel martirio che mi causava un’ininterrotta emicrania di tre giorni consecutivi, accompagnata da un penoso vomito di muco, — possedevo una chiarezza dialettica par excellence ed esaminavo con grande sangue freddo cose per le quali, in migliori condizioni di salute, non sono uno scalatore sufficientemente ardito, sufficientemente raffinato, sufficientemente freddo. I miei lettori sanno forse fino a qual punto io consideri la dialettica come un sintomo di décadence, per esempio nel caso più famoso: quello di Socrate. — Tutti i turbamenti morbosi dell’intelletto, anche quel mezzo stordimento che segue alla febbre, mi sono rimasti fino ad oggi completamente estranei: ho dovuto informarmi sui libri della loro natura e della loro frequenza. Il mio sangue scorre lentamente. Nessuno ha mai potuto accertare la febbre su di me. Un medico, che mi curò a lungo come malato di nervi, disse alla fine: «no! i suoi nervi non hanno niente, sono io che sono nervoso». In definitiva nessuna degenerazione locale accertabile; nessun mal di stomaco di natura organica, per quanto sappia, come conseguenza di un esaurimento generale, di una fortissima debolezza del sistema gastrico. Anche il dolore agli occhi, che si avvicina a volte, pericolosamente, alla cecità, è solo una conseguenza, non una causa: di modo che ogni accrescimento della forza vitale ha accresciuto la forza visiva. Guarigione vuol dire, per me, una lunga, troppo lunga serie di anni, — significa purtroppo anche ricaduta, declino, periodicità di ogni genere di dé- cadence. Ho forse bisogno di dire, dopo tutto ciò, che sono esperto in materia di décadencel La ho sillabata da ogni lato. E anche quell’arte della filigrana dell’afferrare e comprendere in generale, quel tocco per le nuances, quell’attitudine psicologica a «vedere dietro l’angolo», e ogni altra cosa che mi distingue, l’ho imparata allora, è il vero dono di quel tempo nel quale ogni cosa si affinò in me, l’osservazione come tutti gli organi dell’osservazione. Partendo dall’ottica del malato, considerare i concetti e i valori più sani, poi, al contrario, partendo dalla pienezza e dalla sicurezza di sé della vita ricca, guardare in basso, nel lavoro segreto dell’istinto di déca- dence — questo è stato il mio esercizio più lungo, la mia vera e propria esperienza, se sono stato maestro in qualche cosa lo sono stato qui. Ora l’ho in mano, mi sono fatto la mano a rovesciare le prospettive: ragione prima per la quale a me solo, forse, è possibile una «trasvalutazione dei valori». —
 
2
Indipendentemente dal fatto che sono un décadent, sono anche il suo contrario. Prova ne è, tra l’altro, che contro le condizioni spiacevoli ho sempre scelto, istintivamente, gli strumenti adatti: mentre il décadent in sé sceglie sempre gli strumenti che lo danneggiano. Come summa summarum ero sano; ma nel dettaglio, nella peculiarità ero décadent. Quell’energia per conquistare un assoluto isolamento e distacco dalle condizioni abituali, la violenza con la quale mi sono imposto di non lasciarmi più curare, servire, coccolare dai medici — tutto questo tradisce l’assoluta sicurezza dell’istinto per quanto riguarda ciò di cui allora, avevo soprattutto bisogno. Mi presi in mano, mi guarii io stesso: la condizione per questo — ogni fisiologo lo ammetterà — è che si sia fondamentalmente sani. Un essere tipicamente morboso non può guarire, tanto meno guarirsi; per uno tipicamente sano, al contrario, la malattia può essere addirittura un energico stimolante al vivere, al vivere-di-più. È così infatti che mi appare ora quel lungo periodo di malattia: scoprii, per cosi dire, di nuovo la vita, me stesso incluso, gustai tutte le cose buone, anche le piccole cose, come altri non avrebbero facilmente potuto gustarle, — feci della mia volontà di salute, di vita, la mia filosofia... Poiché, si faccia attenzione, gli anni della mia minore vitalità furono quelli in cui cessai di essere pessimista: l’istinto dell’autoristabi- lirsi mi proibiva una filosofia della povertà e dello scoraggiamento... E da cosa, in fondo, si riconosce l’essere benriuscitol Dal fatto che un uomo benriuscito fa bene ai nostri sensi: dal fatto ch’è tagliato in un legno duro, tenero e profumato al tempo stesso. Gli piace solo ciò che gli si conviene; il suo piacere, il suo desiderio cessano non appena la misura di ciò che conviene viene superata. Egli indovina i rimedi contro le ferite, utilizza a suo vantaggio le disavventure; ciò che non lo uccide lo rende più forte. Raccoglie istintivamente, di tutto ciò che vede, ode, vive, la sua somma: è un principio selettivo, elimina molte cose. È sempre nella sua società, sia che tratti con libri, uomini о paesaggi: onora in quanto sceglie, in quanto concede, in quanto dà fiducia. Reagisce lentamente ad ogni tipo di stimoli; con quella lentezza alimentata in lui da una lunga prudenza e da una deliberata fierezza — esamina la sollecitazione che giunge, è ben lontano dal l’andarle incontro. Non crede alla «disgrazia», né alla «colpa»: sa chiudere con sé, con gli altri, sa dimenticare, — è forte abbastanza perché tutto debba venire a suo vantaggio.

Ebbene, io sono l'opposto di un décadent: poiché ho descritto appunto me stesso.
 
3
Considero un grande privilegio aver avuto un tale padre: i contadini davanti ai quali predicava — poiché egli era stato pastore, negli ultimi anni, dopo aver vissuto alcuni anni alla corte di Altenburg — dicevano che un angelo avrebbe dovuto assomigliargli. — E qui tocco il problema della razza. Io sono un nobiluomo polacco pur sang, in cui non c’è neppure una goccia di sangue cattivo e tantomeno di sangue tedesco. Se cerco la più profonda antitesi di me stesso, l’incalcolabile volgarità degli istinti, trovo sempre mia madre e mia sorella, — credermi imparentato con una tale ca- naille sarebbe una bestemmia contro la mia divinità. Il trattamento che ricevo, fino a questo momento, da parte di mia madre e di mia sorella m’ispira un indicibile orrore: qui è all’opera una perfetta macchina infernale, con infallibile sicurezza sul momento in cui si può ferire a sangue — nei miei momenti più alti... perché allora manca ogni forza per difendersi contro questo velenoso vermicaio... La contiguità fisiologica rende possibile una tale disharmonia praestabilita... Ma io confesso che l’obiezione più profonda contro l’«eterno ritorno», il mio pensiero propriamente abissale, sono sempre la madre e la sorella. — Ma anche come polacco io sono un terribile atavismo. Bisognerebbe risalire i secoli, per trovare questa razza, la più nobile che mai ci sia stata sulla terra, con la purezza d’istinto con la quale io la rappresento. Io ho contro tutto ciò che oggi si chiama noblesse, un sovrano sentimento di distinzione — non accorderei al giovane imperatore tedesco l’onore di essere il mio cocchiere. C’è un unico caso nel quale riconosco un mio uguale — lo confesso con profonda gratitudine. La signora Cosima Wagner è di gran lunga la natura più nobile; e, per non tacere nulla, dirò che Richard Wagner è stato l’uomo di gran lunga più affine a me... Il resto è silenzio... tutti i concetti dominanti sui gradi di parentela sono un controsenso fisiologico, che non può essere superato. Il papa ha ancor oggi commercio con questo controsenso. Si è apparentati meno di tutti con i propri genitori: sarebbe il segno estremo della volgarità essere apparentati con i propri genitori. L’origine delle nature più elevate risale infinitamente più indietro, per arrivare ad esse si è dovuto raccogliere, accumulare, risparmiare per un tempo lunghissimo. I grandi individui sono i più antichi: non lo capisco, ma Giulio Cesare potrebbe essere mio padre — oppure Alessandro, questo Dioniso vivente... Nell’attimo in cui scrivo tutto questo, la posta mi porta una testa di Dioniso...
 
4
Non ho mai compreso l’arte di prevenire gli altri contro me stesso — devo anche ciò al mio incomparabile padre — anche quando questo sarebbe stato per me di grande importanza. Anzi, per quanto anticristiano possa sembrare, non sono neppure io prevenuto contro me stesso. Si può rigirare la mia vita in ogni senso, non vi si troverà, ad eccezione di un unico caso, traccia alcuna del fatto che qualcuno abbia avuto cattive intenzioni nei miei confronti, — troppe tracce forse, invece, di buone intenzioni... Perfino le mie esperienze con persone con le quali chiunque fa esperienze negative, parlano, senza eccezione, a loro favore; io addomestico gli orsi, induco i pagliacci a comportarsi decentemente. Nei sette anni durante i quali ho insegnato greco nella classe superiore del Pàdagogium di Basilea, non ho avuto alcuna occasione per infliggere una punizione; i più pigri erano diligenti con me. Sono sempre all’altezza del caso; devo essere impreparato per poter essere padrone di me stesso. Qualunque sia lo strumento, per quanto scordato, come solo lo strumento «uomo» può esserlo — dovrei essere malato, per non riuscire a trarne qualcosa di ascoltabile. E quante volte mi è stato detto da questi stessi «strumenti» che non si erano ancora mai sentiti suonare a quel modo... Nel modo più bello, forse, che quell’Heinrich von Stein, morto con imperdonabile precocità, il quale una volta, dopo averne scrupolosamente richiesto il permesso, apparve per tre giorni a Sils-Maria, chiarendo a tutti che non era venuto per l’Engadina. Quest’uomo eccellente, che si era tuffato con tutto l’impetuoso candore di uno Junker prussiano nella palude wagneriana (e oltre a ciò anche nella palude di Diihring!) fu quasi trasformato, in quei tre giorni, da un impetuoso vento di libertà, come uno che si trovi improvvisamente sollevato alla sua altezza e provvisto di ali. Gli dicevo sempre che era effetto della buona aria di lassù, che succedeva a tutti, che non per nulla si era a 6000 piedi sopra Bayreuth, — ma non mi voleva credere... Se ciò nonostante è stato commesso verso di me qualche piccolo о grande misfatto, non è stato a causa della «volontà» e ancor meno della cattiva volontà: dovrei piuttosto lamentarmi - ne ho appena accennato — della buona volontà che ha portato non pochi turbamenti nella mia vita. Le mie esperienze mi danno il diritto di diffidare, in generale, delle cosiddette tendenze «disinteressate», di tutto «l’amore del prossimo» sempre pronto al consiglio e all’azione. Per me, esso è in sé debolezza, un caso particolare dell’incapacità di resistere agli stimoli - la compassione è una virtù solo per i décadents. Rimprovero alle anime compassionevoli il fatto che facilmente vien loro meno il pudore, il rispetto, il delicato senso delle distanze, che la compassione prende, in un baleno, il sentore della plebe e assomiglia, fino a confondervisi, alle cattive maniere, che le mani compassionevoli, in alcune circostanze, possono avere un effetto addirittura devastatore in un grande destino, in una solitudine ferita, nel privilegio di una grave colpa. Io annovero il superamento della compassione tra le virtù aristocratiche: la «Tentazione di Zarathustra» è la rappresentazione poetica del caso del grande grido d’aiuto che giunge fino a lui, quando la compassione, come un estremo peccato, vuole sopraffarlo, vuole allontanarlo da se stesso. Padroneggiarsi in questo momento, mantenere pura dagli impulsi molto più bassi e miopi, che agiscono nelle cosiddette azioni disinteressate, l’altezza del proprio compito, questa è la prova, la prova estrema, forse, che uno Zarathustra deve superare — la sua vera prova di forza...
 
5
In un altro punto ancora io sono, ancora una volta, mio padre e in certo qual modo la sua sopravvivenza dopo una morte anche troppo prematura. Al pari di colui che non è mai vissuto tra i suoi simili e al quale il concetto di «ritorsione» è inaccessibile quanto la nozione di «parità di diritti», io mi proibisco, nei casi in cui è stata commessa contro di me una piccola о una enorme pazzia, ogni rappresaglia, ogni misura difensiva, — e com’è giusto anche ogni difesa, ogni «giustificazione». Il mio genere di rappresaglie consiste nel far seguire il più rapidamente possibile una cosa intelligente a una sciocchezza: così, forse, la si recupera. Per usare una metafora: spedisco un vaso di confitures per liberarmi di una storia inacidita... Basta che mi si faccia del male e io saprò contraccambiarlo, di questo si può star sicuri: trovo presto un’occasione per manifestare la mia gratitudine al «malfattore» (e magari proprio per il suo misfatto) — о per chiedergli qualcosa, ciò che può essere più vincolante del dare qualcosa... Mi sembra anche che la parola più grossolana, la lettera più grossolana siano ancor più benevole, più oneste del silenzio. A quelli che tacciono manca quasi sempre finezza e gentilezza di cuore; tacere è un’obiezione, sopportare produce necessariamente un brutto carattere, — rovina addirittura lo stomaco. Tutti i silenziosi sono dispeptici. — Si veda come io non vorrei saper sottovalutata la grossolanità, essa è di gran lunga la forma più umana della contraddizione e, tra le cattive abitudini moderne, una delle nostre prime virtù. — Se si è abbastanza ricchi per questo, è addirittura una fortuna avere torto. Un dio che venisse sulla terra non potrebbe fare null’altro che torti, — prendere su di sé la colpa, e non la pena, questo solo sarebbe divino.
 
6
La libertà del ressentiment, la chiara visione del ressentiment — chissà, infine, quanto anche per questo io debba esser grato alla mia malattia! Il problema non è proprio semplice: bisogna averlo vissuto attraverso la forza e attraverso la debolezza. Se, in generale, bisogna affermare un qualche cosa contro lo stato di malattia, di debolezza, è appunto il fatto che in questo stato il vero istinto di guarigione, che è l’istinto combattivo e difensivo dell’uomo, si infiacchisce. Non ci si sa liberare da nulla, non si sa venire a capo di nulla, non si sa respingere nulla, — tutto ferisce. Uomini e cose si avvicinano con invadenza, le esperienze colpiscono troppo a fondo, il ricordo è una ferita in suppurazione. Il fatto stesso di essere malati è una sorta di ressentiment. — Contro ciò, il malato ha un unico grande rimedio. io lo chiamo il fatalismo russo, quel fatalismo senza ribellione, per il quale un soldato russo a cui la guerra diventa troppo dura, si abbandona infine nella neve. Soprattutto non prendere più niente, non prendere più niente su di sé, non prendere più niente in sé, — soprattutto non reagire più... La grande ragione di questo fatalismo, che non è sempre solo il coraggio di morire, come elemento di conservazione della vita nelle circostanze più minacciose per la vita stessa, sta in un abbassamento del metabolismo, nel suo rallentamento, in una sorta di volontà di letargo. Un paio di passi ancora in questa logica e si ha il fachiro, che dorme per settimane in una tomba... Poiché ci si consumerebbe troppo rapidamente, se d’altra parte si reagisse, non si reagisce più: questa è la logica. E con nulla si brucia più in fretta che con le passioni del ressentiment. La rabbia, la vulnerabilità morbosa, l’incapacità di vendicarsi, il desiderio, la sete di vendetta, l’intossicare in ogni senso — questo è certamente, per chi è stremato, il modo più negativo di reagire: comporta un rapido dispendio di forza nervosa, un morboso aumento di secrezioni nocive, ad esempio della bile nello stomaco. Il ressentiment è per il malato la cosa proibita in sé — il suo male: purtroppo anche la sua tendenza più naturale. — Lo comprese quel profondo fisiologo che fu Buddha. La sua «religione», che si potrebbe definire meglio come igiene per non mescolarla a cose tanto miserevoli come il cristianesimo, faceva dipendere la sua efficacia dalla vittoria sul ressentiment: renderne libero l’animo — primo passo verso la guarigione. «Non per mezzo deU’immicizia si pone termine aU’inimicizia, con l’amicizia si porrà fine all’inimicizia»: queste parole stanno all’inizio della dottrina di Buddha — così non parla la morale, così parla la fisiologia. — Il ressentiment, nato dalla debolezza, non è dannoso a nessuno più che al debole stesso, — nel caso opposto, dove la premessa è una natura ricca, un sentimento superfluo, un sentimento di cui restare padroni è quasi la prova della ricchezza. Chi conosce la serietà con la quale la mia filosofia ha intrapreso la lotta contro i sentimenti di vendetta e il risentimento, fino a giungere alla dottrina del «libero arbitrio» — la lotta contro il cristianesimo ne è solo un particolare — comprenderà perché io metta qui direttamente in luce il mio comportamento personale, la sicurezza del mio istinto nella prassi. Nei momenti di décadence io li proibii a me stesso perché dannosi; non appena la vita fu di nuovo ricca e orgogliosa a sufficienza per questo, me li proibii in quanto al di sotto di me. Quel «fatalismo russo» del quale ho parlato emergeva in me con il fatto che io mantenevo tenacemente per anni, dopo che si erano dati una volta per caso, situazioni, luoghi, abitazioni, compagnie quasi insopportabili, — era meglio che cambiarli, che sentirli modificabili, — che rivoltarsi contro di loro... che mi si disturbasse in questo fatalismo, che mi si svegliasse con violenza, era un fatto per il quale mi offendevo a morte: — in verità era anche, ogni volta, mortalmente pericoloso. — Prendere se stessi come un fato, non volersi «diversamente» — in tali circostanze questa è la grande ragione stessa.
 
7
Altra cosa è la guerra. A modo mio sono guerresco. Attaccare fa parte dei miei istinti. Poter essere ostile, essere ostile: questo presuppone forse una natura forte, in ogni caso è presupposto di ogni natura forte. Essa ha bisogno di ostacoli, di conseguenza essa cerca gli ostacoli: il pathos aggressivo appartiene necessariamente alla forza, tanto quanto il sentimento di vendetta e il risentimento appartiene alla debolezza. La donna, ad esempio, è vendicativa: questo è proprio della sua debolezza, come la sua sensibilità di fronte alle pene altrui. — La forza dell’attaccante trova una sorta di criterio di misura nel nemico di cui ha bisogno: ogni crescita si rivela nella ricerca di un avversario о di un problema più potente: perché un filosofo che sia combattivo sfida a duello anche i problemi. Il compito non è quello di dominare le resistenze in generale, ma quelle contro le quali si deve impiegare tutta la propria forza, la propria duttilità e abilità nell’uso delle armi, — avversari di pari valore... Parità con il nemico — condizione prima per un duello leale. Dove si disprezza non si può far guerra; dove si comanda, dove si vede qualcosa sotto di sé, non si deve far guerra. — La mia prassi di guerra può essere compresa in 4 princìpi. Primo: attacco solo cose che sono vittoriose, — in alcune circostanze aspetto fino a che siano vittoriose. Secondo: attacco solo cose contro le quali non troverei nessun alleato, contro le quali sono solo, — contro le quali mi comprometto io solo... Non ho mai fatto pubblicamente un passo che non mi compromettesse: questo è il mio criterio del giusto agire. Terzo: non attacco mai persone, mi servo della persona solo come di una potente lente di ingrandimento, con la quale si può rendere visibile uno stato di disagio generale, ma strisciante, difficilmente afferrabile. Così ho attaccato David Strauss, о più esattamente il successo di un libro senilmente debole nella «cultura» tedesca, — ho colto quella cultura sul fatto... Cosi ho attaccato Wagner, о più esattamente la falsità, l’istintiva incongruenza della nostra «civiltà» che confonde i raffinati con i ricchi, gli ultimi rappresentanti di un periodo con i grandi. Quarto: attacco solo cose dalle quali sia esclusa qualsiasi divergenza personale, dove manchi ogni retroscena di brutte esperienze. AI contrario, attaccare è, per me, una dimostrazione di benevolenza e, in determinate circostanze, di gratitudine. Associando il mio nome a una cosa, a una persona io le rendo onore, la distinguo: prò о contro — per me è lo stesso. Quando faccio guerra al cristianesimo ne ho il diritto, perché non ho subito, da quella parte, né disgrazie né ostacoli, — i cristiani più seri sono sempre stati ben disposti nei miei confronti. Io stesso, avversario de rigueur del cristianesimo, sono ben lontano da volerne ai singoli per ciò che è una fatalità millenaria.
 
8
Posso osare accennare ancora ad un ultimo tratto della mia natura, che nel mio rapporto con gli uomini mi pone non poche difficoltà? Mi è propria un’eccitabilità, assolutamente inquietante, dell’istinto di pulizia, di modo che percepisco fisiologicamente — odoro, la vicinanza о — che dico? — l’interiorità più profonda, le «viscere» di ogni anima... Possiedo, in questa eccitabilità, antenne psicologiche con le quali palpo e afferro ogni segreto: la molta sozzura nascosta nel fondo di certe nature, determinata forse da un sangue cattivo, ma verniciata dall’educazione, mi si palesa già dal primo contatto. Se ho osservato bene, anche queste nature, intollerabili per la mia pulizia, avvertono, dal canto loro, la circospezione del mio disgusto: non per questo diventano più profumate... Così come sono sempre stato abituato — un’estrema onestà nei miei confronti è la condizione per la mia esistenza, morirei in situazioni contaminate — nuoto, faccio il bagno e sguazzo continuamente, per così dire, nell’acqua, in un qualche elemento perfettamente trasparente e scintillante. Ciò fa sì che il mio rapporto con gli uomini sia una non piccola prova di pazienza; la mia umanità non consiste nel partecipare al sentimento dell’uomo qual egli è, ma nel reggere a tale partecipazione... La mia umanità è un costante superamento di me stesso. Ma io ho bisogno di solitudine, voglio dire di guarigione, di ritorno a me, di respirare un’aria libera, lieve, giocosa... Tutto il mio Zarathustra è un ditirambo sulla solitudine, o, se sono stato compreso, sulla purezza... Per fortuna non sulla pura pazzia. — Chi ha occhi per i colori lo chiamerà adamantino... Il disgusto per l’uomo, per la «canaglia» è stato sempre il mio maggior pericolo... Vogliamo ascoltare le parole nelle quali Zarathustra parla deìV affrancamento dal disgusto?

Cosa mi accade dunque? Come mi affrancai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come potei volare ad altezze dove nessuna canaglia siede più alla fonte?

Il mio stesso disgusto mi creò ali ed energie presaghe di sorgenti? In verità ho dovuto volare ai vertici delle altezze per ritrovare l’origine del piacere!

Oh, io l’ho trovata, fratelli! Qui sulla vetta scaturisce per me l’origine del piacere! E vi è una vita alla quale la canaglia non beve!

Quasi con troppo impeto scorri per me, sorgente del piacere! E spesso, volendo riempirla, torni a vuotare la coppa.

E devo ancora imparare ad avvicinarmi a te con maggior modestia: ancora con troppo impeto ti scorre incontro il mio cuore:

- il mio cuore, sul quale brucia la mia estate, la breve, ardente, malinconica, felicissima: come anela il mio cuore estivo alla tua presenza!

Trascorsa l’indugiante tristezza della mia primavera! Trascorsi i fiocchi di neve della mia cattiveria di giugno!

