La nascita della tragedia |
Federico Nietzsche |
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La nascita della tragedia |
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PREFAZIONE A RICCARDO WAGNER |
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La nascita della tragedia |
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Quale si sia il primo germe di questo libro disputabile, dev’essere stato senza dubbio un problema di grande importanza e di grande attrattiva, e, inoltre, un problema profondamente personale: ne son testimonio i tempi in cui sorse e nonostante i quali sorse, gli agitati tempi della guerra del 1870-71. Mentre il tuono della battaglia di Wörth rimbombava lontano in Europa, il sottile cavillator di enimmi, cui si deve in parte la paternità di questo libro, fantasticava in un angolo delle Alpi, assai intrigato tra cavilli ed enimmi, e perciò molto travagliato e, insieme, racquieto. Stese allora alla meglio i suoi pensieri sui greci. che fanno il nucleo di questo volume bizzarro e poco accessibile, a cui va ora dedicata la presente tardiva prefazione (o conclusione). Corsero alcune settimane, e si trovò anch’esso sotto Metz, senza essersi ancora distrigato dallo spinoso questionario in cui si era impigliato a proposito della pretesa «serenità» dei greci e dell’arte greca; quando alla fine, in quello stesso mese di profonda sospensione in cui fu trattata la pace a Versailles, venne anch’egli in pace con sé medesimo, e, guarendo a mano a mano a casa di un’infermità presa al campo, fini col persuadersi affatto, che «la tragedia è nata dallo spirito della musica». Dallo spirito della musica? Musica e tragedia? I greci e la tragedia musicale? I greci e il capolavoro del pessimismo? La più sensata, la più bella, la più giustamente invidiata, la meglio iniziata alla vita tra le umane genti finora, la gente greca, come? proprio essa aveva bisogno della tragedia? peggio, dell’arte? E perché? Arte greca?... Per questa via s’indovina il punto a cui mena il grande quesito sul valore dell’esistenza. È proprio vero che il pessimismo sia necessariamente il segno della decadenza, della dissoluzione, del fallimento della vita, della stanchezza e del rilassamento degl’istinti? Tal quale fu presso gl’indiani e quale, stando a tutte le apparenze, si manifesta presso di noi, «moderni» ed europei? Esiste forse un pessimismo della forza? Una propensione intellettuale alla durezza, all’orrore, alla cattiveria, al problematico dell’essere, per eccesso di benessere, per rigoglio di sanità, per pienezza di esistenza? Esiste forse una sofferenza nella stessa esuberanza? Esiste forse una demoniaca bravura dallo sguardo inarrestabile, la quale anela al terribile come al nemico, al nemico degno con cui cimentare la propria gagliardia? da cui vuol imparare che cosa sia l’«aver paura»? Che cosa significa il mito tragico proprio presso i greci della migliore, della più vigorosa, della più valorosa età? E il mostruoso fenomeno del senso dionisiaco? Che significa la tragedia, che di quello è figlia? D’altra parte, ciò che uccise la tragedia, ossia il socratismo della morale, la dialettica, il tenersi contento e la serenità dell’uomo teorico; ebbene, per l’appunto cotesto socratismo non potrebbe essere proprio desso il sintomo del tramonto, della lassitudine, del morbo, della dissoluzione anarchica degl’istinti? E la «serenità greca» dell’ellenismo posteriore non potrebbe essere proprio essa non più che la porpora dell’occaso? Né la volontà epicurea contro il pessimismo essere altro che il rimedio preventivo del paziente? E la scienza stessa, la nostra scienza, ma sì, che cosa vuol dire in sostanza, considerandola come sintomo della vita, tutta la scienza? A che, peggio, donde tutta la scienza? Come? Il senso scientifico non è forse altro che un puro senso di paura, un sotterfugio davanti al pessimismo? Un sottile espediente di tutela personale contro, sì, contro la verità? Vale a dire, parlando secondo la morale, qualcosa come la codardia e la falsità? Parlando immoralmente, una furberia? O Socrate, Socrate, fu questo, forse, il tuo segreto? O tu, ironico misterioso, fu questa, forse, la tua ironia? |
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Ciò che allora mi venne fatto di afferrare, qualcosa di formidabile e di pericoloso, era un problema cornuto, non di necessità addirittura un toro, ma sempre, a ogni modo, un problema nuovo; e oggi sto per dire che era per l’appunto il problema della scienza: della scienza intesa per la prima volta come un fatto problematico, un fatto discutibile. Solo che il volume, nel quale si effondevano la baldanza e l’ombrosità della mia gioventù, qual libro lunatico si sarebbe rivelato, venuto fuori come era da un tema tanto ostico alla giovinezza! Costrutto di esperienze personali della vita manifestamente precoci e troppo verdi, le quali tutte giacevano rigide sulla soglia della comunicativa; collocato sul terreno dell’arte, giacché il problema della scienza non è comprensibile sul terreno della scienza, era forse un libro per artisti dotati di attitudini analitiche e retrospettive (vale a dire una specie di eccezione di artisti, di cui si va in cerca e non si trovano mai), un libro pieno d’innovazioni psicologiche e d’intime singolarità d’artisti, con sullo sfondo una metafisica da artisti; un’opera giovanile riboccante di giovanile ardimento e di giovanile malinconia: indipendente, baldamente libero e franco anche dove sembra inchinarsi a un’autorità e a una sua particolare devozione: l’opera, in una parola, di un novellino, anche in tutti i sensi non buoni dell’espressione, opera, ad onta del suo solenne e canuto problema, fitta di tutti gli errori della giovinezza, specialmente l’esser «troppo lunga» e lo spirito di Sturm and Drang: d’altronde, considerato il successo che ebbe (particolarmente presso il grande artista Riccardo Wagner, al quale si rivolgeva come a colloquio) un autentico libro, se è vero, come credo, che rispose alle esigenze dei «migliori dei suoi tempi». Per ciò solo inerita che sia considerato con riguardo e discrezione: nulladimeno non mi è dato interamente celare, quanto esso oggi mi appaia poco attrattivo, come mi sembri a me estraneo ora che lo rivedo dopo sedici anni, ora che ricompare davanti ai miei occhi fatti più vecchi, cento volte più sciupati, ma non per questo divenuti affatto più freddi; i quali anzi non sono divenuti punto stranieri al cómpito, a cui questo libro audace si arrischiò la prima volta: quello di considerare la scienza alla visione dell’artista, l’arte alla visione della vita. |
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Lo ripeto, oggi mi sembra un libro intollerabile: vale a dire scritto male, pesante, tormentoso, fantasticante e fantasmagorico, sentimentale, qua e là sdolcinato fino al femmineo, diseguale nell’andamento, insofferente di ordine logico, troppo compenetrato della sua idea e perciò noncurante di dimostrazione, diffidente anzi della convenienza della dimostrazione, un libro per gl’iniziati, quasi una musica per quelli che, battezzati alla musica, sono legati dal principio delle cose in poi a comuni e peregrine esperienze artistiche; quasi un segno di riconoscimento pei fratelli in artibus: un libro orgoglioso ed entusiastico che dal bel principio si tien lontano dalle « persone colte » anche più che dal « volgo »; ma che pure, come dimostrò e dimostra il suo successo, conosce abbastanza il segreto di cattivarsi i suoi fanatici, e di attrarli sulle sue scorciatoie e i suoi prati danzanti. Comunque (e se ne convenne con altrettanta curiosità che antipatia), parlava qui una voce estranea, il diletto di un « dio ignoto » ancora, il quale frattanto si celava sotto il berrettone del dotto, sotto la gravità e la disamenità dialettica del tedesco, perfino sotto la sgraziataggine del wagneriano: vi era un’anima agitata da esigenze strane, tuttora inesprimibili, una mente sforzata da quesiti, esperienze, segreti, su cui era scritto il nome di Dioniso più come un enimma che come una cognizione: qui