Non sono più che estate e meriggio estivo, — un’estate sulle vette con fredde sorgenti e felice silenzio: oh, venite, amici, perché il silenzio diventi ancor più felice!

Poiché questa è la nostra altezza e la nostra patria: troppo alto, troppo ripido è il luogo dove abitiamo per tutti gli impuri e la loro sete.

Gettate il vostro occhio puro nella sorgente del mio piacere, amici! Come potrebbe intorbidarsi per questo? Egli vi sorriderà con la sua purezza.

Sull’albero del futuro noi costruiamo il nostro nido; aquile debbono portare il cibo, nel loro becco, a noi solitari!

In verità, non un cibo al quale possono cibarsi gli impuri! Crederebbero di mangiare fuoco e si brucerebbero le fauci.

In verità, noi non abbiamo qui rifugi per gli impuri! Una caverna di ghiaccio sarebbe per i loro corpi, e per i loro spiriti, la nostra felicità!

E come venti vigorosi noi vogliamo vivere al di sopra di loro, vicini alle aquile, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono i venti vigorosi.

E, simile a un vento, voglio soffiare un giorno tra loro, e, con il mio spirito, togliere il respiro al loro spirito: così vuole il mio avvenire.

In verità, Zarathustra è un vento violento per tutte le pianure: e tale è il suo consiglio ai suoi nemici e a tutto quanto sputa e vomita: guardatevi dallo sputare contro vento!...
 
Perché sono così accorto

 
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Perché ne so un po’ di più? Perché, in generale, sono così accorto? Non ho mai riflettuto su problemi che non fossero tali, — non mi sono mai sprecato. — Ad esempio, non conosco per esperienza le vere e proprie difficoltà religiose. Mi è completamente sfuggito in che senso dovrei essere «peccatore». — Allo stesso modo mi manca un criterio valido su cosa sia un rimorso: da ciò che se ne sente dire un rimorso non mi sembra nulla di notevole... Non vorrei piantare in asso un’azione per quel che ne è stato dopo, preferirei lasciare completamente fuori da un giudizio di valore l’esito negativo, le conseguenze. In presenza di un esito negativo si perde persino troppo facilmente la giusta visione di ciò che si è fatto: un rimorso mi sembra una sorta di «malocchio». Tenere tanto più in considerazione qualcosa che è fallito, proprio perché è fallito — questo piuttosto appartiene alla mia morale. — «Dio», «immortalità dell’anima», «redenzione», «al di là», tutti concetti ai quali, anche da bambino, non ho dedicato nessuna attenzione, e neppure il mio tempo — forse non sono mai stato abbastanza infantile per questo? — Non conosco affatto l’ateismo come risultato, ancor meno come avvenimento: esso mi è congeniale per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo irriverente, per accontentarmi di una risposta così piattamente grossolana. Dio è una risposta piattamente grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori —, in fondo, persino un grossolano divieto nei nostri confronti: non dovete pensare!... In modo ben diverso mi sta a cuore un problema dal quale, molto più che da una qualsiasi curiosità da teologi, dipende la «salvezza dell’umanità»: il problema dell’alimentazione. Per comodità Io si può formulare così: «come devi nutrirti esattamente, tu, per ottenere il massimo della forza, della virtù in senso rinascimentale, di virtù scevra d’ipocrita moralità?» — Su questo punto le mie esperienze sono le peggiori possibili; sono stupito di aver avvertito così tardi questa domanda, di aver imparato da queste esperienze così tardi la «ragione». Solo la completa futilità della nostra cultura tedesca — il suo «idealismo» — mi spiega, in una certa misura, perché proprio a questo riguardo io fossi di un’arretratezza tale da confinare con la santità. Questa «cultura», che insegna fin dall’inizio a perdere di vista la realtà per mettersi alla caccia di cosiddette finalità «ideali», assolutamente problematiche, per esempio della «cultura classica»: — come se non fosse condannata all’insuccesso, fin dall'inizio, l’unificazione in un unico concetto di «classico» e «tedesco»! Non solo, tutto da ridere — si pensi, per esempio, a un cittadino di Lipsia dotato «di cultura classica»! — Invero, fino agli anni della mia maturità ho sempre mangiato male, o, per esprimerci in termini morali, «impersonalmente», «disinteressatamente», «altruisticamente», alla salute dei cuochi e degli altri confratelli cristiani. Grazie alla cucina di Lipsia negai, ad esempio, molto seriamente, nel periodo dei miei primi studi su Schopenhauer (1865), la mia «volontà di vivere». Rovinarsi anche lo stomaco ai fini di un’alimentazione insufficiente, — la suddetta cucina sembrava risolvere questo problema in modo felice e ammirevole. (Si dice che nel 1866 si sia prodotta una svolta —.) Ma la cucina tedesca in genere — cosa non ha sulla coscienza! La minestra prima del pranzo (chiamata alla tedesca già nei libri di cucina veneziani del xvi secolo); le carni troppo cotte, le verdure rese grasse e farinose; la degenerazione dei dolci in fermacarte. Se vi si aggiunge inoltre il bisogno addirittura bestiale dei «vecchi», ma non soltanto dei vecchi tedeschi, di bere dopo aver mangiato, si capirà anche l’origine dello spirito tedesco — l’intestino in disordine... Lo spirito tedesco è un’indigestione, non assimila nulla. — Anche la dieta inglese tuttavia, che paragonata a quella tedesca, persino a quella francese, è una sorta di «ritorno alla natura», cioè al cannibalismo, ripugna profondamente al mio istinto; mi sembra che essa dia allo spirito piedi pesanti — piedi da donne inglesi... La cucina migliore è quella piemontese. — Gli alcolici mi sono dannosi; un bicchiere di vino о di birra al giorno è quanto basta per fare della mia vita una «valle di lacrime», — i miei antipodi sono a Monaco. Pur ammettendo che tutto questo l’abbia capito un po’ tardi, l’ho però vissuto fin da bambino. Da ragazzo credevo che bere vino, come fumare, fosse, all’inizio, solo una vanitas da giovanotti, poi una cattiva abitudine. Forse anche il vino di Naumburg è responsabile di questo duro giudizio. Per credere che il vino rendesse allegri avrei dovuto essere cristiano, cioè avrei dovuto credere, ciò che per me è un’assurdità. È abbastanza strano, ma mentre piccole dosi d’alcool, molto diluite mi procurano un’estrema irritazione, divento quasi un marinaio se si tratta di dosi forti. Già da ragazzo questa era la mia prodezza. Scrivere e poi anche ricopiare, in una notte, una lunga dissertazione in latino, con nella penna l’ambizione di imitare il mio modello Sallustio, nel rigore e nella densità, e innaffiare il mio latino con un grog ad altissimo potenziale, quand’ero scolaro nella veneranda Schulpforta, tutto questo non era affatto in contrasto con la mia fisiologia e forse neppure con quella di Sallustio — per quanto lo fosse con la veneranda Schulpforta... E vero che più tardi, verso la metà della vita, mi decisi, con sempre maggior rigore, ad essere contro ogni specie di bevanda «spiritosa»; io, avversario per esperienza del regime vegetariano, proprio come Richard Wagner che mi ha convertito, non potrò mai consigliare con sufficiente fermezza a tutte le nature più spirituali. L’assoluta astensione dagli alcolici. È sufficiente l’acqua... loprediligo i luoghi dove si ha dovunque l’occasione di attingere a sorgenti vive (Nizza, Torino, Sils); un bicchierino mi accompagna dappertutto, come un cane. In vino veritas: pare che anche qui sia di nuovo in disaccordo con il mondo sul concetto di «verità»: in me lo spirito si libra su\V acqua... Ancora un paio di indicazioni sulla mia morale. E più facile digerire un pasto copioso che uno troppo leggero. Che lo stomaco tutto intero entri in attività è questa la prima condizione per una buona digestione. Bisogna conoscere le dimensioni del proprio stomaco. Per lo stesso motivo sono sconsigliabili quei pranzi noiosi, da me chiamati cerimonie sacrificali interrotte, che sono i pasti alla table d’hòte. — Nulla fuori pasto, nessun caffè: il caffè rende tetri. Il tè è salutare solo al mattino. Poco, ma forte; il tè è molto dannoso e infiacchisce tutta la giornata, se è troppo leggero, anche solo di poco. In queste cose ognuno ha la sua misura, spesso tra i limiti più ridotti e più delicati. In un clima molto snervante il tè è sconsigliabile all’inizio della giornata: bisogna iniziare un’ora prima con una tazza di cacao sgrassato e molto denso. — Restare seduti il meno possibile; non prestar fede a nessun pensiero che non sia nato all’aperto e in movimento, — nel quale anche i muscoli non abbiano la loro festa. Tutti i pregiudizi vengono dai visceri. — La immobilità — l’ho già detto una volta — è il vero peccato contro lo spirito santo. —
 
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Al problema dell’alimentazione è strettamente unito il problema del luogo e del clima. Nessuno è libero di vivere dappertutto; e chi deve realizzare grandi compiti, che esigono tutta la sua forza, ha qui una possibilità di scelta molto limitata. L’influsso del clima sul metabolismo, i suoi impedimenti, le sue accelerazioni hanno tanto peso che una mossa falsa nella scelta del luogo e del clima non solo può estraniare qualcuno dal suo compito, ma addirittura nasconderglielo: egli non lo scorgerà mai. Il vigor animale non diventerà mai così grande in lui da raggiungere quella libertà traboccante fino ai vertici della spiritualità, laddove un uomo può riconoscere: questo posso farlo io solo... Un’inerzia intestinale, anche lieve, diventata una brutta abitudine, è quanto basta per fare di un genio qualcosa di mediocre, qualcosa di «tedesco»; è sufficiente il solo clima tedesco per scoraggiare intestini forti e anche eroici. Il ritmo del metabolismo è in preciso rapporto con la mobilità о la paralisi dei piedi dello spirito; lo «spirito» stesso non è che un modo di questo metabolismo. Si mettano insieme i luoghi dove vi sono e vi sono stati uomini ricchi di spirito, dove arguzia, raffinatezza, la cattiveria erano parte integrante della felicità, dove il genio si ambientava quasi per necessità: hanno tutti un’aria notevolmente asciutta. Parigi, la Provenza, Firenze, Gerusalemme, Atene — questi nomi dimostrano una cosa: il genio è condizionato dall’aria asciutta, dal cielo puro, cioè da un metabolismo rapido, dalla possibilità di attirare continua- mente a sé grandi, quasi immense, quantità di forza. Ho davanti agli occhi il caso di uno spirito notevole e libero che divenne ristretto, rattrappito, specialista e acido per l’assenza di raffinatezza d’istinto per quanto riguarda il clima. E io stesso infine avrei potuto diventare un caso simile, posto che la malattia non mi avesse costretto alla ragione, alla riflessione sulla ragione nella realtà. Ora che, grazie a un lungo esercizio, leggo in me, come in un raffinatissimo e preciso strumento, gli effetti d’origine climatica e meteorologica, e già in un breve viaggio, ad esempio da Torino a Milano, calcolo fisiologicamente in me il mutamento del grado di umidità dell’aria, penso con terrore al fatto inquietante che la mia vita, fino agli ultimi dieci anni, gli anni mortalmente pericolosi, è trascorsa sempre e soltanto in luoghi sbagliati e per me addirittura proibiti. Naumburg, Pforta, la Turingia in generale, Lipsia, Basilea — altrettanti luoghi infausti per la mia fisiologia. Se generalmente non ho ricordi piacevoli di tutta la mia infanzia e la mia giovinezza, sarebbe una pazzia attribuirne la responsabilità alle cosiddette cause «morali», — ad esempio alla indiscutibile assenza di una compagnia conveniente: poiché questa assenza sussiste oggi come sempre, senza impedirmi di essere sereno e coraggioso. Ma l’ignoranza in physiologicis ~ il maledetto «idealismo» — è la vera sciagura della mia vita, quanto vi è in essa di superfluo e di stupido, qualcosa da cui non è venuto niente di buono, per cui non vi è compenso né contropartita. Dalle conseguenze di questo «idealismo» mi spiego tutti i passi falsi, tutte le grandi aberrazioni dell’istinto e le «modestie» estranee al compito della mia vita, ad esempio il fatto che io sia diventato filologo — perché non medico almeno, о qualcos’altro che facesse aprire gli occhi? Al tempo di Basilea il mio intero regime spirituale, compresa la divisione della giornata, era uno spreco assolutamente insensato di forze straordinarie, senza un afflusso di energie che coprisse in qualche modo il consumo, senza neppure una riflessione sul consumo e il ricambio. Mancava ogni più raffinato egoismo, ogni protezione dell’istinto di comando, era un porsi al livello di chicchessia, un «altruismo», un dimenticare le distanze, — qualcosa che non mi perdonerò mai. Quando fui quasi alla fine, proprio perché ero quasi alla fine, cominciai a riflettere su questa fondamentale insensatezza della mia vita — P«i- dealismo». Solo la malattia mi ha portato alla ragione. —
 
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La scelta dell’alimentazione; la scelta del clima e del luogo; — la terza cosa sulla quale a nessun costo si può fare un passo falso è la scelta del proprio modo di riposarsi. Anche qui, a seconda del grado in cui uno spirito è sui generis, i limiti di ciò che gli è permesso, cioè di ciò che gli è utile, si restringono sempre più. Nel mio caso ogni lettura appartiene alla categoria di ciò che mi riposa: di ciò che mi stacca, cioè, da me stesso, che mi permette di vagare in scienze e in anime sconosciute, — di ciò che non prendo più sul serio. La lettura mi riposa proprio della mia serietà. Nei periodi di grande lavoro non si vedono libri intorno a me: mi guarderei dal lasciare che qualcuno parlasse, о perfino pensasse la mia presenza. E leggere significherebbe proprio questo... Si è veramente osservato che in quella profonda tensione alla quale la gestazione condanna lo spirito e in fondo l’intero organismo, il caso, ogni sorta di eccitamento esterno ha un effetto troppo violento, «sferza» troppo in profondità? Per quanto è possibile, bisogna evitare il caso, l’eccitamento esterno; qualcosa come un murarsi dentro di sé è una delle principali istintive astuzie della gestazione spirituale. Permetterò che un pensiero estraneo scali di nascosto questo muro? Leggere significherebbe proprio questo... Ai periodi di lavoro e di fecondità segue il tempo del riposo: avanti, voi, libri piacevoli, ricchi di spirito, intelligenti! Saranno libri tedeschi?... Devo tornare indietro di sei mesi per sorprendermi con un libro in mano. Di che si trattava? Un notevole studio di Victor Brochard, Les Sceptiques Grecs, nel quale sono ben utilizzati anche i miei Laertiana. Gli scettici, l’unico tipo rispettabile nel popolo dal doppio e quintuplo senso, il popolo dei filosofi!... Del resto trovo quasi sempre scampo negli stessi libri, pochi in fondo, i libri che hanno dimostrato di essere per me. Forse non sono tipo da leggere molto e di molti generi: una sala di lettura mi fa star male. Non sono neppure il tipo da amare molte cose e di specie diversa. La cautela, perfino l’ostilità per i nuovi libri appartiene al mio istinto, più che la «tolleranza», «La largeurdu coeur», e altri «amori del prossimo»... In fondo quello a cui ritorno sempre è un piccolo numero di vecchi francesi: credo solo alla cultura francese — e tutto ciò che in Europa viene generalmente chiamato «cultura», per non parlare della cultura tedesca è per me un equivoco... I rari casi di cultura superiore che ho incontrato in Germania erano sempre di origine francese, a cominciare dalla signora Cosima Wagner, di gran lunga la voce più alta che abbia sentito in fatto di gusto... Che io non legga, ma ami Pascal come la vittima più istruttiva del cristianesimo, assassinato lentamente, prima fisicamente, poi psicologicamente, con tutta la logica di questa forma, tra le più terribili, di crudeltà inumana; che io abbia nello spirito, chissà, forse, anche nel fisico, qualcosa della prepotenza di Montaigne; che il mio gusto d’artista prenda sotto la sua protezione, non senza rabbia, contro un genio selvaggio come Shakespeare, i nomi di Molière, Corneille e Racine: tutto ciò, in fondo, non esclude che anche i francesi più recenti siano per me una compagnia charmante. Non vedo proprio in quale secolo della storia si possono pescare tutti insieme psicologi così curiosi e contemporaneamente così delicati come quelli che si trovano oggi a Parigi: nomino a caso — poiché il loro numero non è piccolo — i signori Paul Bourget, Pierre Loti, Gyp, Meilhac, Anatole France, Jules Lemaìtre, o, per indicarne uno di razza forte, un vero latino, al quale sono particolarmente affezionato, Guy de Maupas- sant. Io, detto tra noi, preferisco questa generazione persino ai suoi grandi maestri, che sono tutti quanti guastati dalla filosofia tedesca: il signor Tai- ne, a esempio, da Hegel, al quale deve l’incomprensione di grandi uomini e grandi epoche. Ovunque giunga, la Germania guasta la civiltà. In Francia solo la guerra ha «liberato» lo spirito... Stendhal, uno dei casi più belli della mia vita — perché tutto ciò che in essa fa epoca, mi è giunto per caso, mai per una raccomandazione — è inestimabile con il suo sguardo precursore di psicologo, con la sua presa sulla realtà, che ricorda la vicinanza del massimo realista (ex ungue Napoleonem —); infine, e non è il merito minore, è un ateo onesto, una species rara in Francia, e quasi introvabile — ad onore di Prosper Mérimée... Forse sono io stesso invidioso di Stendhal? Mi ha sottratto la migliore battuta da ateo che proprio io avrei potuto fare: «L’unica giustificazione di Dio è che non esiste»... Io stesso ho detto da qualche parte: qual è stata finora la maggior obiezione contro l’esistenza? Dio...
 
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Ilpiù elevato concetto di poeta lirico me l’ha dato Heinrich Heine. Cerco invano in tutti i regni dei millenni una musica ugualmente dolce e appassionata. Egli possedeva quella divina malizia senza la quale non so immaginare la perfezione, — io valuto il valore degli uomini, delle razze, dalla coscienza che essi hanno della necessaria inseparabilità di Dio dal satiro. E come tratta la lingua tedesca! Si dirà un giorno che Heine e io siamo stati di gran lunga i massimi artisti della lingua tedesca — a incalcolabile distanza da tutto ciò che ne hanno fatto i Tedeschi comuni. — Devo avere una comunanza profonda con il Manfredi di Byron: trovo in me tutti questi abissi, — a tredici anni ero maturo per quest’opera. Non rivolgo una parola, ma appena uno sguardo, a quelli che, di fronte al Manfredi, osano pronunciare il nome di Faust. I Tedeschi sono incapaci di ogni concetto di grandezza: la prova è Schumann. Io stesso, per la rabbia contro questo Sassone dolciastro, ho composto una contro-ouverture al Manfredi, della quale Hans von Bulow disse che non aveva mai visto nulla di simile su carta da musica: che era lo stupro di Euterpe. — Se cerco per Shakespeare la mia formula più sublime, trovo sempre soltanto la stessa, cioè che egli ha concepito il tipo di Cesare. Cose del genere non si indovinano, — о si è così о non lo si è. Il grande poeta crea solo dalla propria realtà — fino al punto che, dopo, non sopporta più la propria opera... Quando getto uno sguardo al mio Zarathustra, vado avanti e indietro nella stanza per una mezz’ora, incapace di dominare un’insostenibile crisi di singhiozzi. — Non conosco lettura più straziante di Shakespeare: che cosa deve aver sofferto un uomo per aver a tal punto bisogno di fare il pagliaccio! — Qualcuno comprende Amleto? Non il dubbio, la certezza è ciò che rende folle... Ma bisogna essere profondi, bisogna essere abissi, bisogna essere filosofi per sentire così... Noi tutti temiamo la verità... E, devo riconoscerlo: sono istintivamente sicuro e certo che Lord Bacon è il creatore di questo genere, ilpiù inquietante, di letteratura, colui che di questa si è torturato a mo’ d’esperimento: cosa mi importa delle chiacchiere miserevoli di Americani dalle teste confuse e piatte? Non solo invero la forza della più poderosa realtà nella visione è compatibile con la forza più poderosa nell’azione, nella mostruosità dell’azione, nel crimine — essa lo presuppone addirittura... Siamo lontani dal saperne abbastanza su Lord Bacon, il primo realista in tutti i grandi significati della parola, per sapere tutto ciò che ha fatto, ciò che ha voluto, ciò che ha sperimentato in se stesso... E al diavolo, signori critici! Posto che avessi battezzato il mio Zarathustra con un nome diverso, per esempio con quello di Richard Wagner, la sagacia di due millenni non sarebbe stata sufficiente per indovinare che l’autore di Umano, troppo umano è il visionario di Zarathustra...
 