parlava, come si veniva susurrando con sospetto, qualcosa come un’anima mistica e quasi di menade, che con stento, e pure spontaneamente, quasi titubando se effondersi o occultarsi, ciancicava, per così dire, in una gorgia forestiera. Avrebbe dovuto cantare quest’«anima nuova», non già parlare! Peccato, che io ciò che allora avevo da dire, non abbia osato dirlo da poeta: ché, forse, lo avrei potuto! O da filologo, almeno: infatti tuttora oggigiorno in questo campo rimane ancora ai filologi presso che tutto da scoprire e disseppellire! Anzitutto il problema, poiché qui di un problema si tratta, che i greci, fin quando non daremo risposta alla domanda « che cosa s’intende per senso dionisiaco? » rimarranno sempre tali per noi che, come per l’innanzi, non potremo affatto né capirli né raffigurarceli. |
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Che cosa s’intende per dionisiaco? Una risposta è nel presente volume: ne discorre un « sapiente », l’iniziato e l’eletto del suo dio. Oggi forse io parlerei con più prudenza e meno facondia di una questione psicologica così grave, come è quella della origine della tragedia presso i greci. Il problema fondamentale è il rapporto del greco col dolore, il suo grado di sensibilità: rapporto che permase eguale, oppure venne trasformandosi? il problema, se in realtà la sua aspirazione sempre più forte alla bellezza, alle feste, ai divertimenti, ai nuovi culti non è nata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia, dall’afflizione? Posto che proprio cotesto sia il vero, e Pericle (o Tucidide) ce lo fa capire nel suo grande epicedio; donde sarebbe de- derivata l’aspirazione opposta, manifestatasi in un tempo anteriore, l’aspirazione al ripugnante, la schietta e austera attitudine degli antichi elleni al pessimismo, al mito tragico, all’immagine di tutto ciò che è terribile, cattivo, enimmatico, annientante, fatale, che si cela in fondo all’esistenza; donde sarebbe nata la tragedia? Forse dal piacere, dalla forza, dalla sovrabbondanza della salute, dalla pletora della pienezza? E allora quale significato ha, contemplato sotto l’aspetto fisiologico, quel fantasticamento di cui si alimentò sia l’arte tragica che la comica, quel farneticamento che è la follia dionisiaca? Come? Forse che il delirio non è necessariamente il sintomo della degenerazione, della corruttela, della civiltà troppo vecchia? Vi sono forse, ed è questione da porsi agli alienisti, le neurosi della sanità? della giovinezza e dell’adolescenza dei popoli? Che cosa dice la sintesi di un dio e di un caprone nel satiro? Da quale sperimento di travaglio e per quale estro il greco poté figurarsi in sembiante di satiro il fanatico dionisiaco e l’uomo delle origini? E, quanto alla nascita del coro tragico, balzò fuori forse nei secoli in cui il corpo greco veniva sbocciando come un fiore, l’anima greca spumeggiava di bollor di vita e forse di ebbrezze collettive? Visioni ed allucinazioni, che si propagavano a tutte le comunità, a tutte le adunanze del culto? Come? i greci dunque avevano la voglia del tragico ed erano pessimisti proprio nel possesso opulento della loro giovinezza? quello che sparse, per servirci di una parola di Platone, i massimi benefizi sull’Ellade fu per l’appunto la fantasia in delirio? D’altra parte i greci, per contrario, diventarono dunque sempre più ottimisti, superficiali, teatrali, sempre più golosi di logica e di logicizzazione del mondo, e perciò più «sereni» e «scientifici», precisamente nei tempi della loro dissoluzione e fiacchezza? Come? in onta a tutte le «idee moderne» e ai pregiudizi del gusto democratico, la vittoria dell’ottimismo, la prevalenza del razionalismo, l’utilitarismo pratico e teorico, perfino la stessa democrazia loro contemporanea, sarebbero forse niente altro che un sintomo del declino della forza, dell’imminenza della vecchiaia, dell’indebolimento fisiologico? E non lo è, proprio no, il pessimismo? Fu Epicuro un ottimista, precisamente nel senso di un uomo che soffriva? Come si vede, è questo tutto un groviglio di gravi questioni di cui cotesto libro è irto: aggiungiamovi dunque anche un altro problema, il più scabroso! Guardata sotto l’aspetto della vita, che cosa significa la morale? |