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Qui, dove parlo dei conforti della mia vita, è indispensabile una parola per esprimere la mia gratitudine per ciò che in essa mi ha ristorato nel modo di gran lunga più profondo e benevolo. Ciò è stata, senza alcun dubbio, la mia intima vicinanza a Richard Wagner. Non tengo in gran conto tutti gli altri miei rapporti umani; non vorrei sottrarre dalla mia vita, a nessun prezzo, i giorni di Tribschen, i giorni della fiducia, della gaiezza, dei casi sublimi — degli istanti profondi... Non so cosa altri abbiano vissuto con Wagner: sul nostro cielo è mai passata una nuvola. — E con ciò torno ancora una volta alla Francia, — non ho argomenti, ho solo una smorfia sprezzante per i wagneriani et hoc genus omne, che credono di far onore a Wagner trovandolo simile a se stessi... Estraneo come sono, nei miei istinti più profondi, a tutto ciò che è tedesco, tanto che la sola vicinanza di un tedesco mi ritarda la digestione, il primo contatto con Wagner segnò anche il primo momento della mia vita in cui respirai a fondo: lo sentii, lo venerai come un paese straniero, come antitesi, come protesta vivente contro tutte le «virtù tedesche». — Noi, che siamo stati bambini nella palude degli anni Cinquanta, siamo necessariamente pessimisti sul concetto di «tedesco»; non possiamo essere nient’altro che rivoluzionari — non ammetteremo nessuno stato di cose in cui domini il bigotto. Mi è completamente indifferente se si riveste oggi di altri colori, se si ammanta di scarlatto, se indossa l’uniforme degli ussari... Bene! Wagner era un rivoluzionario — egli fuggiva davanti ai Tedeschi... In quanto artisti non si ha altra patria in Europa che Parigi; la délicatesse in tutti i cinque sensi dell’arte, che l’arte di Wagner presuppone, il tocco per le nuances, la morbosità psicologica, tutto questo si trova solo a Parigi. In nessun altro luogo si ha questa passione per i problemi della forma, questa serietà nella mise en scène — è la serietà parigina par excellence. In Germania non si ha la minima idea della enorme ambizione che vive nell’anima di un artista parigino. Il tedesco è bonario — Wagner non era per nulla bonario... Ma ho spiegato già a sufficienza (in Al di là del bene e del male, p. 256), dove dobbiamo situare Wagner, dove si trovino i suoi affini più stretti: è il tardo romanticismo francese, quel genere d’artisti che volano in alto e che trascinano verso l’alto come Delacroix, come Berlioz, con un fond di malattia, di congenita insanabilità, tutti fanatici àt\Yespressione, virtuosi in tutto e per tutto... Chi fu il primo seguace intelligente di Wagner? Charles Baudelaire, lo stesso che comprese per primo Delacroix, quel tipico décadent nel quale si è riconosciuta un’intera generazione di artisti — forse fu anche l’ultimo... Cosa non ho mai perdonato a Wagner? Di aver accondisceso ai Tedeschi — di essere diventato un tedesco dell’impero... Dovunque la Germania arrivi, guasta la civiltà. —
 
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Tutto considerato, non avrei sopportato la mia giovinezza senza la musica wagneriana. Poiché ero condannato ai Tedeschi. Se ci si vuol liberare di una pressione insopportabile, si ha bisogno dell’haschish. Ebbene, io avevo bisogno di Wagner. Wagner è, par excellence, l’antidoto contro tutti i Tedeschi, un veleno, non lo contesto... Dal momento in cui apparve una riduzione per pianoforte del Tristano — i miei complimenti, signor von Biilow! —, fui wagneriano. Le opere precedenti di Wagner le vedevo inferiori a me — ancora troppo comuni, troppo «tedesche»... Ma ancor oggi cerco un’opera con lo stesso pericoloso fascino, con la stessa terribile e dolce infinità del Tristano — cerco invano in tutte le arti. Tutti i misteri di Leonardo da Vinci perdono il loro incanto alle prime note del Tristano. Quest’opera è senz’altro il non plus ultra di Wagner; egli si riposò di quest’opera con i Maestri cantori e L’anello. Diventare più sani — è un regresso in una natura come quella di Wagner... Ritengo un’enorme fortuna l’aver vissuto al tempo giusto, e proprio tra i Tedeschi, per essere maturo per quest’opera: tanto lontano giunge, in me, la curiosità dello psicologo. Il mondo è povero per colui che non è stato mai abbastanza malato per questa «voluttà dell'inferno»: è consentito, è quasi obbligatorio, adoperare qui una formula mistica. — Penso di conoscere meglio di chiunque altro i prodigi di cui Wagner è capace, i cinquanta mondi di ignote estasi per i quali nessuno oltre a lui aveva avuto le ali; e poiché, per come sono fatto, sono forte abbastanza per volgere a mio vantaggio anche l’elemento più problematico e pericoloso e diventare con ciò ancor più forte, chiamerò Wagner il maggior benefattore della mia vita. Ciò in cui siamo affini, l’aver sofferto anche l’uno a cagione dell’altro, più profondamente di quanto gli uomini di questo secolo possano mai soffrire, riunirà per l’eternità i nostri nomi; e come è certo che Wagner è solo un fraintendimento tra i Tedeschi, così lo sono io e lo sarò sempre. Per prima cosa due secoli di disciplina psicologica e artistica, signori Germani!... Ma questa è una cosa che non si ricupera. —
 
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Aggiungerò ancora una parola per le orecchie più sottili: ciò che io voglio esattamente dalla musica. Che essa sia gaia e profonda, come un meriggio d’ottobre. Che sia strana, sfrenata, tenera, una piccola donna dolce, piena di malizia e di grazia... Non ammetterò mai che un tedesco possa sapere cos’è la musica. Quelli che son chiamati musicisti tedeschi, e soprattutto i più grandi, sono stranieri, Slavi, Croati, Italiani, Olandesi — о Ebrei; diversamente sono Tedeschi della razza forte, Tedeschi estinti, come Heinrich Schtitz, Bach e Hàndel. Io stesso sono ancor sempre abbastanza polacco per dare in cambio di Chopin tutto il resto della musica: faccio eccezione, per tre motivi, per L’idillio di Sigfrido, di Wagner, forse anche per Liszt, che nei nobili accenti orchestrali è superiore a ogni altro compositore; e infine per tutto ciò che si è sviluppato al di là delle Alpi — al di qua... Non vorrei tralasciare Rossini, e ancor meno il mio Sud nella musica, la musica del mio maestro veneziano Pietro Gasti. E quando dico al di là delle Alpi, dico in effetti soltanto Venezia. Se cerco un’altra parola per la musica, trovo sempre e soltanto la parola Venezia. Non esiste per me differenza tra musica e lacrime — non posso immaginare la felicità, il Sud, senza un brivido di sgomento.

Stavo sul ponte poco tempo fa nella bruna notte.
Di lontano giungeva un canto: gocce dorate scorrevano sulla superficie tremante.
Gondole, luci, musica — ebbre si perdevano nel crepuscolo...

La mia anima, un suono di violino, a sé cantava, toccata da dita invisibili, segretamente, un canto di gondolieri, tremando di felicità multicolore
— L’ha udita mai qualcuno?...
 
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In tutto ciò — nella scelta dei cibi, del luogo e del clima, del riposo — domina un istinto di autoconservazione, che nel modo più netto si esprime come istinto di autodifesa. Non vedere, non udire, non farsi avvicinare da molte cose — prima astuzia, prima dimostrazione che non vi è un caso, bensì una necessità. La parola corrente, per questo istinto di autodifesa, è gusto. Il suo imperativo non ci ordina solo di dire no, dove il sì sarebbe segno di «altruismo», ma anche di dire no il meno possibile. Separarsi, dividersi da ciò dove il no sarebbe continuamente necessario. La ragione di ciò sta nel fatto che le spese difensive, anche minime, diventando regola, abitudine, determinano un impoverimento straordinario e assolutamente superfluo. Le nostre grandi spese sono le piccole spese che si ripetono. Il difendersi, il non lasciarsi avvicinare è una spesa — non ci si inganni qui —, una forza sprecata per fini negativi. Unicamente per la costante necessità di difendersi, si può diventare troppo deboli per potersi ancora difendere. Posto che esca dalla mia casa e trovi, invece della tranquilla e aristocratica Torino, una piccola città tedesca: il mio istinto dovrebbe barricarsi per respingere tutto ciò che preme su di lui da questo mondo piatto e codardo. E se trovassi una grande città tedesca, questo vizio divenuto città, dove non cresce nulla, dove ogni cosa, buona e cattiva, è importata? Non dovrei allora farmi istrice? — Ma avere aculei è uno spreco, addirittura un doppio lusso, quando sarebbe possibile non avere aculei, sibbene mani aperte...

Un’altra astuzia e autodifesa consiste nel fatto di reagire il più raramente possibile e di sottrarsi a situazioni e condizioni nelle quali ci si troverebbe costretti a esporre, per così dire, la propria «libertà», la propria iniziativa e diventare un semplice reagente. Prendo a paragone il rapporto con i libri. Il dotto, che in fondo si limita a «compulsare» i libri — circa duecento al giorno per il filologo di capacità media — perde alla fine completamente la capacità di pensare da solo. Se non compulsa non pensa. Quando pensa, risponde a uno stimolo (— un pensiero letto) — alla fine non fa che reagire. Il dotto pone tutta la sua energia nel dire sì e no, nella critica del già pensato, — egli stesso non pensa più... L’istinto d’autodifesa si è rammollito; diversamente si rivolterebbe contro i libri. Il dotto — un décadent. — L’ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e nate per essere libere «ammazzate dalla lettura» già a trent’anni, ridotti ormai a fiammiferi, che bisogna strofinare perché diano scintille — «pensieri» —. Leggere un libro di prima mattina, al giungere del giorno, nella piena freschezza, nell’aurora della propria forza, questo io lo chiamo vizio! —
 
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A questo punto non si può più fare a meno di dare la vera risposta alla domanda come si diventa ciò che si è. Arrivo così al capolavoro nell’arte dell’autoconservazione — l’egoismo... Ammesso cioè che il compito, la determinazione, il destino del compito sia molto al di sopra della media, nessun pericolo sarebbe maggiore di vedere se stessi di fronte a questo compito. Divenire ciò che si è presuppone che non si indovini neppure lontanamente ciò che si è. Da questo punto di vista anche i passi falsi della vita hanno il loro senso e il loro valore, le temporanee deviazioni e gli sviamenti, le esitazioni, i «pudori», la serietà sprecata in compiti che stanno al di là del compito. In ciò si manifesta una grande accortezza, addirittura la massima astuzia: laddove il nosce te ipsum sarebbe il mezzo più sicuro per perdersi, il dimenticarsi, il fraintendersi, il ridursi, il limitarsi, il mediocriz- zarsi diviene ora la ragione stessa. Per dirla in termini morali: l’amore del prossimo, una vita dedicata agli altri e alle altre cose può essere la regola di difesa per il mantenimento del più rigido senso di sé. È il caso eccezionale nel quale, contro la mia regola e la mia convinzione, prendo partito per gli impulsi «disinteressati»: essi lavorano, qui, al servizio dell’egoismo, del- Vautodisciplina. — Bisogna tenere sgombra tutta intera la superficie della coscienza — la coscienza è una superficie — da qualsiasi grande imperativo. Attenzione anche alle grandi parole, ai grandi atteggiamenti! Tutti pericoli che l’istinto «si comprenda» troppo presto. Nel frattempo, nel profondo, cresce sempre di più l’«idea» organizzatrice, l’idea chiamata al dominio, — essa comincia a comandare, riconduce lentamente indietro dalle deviazioni e dagli sviamenti, prepara singole qualità e capacità, che si dimostreranno un giorno indispensabili come strumento per il tutto, — essa forma successivamente tutti i poteri subalterni, prima ancora di far conoscere qualcosa del compito dominante, della «meta», dello «scopo», del «senso». — Considerata da questo punto di vista, la mia vita è semplice- mente prodigiosa. Per il compito di una trasvalutazione dei valori erano forse necessarie maggiori capacità quelle che si sono trovate a coesistere in una sola persona, e soprattutto contrapposizioni di poteri cui non è dato tuttavia disturbarsi о distruggersi. Gerarchia dei poteri; distanza; l’arte di separare senza inimicare; non mescolare nulla, non «conciliare» nulla, una molteplicità enorme, che ciononostante è l’opposto del caos — questo era il presupposto, il lungo lavoro segreto, la maestria del mio istinto. La sua superiore protezione si è dimostrata così forte che in nessun caso ho anche soltanto presentito ciò che cresceva in me, — e tutte le mie attitudini sono balzate fuori un giorno all’improvviso, mature, in tutta la loro perfezione. Non ricordo di essermi mai sforzato, non c’è traccia di lotta nella mia vita, iosono l’opposto di una natura eroica. «Volere» qualcosa, «tendere» a qualcosa, avere in vista uno «scopo», un «desiderio» — tutto ciò io non lo conosco per esperienza. In questo stesso attimo guardo al mio futuro — un futuro vastol — come a un mare piatto: nessun desiderio lo increspa. Io non voglio in alcun modo che qualcosa diventi diverso da ciò che è; io stesso non voglio diventare diverso. Ma è così che ho sempre vissuto. Non ho avuto alcun desiderio. Qualcuno che possa dire, alla fine del suo quaranta- quattresimo anno, che non ha mai cercato di ottenere, onori, donne, denaro! — Non che mi siano mancati... Così, ad esempio, sono stato un tempo professore di università, — non avevo pensato niente di simile, neppure di lontano, poiché avevo solo 24 anni. Cosi, due anni prima, a un certo punto, ero diventato filologo: nel senso che il mio primo lavoro filologico, il mio inizio, in tutti i sensi, fu richiesto dal mio maestro, Ritschl, per pubblicarlo nel suo Rheinisches Museum (Ritschl — lo dico con venerazione — l’unico dotto geniale che io abbia incontrato fino ad oggi. Possedeva quella amabile corruzione, che distingue noi della Turingia e che rende simpatico perfino un tedesco: — noi preferiamo ancora le vie traverse anche per arrivare alla verità. Con queste parole non vorrei affatto aver sottovalutato il mio più vicino conterraneo, l’accorto Leopold von Ranke...).
 
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- Mi si chiederà perché ho raccontato proprio tutte queste cose, piccole e, secondo il giudizio corrente, insignificanti; con ciò faccio danno a me stesso, tanto più se fossi destinato a sostenere grandi compiti. Risposta: queste piccole cose — alimentazione, luogo, clima, riposo, l’intera casistica dell’egoismo — sono infinitamente più importanti di tutto ciò che sino ad oggi si è considerato importante. Proprio qui bisogna iniziare, per imparare in modo diverso. Ciò che fino ad oggi l’umanità ha preso sul serio non sono neppure delle realtà, ma semplici fantasie o, più esattamente, menzogne nate dai cattivi istinti di nature malate, dannose nel significato più profondo — tutti i concetti di «dio», «anima», «virtù», «peccato», «al di là», «verità», «vita eterna»... Ma in essi si è cercata la grandezza della natura umana, il suo carattere divino... Tutti i problemi politici, dell’organizzazione sociale, dell’educazione sono stati falsati alla base dal fatto di aver preso per grandi uomini gli uomini più dannosi, di aver insegnato a disprezzare le «piccole cose», voglio dire le questioni basilari della vita stessa... La nostra cultura attuale è ambigua al massimo grado... L’imperatore tedesco che patteggia col papa, come se il papa non fosse il rappresentante della mortale ostilità contro la vita!... Ciò che viene edificato oggi non ci sarà più tra tre anni. — Se mi misuro per ciò che posso, per non parlare di ciò che verrà dopo di me, un sovvertimento, una costruzione senza pari, allora ho diritto alla parola grandezza più di qualsiasi altro mortale. Se ora mi paragono agli uomini che fino ad oggi sono stati onorati come i primi, allora la differenza è palpabile. Io non conto questi pretesi «primi» neppure tra gli uomini in generale, — per me essi sono la feccia del umanità, prodotti della malattia e di istinti vendicativi: essi sono tutti non-uomini funesti, fondamentalmente incurabili, che si vendicano della vita... Voglio essere il loro opposto: il mio privilegio è di avere la massima raffinatezza per tutti i segni degli istinti sani. Manca in me ogni segno patologico; anche nei momenti di grave malattia io non sono mai diventato morboso; si cercherebbe invano in me un tratto di fanatismo. In nessun momento della mia vita si potrà indicare in me un atteggiamento arrogante о patetico. Il pathos dell’atteggiamento non appartiene alla grandezza; chi ha bisogno di atteggiamenti è falso... Attenzione alle persone pittoresche! — La vita mi è diventata lieve, lievissima quando pretendeva da me le cose più pesanti. Chi mi ha visto durante i settanta giorni di questo autunno, in cui senza intenzione, con il senso di responsabilità per i millenni che verranno, ho fatto solo cose di prim’ordine che nessuno farà dopo di me — о ha fatto prima - non avrà notato in me nessun segno di tensione, ma anzi una traboccante freschezza e serenità. Non ho mai mangiato con un senso di maggio re piacere, non ho mai dormito meglio. — Non conosco altro modo che il gioco per occuparsi di grandi compiti: come segno di grandezza è un presupposto fondamentale. Il minimo sforzo, una espressione cupa, un accento duro nella voce sono tutte obiezioni contro un uomo, ancor più contro la sua opera!... Non si possono avere i nervi... Anche soffrire di solitudine è un’obiezione, — io ho sempre sofferto soltanto di «moltitudine»... In un’età assurdamente prematura, a sette anni, sapevo già che mai parola umana mi avrebbe raggiunto: mi si è mai visto turbato per questo? — Ho ancora oggi la stessa affabilità verso chiunque, sono anche pieno di considerazione verso i più umili: in tutto ciò non c’è un grano di arroganza, di segreto disprezzo. Colui che disprezzo indovina di essere disprezzato da me: con la mia sola esistenza io irrito tutto ciò che ha sangue cattivo nelle vene... La mia formula per ciò che vi è di grande nell’uomo è amor fati: non voler avere nulla di diverso, né davanti né alle spalle, né in tutta l’eternità. Non sopportare, semplicemente, l’ineluttabile e meno ancora dissimularlo — ogni idealismo è menzogna di fronte all’ineluttabile —, ma amarlo...
 
Perché scrivo libri così buoni

 
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Una cosa sono io, un’altra i miei scritti. — Prima ch’io parli dei miei scritti stessi, conviene trattare qui il problema della loro comprensione о nоn-comprensione. Lo faccio con tutta la noncuranza del caso: poiché il momento per questo problema non è ancora giunto. Non è giunto neppure ilmio, ci sono uomini che nascono postumi. — Prima о poi avremo bisogno di istituzioni nelle quali vivere e insegnare come io intendo che si viva e si insegni; forse verranno istituite anche cattedre particolari per l’interpretazione dello Zarathustra. Ma sarei in totale contraddizione con me stesso se mi aspettassi di trovare già oggi orecchi e mani per le mie verità: che oggi non si ascolti, che oggi non si sappia prendere da me, non solo è comprensibile, ma a me pure sembra giusto. Non voglio essere preso per quello che non sono, — per ciò occorre che io stesso non mi prenda per ciò che non sono. — Lo ripeto, nella mia vita ci sono poche dimostrazioni di «cattiva volontà»; anche di «cattiva volontà» letteraria non saprei citare neppure un caso. In compenso troppa pura follia... Mi sembra che, quando qualcuno prende in mano un mio libro, questo sia uno degli onori più rari che egli possa farsi, — suppongo anche che per farlo si tolga le scarpe, — per non parlare degli stivali... Quando una volta il dottor Heinrich von Stein si lamentò onestamente di non capire una parola del mio Zarathustra, gli dissi che era naturale: averne comprese sei frasi cioè averle vissute, eleva a un grado, tra i mortali, più alto di quello che gli uomini «moderni» potrebbero mai raggiungere. Come potrei, con questo senso della distanza, anche soltanto desiderare di essere letto dai «moderni» che conosco! — Il mio trionfo è proprio l’inverso di quello di Schopenhauer, — io dico «non legor non legar». — Non che io voglia sottovalutare il piacere che mi ha dato più volte l’innocenza del no detto ai miei scritti. Anche quest’estate, nel periodo in cui sarei forse riuscito, con la mia letteratura seria, troppo seria, a far perdere l’equilibrio a tutto il resto della letteratura, un professore dell’università di Berlino mi ha fatto benevolmente capire che dovrei tuttavia servirmi di un’altra forma: roba del genere non la legge nessuno. Infine è stata la Svizzera, non la Germania, che ha offerto i due casi limite. Un saggio del dottor V. Widmann sul Bund, a proposito di Al di là del bene e del male, con il titolo «Il pericoloso libro di Nietzsche» e un resoconto complessivo sui miei libri in generale del signor Karl Spitteler, egualmente sul Bund, rappresentano il vertice nella mia vita — mi risparmio dal dire di che cosa... L’ultimo, ad esempio, trattava il mio Zarathustra come un «superiore esercizio di stile», esprimendo l’augurio che io volessi occuparmi, in seguito, anche del contenuto; il dottor Widmann mi ha espresso la sua stima per il coraggio con cui mi sforzo di abolire tutti i sentimenti decorosi. — Per una piccola malignità del caso, ogni frase, con una conseguenzialità che ho ammirato, era qui una verità capovolta: in fondo bastava «capovolgere tutti i valori» per cadere, in modo anche notevole, in piedi, invece di cadérmi sui piedi... A maggior ragione tento una spiegazione. — In definitiva nessuno può trarre dalle cose, compresi i libri, più di quanto già non sappia. Per ciò di cui non si ha esperienza, non si hanno orecchie. Immaginiamo adesso un caso estremo, che un libro parli solo di esperienze che sono completamente estranee alla possibilità dell’esperienza comune, о anche rare, — che esso sia il primo linguaggio per una nuova serie di esperienze. In questo caso non si udrà semplicemente nulla, con l’illusione acustica per la quale dove non si ode nulla, non c’è nulla... Questa in fondo è la mia esperienza media e, se si vuole, l’originalità della mia esperienza. Chi ha creduto di aver compreso qualcosa di me si è costruito, usando me, qualcosa a sua immagine, — non di rado un mio opposto, per esempio un «idealista»; chi non ha compreso nulla di me negava ch’io dovessi, in generale, essere preso in considerazione. — La parola «superuomo», in quanto definizione di un tipo estremamente ben riuscito, in contrasto con l’uomo «moderno», con l’uomo «buono», il cristiano e altri nichilisti — espressione che, in bocca a Zarathustra, il distruttore della morale, diventa una parola che dà molto da pensare — è stata intesa, quasi ovunque, con assoluta innocenza, nel senso di quei valori il cui opposto è stato manifestato nella figura di Zarathustra, voglio dire come tipo «idealistico» di un genere superiore di uomo mezzo «santo» e mezzo «genio»... Un’altra addottrinata mandria mi ha sospettato, da parte sua, di darwinismo; vi hanno ritrovato perfino quel «culto degli eroi», respinto da me con tanta durezza, proprio di quel gran falsario contro voglia e contro coscienza che è Carlyle. Se sussurravo all’orecchio di qualcuno che doveva guardarsi attorno per trovare un Cesare Borgia piuttosto che un Parsifal, quello non si fidava delle proprie orecchie. — Mi si dovrà perdonare di non avere la minima curiosità per le recensioni dei miei libri, soprattutto dovute ai giornali. I miei amici, i miei editori lo sanno e non me ne parlano. In un caso particolare mi capitò una volta sotto gli occhi ciò che è stato perpetrato ai danni di un singolo libro — si trattava di Al di là del bene e del male', avrei modo di darne un bel resoconto, è possibile credere che la Nationalzeitung — un giornale prussiano, lo dico per i miei lettori stranieri, quanto a me, con licenza, mi limito a leggere il Journal des Débats — ha creduto di intendere questo libro, con assoluta serietà, come un «segno dei tempi», come la vera, autentica filosofia Junker, per la quale la Kreuzzei- tung non ha abbastanza fegato?...
 
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Questo l’ho detto per i Tedeschi: perché ho lettori dovunque — tutte intelligenze raffinate, caratteri provati, educati ad alte posizioni e doveri; ho addirittura autentici geni tra i miei lettori. A Vienna, a Pietroburgo, a Stoccolma, a Copenaghen, a Parigi e New York — vengo scoperto dappertutto: non nella pianura d’Europa, la Germania... E, devo riconoscerlo, mi rallegro ancor più dei miei non-lettori, di quelli che non hanno mai sentito né il mio nome né la parola filosofia; ma dovunque arrivo, qui a Torino, per esempio, ogni volto si rasserena e si addolcisce alla mia vista. Ciò che mi ha lusingato di più fino ad oggi è che le vecchie venditrici non si danno pace prima di aver scelto per me i più dolci dei loro grappoli. Così bisogna essere filosofi... Non per nulla i Polacchi vengono chiamati i Francesi tra gli Slavi. Una russa affascinante non si sbaglierà per un solo istante sul mio luogo d’origine. Io non riesco ad essere solenne, al massimo arrivo all’imbarazzo... Pensare da tedesco, sentire da tedesco — posso tutto, ma questo è superiore alle mie forze... Il mio vecchio maestro Ritschl sosteneva addirittura che io ideassi anche i miei saggi filologici come un romancier parigino — in modo assurdamente affascinante. Persino a Parigi ci si stupisce di «toutes mes audaces et finesses» — la frase è di Monsieur Taine —; temo che perfino nelle forme supreme del ditirambo si trovi in me un pizzico di quel sale che non diventa mai insipido — «tedesco» — Vesprit... Non posso fare diversamente. Dio mi aiuti! Amen. Sappiamo tutti, alcuni lo sanno addirittura per esperienza, cos’è l’animale dai lunghi orecchi. Ebbene oso affermare che le mie sono le orecchie più piccole del mondo. Questo interessa non poco le donnette —, mi pare, che si sentano forse meglio comprese da me?... Io sono Vanti-asino par excellence, e con ciò un mostro nella storia del mondo, — io sono, in greco, e non solo in greco, l’ Anticristo.. .
 
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Conosco discretamente i miei privilegi di scrittore; in singoli casi mi è anche chiaro quanto l’assuefazione ai miei libri, «rovini» il gusto. Semplicemente non si sopportano più altri libri, per lo meno quelli filologici. È un onore senza pari penetrare in questo mondo nobile e delicato, — per farlo non bisogna assolutamente essere Tedeschi; in fin dei conti è un onore che bisogna essersi guadagnati. Ma chi mi è affine per l'altezza della volontà, vivrà qui vere estasi dell’apprendere: poiché io vengo da altezze dove nessun uccello ha mai volato, conosco abissi nei quali nessun piede si è ancora perso. Mi hanno detto che non è possibile deporre uno dei miei libri, disturbo anche la quiete notturna... Non c’è assolutamente un genere di libri più fieri e al tempo stesso più raffinati: — essi attingono in questo о quel punto quanto di più alto si può raggiungere sulla terra, il cinismo: bisogna conquistarseli sia con le dita più delicate che con i pugni più vigorosi. Ogni gracilità dell’anima ne esclude, una volta per tutte, la possibilità, perfino una semplice dispepsia: non bisogna avere nervi, bisogna avere un ventre gaio. Non la povertà soltanto, l’aria di chiuso di un’anima la esclude, e ancor più la viltà, la sporcizia, la segreta sete di vendetta nelle viscere: una mia parola porta alla luce tutti i cattivi istinti. Io ho fra i miei conoscenti parecchie cavie, sulle quali mi godo le diverse, le istruttivamente diverse reazioni ai miei scritti. Chi non vuol avere niente a che fare con il contenuto, per esempio i miei cosiddetti amici, diventa «impersonale»: ci si congratula, che io sia andato di nuovo «così lontano», — ci sarebbe anche un progresso nella maggiore serenità del tono... Gli «spiriti» completamente viziosi, le «anime belle», quelli totalmente bugiardi, non sanno assoluta- mente cosa fare di questi libri, — di conseguenza li vedono sotto di sé, questa è la bella consequenzialità di tutte le «anime belle». I ruminanti di mia conoscenza, semplici Tedeschi, se mi è lecito, lasciano capire di non essere sempre della mia opinione, ma che tuttavia, in alcuni punti, per esempio... L’ho sentito anche a proposito dello Zarathustra... Allo stesso modo ogni «Femminismo», persino nell’uomo, è una chiusura nei miei confronti: non si entrerà più in questo labirinto di conoscenze ardite. Bisogna non aver mai risparmiato se stessi, bisogna avere la durezza tra le proprie abitudini, per essere sereni e di buon umore in mezzo a dure verità. Se mi faccio un quadro del lettore perfetto, ne esce sempre un mostro di coraggio e curiosità, con in più qualcosa di malleabile, di astuto, di attento, un avventuriero e un esploratore nato. Infine: non saprei dire a chi soltanto, in fondo, ioparli, meglio di come lo ha detto Zarathustra: a chi soltanto vuole raccontare il suo enigma?

A voi, cercatori temerari, tentatori, a chi si è mai imbarcato con astute vele su mari terribili,

— a voi, ebbri di enigmi, lieti crepuscolari, la cui anima è adescata da flauti verso ogni tortuoso abisso:

- poiché non volete seguire con mano vile un filo; e là dove potete indovinare, avete a disdegno il dedurre...
 
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Nel contempo dirò qualche parola in generale sulla mia arte dello stile. Comunicare uno stato, una tensione interna del pathos attraverso segni, compreso il ritmo di questi segni — questo è il senso di ogni stile: e considerando che in me la molteplicità degli stati interiori è straordinaria, ci sono in me molte possibilità di stile — la più molteplice arte dello stile che un uomo abbia mai avuto a disposizione. Ogni stile, che comunichi veramente uno stato interiore, che non sbagli i segni, il ritmo dei segni, i gesti — tutte le leggi del periodo sono un’arte del gesto — è buono. Qui il mio istinto è infallibile. — Uno stile buono in sé — una pura pazzia, nient’altro che «idealismo», quasi come il «bello in sé», come il «buono in sé», come la «cosa in sé»... Presumendo sempre che ci siano orecchie — che ci siano esseri capaci e degni di un simile pathos, che non manchino coloro con i quali è possibile comunicare. — Il mio Zarathustra, ad esempio, sta cercando ancora uomini capaci di tanto — oh, dovrà cercare ancora a lungo. — Bisogna essere degni di ascoltarlo... E fino ad allora non ci sarà nessuno che comprenderà l’arte che vi è stata prodigata: non c’è stato mai nessuno che ha potuto prodigare tanti mezzi artistici nuovi, inauditi, creati veramente per la prima volta a questo scopo. Che una cosa simile fosse possibile con la lingua tedesca restava da dimostrare: io stesso, prima, l’avrei rifiutata nel modo più duro. Prima di me non si sapeva cosa si può fare con la lingua tedesca, — cosa si può fare con il linguaggio in generale. — L’arte del grande ritmo, del grande stile del periodare per esprimere un immane flusso e riflusso di passione sublime e sovrumana è stata scoperta da me per primo; con un ditirambo come l’ultimo del terzo Zarathustra, intitolato «sette sigilli», ho violato mille miglia oltre ciò che fino ad oggi è stata chiamata poesia.
 
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— Che nei miei scritti parli uno psicologo che non ha pari, questa è forse la prima constatazione alla quale arriva un buon lettore — un lettore come lo merito, che mi legge come i buoni filologi di una volta leggevano il loro Orazio. Le proposizioni sulle quali in fondo tutti sono d’accordo, per non parlare dei filosofi buoni per tutti, dei moralisti e delle altre teste vuote, teste di cavolo — appaiono in me come errori d’ingenuità: per esempio la convinzione che «non-egoistico» ed «egoistico» siano termini antitetici mentre l'ego stesso è soltanto una «sublime impostura», un «ideale»... Non ci sono né azioni egoistiche né azioni non-egoistiche; entrambi i concetti sono un controsenso psicologico. E così la proposizione «l’uomo aspira alla felicità»... о la proposizione «la felicità è il compenso della virtù»... О la pròposizione «piacere e dispiacere sono antitetici»... La Circe dell’umanità, la morale, ha falsificato da cima a fondo tutti gli psychologica — li ha contagiati con la morale — fino a quello spaventoso non-senso secondo il quale l’amore sarebbe «non egoistico»... Bisogna essere ben fermi in se stessi, bisogna essere valorosamente saldi sulle proprie gambe, altrimenti non si può amare affatto. E lo sanno troppo bene le femminette: non sanno cosa farsene degli uomini disinteressati, semplicemente obiettivi... Posso azzardare a questo proposito la presunzione di conoscere le femminette? Fa parte della mia dote dionisiaca. Chissà? Forse sono il primo psicologo dell’Eterno Femminino. Mi amano tutte — una vecchia storia: escluse le femmine fallite, le «emancipate» a cui manca la capacità di fare bambini — Per fortuna non ho intenzione di farmi sbranare: la donna perfetta sbrana quando ama... Conosco queste amabili Menadi... Ah, che pericolosa, strisciante, sotterranea piccola belva! E con tutto ciò piacevole! Una piccola donna che insegue la sua vendetta manderebbe all’aria anche il destino — La donna è indicibilmente più cattiva dell’uomo, e più intelligente; la bontà nella donna è già una forma di degenerazione... In fondo a tutte le cosiddette «anime belle» c’è un malessere fisiologico — non voglio dire tutto, altrimenti diventerei medi-cinico. La lotta per l’uguaglianza dei diritti è addirittura un sintomo di malattia: ogni medico lo sa. — La donna, quanto più è donna, si difende a pugni e calci contro i diritti in generale: lo stato di natura, l’eterna guerra — tra i sessi e la pone di gran lunga al primo posto. — Si è saputo comprendere la mia definizione di amore? è l’unica che sia degna di un filosofo — Amore — nei suoi mezzi, la guerra; nel suo fondo, l’odio mortale tra i sessi... Qualcuno ha udito la mia risposta alla domanda: come si cura, come si «redime» una donna? Le si fa fare un bambino. La donna ha bisogno di bambini, l’uomo è sempre soltanto strumento: così parlò Zarathustra. «Emancipazione della donna» — è l’odio istintivo della donna mancata, cioè inidonea alla procreazione, verso la donna realizzata, — la lotta contro l’«uomo» è sempre soltanto strumento, pretesto, tattica. Mentre si innalzano, rispetto alla donna, a «donna in sé», a «donna superiore», a «idealista», vogliono abbassare la condizione generale della donna; non c’è mezzo più sicuro della cultura ginnasiale, i pantaloni e i diritti politici della mandria. In fondo le donne emancipate sono le anarchiche nel mondo dell’Eterno Femminino, quelle finite male, il cui istinto più basso è la vendetta... Un’intera categoria dell’«idealismo» più maligno — che d’altra parte si presenta anche tra gli uomini, ad esempio in Henrik Ibsen, questa tipica vecchia zitella — ha lo scopo di contaminare la buona coscienza, la natura, nell’amore sessuale... E per non lasciare il minimo dubbio sulle mie convinzioni, rigide quanto oneste, a questo proposito, voglio comunicare ancora una proposizione del mio codice morale contro il vizio: sotto il termine vizio io combatto ogni sorta di contronatura o, se si amano le belle parole, di idealismo. La proposizione dice: «Predicare la castità è un palese incitamento alla contronatura. Disprezzare la vita sessuale, insudiciarla con il concetto di “impurità” è un delitto contro la vita stessa, — è il vero peccato contro lo spirito santo della vita». —
 
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Per dare un’idea delle mie qualità di psicologo, prendo un curioso brano di psicologia che compare in Al di là del bene e del male, — proibisco del resto ogni congettura riguardo alla persona che descrivo in questo punto. «Il genio del cuore, come lo ha quel grande occulto, il dio tentatore e l’innato acchiappatopi delle coscienze, la cui voce sa scendere fino agli inferi di ogni anima, che non dice una parola, non lancia uno sguardo nel quale non ci sia un’attenzione e una piega di seduzione, la cui maestria consiste nel saper apparire — e non ciò che è, ma ciò che per coloro che lo seguono è uno stimolo in più per stringersi sempre più vicini a lui, per seguirlo sempre più intimamente e sempre più a fondo... Il genio del cuore, che fa tacere ogni suono troppo alto e ogni compiacimento di sé e che insegna ad ascoltare, che leviga le anime scabre e dà loro da gustare una nuova esigenza, — giacere in silenzio, come uno specchio, perché si specchi in esse il cielo profondo... Il genio del cuore, che insegna alla mano goffa e brusca a rattenersi e ad afferrare con maggior grazia; che indovina il tesoro nascosto e dimenticato, la goccia di bontà e di dolce spiritualità sotto il ghiaccio spesso e opaco ed è una bacchetta da rabdomante per ogni granel lo d’oro che sia rimasto a lungo sepolto nel carcere di fango e di sabbia... 11 genio del cuore dal cui contatto ognuno se ne va più ricco, non graziato e sorpreso, non beneficato e oppresso da un bene estraneo, ma più ricco in se stesso, più nuovo di prima a se stesso, dischiuso, accarezzato dal vento del disgelo, scrutato, forse più insicuro, più tenero, più fragile, più infranto, ma pieno di speranze che non hanno ancora nome, pieno di nuova volontà e di fluire, pieno di nuova non-volontà e di rifluire...»
 
La nascita della tragedia

 
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Per rendere giustizia alla Nascita della tragedia (1872) bisognerà dimenticare alcune cose. Essa ha agito e anche affascinato, per ciò che vi era in lei di sbagliato, — per la sua applicazione alla mania wagneriana, come se essa fosse un sintomo di ascesa. Proprio perciò questo libro fu un avvenimento nella vita di Wagner. Ancor oggi mi si ricorda, a volte nel momento di maggior clamore intorno al Parsifal, come proprio io abbia sulla coscienza l’imporsi di una così alta opinione sul valore culturale di questo movimento. — Ho trovato spesso citata quest’opera come la «rinascita della tragedia dallo spirito della musica»: si è prestato orecchio solo ad una nuova formula dell’arte, dell’intenzione del compito di Wagner — e perciò non si è prestata attenzione a quanto il libro nascondeva in fondo di prezioso. «Grecità e pessimismo», questo sarebbe stato un titolo non equivoco: e questo perché vi si dice per la prima volta come i Greci siano venuti a capo del pessimismo, l’abbiano superato... La tragedia è appunto la prova che i Greci non erano pessimisti: Schopenhauer qui si sbaglia, come si è sbagliato su tutto. — Affrontata con una certa neutralità, la «Nascita della tragedia» appare molto inattuale: nessuno immaginerebbe che è stata iniziata fra i tuoni della battaglia di Wòrth. Ho meditato questi problemi davanti alle mura di Metz, nelle fredde notti di settembre, durante il mio servizio di assistenza ai feriti; si potrebbe credere facilmente che questo libro avesse cinquant’anni di più. È politicamente neutra, — «non tedesca» si direbbe oggi — ha un repellente odore hegeliano, e solo in alcune formule è impregnata del funebre profumo di Schopenhauer. Un’«idea» — l’opposizione di dionisiaco e apollineo — tradotta in metafisica; la storia stessa come sviluppo di quest’«idea»; l’opposizione trascesa in unità nella tragedia; in quest’ottica cose che non si erano mai affrontate prima, poste all’improvviso l’una di fronte all’altra, illuminate e comprese l’una per mezzo dell’altra... L’opera, per esempio, e la rivoluzione... Le due innovazioni decisive del libro sono: per prima cosa ia comprensione del fenomeno dionisiaco nei Greci: esso ne dà una prima psicologia, vi vede l’unica radice dell’intera arte greca. Poi la comprensione del socratismo: Socrate riconosciuto per la prima volta come strumento della disgregazione greca, come tipico décadent. «Razionalità» contro istinto. La «razionalità» a qualunque costo come potenza pericolosa, che scalza la vita! — In tutto il libro silenzio profondo e ostile sul cristianesimo. Non è apollineo né dionisiaco; nega tutti i valori estetici — gli unici valori che la Nascita della tragedia riconosce: esso è nichilista nel suo senso più profondo, mentre nel simbolo dionisiaco si raggiunge il limite estremo dell’affermazione. In un punto si fa cenno ai preti cristiani come a una «perfida razza di nani», di «esseri sotterranei»...
 
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Questo inizio è notevole oltre ogni misura. Avevo scoperto, per mia intima esperienza, l’unico paragone e riscontro che abbia la storia, — avevo compreso con ciò, per primo, il meraviglioso fenomeno del dionisiaco. Contemporaneamente, mentre riconoscevo Socrate come décadent, offrivo una prova assolutamente inequivocabile di quanto poco la sicurezza del mio senso psicologico rischiasse di essere compromessa da una qualche idiosincrasia morale: — la morale stessa in quanto sintomo di décadence è una novità, una cosa unica e di prim’ordine nella storia della conoscenza. A che altezza ero salito d’un tratto, con queste due scoperte, al di sopra delle miserabili chiacchiere delle teste piatte su ottimismo contro pessimismo! Per primo io vidi la vera opposizione: — l’istinto in procinto di degenerare, che si volge contro la vita con uno spirito sotterraneo di vendetta (— il cristianesimo, la filosofia di Schopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone, l’intero idealismo ne sono forme tipiche) e una formula nata dalla pienezza, dalla sovrabbondanza della affermazione suprema, un assentire senza riserva, anche al dolore, anche alla colpa, a tutto ciò che vi è di problematico e di ignoto nell’esistenza... Quest’ultimo Sì, il più gioioso, il più straripante-esuberante Sì alla vita non è solo la visione più alta, è anche la più profonda, quella confermata nel modo più rigoroso e sostenuta dalla verità e dalla scienza. Non c’è nulla, di ciò che è, che si possa togliere, non c’è nulla di trascurabile — i lati dell’esistenza rifiutati dai cristiani e dagli altri nichilisti occupano un posto di grado infinitamente più alto nella gerarchia dei valori di ciò che l’istinto di décadence ha potuto approvare, ha potuto trovare buono. Per comprendere questo ci vuole coraggio e, come sua condizione, una eccedenza di forza: perché esattamente nei termini in cui il coraggio può spingersi lontano, esattamente nella misura della propria forza, ci si avvicina alla verità. La conoscenza, il dire di sì alla realtà, è per il forte una necessità pari a quella che è per il debole, per ispirazione della propria debolezza, la vigliaccheria e la fuga davanti alla realtà — l’«ideale»... Essi non sono liberi di accedere alla conoscenza: ai décadents la menzogna è necessaria, essa è una delle condizioni della loro esistenza. — Chi non solo comprende la parola «dionisiaco», ma si comprende nella parola «dionisiaco», non ha bisogno di una confutazione di Platone о del cristianesimo о di Schopenhauer — egli fiuta la decomposizione...
 
3
Fino a che punto io avessi scoperto con ciò il concetto di «tragico», la conoscenza definitiva di ciò che è la psicologia della tragedia, l’ho spiegato ultimamente anche nel Crepuscolo degli idoli, a pagina 139: «Il dir di sì alla vita anche nei suoi problemi più estranei e più ardui; la volontà di vita nel sacrificare lietamente i suoi tipi più alti alla propria inesauribilità — questo ho chiamato dionisiaco, questo ho inteso come ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per liberarsi dal terrore e dalla compassione, non per purificarsi da una passione pericolosa con una esplosione violenta — come l’ha inteso a torto Aristotele: ma per essere noi stessi, al di là di terrore e compassione, l’eterna gioia del divenire, quella gioia che racchiude in sé anche la gioia dell’annientare...». In questo senso ho il diritto di ritenere me stesso il primo filosofo tragico — cioè l’estremo opposto l’antipodo di un filosofo pessimista. Prima di me non c’è questa trasposizione del dionisiaco in pathos filosofico: manca la saggezza tragica, — ne ho cercato invano le tracce persino nei grandi filosofi greci, quelli dei due secoli che hanno preceduto Socrate. Mi rimaneva un dubbio per Eraclito, nella cui vicinanza sento generalmente più calore e mi sento più a mio agio che in qualsiasi altro luogo. L’affermazione del fluire e dell’annientare, carattere decisivo in una filosofia dionisiaca, il «sì» detto all’opposizione e alla guerra, il divenire, con il radicale rifiuto dello stesso concetto di «essere» — qui io devo riconoscere ciò che finora è stato pensato di più affine a me, sotto tutti gli aspetti. La dottrina dell’«eterno ritorno», cioè del movimento circolare, assoluto e ripetuto all’infinito di tutte le cose — questa dottrina di Zarathustra potrebbe in fondo essere già stata insegnata anche da Eraclito. Per lo meno ne reca tracce la Stoa, che ha ereditato da Eraclito quasi tutte le sue concezioni fondamentali.
 
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In questo scritto parla un’immensa speranza. In fondo non ho alcun motivo di rinunciare alla speranza in un futuro dionisiaco della musica. Gettiamo uno sguardo un secolo più avanti, poniamo il caso che il mio attentato a due millenni di contronatura e di profanazione dell’uomo riesca. Quel nuovo partito della vita che prende in mano il massimo di tutti i compiti, l’educazione e la crescita dell’umanità, incluso l’impietoso annientamento di tutto ciò che è degenere e parassitario, renderà di nuovo possibile sulla terra quel troppo di vita da cui dovrà nascere di nuovo anche Io stato dionisiaco. Io prometto un’epoca tragica-, l’arte suprema nel dire Sì alla vita, la tragedia, verrà generata di nuovo, quando l’umanità avrà dietro a sé la coscienza delle guerre durissime, ma assolutamente necessarie, senza soffrirne... Uno psicologo potrebbe aggiungere anche che quanto ho sentito negli anni della mia giovinezza nella musica di Wagner non ha nulla a che vedere con Wagner; che quando descrivevo la musica dionisiaca, descrivevo quanto io avevo sentito, che tutto dovevo tradurre e trasfigurare istintivamente nel nuovo spirito che portavo in me. La prova, forte quanto solo una prova può esserlo, ne è il mio scritto Wagner a Bayreuth: in tutti i punti psicologicamente decisivi si parla solo di me, — si può mettere senza esitare il mio nome о quello di Zarathustra dove il testo porta la parola di Wagner. L’intera immagine dell’artista ditirambico è l’immagine del poeta preesistente dello Zarathustra, disegnata con abissale profondità e senza sfiorare neppure per un attimo la realtà wagneriana. Wagner stesso se ne rese conto: non si riconosceva in questo scritto. — Contemporaneamente il «pensiero di Bayreuth» si era trasformato in qualche cosa che per i conoscitori del mio Zarathustra non sarà un concetto enigmatico: in quel grande mezzogiorno dove il fiore degli eletti si consacra al più alto di tutti i compiti — chissà? la visione di una festa che devo ancora vivere... Il pathos delle prime pagine è un momento della storia universale: lo sguardo di cui si parla alla settima pagina è proprio lo sguardo di Zarathustra; Wagner, Bayreuth, tutta la piccola meschinità tedesca è una nuvola nella quale si riflette un’infinita fata morgana dell’avvenire. Anche da un punto di vista psicologico tutti i tratti decisivi della mia propria natura sono riportati in quella di Wagner — la coesistenza delle forze più luminose e fatali, la volontà di potenza, il coraggio sconsiderato nelle cose dello spirito, l’illimitata energia nell’apprendere senza che con ciò venga conculcata la volontà di azione. Tutto è preveggente in questo scritto: l’imminente ritorno dello spirito greco, la necessità di un Anti-Alessandro che annodi nuovamente il nodo gordiano della cultura greca dopo che è stato sciolto... Si dia ascolto all’accento storico-universale con il quale a pagina 30 viene introdotto il concetto di «sentimento tragico»: in questo scritto vi sono soltanto accenti storico-universali. Questa è la più inusitata «obiettività» che ci possa essere: l’assoluta certezza su ciò che io sono si proiettava su una qualche realtà casuale — la verità su di me parlava da una terribile profondità. A pagina 71 lo stile di Zarathustra è descritto e anticipato con incisiva sicurezza; e mai si troverà espressione più grandiosa per l’evento Zarathustra, quest’atto di immensa purificazione e consacrazione dell’umanità, di quella che è stata trovata alle pagine 43-46.
 
Le considerazioni inattuali

 
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Le quattro Inattuali sono assolutamente bellicose. Esse dimostrano che io non ero un «sognatore», che mi piace sguainare la spada, — forse anche che ho il polso pericolosamente agile. Il primo attacco (1873) fu per la cultura tedesca, alla quale già allora io guardavo dall’alto con impietoso disprezzo, senza senso, senza sostanza, senza scopo: pura e semplice «opinione pubblica». Non c’è malinteso più maligno del credere che il grande successo bellico dei Tedeschi dimostri qualcosa in favore di questa cultura о magari la vittoria di questa cultura sulla Francia... La seconda Inattuale (1874) mette in luce quanto vi è di pericoloso, di velenoso e di corrosivo per la vita nel nostro genere di ricerca scientifica —: la vita malata a causa di questo ingranaggio e meccanismo disumanizzato, a causa dell’«imperso- nalità» del lavoratore, per la falsa economia della «divisione del lavoro». Il fine ultimo, la civiltà, vanno perduti; il mezzo, la pratica scientifica moderna — si imbarbarisce... In questo saggio, il «senso storico», del quale questo secolo è fiero, fu riconosciuto per la prima volta come malattia, come segno tipico della decadenza... Nella terza e quarta Inattuale vengono invece fissati, come indicazioni per un superiore concetto di civiltà, per la ricostituzione del concetto di «civiltà», due immagini del più duro egoismo e autodisciplina, tipi inattuali par excellence, pieni di sovrano disprezzo contro tutto ciò che intorno a loro si chiamava «impero», «cultura», «cristianesimo», «Bismarck», «successo», — Schopenhauer e Wagner ovvero, in una parola, Nietzsche...
 
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Di questi quattro attentati il primo ebbe un successo straordinario. Il clamore che provocò fu superbo in ogni senso. Avevo toccato una nazione vittoriosa lì dove era la sua piaga, — il fatto che la sua vittoria non fosse un evento di civiltà, ma forse, forse qualcosa di completamente diverso... La risposta venne da ogni parte e non soltanto, assolutamente, dai vecchi amici di David Strauss, che avevo reso ridicolo come il tipo del tedesco filisteo della cultura satisfait, in breve come redattore di un vangelo da birreria della «vecchia e nuova fede» (— il termine filisteo della cultura, è rimasto nella lingua a partire dal mio scritto). Questi vecchi amici, ai quali, in quanto originari del Wurttemberg e della Svevia, avevo inferto una profonda ferita quando avevo trovato comica la loro bestia rara, il loro Strauss, risposero nel modo più ingenuo e rozzo che avrei potuto augurarmi; le repliche prussiane furono più intelligenti, — avevano un po’ più di «blu di Prussia». Il culmine dell’indecenza lo raggiunse il giornale di Lipsia, il malfamato Grenzboten; feci fatica a trattenere gli sdegnati abitanti di Basilea dall’intervenire. Solo alcuni vecchi signori si schierarono decisamente dalla mia parte, per ragioni diverse e in parte inspiegabili. Tra di loro Ewald di Gòttingen, il quale lasciò intendere che il mio attentato era stato mortale per Strauss. E c’era anche il vecchio hegeliano Bruno Bauer, nel quale ho trovato, da allora, uno dei miei lettori più attenti. Negli ultimi anni della sua vita amava rifarsi a me e, ad esempio, suggerire al signor von Treitschke, lo storico prussiano, da chi avrebbe potuto informarsi sul concetto di «civiltà» che egli aveva perduto. Il resoconto più meditato e più lungo sul libro e il suo autore lo diede un vecchio discepolo del filosofo von Baader, un certo professor Hoffmann di Wurzburg. Egli trasse da quello scritto la previsione di una mia grande predestinazione, — a provocare una sorta di crisi e di estrema decisione sul problema dell’ateismo, del quale egli indovinò in me il rappresentante più istintivo e più radicale. L’ateismo era stato ciò che mi aveva condotto a Schopenhauer. Ma lo scritto di gran lunga più ascoltato, e che causò l’amarezza maggiore, fu la difesa straordinariamente vigorosa e audace condotta in mio favore da una persona altrimenti così mite, Karl Hillebrand, l’ultimo tedesco umano in grado ancora d’impugnare la penna. Il suo articolo apparve nell’Augsburger Zeitung. Oggi lo si può leggere, in una forma un po’ più cauta, nelle sue opere complete. Là il mio scritto veniva presentato come un avvenimento, una svolta, una prima presa di coscienza, un ottimo segno, come un vero ritorno della serietà tedesca e della passione tedesca nelle cose dello spirito. Hillebrand era largo di grandi elogi per la forma dello scritto, per la sua maturità di gusto, per il tatto perfetto nel distinguere tra la persona e la cosa: lo indicava come il miglior scritto polemico che fosse mai stato scritto in tedesco, — nell’arte così pericolosa, proprio per i Tedeschi, e così sconsigliabile, della polemica. Approvandomi senza riserve, accentuando addirittura il mio pensiero su quanto avevo osato dire a proposito della degradazione della lingua in Germania (— oggi recitano la parte dei puristi e non sanno più costruire una frase —), con pari disprezzo verso i «primi scrittori» di questa nazione, egli concludeva esprimendo la sua ammirazione per il mio coraggio — quell’«altissimo coraggio che porta sul banco degli accusati proprio i favoriti di un popolo»... La ripercussione di questo scritto è addirittura incalcolabile nella mia vita. Nessuno ha più cercato di attaccar briga con me fino ad oggi. Si tace, in Germania mi si tratta con cupa circospezione: da anni ho usufruito di un’illimitata libertà di parola, per la quale nessuno oggi, tantomeno nel «Reich», ha le mani abbastanza libere. Il mio paradiso è «all’ombra della mia spada»... In fondo avevo messo in pratica una massima di Stendhal: egli consiglia di fare il proprio ingresso in società con un duello. E come avevo saputo scegliere il mio avversario! Il primo libero pensatore tedesco!... Infatti attraverso tutto questo si espresse per la prima volta un genere completamente nuovo di libero pensiero: fino ad oggi non c’è niente di più estraneo e di meno affine a me di tutta questa specie europea e americana di «libres penseurs». Con loro, incorreggibili teste vuote e pagliacci delle «idee moderne», mi trovo in un dissidio addirittura più profondo che con un qualsiasi loro avversario. Essi vogliono altresì, a modo loro, «migliorare» l’umanità a loro immagine о farebbero contro ciò che sono, contro ciò che voglio, una guerra implacabile, posto che lo comprendessero, — essi credono ancora tutti alF«idea- le»... Io sono il primo immoralista. —
 
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Non potrei sostenere che le Inattuali, che portano il nome di Schopenhauer e di Wagner, possano essere particolarmente utili alla comprensione о anche solo all’impostazione del problema psicologico di questi due casi, con l’eccezione, ben inteso, di alcuni particolari. Cosi, per esempio, il tratto elementare nella natura di Wagner viene indicato, già qui, con profonda sicurezza istintiva, nel suo talento d’attore, che nei suoi mezzi e nelle sue intenzioni si limita a trarre le conseguenze. In fondo, in queste pagine, volevo fare tutt’altro che della psicologia: — qui cercava di esprimersi per la prima volta un problema di educazione senza pari, un nuovo concetto di autodisciplina, di autodifesa fino alla durezza, una strada verso la grandezza e i compiti storici. In conclusione io presi per i capelli due tipi famosi, e per nulla definiti fino ad oggi, come si prende per i capelli una occasione, per esprimere qualcosa, per possedere maggiormente un paio di formule, di segni, di mezzi linguistici. Da ultimo vi si accenna anche, con sagacia decisamente inquietante, a pagina 93 della terza Inattuale. In modo simile Platone si è servito di Socrate come di una semiotica per Platone. — Ora che da una certa distanza volgo lo sguardo alle circostanze di cui questi scritti sono testimonianza, non vorrei negare che in fondo essi non parlano che di me. Lo scritto Wagner a Bayreuth è una visione del mio futuro; per contro, in Schopenhauer come educatore è iscritta la mia storia più intima, il mio divenire. Prima di tutto il mio voto!... Ciò che sono oggi, dove sono oggi — ad una altezza nella quale non parlo più con parole, ma con lampi —, oh, quanto ne ero lontano, allora! — Ma vedevo la terra, — non mi ero ingannato un momento sulla strada, il mare, il pericolo — e il successo! La grande pace nel promettere, quel felice guardare avanti, in un futuro che non deve restare soltanto una promessa! — Qui ogni parola è vissuta, profondamente, intimamente; non mancano i tratti più dolorosi, vi si trovano parole che sono addirittura insanguinate. Ma un vento di grande libertà soffia su tutto; la ferita stessa non è di ostacolo. — Come io intendo il filosofo, come un esplosivo terrificante di fronte a cui tutto è in pericolo, come separo, a una distanza di miglia e miglia, il mio concetto di «filosofo» da un concetto che racchiude ancora in sé addirittura un Kant, per non parlare dei «ruminanti» accademici e di altri professori di filosofia: a questo proposito, questo scritto impartisce un insegnamento inestimabile, anche ammettendo che qui, in fondo, non si tratta di «Schopenhauer come educatore», ma del suo opposto, di «Nietzsche come educatore». — Considerando che allora il mio mestiere era quello del dotto, e forse anche che conoscevo il mio mestiere, l’aspro brano di psicologia del dotto che appare all’improvviso in questo scritto non è senza importanza: esso esprime il senso della distanza, la profonda sicurezza di ciò che può essere in me compito, semplice mezzo, intermezzo e lavoro marginale. La mia abilità è di essere stato molte cose e in molti luoghi, per poter divenire uno, — per poter raggiungere l’unità. Ho dovuto essere anche un dotto, per un certo tempo. —
 
Umano, troppo umano. Con due continuazioni

 
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Umano, troppo umano è il monumento di una crisi. Si definisce un libro per spiriti liberi: quasi ogni proposizione vi esprime una vittoria — per mezzo suo mi sono liberato da ciò che non apparteneva alla mia natura. Ciò che non mi appartiene è l’idealismo: il titolo dice «dove voi vedete cose ideali, io vedo — cose umane, ahi, troppo umane!». Io conosco meglio l’uomo... L’espressione «libero spirito» non vuole essere intesa qui in nessun altro senso: uno spirito divenuto libero, che ha ripreso possesso di sé. Il tono, il suono della voce è completamente mutato, si troverà il libro intelligente, freddo, in certe occasioni duro e irridente. Una certa spiritualità di gusto aristocratico sembra mantenersi costantemente al di sopra di una corrente più passionale che scorre sul fondo. In questo contesto è significativo che proprio il centenario della morte di Voltaire sia ciò che giustifica la pubblicazione di questo libro già per l’anno 1878. Poiché Voltaire, al contrario di tutti quelli che hanno scritto dopo di lui, è soprattutto un grand seigneur dello spirito, proprio ciò che sono anch’io. — Il nome di Voltaire su un mio scritto — questo è stato veramente un progresso — verso me stesso?... Se si guarda con maggiore attenzione si scopre uno spirito spietato, che conosce tutti i nascondigli in cui l’ideale è di casa — dove ha le sue segrete e contemporaneamente le sue ultime garanzìe. Una fiaccola in mano, che non dà affatto una luce «tremula», si illumina con un chiarore tagliente questo oltretomba dell’ideale. È la guerra, ma la guerra senza polvere da sparo e senza fumo, senza atteggiamenti bellicosi, senza pathos e senza membra slogate — tutto ciò sarebbe ancora «idealismo». Un errore dopo l’altro viene messo tranquillamente in ghiaccio; l’ideale non viene rifiutato, si congela... Qui, ad esempio, si congela «il genio»; nell’angolo più avanti si congela «il santo»; sotto una spessa calotta di ghiaccio si congela «l’eroe»; infine si congela «la fede», la cosiddetta «convinzione», anche la «pietà» si raffredda notevolmente — quasi dappertutto si congela «la cosa in sé»...
 
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Gli inizi di questo libro risalgono esattamente alle settimane del primo festival di Bayreuth; una profonda estraneità contro tutto ciò che lì mi circondava è uno dei suoi presupposti. Chi ha un’idea di quali visioni, già allora, avevano attraversato la mia mente, può immaginare come mi sentii, quando un giorno mi risvegliai a Bayreuth. Proprio come se sognassi... Dov’ero dunque? Non riconoscevo nulla, non riconoscevo quasi neppure Wagner. Invano sfogliavo i miei ricordi. Tribschen — una lontana isola dei beati: neppure l’ombra di una rassomiglianza. Gli incomparabili giorni della posa della prima pietra, il piccolo gruppo degli intimi che l’aveva fe steggiata e al quale non c’era bisogno di augurare il tocco per le cose delicate: neppure un’ombra di somiglianza. Cos’era accaduto? — Si era tradotto Wagner in tedesco! Il «wagneriano» si era impossessato di Wagner! — L’arte tedesca! il maestro tedescol la birra tedesca... Noi, che sappiamo fin troppo bene a quali artisti raffinati, a quale cosmopolitismo del gusto parla l’arte di Wagner, eravamo fuori di noi nel ritrovare Wagner agghindato di «virtù» tedesche. Io penso di conoscere il wagneriano, ne ho «vissute» tre generazioni, dal povero Brendel, che confondeva Wagner con Hegel, fino agli «idealisti» dei Bayreuther Blàtter che confondono Wagner con se stessi, — ho sentito ogni genere di confessioni di «anime belle» su Wagner. Un regno, per una sola parola sensata! — In verità un gruppo terrificante! Nohl, Pohl, e cavoli vari, con grazia, in infmituml Non manca nessuno scherzo di natura, neppure l’antisemita. — Il povero Wagner! Dov’era andato a finire! Fosse almeno finito tra i porci! Ma tra i Tedeschi!... Infine, ad edificazione dei posteri si dovrebbe impagliare un vero bayreu- thiano, о meglio ancora metterlo sotto spirito, poiché è lo spirito quello che manca, — con la dicitura: così era lo «spirito» sul quale si è fondato il «Reich»... Ma basta, me ne partii nel bel mezzo per un paio di settimane, all’improvviso, nonostante una deliziosa parigina cercasse di consolarmi; mi scusai con Wagner solo con un telegramma fatalistico. In un paese profondamente nascosto tra i boschi della Selva Boema, a Klingenbrunn, mi trascinavo dietro come una malattia la mia malinconia e il disprezzo per i Tedeschi — e scrivevo, di tanto in tanto, sotto il titolo generale «Il vomere», una frase nel miò taccuino, tutte dure annotazioni psicologiche, che si possono forse ancora ritrovare in Umano, troppo umano.
 
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Ciò che allora si decise in me, non fu una rottura con Wagner — avvertivo una generale aberrazione del mio istinto, della quale l’errore singolo, si chiamasse Wagner о cattedra di Basilea, era solo un segno. Mi colse un’impazienza verso me stesso; vidi che ero ormai al tempo limite per tornare a me stesso. Tutt’un tratto mi fu tremendamente chiaro quanto tempo avessi già sprecato, — con quanta inutilità, con quanto arbitrio tutta la mia esistenza di filologo si atteggiasse rispetto al mio compito. Mi vergognai di questa falsa modestia... Dieci anni alle mie spalle, durante i quali Valimentazione del mio spirito si era letteralmente arrestata, durante i quali non avevo appreso niente di utilizzabile, durante i quali avevo dimenticato un’assurda quantità di cose per un ciarpame di polverosa erudizione. Insinuarsi tra antichi metrici con acribia e occhi malati — a questo ero arrivato! — Con pena mi vidi magrissimo, affamato: le realtà mancavano proprio nella mia scienza, e le «idealità», chissà a cosa servivano! — Mi prese una sete quasi bruciante: da allora in poi non mi sono occupato d’altro che di fisiologia, medicina e scienze naturali, — anche agli studi propriamente storici sono ritornato solo quando il compito mi obbligò imperiosamente a farlo. Allora indovinai anche, per la prima volta, il rapporto tra un’attività scelta contro i propri istinti, una cosiddetta «professione», per la quale non si è affatto chiamati — e quel bisogno di anestetizzare il senso di vuoto e di fame con un’arte narcotica — per esempio con l’arte wagneriana. Guardandomi attorno con maggiore attenzione ho scoperto che un gran numero di giovani è nella stessa necessità: una contronatura ne provoca necessariamente una seconda. In Germania, nel «Reich», per parlare chiaramente, troppi sono condannati a decidere prima del tempo e poi a deperire sotto un peso divenuto insopportabile... Costoro hanno bisogno di Wagner come di un oppiaceo, — essi dimenticano, si liberano per un attimo di se stessi... Cosa dico! per cinque о sei ore!
 
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Allora il mio istinto si decise inesorabilmente contro ogni ulteriore cedimento, contro ogni comune procedere, ogni prendersi per un altro. Ogni genere di vita, le condizioni più sfavorevoli, malattia, povertà, — tutto mi sembrò preferibile a queirindegno «altruismo» nel quale ero incappato prima per ignoranza, per gioventù e al quale, più tardi, ero rimasto legato per pigrizia, per il cosiddetto «senso del dovere». — A questo punto mi venne in aiuto, in un modo che non potrò mai ammirare abbastanza, e proprio al momento giusto, quella cattiva eredità paterna — in fondo la predestinazione a una morte precoce. La malattia mi sciolse lentamente da tutto: mi risparmiò ogni rottura, ogni passo violento e rivoltante. Non ho perduto allora la benevolenza di nessuno e ne ho acquistata molta ancora. La malattia mi diede nel contempo il diritto a un completo rovesciamento di tutte le mie abitudini; mi permise, mi ordinò di dimenticare; mi donò la necessità del riposo, dell’ozio, dell’attesa e della pazienza... Ma questo è appunto pensare! I miei occhi misero fine da soli ad ogni frenetico nutrirsi di libri, cioè alla filologia: ero libero dal «libro», per anni non lessi più nulla — il maggiore beneficio ch’io mi sia mai concesso! — Quel profondo me stesso, quasi sepolto, quasi ridotto al silenzio sotto un obbligo costante di ascoltare altri sé (— e questo appunto è leggere!) si risvegliò lentamente, timidamente, dubbiosamente, — ma alla fine parlò di nuovo. Mai ho provato tanta felicità di me come nei tempi più pieni di dolore e di malattia della mia vita: basta prendere in esame Aurora о II viandante e la sua ombra per capire cosa fu questo «ritorno a me stesso»: una forma suprema di guarigionel... L’altra ne fu semplicemente una conseguenza. —
 
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Umano, troppo umano, questo monumento di una severa autodisciplina, con la quale ho posto fine bruscamente, in me, ad ogni «sublime impostura», «idealismo», ai «bei sentimenti» e alle altre femminilità importate, fu redatto, nelle sue parti più importanti, a Sorrento; fu concluso ed ebbe la sua forma definitiva durante un inverno a Basilea, in circostanze senza paragone più sfavorevoli, rispetto a quelle di Sorrento. In fondo è il signor Peter Gast, che studiava allora all’università di Basilea e mi era molto devoto, che ha il libro sulla coscienza. Io dettavo, la testa bendata e dolorante, lui scriveva, e anche correggeva, — egli era in fondo il vero scrittore, mentre io ero solo l’autore. Quando infine ebbi tra le mani il libro finito — con il profondo stupore di un malato grave — ne spedii due esemplari, tra gli altri, anche a Bayreuth. Per un miracolo che rendeva significativo il caso, ricevetti contemporaneamente un bell’esemplare del testo del Parsifal, con una dedica di Wagner a me, «al suo caro amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner, consigliere ecclesiastico». — Questo incrociarsi dei due libri — mi parve di sentirvi un accento di cattivo augurio. Non suonava come se si incrociassero due spade!... In ogni caso lo sentiamo così entrambi: poiché entrambi tacemmo. — A quell’epoca apparvero anche i primi Bayreuther Blatter: compresi per che cosa fosse giunto il momento. — Incredibile! Wagner era diventato pio...
 
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Che opinione avessi allora (1876) di me, con quale prodigiosa sicurezza io tenessi in mano il mio compito e ciò che in esso vi è di storia universale, è testimoniato da tutto il libro, ma soprattutto da un passo molto esplicito: solo che io, con la malizia che mi è istintiva, aggirai anche qui la paroletta «io» e questa volta non irraggiai su Schopenhauer о Wagner, ma su uno dei miei amici, l’esimio dottor Paul Rèe, l’aureola della storia universale — per fortuna però era un animale troppo sottile perché... Altri furono meno sottili: tra i miei lettori ho sempre riconosciuto quelli senza speranza, per esempio il tipico professore tedesco, dal fatto che, in base a questo passo, hanno creduto di dover interpretare il libro intero come un caso di superiore realismo... In verità esso contraddice a cinque о sei tesi del mio amico: si potrebbe, a questo proposito, fare un riscontro con la prefazione alla Genealogia della morale. Il passo suona così: qual è la tesi principale, alla quale uno dei pensatori più arditi e più freddi, l’autore del libro Sull’origine dei sentimenti morali (lisez: Nietzsche, il primo immoralista) è giunto grazie alle sue penetranti e taglienti analisi dell’agire umano? «L’uomo morale non è più vicino di quello fisico al mondo intelligibile — poichénon vi è un mondo intellegibile...» Questa tesi, divenuta dura e tagliente sotto i colpi di martello della conoscenza storica (lisez: trasvalutazione di tutti i valori) potrà forse un giorno, in un qualche futuro — 1890! — servire da scure che intaccherà dia radice il «bisogno metafisico» dell’umanità, — chi saprebbe dire se sarà più a benedizione che a maledizione dell’umanità? Ma in ogni caso come una tesi dalle più rilevanti conseguenze, feconda e micidiale al tempo stesso e con quel doppio sguardo sul mondo, che hanno tutte le grandi conoscenze...
 
Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali

 
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Con questo libro inizia la mia campagna contro la morale. Non che esso abbia in sé il minimo odore di polvere: — si percepirà in esso un odore completamente diverso, diverso e molto più piacevole, posto che si abbiano narici un po’ raffinate. Non artiglieria pesante, ma neppure leggera: se l’effetto del libro è negativo, tanto meno lo sono i suoi mezzi, questi mezzi, il cui effetto segue come una deduzione, non come un colpo di cannone. Che si prenda congedo dal libro con una prudente diffidenza per tutto ciò che fino ad ora è stato onorato e persino venerato sotto il nome di morale, questo non sta in contraddizione col fatto che nell’intero libro non compaia una sola parola negativa, un attacco, una cattiveria, — che esso se ne stia piuttosto disteso al sole, rotondo, felice, simile a un animale marino, che si gode il sole tra le rocce. Infine quell’animale marino ero io stesso: quasi ogni frase del libro è stata meditata, è sgusciata fuori in quell’intrico di rocce vicino a Genova, dov’ero solo e ancora in intimità con il mare. Ancor oggi, ad un casuale contatto con questo libro, quasi ogni frase diventa per me il bandolo col quale trarre ancora dalle profondità un qualcosa d’incomparabile: tutta la sua epidermide trema dei teneri brividi del ricordo. L’arte nella quale esso eccelle non è piccola, fissare in una qualche misura cose che scivolano facilmente e senza rumore, attimi che io chiamo divine lucertole — e non con la crudeltà di quel giovane dio greco che infilzava semplicemente la povera lucertolina, ma comunque con qualcosa di aguzzo, con la penna... «Vi sono tante aurore che non hanno ancora brillato» — questa iscrizione indiana sta sul frontone di questo libro. Dove cerca il suo autore quel nuovo mattino, quel rosso tenero non ancora scoperto fino ad oggi, con il quale inizia un giorno — ah, un’intera sequenza, un intero mondo di giorni nuovi! In una trasvalutazione di tutti i valori, in una liberazione da tutti i valori morali, in un dir-di-Sì, un aver-fiducia in tutto ciò che fino ad ora è stato interdetto, disprezzato, maledetto. Questo libro che dice sì diffonde la sua luce, il suo amore, la sua dolcezza solo su cose cattive, esso rende loro «l’anima», la buona coscienza, l’alto diritto e il privilegio dell’esistenza. La morale non viene attaccata, solo non viene più presa in considerazione... Questo libro termina con un «oppure?» — è l’unico libro che termini con un «oppure?»...
 
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Il mio compito, quello di preparare un momento di sublime autocoscienza dell’umanità, un grande mezzogiorno, nel quale essa guardi all’indietro оin avanti, nel quale essa esca dal dominio del caso e dei preti e ponga globalmente per la prima volta la questione del «perché»? dell’«a che scopo»? —, questo compito deriva necessariamente dall’idea che l’umanità non per se stessa sulla buona via, che non è affatto retta da leggi divine, ma che proprio tra i suoi concetti di valore più sacri ha dominato, con la seduzione, l’istinto della negazione, della corruzione, l’istinto della décadence. La questione sull’origine dei valori morali è dunque per me una questione di primo piano, poiché essa condiziona il futuro dell’umanità. La pretesa di dover credere che in fondo tutto sia nelle mani migliori, che un libro, la Bibbia, offra una rassicurazione definitiva sulla guida e sulla saggezza divina nel destino dell’umanità, queste pretese, se ritradotte nella realtà, appare come volontà di non lasciar emergere la verità sulla miserevole antitesi di tutto questo, e cioè sul fatto che fino ad oggi l’umanità è stata nelle mani peggiori, è stata retta dai malriusciti, dai maligni vendicativi, dai cosiddetti «santi», questi calunniatori del mondo e denigratori dell’uomo. Il segno decisivo, dal quale risulta che il prete (— compresi i preti mascherati, i filosofi) ha trionfato non solo all’interno di una determinata comunità religiosa, ma in generale che la morale della décadence, della volontà di fine, ha il peso di una morale in sé, è dato dal valore assoluto accordato ovunque a quanto è non egoistico e dall’ostilità nei confronti dell’egoista. Considero contaminato chi non è d’accordo con me su questo punto... Ma il mondo intero è in disaccordo con me... Per un fisiologo questa antitesi di valori non lascia dubbi. Se all’interno di un organismo l’organo meno importante rinuncia, per quanto poco, a imporre in totale sicurezza la sua autoconservazione, il rinnovamento delle proprie forze, il suo «egoismo», l’insieme degenera. Il fisiologo pretende l’eliminazione della parte degenerata, rifiuta ogni solidarietà con ciò che degenera, è lontanissimo dall’aver- ne compassione. Ma il prete vuole proprio la degenerazione del tutto, dell’umanità: a questo scopo egli conserva ciò che degenera — a questo prezzo egli domina su di essa... Che senso hanno quei concetti menzogneri, quei concetti ausiliari della morale, «anima», «spirito», «libero arbitrio», «Dio», se non quello di rovinare fisiologicamente l’umanità?... Quando si storna la serietà dall’autoconservazione, dall’incremento delle forze del corpo, vale a dire della vita, quando della clorosi si fa un ideale, del disprezzo del corpo «la salute dell’anima», cos’è d’altro questo, se non una prescrizione per la décadence? La perdita di peso, la resistenza agli istinti naturali, in una parola l’altruismo — ciò è stato chiamato morale fino ad ora... Con Aurora ho intrapreso per la prima volta la lotta contro la morale dell’annullamento di sé.—
 
La gaia scienza. («La gaya scienza»)
Aurora è un libro che dice di Sì, profondo, ma luminoso e benevolo. Lo stesso vale ancora e al massimo grado per La gaya scienza: quasi in ogni sua frase profondità e spavalderia si tengono teneramente per mano. I versi che esprimono la gratitudine per il più meraviglioso gennaio che io abbia vissuto — il libro intero è un suo dono — tradiscono a sufficienza da quali profondità qui la «scienza» sia diventata gaia.

Tu che con la lancia fiammeggiante infrangi il ghiaccio della mia anima affinché s’affretti mugghiarne verso il mare della sua più alta speranza: ognor più luminosa e più sana, libera nella più amorevole costrizione —
Così essa celebra i tuoi prodigi tu, bellissimo gennaio!

Chi può dubitare di cosa significhi qui «più alta speranza» quando vede risplendere come chiusa del quarto libro la diamantina bellezza delle prime parole di Zarathustra? о quando alla fine del terzo libro legge le frasi granitiche, con le quali per la prima volta viene assunto in formule un destino per tutti i tempii — I canti del principe Vogelfrei, composti per la maggior parte in Sicilia, ricordano espressamente il concetto provenzale della «gaya scienza», in quell’unità di cantore, cavaliere e libero spirito con la quale quella meravigliosa prima cultura provenzale risalta su tutte le culture ambigue; soprattutto l’ultimissimo poema, «Al Mistral», una sfrenata canzone a ballo, con la quale, con vostra licenza! si scivola via danzando sulla morale — è un «provenzalismo» perfetto...
 
Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno

 
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Racconterò ora la storia di Zarathustra. La concezione fondamentale dell’opera, il pensiero dell’eterno ritorno, la più sublime formula di affermazione che in generale possa essere raggiunta —, risale all’agosto dell’anno 1881 : è stata abbozzata su un foglio che porta la scritta «6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo». Quel giorno andavo attraverso i boschi, costeggiando il lago di Silvaplana; mi fermai presso un poderoso e torreggiarne blocco piramidale non lontano da Sulei. Quel pensiero mi venne allora. — Se da quel giorno risalgo a ritroso di un paio di mesi, trovo come segno premonitore un mutamento improvviso e profondamente decisivo del mio gusto soprattutto riguardo alla musica. Forse si può porre l’intero Zarathustra sotto il segno della musica; — di certo fu una rinascita nell’arte di ascoltare, un presupposto a questa rinascita. In una piccola stazione termale montana, non lontana da Vicenza, Recoaro, dove passai la primavera del 1881, scoprii, assieme al mio maestro e amico Peter Gast, lui pure un «rigenerato», che la fenice della musica volava nel nostro cielo con le ali più lievi e più luminose che mai avesse mostrato. Se invece da quel giorno vado al periodo successivo, fino al parto improvviso e avvenuto nelle circostanze più inverosimili nel febbraio 1883 — la parte conclusiva, la stessa dalla quale nel prologo ho citato un paio di frasi, fu portata a termine proprio nell’ora sacra nella quale Richard Wagner moriva a Venezia — sono diciotto mesi di gestazione. Proprio questo numero di diciotto mesi potrebbe suggerire il pensiero, per lo meno tra i buddhisti, che in fondo io sia una femmina d’elefante. In questo intervallo si situa La gaya scienza, che da cento segnali annunzia l’approssimarsi di qualcosa d’incomparabile; alla fine essa offre anche l’inizio dello Zarathustra', nel penultimo frammento del quarto libro essa presenta il pensiero fondamentale dello Zarathustra. Allo stesso modo si colloca in questo intervallo queli’Inno alla vita (per coro misto e orchestra) la cui partitura è apparsa anni fa per i tipi di E.W. Fritzsch a Lipsia: un sintomo forse non insignificante per la situazione di quell’anno, nel quale il pathos affermativo par excellence, chiamato da me il pathos tragico, mi pervadeva al massimo grado: verrà cantato in futuro in mio ricordo. Il testo, a ben vedere, poiché a questo proposito si è diffuso un malinteso, non è mio: è dovuto alla stupefacente ispirazione di una giovane russa, con la quale allora ero legato d’amicizia, la signorina Lou von Salomè. Chi sappia trarre un significato in generale dalle ultime parole della poesia, comprenderà perché le abbia preferite e ammirate: sono grandi. 11 dolore non vale qui come argomentazione contro la vita: «se non hai più gioia da darmi, ebbene; hai ancora la tua pena...».

Forse in questo punto anche la mia musica trova la sua grandezza (ultima nota dell’oboe: do diesis e non do — errore di stampa). L’inverno successivo vissi, non lontano da Genova, nella piacevole e tranquilla baia di Rapallo che s’insinua tra Chiavari e il promontorio di Portofino. La mia salute non era buona; l’inverno, freddo e piovoso oltremisura; un piccolo «albergo» direttamente sul mare, così che la notte il salire della marea rendeva impossibile il sonno, offriva, quasi in tutto, il contrario di ciò che ci si potrebbe augurare. Cionostante, e quasi a dimostrazione del mio principio, secondo il quale ogni cosa decisiva arriva «nonostante» qualcos’altro, fu questo l’inverno e queste le sfavorevoli condizioni nelle quali nacque il mio Zarathustra. La mattina salivo verso sud, lungo la splendida strada di Zoagli, costeggiando i pini, abbracciando la vastità del mare; nel pomeriggio, ogni qual volta la salute me lo permetteva, facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita arrivando fino dietro a Portofino. Questo luogo e questo paesaggio sono diventati ancora più cari alla mia anima per il grande amore che l’indimenticabile imperatore tedesco Federico hi sentiva per loro; nel 1886 mi ritrovavo per caso su questa costa, quando egli visitò per l’ultima volta questo piccolo e obliato mondo di felicità. Lungo questi due itinerari io pensai tutto intero il primo Zarathustra, soprattutto Zarathustra stesso come tipo: più esattamente, mi investì all’improvviso...
 
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Per comprendere questo tipo bisogna per prima cosa aver ben chiaro il suo presupposto fisiologico: è ciò che io chiamo la grande salute. Non so spiegare meglio, più personalmente, questo concetto, di quanto l’abbia già fatto in una delle sezioni finali del quinto libro della Gaya scienza. «Noi uomini nuovi, noi senza nome, difficili da comprendere — vi si dice — noi, figli prematuri di un futuro non ancora accertato, noi adoperiamo per un nuovo scopo anche un nuovo mezzo, vale a dire una nuova salute, più forte, più sagace, più dura, più audace, più gaia di quanto lo sia stata qualsiasi salute fino ad oggi. Colui la cui anima ha sete di aver vissuto fino in fondo l’intera estensione dei valori e delle mete cui si è aspirato fino ad oggi e di aver doppiato tutte le coste di questo “mediterraneo” ideale, colui che dalle avventure della propria esperienza, vuole sapere come si sente un conquistatore e uno scopritore dell’ideale, e così pure un artista, un santo, un legislatore, un saggio, un sapiente, un devoto, un divinamente estraneo di vecchio stile: costui ha bisogno soprattutto di una cosa, della grande salute — tale da non essere solo posseduta, ma conquistata, e tale da dover essere conquistata incessantemente, poiché la si sacrifica e la si deve sacrificare sempre di nuovo... E ora, dopo esser stati in tal modo a lungo in cammino, noi Argonauti dell’ideale, più coraggiosi forse che saggi e avendo fatto spesso naufragio e subito danni, ma, come si è detto, più sani di quanto ci vorrebbero permettere, pericolosamente più sani, sempre di nuovo risanati, — ci sembrerà come, se a ricompensa di tutto ciò, avessimo di fronte a noi una terra ancora vergine, della quale nessuno ancora conosce i confini, un al di là di tutte le attuali terre e i cantucci dell’ideale, un mondo così straordinariamente ricco di bellezza, di ignoto, di problematico, di terribile e di divino, che la nostra curiosità come la nostra avidità di possesso hanno perso ogni limite — ah, al punto che d’ora in poi nulla potrà più saziarci!... Come potremmo dopo tale vista e con una tale avidità di sapere e di coscienza, accontentarci ancora dell'uomo di oggi? è abbastanza grave, pur tuttavia inevitabile che ora noi guardiamo ai suoi scopi e alle sue speranze mantenendoci seri a fatica e forse non vi guardiamo neppure più... Un diverso ideale corre oggi davanti a noi, un ideale prodigioso, tentatore, ricco di pericoli, al quale non vorremmo convertire nessuno, poiché non ne concediamo a nessuno cosi facilmente il diritto: l’ideale di uno spirito che gioca ingenuamente, vale a dire non intenzionalmente e per la sua straripante pienezza e potenza con tutto ciò che fino ad ora è stato considerato santo, buono, intoccabile, divino: per il quale ciò che il popolo pone a ragione al punto più alto della sua scala di valori, significherebbe già pericolo, declino, abbassamento, о perlomeno divertimento, accecamento, provvisorio oblio di sé; l’ideale di un benessere e di un benvolere umano-sovrumano, che apparirà spesso inumano, ad esempio quando accanto a tutto ciò che è stato finora la serietà terrena, accanto a tutta la solennità che fino ad oggi vi è stata in gesti, parole, suoni, sguardi, morale e compiti, si pone come la loro vera e involontaria parodia — e con il quale, malgrado tutto, si annuncia forse la grande serietà, il vero punto interrogativo, con cui il destino dell’anima arriva alla svolta, la lancetta si sposta, la tragedia comincia...»
 
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— C’è qualcuno, che alla fine del xix secolo abbia un’idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così, voglio descriverla io. — Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, — io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser- fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e di irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all’interno di una tale sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme — la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell’ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione... Tutto avviene in un modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità... L’involontarietà dell’immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende più conto di che cosa sia un’immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora (— «qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell’essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te — »). Questa è la mia esperienza dell’ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli al- Pindietro per trovare qualcuno che possa dirmi «è anche la mia».
 
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Poi, per un paio di settimane, giacqui malato a Genova. Seguì una malinconica primavera a Roma, dove accettai di vivere — non fu facile. In fondo mi dava noia oltremisura questo luogo, il più indecoroso della terra, per il poeta dello Zarathustra e che non avevo scelto liberamente; cercai di liberarmene: volevo andare Aquila, l’antitesi di Roma, fondata per ostilità contro Roma, simile al luogo che fonderò un giorno, un ricordo di un ateo e di un anticlericale comme ilfaut, di uno degli esseri a me più affini, il grande imperatore degli Hohenstaufen Federico è. Ma in tutto ciò vi era una fatalità: dovetti ritornare. Infine mi accontentai di piazza Barberini, dopo che lo sforzo di cercare una zona anticristiana mi aveva spossato. Temo anche di aver chiesto una volta, per sfuggire se possibile ai cattivi odori, persino al palazzo del Quirinale se non avessero una camera tranquilla per un filosofo. In una loggia che domina la piazza suddetta, dalla quale si vede tutta Roma e si sente, giù in fondo, mormorare la fontana, fu composto il canto più solitario che mai sia stato creato, il canto notturno', in quel tempo aleggiava sempre intorno a me una melodia indicibilmente malinconica, il cui refrain ritrovai nelle parole «morto di immortalità...». Nell’estate, tornato al sacro luogo dove il primo lampo del pensiero di Zarathustra mi aveva illuminato, trovai il secondo Zarathustra. Furono sufficienti dieci giorni; non ne sono mai occorsi di più, né con il primo, né conilterzo e ultimo. L’inverno seguente, sotto l’alcionico cielo di Nizza, che splendeva allora per la prima volta nella mia vita, trovai il terzo Zarathustra ed ebbi finito. Appena un anno per tutto quanto. Molte alture e luoghi nascosti del paesaggio di Nizza sono consacrati per me da momenti indimenticabili; quella parte decisiva, che porta il titolo «Di vecchie e nuove tavole», fu composta durante la faticosissima salita dalla stazione al meraviglioso nido moresco di roccia, Eza — l’agilità muscolare è sempre stata in me tanto più forte quanto più copiosamente fluiva la forza creatrice. Il corpo è inondato dall’entusiasmo: mettiamo «l’anima» da un canto... Si sarebbe potuto spesso vedermi danzare; a quel tempo potevo camminare in montagna, senza traccia di stanchezza, sette, otto ore. Dormivo bene, ridevo molto —, avevo un vigore e una pazienza pefetti.
 
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Se si prescinde da queste opere create in dieci giorni, gli anni coevi e soprattutto posteriori allo Zarathustra furono di una difficoltà senza pari. Si paga a caro prezzo l’essere immortali: per questo si muore, da vivi, parecchie volte. — C’è qualcosa che io chiamo la rancune della grandezza: ogni cosa grande, un’opera, un’azione, una volta portata a termine, si rivolta senza indugio contro il suo autore. Proprio per questo, per averla compiuta, egli si ritrova ora indebolito, non la sopporta più, non la guarda più in faccia. Avere dietro a sé qualcosa che non sarebbe stato lecito volere, qualcosa cui è annodato il destino dell’umanità — e averlo ormai su di sé!... è un fatto quasi schiacciante... La rancune della grandezza! — Un’altra cosa ancora è il terribile silenzio che si sente intorno a sé. La solitudine ha sette pelli; nulla può attraversarla. Si avvicina la gente, si salutano gli amici: nuovo deserto, nessuno sguardo più ci saluta. Nel migliore dei casi, una specie di rivolta. Ho conosciuto una tale rivolta, in gradi molto diversi, ma quasi in ognuno di quelli che mi stavano vicini; pare che nulla ferisca di più del far sentire all’improvviso una distanza, — le nature aristocratiche, che non sanno vivere senza venerare, sono rare. — In terzo luogo vi è l’assurda irritabilità della pelle alle piccole punture, una sorta di impotenza di fronte a tutto quanto è piccolo. Ciò mi sembra determinato dall’enorme sperpero di tutte le forze difensive che ogni azione creatrice, ogni azione che nasca da quanto è più personale, più intimo, più profondo ha come presupposto. Le piccole facoltà difensive sono con ciò scardinate; nessuna forza affluisce più verso di loro. — Oso ancora accennare che si digerisce peggio, ci si muove malvolentieri, si è troppo indifesi contro le sensazioni di freddo e anche contro la diffidenza, — la diffidenza, che in molti casi è solo un errore eziologico. In un tale stato sentii una volta la vicinanza di una mandria di mucche, ancor prima di vederle, per il ritorno dei pensieri più dolci, più filantropici: questo ha in sé calore...
 
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Quest’opera fa parte a sé. Lasciamo da parte i poeti: forse nulla è mai nato da una simile sovrabbondanza di forze. Il mio concetto di «dionisiaco» si fece qui azione suprema; commisurato ad essa, ogni «agire» umano appare povero e limitato. Il fatto che un Goethe, uno Shakespeare, non avrebbero saputo respirare un solo attimo in questa prodigiosa passionalità e a questa altezza, che Dante, paragonato a Zarathustra sia solo un credente e non uno che crea innanzitutto la verità, uno spirito reggitore del mondo, un destino — che i poeti del Veda siano dei sacerdoti, e neppure degni di slacciare le scarpe a uno Zarathustra, tutto ciò è nulla e non dà l’idea della distanza, della azzurra solitudine nella quale quest’opera vive. Zarathustra ha l’eterno diritto di dire: «io traccio cerchi intorno a me e sacri confini; sempre meno sono quelli che ascendono con me su monti sempre più alti, — io costruisco una catena di monti sempre più sacri». Si immagini lo spirito e il pregio di tutte le grandi anime riuniti in un tutto unico: non sarebbero capaci, tutte insieme, di produrre un discorso di Zarathustra. La scala sulla quale egli sale e scende è immensa; egli ha visto di più, ha voluto di più, ha potuto di più di ogni altro uomo. Contraddice con ogni sua parola, lui che più di ogni altro spirito dice di sì; in lui tutti i contrari sono legati in una nuova unità. Le forze più sublimi e più basse della natura umana, ciò che di più dolce, di più leggero e terribile fluisce da una stessa fonte con l’immortale sicurezza. Fino a quel momento s’ignorava che cos’è altezza, che cos’è profondità; ancor meno che cos’è verità. Non c’è un momento, in questa manifestazione della verità che sia già stato anticipato, che sia già stato indovinato da qualcuno dei più grandi. Non c’è saggezza, non c’è studio dell’anima, non c’è arte della parola di fronte a Zarathustra; quanto c’è di più vicino, di più quotidiano parla qui di cose inaudite. La sentenza tremante di passione; l’eloquenza diventata musica; folgori scagliate verso mondi ancora avvenire non divinati. In confronto la forza più potente che sia mai esistita finora è povera; un gioco da nulla contro questo ritorno della lingua alla natura del linguaggio metaforico. — E come sa scendere Zarathustra e dire ad ognuno le parole più benevole! Come tocca egli stesso con mani delicate i suoi contraddittori, i preti, e soffre con loro, di loro! — Qui, ad ogni momento, l’uomo è superato, il concetto di «superuomo» è divenuto qui la più sublime realtà, — tutto ciò che finora è stato grande nell’uomo resta in un’infinita lontananza, sotto di lui. L’alcionico, il piede leggero, l’onnipresenza di malvagità e sfrenatezza e quanto vi è ancora di tipico per il tipo Zarathustra non è mai stato neppure sognato come essenziale alla grandezza. Proprio in questa estensione di spazio, in questa accessibilità a quanto v’è di più opposto Zarathustra avverte se stesso come la forma suprema di tutto ciò che esiste; e quando la si sente definire, come lui la definisce, si rinuncia allora a cercare la sua similitudine.

— l’anima, che ha la scala più alta e che può scendere più nel profondo,
l’anima più vasta, che può correre e perdersi e vagare con la maggiore ampiezza dentro di sé,
la più necessaria, che si precipita con gioia nel caso
l’anima che è, che vuole perdersi nel divenire, l’anima che ha, che vuole beffarsi nel volere e nel desiderare
che fugge se stessa, che si raggiunge nei cerchi più ampi,
l’anima più saggia, alla quale la follia parla nel modo più dolce
l’anima che più ama se stessa, nella quale tutte le cose hanno le loro correnti e controcorrenti, flusso e riflusso. —

Ma è il concetto stesso di Dioniso. — Proprio a questo conduce anche un’altra considerazione. Il problema psicologico del tipo Zarathustra è questo: come mai colui che dice di no in un grado inaudito, che agisce il no di fronte a tutto ciò a cui finora si è detto sì, possa essere tuttavia il contrario di uno spirito negatore; come mai Io spirito che porta il peso maggiore di destino, una fatalità nel suo compito, possa ciononostante essere il più leggero, il più al di là — Zarathustra è un danzatore —; come mai colui che pronuncia il giudizio più duro, più terribile sulla realtà, che ha pensato il «pensiero più abissale», non trovi tuttavia nessuna obiezione contro l’esistenza, neppure contro il suo eterno ritorno, — ma piuttosto un motivo in più per essere egli stesso l’eterno sì a tutte le cose, «l’immenso illimitato sì e amen»... «In tutti gli abissi porto ancora il mio sì benedicente»... Ma ancora una volta questo è il concetto di Dioniso.
 
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— Quale lingua parlerà un simile spirito, quando parla a sé solo? La lingua del ditirambo. Io sono lo scopritore del ditirambo. Si ascolti cosa dice a se stesso Zarathustra prima che sorga il sole (ih, 18): una tale smeraldina felicità, una tale divina tenerezza non l’ha avuta nessuna parola prima della mia. Anche la malinconia più profonda di un tale Dioniso diventa ditirambo; prendo come suo segno il «Canto notturno», l’immortale lamento di chi è condannato dalla sovrabbondanza di luce e di potenza, dalla propria natura solare, a non amare.

È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. Anche la mia anima è una fontana zampillante.

È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. Anche l’anima mia è il canto di un amante.

Qualche cosa di inappagato, l’inappagabile è in me, che vuol farsi voce. Un’avidità d’amore è in me, che parla la lingua dell’amore.

Luce io sono: ah! fossi notte! Ma questo è la mia solitudine essere cinto di luce.

Ah! se fossi oscuro e notturno! Come succhierei al seno della luce!

E come vorrei benedire anche voi, voi piccole stelle scintillanti e lucciole lassù in alto — ed essere beato per i vostri doni di luce.

Ma io vivo nella mia propria luce, io ribevo in me le fiamme che da me si sprigionano.

Non conosco la gioia di chi prende; e spesso sognai che rubare più che prendere dovesse essere gioia.

Questa è la mia miseria, che mai la mia mano cessi di donare; questa è la mia invidia, vedere occhi che attendono e le notti luminose di desiderio.

Oh, infelicità di chi dona! Oscuramento del mio sole! oh, desiderio di desiderare! oh avidità nella sazietà!

Essi prendono da me: ma tocco io, ancora, la loro anima? C’è un abisso fra prendere e dare; e l’abisso minore è il più difficile da superare.

Una fame nasce dalla mia bellezza: vorrei nuocere a quelli che illumino, derubare quelli a cui ho porto i miei doni, — così sono affamato di crudeltà.

Ritirando la mano, quando già ad essa si protende la mano; simile alla cascata, che esita ancora nel precipitare: così sono affamato di crudeltà.

Una tale vendetta ordisce la mia pienezza, una tale perfidia sgorga dalla mia solitudine.

La mia gioia nel donare morì nel donare, la mia virtù divenne stanca di sé per la troppa sovrabbondanza!

Il pericolo di chi dona sempre è di perdere ogni pudore, la mano e ilcuore di chi sempre spartisce è incallita da troppo lungo spartire.

Il mio occhio non trabocca più per la vergogna di chi chiede; la mia mano si è fatta troppo dura per il tremito di mani ricolme.

Dove sono andate le lacrime dei miei occhi e il pudore del mio cuore? Oh solitudine di tutti coloro che donano! Oh silenzio di tutti quelli che danno luce!

Molti soli vagano in spazi deserti: a tutto quanto è oscuro parlano con la loro luce — a me tacciono.

Oh, questa è l’ostilità della luce contro ciò che dà luce: implacabilmente essa prosegue il suo corso.

Sprezzante nel profondo del suo cuore contro ciò che illumina: freddo verso soli — così ogni sole segue il suo corso.

Simili ad una tempesta i soli seguono le lore orbite, seguono la loro volontà implacabile, questa è la loro freddezza.

Oh! solo voi, oscuri, voi notturni, siete coloro che traggono calore da ciò che illumina! Oh, voi soli suggete latte e balsamo dal seno della luce.

Ahimè, il ghiaccio mi circonda, la mia mano brucia a contatto del gelo!

Ahimè, vi è in me sete che si strugge per la vostra sete.

È notte: perché devo essere luce! E sete dell’oscuro! è solitudine!

È notte: come una sorgente erompe da me il mio desiderio, — è desiderio di parole.

È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche l’anima mia è una fontana zampillante.

È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante. —
 
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Niente di simile è stato mai composto, mai sentito, mai sofferto: così soffre un dio, un Dioniso. La risposta a un tale ditirambo del farsi solitudine del sole nella luce sarebbe Arianna... Chi oltre a me sa che cos’è Arianna'.... Nessuno finora ha posseduto la chiave di tutti questi enigmi, dubito che qualcuno abbia mai visto qui degli enigmi. — Zarathustra definisce una volta, con rigore, il suo compito — è anche il mio —, dicendo che non ci si può sbagliare sul suo significato: è affermativo fino alla giustificazione, fino alla redenzione anche di tutto il passato.

Io vado tra gli uomini come tra frammenti di futuro; di quel futuro che io scruto.

E questo è tutta la mia opera e il mio cercare, ricondurre poetica- mente ad unità, ciò che è frammento ed enigma e orribile caso.

E come sopporterei di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e decifratore di enigmi e redentore del caso?

Redimere coloro che furono e mutare ogni «così fu» in un «così volli!» — questo ho chiamato redenzione.

In un altro punto egli definisce, con il maggior rigore possibile, ciò che solo per lui può essere «l’uomo» — non un oggetto d’amore о addirittura di pietà — Zarathustra ha superato anche il grande disgusto per l’uomo: l’uomo per lui è un essere informe, un materiale, un pietrame bruto che ha bisogno dello scultore.

Non-più-volere, non-più-valutare e non-più-creare: oh, potesse questa grande stanchezza restarmi sempre lontana!

Anche nel mio conoscere sento solo il piacere della mia volontà nel procreare e nel divenire; e se c’è innocenza nel mio conoscere, ciò accade perché in esso vi è volontà di procreare.

Lontano da Dio e dagli dèi mi ha portato questa volontà: cosa ci sarebbe da creare, se gli dèi — esistessero?

Ma verso l’uomo mi riporta sempre di nuovo la mia ardente volontà di creare; così il martello è attirato verso la pietra.

Ah, voi uomini, nella pietra dorme per me un’immagine, l’immagine delle immagini! Ah, perché deve dormire nella più bruta, dura pietra!

Ora infierisce orribilmente il mio martello contro la sua prigione. Schegge polverizzate sprizzano dalle pietre: che m’importa!

A termine voglio condurre la mia opera, perché un’ombra è venuta a me, — la più silenziosa, la più lieve di tutte le cose è venuta a me un giorno!

La bellezza del superuomo è venuta a me come un’ombra: che mi importa più — degli dèi!...

Metto in evidenza un ultimo punto di vista: il verso sottolineato ne offre l’occasione. Per un compito dionisiaco la durezza del martello, il piacere stesso di distruggere sono premesse determinanti. L’imperativo «diventate duri!», la certezza più profonda, che tutti i creatori sono duri, è il segno vero di una natura dionisiaca.
 
Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire

 
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Ilcompito per gli anni che sarebbero seguiti non poteva essere predelineato con maggiore rigore. Dopo che fu compiuta la parte affermativa del mio compito, si presentò la sua metà che negava, che agiva il no: il capo- volgimento dei valori fino ad allora esistenti, la grande guerra, — l’evocazione del giorno della decisione, è incluso qui il lento giro d’orizzonte alla ricerca di esseri affini, di esseri tali prendendo le mosse dalla loro forza mi avrebbero offerto la mano nella mia opera di distruzione. — Da allora tutti i miei scritti sono delle esche: sarà forse che io mi intendo di pesca come nessun altro?... Se nulla si è fatto prendere, la colpa non è mia. Erano i pesci che mancavano...
 
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Questo libro (1886) è essenzialmente una critica della modernità, non esclude le scienze moderne, le arti moderne, e neppure la politica moderna insieme ad indicazioni per un tipo opposto, che è il meno moderno possibile, un tipo nobile, un tipo che dice sì. In quest’ultimo senso il libro è una scuola del gentilhomme, prendendo il termine nel modo più spirituale e radicale in cui mai sia stato preso. Bisogna aver del coraggio nel sangue per poterne anche solo sopportare l’idea, non bisogna aver conosciuto la paura... Tutte le cose di cui quest’epoca va orgogliosa vengono sentite come contraddizione a questo tipo, quasi come cattive maniere, la famosa «obiettività» ad esempio, la «compassione per tutti i sofferenti», il «senso storico», con la sua sottomissione al gusto altrui, con il suo strisciare pancia a terra davanti ai petits faits, la «scientificità». — Se si prende in considerazione il fatto che questo libro fa seguito allo Zarathustra, si indovinerà forse anche il régime dietetico al quale esso deve la sua nascita. L’occhio, viziato da una mostruosa costrizione a vedere lontano — Zarathustra ha la vista ancora più lunga dello Zar —, viene costretto qui a cogliere con acutezza ciò che è più vicino, il tempo, ciò che ci circonda. Si troverà in ogni parte, e soprattutto nella forma, una stessa volontaria rinuncia agli istinti che resero possibile uno Zarathustra. La raffinatezza nella forma, nell’intenzione, nell’arte del silenzio, è in primo piano — la psicologia viene trattata con deliberata durezza e crudeltà — il libro è privo di una parola indulgente... Tutto ciò dà sollievo: chi, infine, indovinerà quale specie di sollievo è reso necessario da una tale dissipazione di bontà quale è lo Zarathustra!... Parlando da un punto di vista teologico — si faccia attenzione, poiché io parlo di rado da teologo — fu Dio stesso, che terminato il suo compito, si mise, in forma di serpente, sotto l’albero della conoscenza: cercava così sollievo dall’essere Dio... Aveva reso tutto troppo bello... Il diavolo è solo l’ozio di Dio ogni settimo giorno...
 
Genealogia della morale. Uno scritto polemic
I tre saggi che compongono questa genealogia sono forse, per quanto riguarda l’espressione, l’intenzione e l’arte di stupire, la cosa più inquietante che sia stata scritta fino ad oggi. Dioniso è, lo si sa, anche il dio delle tenebre. — Ogni volta un inizio, che deve trarre in inganno, freddo, scientifico, persino ironico, volutamente messo in rilievo, volutamente interlocutorio. A poco a poco l’inquietudine aumenta; bagliori isolati; verità molto spiacevoli giungono da lontano aumentando sempre di tono con un cupo brontolio, — per raggiungere infine un tempo feroce, dove tutto è spinto a proseguire con mostruosa tensione. Ogni volta, alla fine, tra detonazioni veramente terrificanti, una nuova verità è visibile tra le nuvole gonfie. — La verità del primo saggio è la psicologia del cristianesimo: la nascita del cristianesimo dallo spirito del ressentiment, non già, come si crede generalmente, dallo «spirito», — un movimento di reazione, nella sua essenza, la grande rivolta contro il dominio dei valori aristocratici. Il secondo saggio offre la psicologia della coscienza: essa non è, come si crede generalmente, «la voce di Dio nell’uomo», — è l’istinto della crudeltà, che si rivolge all’interno, quando non può più scaricarsi verso l’esterno. La crudeltà come uno dei più antichi ed ineliminabili fondamenti della cultura portata qui alla luce per la prima volta. Il terzo saggio risponde alla domanda donde provenga la mostruosa potenza dell’ideale ascetico, dell’ideale dei preti, nonostante esso sia proprio l’ideale dannoso par excellence, una volontà di fine, un ideale di décadence. Risposta: non già perché Dio agisce dietro ai preti, come generalmente si crede, ma, faute de mieux, — perché sino ad ora è stato l’unico ideale, perché non aveva concorrenti. «Poiché l’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere»... Mancava prima di tutto un contro-ideale —fino a Zarathustra. Mi avete compreso. Tre decisivi studi preparatori di uno psicologo per una trasvalutazione di tutti i valori. — Questo libro contiene la prima psicologia del prete.
 
Crepuscolo degli idoli. Come si filosofa col Martello

 
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Questo scritto di neppure centocinquanta pagine, sereno e fatale nel tono, un demone che ride —, l’opera di così pochi giorni che esito a dire quanti, è l’eccezione tra i libri: non vi è nulla di più ricco di sostanza, di più indipendente, di più eversivo, — di più cattivo. Se ci si vuol fare rapidamente una idea di come, prima di me, tutto fosse capovolto, si inizi con questo scritto. Ciò che nel titolo è indicato come idoli è molto semplice- mente ciò che sino ad ora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli — detto a chiare lettere: le antiche verità stanno per finire...
 
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Non c’è realtà, non c’è «idealità», che in questo scritto non venga toccata (— toccata: che prudente eufemismo!...). Non solamente gli idoli eterni, anche quelli giovanissimi e di conseguenza i più senili. Le «idee moderne», ad esempio. Un forte vento soffia tra gli alberi e dappertutto cadono i frutti — le verità. V’è qui lo spreco di un autunno troppo ricco: si inciampa nelle verità, le si calpestano a morte, — ve ne sono troppe...

Ma ciò che si prende in mano non ha in sé più nulla di ambiguo, sono decisioni. Io per primo ho in mano la misura per le «verità», io per primo posso decidere. Come se fosse cresciuta in me una seconda coscienza, come se in me «la volontà» avesse acceso una luce sulla strada in pendio su cui sino ad ora scendeva... La strada in pendio — era chiamata la strada verso la «verità»... è finito ogni «oscuro impulso», l’uomo buono era proprio quello meno cosciente della via giusta, la strada in salita: solo dopo di me vi sono di nuovo speranze, compiti, strade della civiltà da indicare — io sono il loro lieto messaggero... Proprio con ciò io sono anche un destino.
 
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Immediatamente dopo la conclusione dell’opera appena citata e senza perdere neppure un giorno, mi accinsi alPimmane compito della trasvalutazione, con un sovrano sentimento di orgoglio che non è paragonabile a nulla, certo, in ogni istante, della immortalità e incidendo segno dopo segno con la sicurezza di un destino su tavole di bronzo. La prefazione fu composta il 3 settembre 1888: quando, il mattino che la scrissi, uscii all’aperto, trovai la giornata più bella che l’Alta Engadina mi abbia mai mostrato — trasparente, ardente nei colori, racchiudeva in sé tutti i contrasti, tutti i gradi intermedi tra il ghiaccio e il sud. — Trattenuto dalle alluvioni, lasciai Sils-Maria solo il 20 settembre, da molto tempo, ormai, ultimo ospite di questo luogo meraviglioso al quale la mia gratitudine vuol far dono di un nome immortale. Dopo un viaggio non privo d’incidenti, rischiando perfino della vita, nell’inondazione di Como, che raggiunsi solo a notte fonda, il pomeriggio del 21 giunsi a Torino, il mio soggiorno ormai provato, da allora in poi la mia residenza. Presi la stessa abitazione che avevo già occupato in primavera, in via Carlo Alberto 6, ni, di fronte al poderoso palazzo Carignano, nel quale è nato Vittorio Emanuele, con la vista su piazza Carlo Alberto e più su verso le colline. Senza indugiare e senza lasciarmi distrarre un attimo, mi misi di nuovo al lavoro: c’era ancora da portare a termine l’ultimo quarto dell’opera. Il 30 settembre grande vittoria; conclusione della trasvalutazione; ozio di un dio lungo il Po. Lo stesso giorno scrissi anche il prologo al Crepuscolo degli Idoli, la correzione delle cui bozze era stata il mio riposo in settembre. — Non ho mai vissuto un inverno simile, e neppure ritenuto possibile sulla terra qualcosa di simile, — un Claude Lorrain pensato all’infinito, ogni giorno di un’uguale indomabile perfezione. —
 
Il caso Wagner. Un problema di musicisti

 
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Per rendere giustizia a queste pagine bisogna soffrire per il destino della musica come per una piaga aperta. Di che cosa soffro, quando soffro per il destino della musica? Del fatto che la musica ha perduto la caratteristica di trasfigurare il mondo, di dire di sì, — dal fatto che è musica di décadence e non più il flauto di Dioniso... Se si senta in tal modo la causa della musica come cosa propria, come la propria storia di sofferenza, si troverà allora questo scritto pieno di riguardi e moderato oltremisura. In tali casi, essere allegri e ridere benevolmente di sé — ridendo dicere severum, dove il veruni dicere giustificherebbe ogni durezza — è comportarsi nel modo più umano. E chi dubita che proprio io, vecchio artigliere quale sono, non sia in grado di puntare contro Wagner la mia artiglieria pesante? — In questa faccenda ho tenuto per me la cosa più decisiva, — ho amato Wagner. Infine un attacco a uno «sconosciuto» di qualità, che un altro non riconoscerebbe facilmente, si accorda al senso e ai modi del mio compito, — oh, ho ben altri «sconosciuti» da scoprire che un Cagliostro della musica — ma più ancora un attacco contro la nazione tedesca, che diventa sempre più fiacca nelle cose dello spirito e più priva d’istinto e sempre più onesta, che continua, con un appetito invidiabile, a nutrirsi di contraddizioni e ingurgita senza disturbi di digestione, «la fede» come la scientificità, l’«amore cristiano» come l’antisemitismo, la volontà di potenza (di «impero») come Vévangile des humbles... Questa incapacità di prendere partito tra gli opposti! Questa «abnegazione» e neutralità dello stomaco! Questo egualitarismo del palato tedesco, che dà ad ognuno uguali diritti, — che trova tutto saporito... Senza alcun dubbio, i Tedeschi sono idealisti... L’ultima volta che ho visitato la Germania, ho trovato il gusto tedesco occupato a riconoscere uguali diritti a Wagner e al trombettiere di Sàckingen; io stesso fui testimone in prima persona di come a Lipsia, in onore di uno dei musicisti più veri e più Tedeschi, tedesco nel vecchio senso della parola, non un semplice tedesco dell’Impero, il maestro Heinrich Schùtz, venne fondata una Associazione Liszt, destinata alla cura e alla diffusione di un’astuta musica sacra... Senz’alcun dubbio, i Tedeschi sono idealisti...
 
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Ma ora nulla m’impedirà di essere brutale e di dire ai Tedeschi un paio di dure verità: chi lo farà altrimenti? Parlo della loro lussuria in historicis. Non soltanto gli storici tedeschi hanno smarrito la grande visione per il corso, per i valori della civiltà, non soltanto sono diventati tutti buffoni della politica (o della Chiesa —): proprio essi hanno messo al bando questa grande visione. Bisogna prima di tutto essere «Tedeschi», essere «razza», poi si potrà decidere su tutti i valori e i non valori in historicis — potranno stabilire... «Tedesco» è un argomento, «Deutschland, Deutschland iiber Alles» un principio, nella storia i Germani rappresentano P«ordine morale dell’universo». In rapporto aIVimperituri romanum i custodi della libertà, in rapporto al diciottesimo secolo i restauratori della morale, dell’«impera- tivo categorico»... Esiste una storiografia imperiale tedesca, esiste, temo, anche una storiografia antisemitica — esiste una storiografia di corte e il signor von Treitschke non si vergogna... Di recente un giudizio da idiota in historicis, una frase dell’esteta svevo Vischer, che per fortuna è scomparso, fece il giro dei giornali tedeschi come una «verità» alla quale ogni tedesco doveva dire sì: «Il Rinascimento e la Riforma formano un tutto unico — rinascita estetica e rinascita morale». A tali frasi la mia pazienza tocca il fondo, e sento il desiderio, lo sento anche come dovere, di dire ai Tedeschi, una volta per tutte, tutto ciò che hanno già sulla coscienza! Hanno sulla coscienza tutti i grandi crimini commessi verso la civiltà di quattro secoli... E sempre per lo stesso motivo, per la loro più intima viltà di fronte alla realtà, che è anche viltà di fronte alla verità, per la insincerità che in loro è divenuta istinto, per «idealismo»... I Tedeschi hanno derubato l’Europa del raccolto, del senso dell’ultima grande epoca, dell’epoca rinascimentale, in un momento in cui un più alto ordine di valori, nel quale i valori aristocratici, che dicono sì alla vita, i valori che assicurano un avvenire, erano giunti alla vittoria al posto dei valori opposti, i valori di decadenza — e fino addirittura insinuandosi negli istinti di coloro che su questi valori consistevanoI Lutero, questo monaco funesto, ha restaurato la Chiesa, e ciò che è mille volte peggio, il cristianesimo, nel momento in cui era sconfìtto... Il cristianesimo, questa negazione della volontà di vita\ divenuta religione... Lutero, un monaco impossibile, che in ragione della propria «impossibilità» attaccò la Chiesa e — di conseguenza — la rifondò... I cattolici avrebbero avuto motivi per celebrare la festa di Lutero, per comporre «misteri» in suo onore... Lutero — e la «rinascita morale»! Al diavolo ogni psicologia! — Senza dubbio i Tedeschi sono idealisti. — I Tedeschi, per due volte, proprio quando con enorme coraggio e superamento di sé si era raggiunto infine un modo di pensare retto, non equivoco, completamente scientifico, avevano saputo scoprire sentieri segreti per il vecchio «ideale», compromessi tra verità e «ideale», formule, in fondo, per legittimare il rifiuto della scienza, per legittimare la menzogna. Leibniz e Kant — i due maggiori ostacoli alla probità intellettuale dell’Europa! — Infine, quando sul ponte tra due secoli di décadence divenne visibile una force majeure di genio e volontà, vigorosa abbastanza per fare dell’Europa un’unità, un’unità politica ed economica, il cui scopo era quello di creare un governo mondiale, i Tedeschi, con le loro «guerre di liberazione», hanno tolto all’Europa il senso, il miracolo di senso che vi era nell’esistenza di Napoleone, — essi hanno così sulla coscienza tutto ciò che sopraggiunse, che esiste oggi, questa malattia e insensatezza, le più ostili alla civiltà che mai siano esistite, il nazionalismo, questa névrose nationale, di cui l’Europa è malata, questo mantenere in eterno la divisione d’Europa in Stati minuscoli, questa piccola politica: essi hanno tolto alla stessa Europa il suo senso, la sua ragione — l’hanno portata in un vicolo cieco. — Qualcuno, oltre a me, conosce un modo per uscirne?... Non è un compito abbastanza grande legare di nuovo i popoli?...
 
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E infine, perché non dovrei dar voce al mio sospetto? Anche nel mio caso i Tedeschi faranno di tutto perché da un destino immenso nasca un topolino. Con me fino ad ora si sono compromessi, dubito che faranno di meglio in futuro. Ah, come desidero essere qui un cattivo profeta!... I miei uditori e lettori naturali sono già ora Russi, Scandinavi e Francesi, — lo saranno sempre di più? — I Tedeschi sono iscritti nella storia della conoscenza con nomi ben ambigui, hanno sempre solo prodotto «inconsapevoli» falsari (— questo termine spetta a Fichte, Schelling, Schopenhauer, Hegel, Schleiermacher come a Kant e Leibniz, sono tutti soltanto degli Schleier- Macher, dei tessitori di veli —): non dovranno mai aver l’onore che venga identificato con lo spirito tedesco il primo spirito retto nella storia dello spirito, quello spirito nei quale la verità siede in giudizio contro le coniazioni di moneta falsa di quattro secoli. «Lo spirito tedesco» è la mia aria viziata: respiro con difficoltà vicino a questa sporcizia divenuta istinto in psichologicis, che ogni parola, ogni espressione di un tedesco portano alla luce. Essi non hanno mai attraversato un diciassettesimo secolo di severo esame di sé, come i Francesi; un La Rochefoucauld, un Descartes sono cento volte superiori ai primi Tedeschi, in quanto a probità, — fino ad oggi costoro non hanno mai avuto uno psicologo. Ma la psicologia è quasi il solo criterio della pulizia о della sporcizia di una razza... E se non si è mai puliti, come si potrebbe avere profondità? Nel Tedesco, come nella donna, non si arriva mai al fondo: non c’è: questo è tutto. Ma con ciò non vi è neppure piattezza. — Ciò che in Germania è detto «profondo» è proprio questa sporcizia d’istinto nei confronti di se stessi, della quale appunto ho parlato: non si vuol far chiarezza su di sé. E non dovrei proporre la parola «tedesco» come moneta internazionale per questa depravazione psicologica? — In questo momento ad esempio, l’imperatore tedesco definisce suo «dovere cristiano» liberare gli schiavi in Africa: tra noi altri Europei questo si definirebbe semplicemente «tedesco»... I Tedeschi hanno prodotto anche solo un libro che abbia profondità? Sfugge loro persino la nozione di che cosa sia profondo in un libro. Ho conosciuto dei dotti che ritenevano profondo Kant; alla corte prussiana, temo, si ritiene profondo il signor von Treitschke. E quando mi è capitato di onorare Stendhal come un profondo psicologo, mi è accaduto con professori universitari tedeschi, che mi facessero sillabare il nome...
 
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E perché non dovrei andare fino in fondo? Mi piace far piazza pulita. Tra le mie ambizioni c’è quella di passare per il dispregiatore par excellence dei Tedeschi. La mia diffidenza verso il carattere tedesco l’ho già espressa a ventisei anni (terza Inattuale, pagina 71) — i Tedeschi sono per me impossibili. Se immagino un tipo umano che vada contro tutti i miei istinti, ne esce sempre un Tedesco. La prima cosa, quando «saggio il fondo» di un uomo, è controllare se ha in corpo il senso della distanza, se in generale vede gerarchia, grado, ordine tra uomo e uomo, se distingue: è in questo che si è gentilhomme; in ogni altro caso si appartiene, senza possibilità di salvezza, alla categoria, cosi generosa e bonaria, della canaille. Ma i Tedeschi sono canaille — ahimè! sono così bonari.... Ci si abbassa frequentando i Tedeschi: il Tedesco livella... Escludendo i miei rapporti con alcuni artisti, soprattutto con Richard Wagner, non ho passato una sola ora buona con i Tedeschi... Posto che lo spirito più profondo di tutti i millenni apparisse tra i Tedeschi, una qualsiasi salvatrice del Campidoglio supporrebbe che la sua anima, così brutta, abbia almeno la stessa importanza... Io non tollero questa razza con la quale si è sempre in cattiva compagnia, che non ha sensibilità per le nuances — ahimè! io sono una nuance — che non ha esprit nei piedi e non sa neppure camminare.... I Tedeschi, del resto, non hanno affatto piedi, hanno solo gambe... Ai Tedeschi manca ogni consapevolezza della propria bassezza, ma questo è appunto il colmo della bassezza, — non si vergognano neppure di non essere che Tedeschi... Si occupano di tutto, credono di potersi pronunciare su tutto, temo che si siano pronunciati anche su di me... — Tutta la mia vita è la dimostrazione de rigueur di questi princìpi. Invano vi ho cercato un segno di tatto, di délicatesse verso di me. Da parte degli Ebrei sì, non ancora da parte dei Tedeschi. Il mio modo di essere vuole che io sia mite e ben disposto nei confronti di ognuno — ho il diritto di non far differenze —: ciò non impedisce che io abbia gli occhi aperti. Non faccio differenze per nessuno e tanto meno per i miei amici — spero in definitiva che ciò non abbia recato danno alla mia umanità verso di loro! Ci sono cinque, sei cose delle quali mi sono sempre fatto un punto d’onore. — Ciononostante resta vero che io sento come qualcosa di cinico quasi ogni lettera che da anni ricevo: c’è più cinismo nella benevolenza nei miei riguardi che in un qualsiasi odio... Ad ognuno dei miei amici che non hanno mai ritenuto valesse la pena di studiare uno qualsiasi dei miei scritti glielo dico in faccia; indovino, dal più piccolo segno, che non sanno neppure cosa contengono. Per quanto riguarda proprio il mio Zarathustra, quale dei miei amici vi ha visto di più che una presunzione illegittima, ma per fortuna perfettamente indifferente?... Dieci anni: e nessuno in Germania si è posto il problema di difendere il mio nome contro l’assurdo silenzio sotto il quale era sepolto: è stato uno straniero, un danese che ha avuto per primo abbastanza finezza d’istinto e coraggio, da indignarsi contro i miei pretesi amici... In quale università tedesca sarebbe possibile oggi un corso sulla mia filosofia, come lo ha tenuto la scorsa primavera, a Copenaghen, lo psicologo dottor Georg Brandes, che con ciò si è dimostrato tale una volta di più? — Quanto a me non ho sofferto di tutto questo; ciò che è necessario non mi ferisce; amor fati è la mia natura più intima. Ciò non esclude ch’io ami l’ironia, persino l’ironia della storia universale. E così, circa due anni prima del distruttivo colpo di fulmine annientatore della trasvalutazione che darà le convulsioni alla terra, ho inviato per il mondo il «Caso Wagner»: i Tedeschi potrebbero sbagliarsi ancora una volta su di me sfarsi eterni! C’è ancora tempo! — Ce l’hanno fatta? — Splendido, signori Germani! Vi faccio i miei complimenti... Proprio ora, perché anche gli amici non manchino, una vecchia amica mi scrive che ride di me... E questo nel momento in cui una indicibile responsabilità mi grava addosso, — ora che nessuna parola può essere abbastanza tenera, nessuno sguardo abbastanza riverente verso di me. Perché io porto sulle spalle il destino dell’umanità.
 
Perché sono un destino

 
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Conosco il mio destino. Un giorno il mio nome sarà associato al ricordo di qualcosa di prodigioso, — a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza, a un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso, santificato. Io non sono un uomo, sono dinamite. — E con tutto ciò non vi è in me nulla del fondatore di religioni — le religioni sono affari per la plebe, io ho bisogno di lavarmi le mani dopo il contatto con uomini religiosi... Non voglio «credenti», penso di essere troppo maligno per credere a me stesso, non parlo mai alle masse... Ho una paura terribile che un giorno mi canonizzino: si indovinerà perché pubblico prima questo libro, deve impedire che con me si commettano degli eccessi... Non voglio essere un santo, piuttosto un buffone... Forse sono un buffone... E tuttavia, о piuttosto, non tuttavia — perché non ci fu niente di più menzognero sinora del santo — per bocca mia parla la verità. — Ma la mia verità è terribile, poiché finora si è chiamata verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori, questa è la mia formula per un atto di sublime autodeterminazione deH’umanità, che è divenuto in me carne e genio. La mia sorte vuole ch’io debba essere il primo uomo come si deve, ch’io mi sappia in opposizione a una falsità di millenni... Io sono il primo ad aver scoperto la verità, per il fatto che io per primo ho sentito — ho fiutato la menzogna come menzogna... Il mio genio è nelle mie narici... Io contraddico come mai è stato contraddetto e ciononostante sono il contrario di uno spirito negatore. Io sono messaggero di buone novelle come non ce ne fu nessuno, conosco compiti di un’altezza per la quale finora è mancato il concetto; solo a partire da me ci sono ancora speranze. Con tutto ciò sono necessariamente anche l’uomo della fatalità. Poiché quando la verità dà battaglia alla menzogna di secoli, avremo sconvolgimenti, un sussulto di terremoti, uno spostamento di monti e valli, come non se ne sono mai sognati. Il concetto di politica è trapassato con ciò interamente in una guerra dì spiriti, tutte le forme di potere della vecchia società sono saltate in aria — si basano tutte sulla menzogna: ci sarà guerra, come non c’è stata mai sulla terra. Solo a partire da me ci sarà sulla terra una grande politica. —
 
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Si vuole una formula per un tale destino, che diventa uomo? È nel mio Zarathustra.

— e chi vuol essere un creatore nel bene e nel male, costui deve essere prima un distruttore e spezzare valori.

Così il male più alto appartiene alla più alta bontà: ma è quest'ultima che crea?

Io sono di gran lunga l’uomo più terribile che sia esistito sino ad ora; ciò non esclude che sarò il più benefico. Conosco il piacere di distruggere in una misura conforme alla mia forza di distruzione, — in entrambe le cose ubbidisco alla mia natura dionisiaca, che non sa separare il fare no dal dire sì. Io sono il primo immoralista: con ciò il distruttore par excellence.
 
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Non mi è stato chiesto, mi si sarebbe dovuto chiedere, che cosa significa proprio sulla mia bocca, il nome Zarathustra: poiché ciò che forma l’immensa unicità di quel Persiano nella storia è proprio il contrario. Zarathustra per primo ha visto nella lotta del bene e del male la vera ruota nell’ingranaggio delle cose, — la traduzione della morale in termini metafisici, come forza, causa, fine in sé, è la sua opera. Ma questa domanda sarebbe, in fondo, già la risposta. Zarathustra ha creato questo errore tra più infausti, la morale: di conseguenza deve anche essere il primo che lo riconosce. Non solo perché a questo proposito ha un’esperienza maggiore e di più lunga data di qualsiasi altro pensatore — la storia intera è appunto la confutazione sperimentale del principio del cosiddetto «ordine morale universale» —; la cosa più importante è che Zarathustra è più sincero di qualsiasi pensatore. La sua dottrina ed essa sola vede nella veracità la virtù più alta — cioè il contrario della vigliaccheria dell’«idealista», che si mette in fuga davanti alla realtà; Zarathustra ha più arditezza nel sangue che tutti i pensatori presi assieme. Dire la verità e tirare bene con l'arco, questa è la virtù persiana. — Mi si comprende?... L’autosuperamento per veracità, della morale, l’autosuperamento del moralista nel suo contrario — in me — questo significa sulla mia bocca il nome Zarathustra.
 
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Il fondo sono due negazioni quelle che racchiude in me il termine immoralista. Con la prima nego un tipo d’uomo che fino ad oggi è stato ritenuto il più alto; i buoni, i benevolenti, i benefici; con la seconda nego una specie di morale, che ha avuto valore e ha dominato come morale in sé, — la morale della décadence, ovvero, detto in modo più comprensibile, la morale cristiana. Sarebbe lecito pensare che la seconda negazione sia quella decisiva, poiché la sopravvalutazione della bontà e della benevolenza, a grandi linee, mi sembra già conseguenza della décadence, come sintomo di debolezza, come incompatibile con una vita che è in ascesa e dice sì: nel dire di sì vi è già la condizione del negare e del distruggere. — Mi soffermo dapprima sulla psicologia dell’uomo buono. Per valutare quanto valga un tipo umano, bisogna calcolare il prezzo per la sua conservazione, — bisogna conoscere le condizioni della sua esistenza. La condizione d’esistenza dei buoni è la menzogna —: detto con altre parole, il non voler vedere a nessu costo com’è, in fondo, la realtà, e cioè non atta a far nascere ad ogni istante sentimenti di benevolenza, e, meno ancora, atta a tollerare ad ogni istante su di sé l’intervento di mani miopi e benevole. Considerare tutti gli stati di crisi estrema come un’obiezione, come qualche cosa che bisogna eliminare, è la niaiserie par excellence, insomma una vera disgrazia nelle sue conseguenze, un destino di stupidità —, quasi così stupido come lo sarebbe la volontà di eliminare il cattivo tempo — per compassione della povera gente... Nella grande economia del tutto le cose terribili della realtà (nelle passioni, nei desideri, nella volontà di potenza) sono incalcolabilmente più necessarie di quella forma di felicità, la cosiddetta «bontà»; ci vuole anche una certa condiscendenza nel concedere un posto, poiché ha per condizione la falsità dell’istinto. Avrò una buona occasione per dimostrare le conseguenze, inquietanti oltremisura, dell’ottimismo, questa creazione degli homines optimi, per l’intera storia. Zarathustra, il primo a comprendere che l’ottimista è altrettanto décadent del pessimista e forse più dannoso, dice: gli uomini non dicono la verità. Arti e sicurezze false vi insegnarono gli uomini buoni; nella menzogna dei buoni foste nati e assicurati. Tutto è fino infondo falsato e falsificato dagli uomini buoni. Per fortuna il mondo non è costruito secondo quegli istinti, per i quali solo la mandria bonaria può appunto trovarvi la sua meschina felicità; esigere che tutti debbano diventare «uomini buoni», animali da gregge, dagli occhi azzurri, benevoli, «anime belle» — ovvero, come vuole il signor Herbert Spencer, altruistici, vuol dire togliere al destino il suo carattere di grandezza, significa castrare l’umanità e ridurla a una miserabile cineseria.

— Ed è quello che si è tentato di farei... Proprio questo si è chiamato morale... In questo senso Zarathustra chiama i buoni ora «gli ultimi uomini», ora «l’inizio della fine»; soprattutto li sente come il tipo d’uomo più dannoso, poiché essi impongono la loro esistenza sia a spese della verità che a quelle del futuro.

I buoni — non sanno creare, sono sempre l’inizio della fine — crocifiggono chi scrive i nuovi valori su nuove tavole, sacrificano a se stessi il futuro, crocifiggono ogni futuro umano!

I buoni — furono sempre l’inizio della fine...

E per quanti danni possan fare i detrattori del mondo, i! danno dei buoni è il danno più dannoso.
 
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Zarathustra, il primo psicologo dei buoni, è — di conseguenza — un amico dei cattivi. Se il tipo d’uomo della décadence si è elevato al rango della specie più alta, questo è potuto accadere solo a spese del suo tipo contrario, del tipo d’uomo forte e sicuro della vita. Se il gregge splende nella luminosità della più pura virtù, l’uomo d’eccezione deve essere degradato a malvagio. Se la falsità rivendica, ad ogni costo, per la sua ottica, la parola verità, allora l’uomo realmente verace lo si ritoverà sotto i nomi più brutti. Qui Zarathustra non lascia dubbi, egli dice che è stata proprio la conoscenza del buono, del «migliore» ciò che gli ha causato in generale orrore per l’uomo; che a causa di questa avversione gli sono spuntate le ali «per volare verso lontani futuri», — egli non nasconde che il suo tipo d’uomo, un tipo relativamente superumano, è superumano proprio in relazione ai buoni, poiché i buoni e i giusti chiamerebbero diavolo il suo superuomo...

Voi, uomini più alti che il mio sguardo abbia mai incontrato, questo è il mio dubbio su di voi e il mio riso segreto: penso che chiamereste diavolo — il mio superuomo! Tanto estranei siete voi alla grandezza, nella vostra anima, che, il superuomo sarebbe terribile, per voi, nella sua bontà...

Su questo passo e su nessun altro bisogna fermarsi, per comprender che cosa voglia Zarathustra: questo tipo d’uomo che egli concepisce, concepisce la realtà come essa è: egli è abbastanza forte per farlo —, non è estraniato, rapito in estasi, è questa realtà stessa, ne ha ancora in sé tutto il terribile e l’ambiguo, e solo con ciò l’uomo può essere grande...
 
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— Ma anche in un altro senso ho scelto la parola immoralista come mio segno distintivo, come segno onorifico; sono fiero di avere questa parola che mi distingue nei confronti di tutta l’umanità. Nessuno ha ancora sentito sotto di sé la morale cristiana: per questo ci voleva un’altezza, un’acutezza di vista, un’abissale profondità psicologica del tutto inaudita sino ad oggi. La morale cristiana è stata sinora la Circe di tutti i pensatori, — essi erano al suo servizio. — Chi prima di me è penetrato nelle caverne dalle quali sgorga il vapore venefico di questa specie di ideale! — la denigrazione del mondol — Chi ha anche solo osato supporre che ci fossero caverne? Chi prima di me è stato psicologo tra i filosofi e non piuttosto il suo contrario, «supremo imbroglione», «idealista»? Prima di me non c’è stata alcuna psicologia. — Qui essere il primo può essere una maledizione, in ogni caso è un destino: perché si disprezza anche per primi... Il mio pericolo è il disgusto per l’uomo...
 
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Sono stato compreso? — Ciò che mi divide, ciò che mi mette da parte rispetto a tutto il resto dell’umanità, è di aver scoperto la morale cristiana. Per far questo avevo bisogno di una parola che avesse in sé il senso di una sfida contro tutti. Non aver aperto prima gli occhi su questo punto è secondo me la massima sozzura che l’umanità abbia sulla coscienza, è Pautoin- ganno divenuto istinto, la fondamentale volontà di non vedere ogni avvenimento, ogni causa, ogni realtà, è falsificazione in psychologicis fino al crimine. La cecità di fronte al cristianesimo è il crimine par excellence — il crimine contro la vita... I millenni, i popoli, i primi e gli ultimi, i filosofi e le vecchiette — tolti cinque о sei istanti nella storia, io sono il settimo — su questo punto sono gli uni degni degli altri. Il cristiano è stato fino ad oggi l’«essere morale», un’impareggiabile curiosità — e, in quanto «essere morale», più assurdo, più bugiardo, più vanitoso, più sconsiderato, più dannoso a se stesso di quanto il maggior dispregiatore deH’umamtà avrebbe mai potuto sognare. La morale cristiana — la più maligna forma della volontà di mentire, la vera Circe dell’umanità: ciò che essa ha corrotto. Non è l’errore in quanto errore che mi fa inorridire qui, non la mancanza millenaria di «buona volontà», di disciplina, di decoro, di coraggio nelle cose dello spirito, che si svela nella sua vittoria: — è l’assenza di natura, è il dato di fatto assolutamente orribile, che la contro natura riceve i massimi onori proprio in quanto morale e in quanto legge, imperativo categorico, continua a restare sospesa sull’umanità!... Sbagliare fino a questo punto, non come singoli, non come popolo, ma come umanità!... Aver imparato a disprezzare gli istinti primari della vita; aver fìnto la esistenza di un’«ani- ma», di uno «spirito», per profanare il corpo; aver insegnato a vedere qualche cosa di impuro nel presupposto della vita, nella sessualità; aver cercato nella più profonda necessità della crescita, nel severo egoismo, (— e la parola stessa è diffamatoria!) il principio del male; e avere visto al contrario il valore più alto nel segno tipico del declino e della contraddittorietà degli istinti, cosa dico, il valore in sèi... nel «disinteresse», nella perdita di peso, nella «spersonalizzazione» e nelP«amore del prossimo» (— malattia del prossimo!)... Come! l’umanità stessa sarebbe in décadence? Lo è stata sempre? — ciò che è certo è che le hanno insegnato a considerare come valori più alti solo i valori di décadence. La morale della rinuncia è par excellence la morale della degenerazione, è la constatazione «io sono perduto» tradotta nell’imperativo «dovete perdervi tutti» — e non solo nell’imperativo!... Quest’unica morale che è stata insegnata sinora, la morale della rinuncia a sé, tradisce una volontà di morte, nega la vita nel suo principio fondamentale. — Resterebbe aperta qui una possibilità, che non già l’umanità sia degenerata, ma solo quella specie di uomo parassitario, il prete, che per mezzo della morale si è innalzato, mentendo, fino a determinare i valori, — quello che ha trovato nella morale cristiana i suoi strumenti di potere. E in effetti questa è la mia opinione: i maestri, le guide dell’umanità, i teologi tutti, sono stati anche tutti quanti décadents: perciò la trasvalutazione di tutti i valori nel senso di un’ostilità alla vita, perciò la morale... Definizione della morale: morale — idiosincrasia di décadents, con il secondo fine di vendicarsi della vita — e con successo. Attribuisco un valore a questa definizione.
 
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Sono stato compreso? — Non ho detto una sola parola che non avessi detto già cinque anni fa attraverso le parole di Zarathustra. — La scoperta della morale cristiana è un avvenimento che non ha pari, una vera catastrofe. Chi fa luce su di essa è una force majeure, un destino, — rompe in due tronconi la storia dell’umanità. Si vive prima e dopo di esso... La folgore della verità ha colpito proprio ciò che fino ad ora stava più in alto: chi comprende che cosa è stato distrutto, può guardare se gli resta ancora qualcosa tra le mani. Tutto ciò che finora si è chiamato «verità», è stato riconosciuto come la forma più dannosa, più maligna, più sotterranea della menzogna; il santo pretesto di «rendere migliore» l’umanità come astuzia per succhiare la vita stessa, toglierle il sangue. Morale come vampirismo... Chi scopre la morale ha scoperto con ciò il non valore di tutti i valori ai quali si crede о si è creduto; nei tipi umani più venerati e addirittura santi non vede più nulla di degno di stima, vedo la più infausta specie di mostri, infausta, perché affascina... Il concetto di «Dio» inventato come contro concetto della vita, in esso è ricondotto ad un’orribile unità tutto quanto è dannoso, venefico, calunnioso, l’intera mortale ostilità alla vita! Il concetto di «al di là», di «mondo vero», inventati per togliere valore all’unico mondo esistente — per non lasciare alla nostra realtà terrena alcuno scopo, alcuna ragione, alcun compito! Il concetto di «anima», di «spirito», e infine anche di «anima immortale», inventati per disprezzare il corpo, per renderlo malato — «santo» — per opporre un’orribile leggerezza a tutte le cose che nella vita meritano serietà, ai problemi del nutrimento, dell’abitazione, della dieta spirituale, della cura delle malattie, della pulizia, del tempo atmosferico! Invece della salute, la «salvezza dell’anima», — cioè a dire una folie circulaire tra gli spasimi della penitenza e l’isteria della redenzione! Il concetto di «peccato», inventato assieme a tutti i relativi strumenti di tortura, al concetto di «libero arbitrio», per confondere gli istinti e fare della diffidenza contro gli istinti una seconda natura! Nel concetto dell’«o- blio di sé», del «rinnegamento di sé», che è il vero segno distintivo della décadence, l’essere sedotti da quanto è dannoso, il non-poter-più-trovare il proprio vantaggio, l’autodistruzione, fatti segno di valore in generale, del «dovere», della «sanità», del «divino» nell’uomo! Infine — è la cosa più orribile — nel concetto dell’uomo buono si è preso partito per tutto ciò che è debole, malato, malriuscito, sofferente, di tutto ciò che è destinato ad andare in rovina —, la legge della selezione è invertita, si è trovato un ideale nel contrario di un uomo fiero e compiuto, che dice di sì, che è conscio del futuro, — che garantisce il futuro, — d’ora in avanti questi è chiamato ilcattivo... E tutto ciò è stato ritenuto moralel — écrasez l’infàme!
 
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Sono stato compreso? — Dioniso contro il Crocifisso...
 

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