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Nella prefazione a Riccardo Wagner già era presentata l’arte, e non la morale, come l’attività metafisica propria dell’uomo; e anche nel libro ricorre sovente la caustica tesi, che l’esistenza del mondo non si giustifica altrimenti che come fenomeno estetico. Col fatto, l'intero libro riconosce unicamente un intendimento e un sottinteso artistico in tutto il creato: un dio, se così piace dire, ma certamente un dio artista affatto istintivo e amorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, intende di uniformarsi al suo proprio benpiacere e alla propria gloria di dominio, e che, creando il mondo, si spaccia dalle pastoie della pienezza e dell’esuberanza e dalla pena delle contraddizioni che in quello si ammatassano. Il mondo, concepito come la liberazione di un dio raggiunta a ogni istante, come visione eternamente cangiante, eternamente nuova del massimo soffrire, della massima opposizione, della massima contraddizione, che è capace di redimersi solamente nell’apparenza della realtà: è questa un’intera metafisica da artista, che può definirsi arbitraria, oziosa, fantastica; ma in essa l’essenziale è, che già prenunzia una mente, che un giorno si porrà allo sbaraglio contro l’interpretazione e significazione morale dell’esistenza. Vi si annunzia, forse per la prima volta, un pessimismo «di là dal bene e dal male», e vi trova il suo verbo e la sua formola quella «perversità del sentimento», contro la quale lo Schopenhauer non si è stancato di avventare anticipatamente le sue più furibonde imprecazioni e le sue folgori: una filosofia che osa, nientemeno, di collocare la stessa morale nel mondo fenomenico, di degradarla, e non solamente di classificarla tra i «fenomeni» (nel senso del terminus technicus idealistico), ma addirittura tra le «illusioni», come apparenza, fantasia, errore, interpretazione, accomodamento, arte. Forse la profondità di cotesta inclinazione antimorale può nel modo migliore misurarsi dal silenzio circospetto e ostile, con cui in tutto il libro viene contemplato il cristianesimo: il cristianesimo, quale la più traviata configurazione del tema morale, che all’umanità sia finora toccato di ascoltare. In verità, di fronte all’interpretazione e giustificazione puramente estetica del mondo, quale è insegnata in questo libro, non s’incontra una opposizione più recisa della dottrina cristiana, che è e vuol essere unicamente morale nei suoi assiomi, e, principiando, per esempio, dalla sua indiscutibile veracità di Dio, rigetta l’arte, tutta l’arte, nel regno della menzogna, vale a dire la annichila, la condanna, la danna. Dietro un siffatto criterio di raziocinazione e di valutazione che, fintanto che la dottrina cristiana si serba schietta, dev’essere nemico dell’arte, io fin da allora avvertii che è anche nemico della vita, avvertii la sua rabbiosa e vendicativa avversione alla stessa vita; giacché tutta la vita è fondata sull’apparenza, l’arte, l’illusione, la visione, sulla necessità del prospettico e dell’erroneo. Fin dal principio il cristianesimo fu essenzialmente e fondamentalmente fastidio e disgusto della vita per la vita, i quali a stento riuscivano ad ammantarsi, a celarsi, a imbellettarsi con la fede in un «altro mondo », in un « mondo migliore » [1] L’odio al « secolo », la maledizione agli affetti, l’orrore davanti alla bellezza e al senso, il cercare un « di là » per meglio denigrare il « di qua », che era in fondo un’aspirazione al nulla, alla fine, al riposo, insomma il «sabato dei sabati», tutto ciò, come pure l’assoluta volontà del cristianesimo di lasciare in piedi solamente i valori morali, mi è sempre apparso come la più pericolosa e sinistra forma tra tutte le possibili forme di una « volontà di distruzione », per lo meno come un segno della più profonda morbosità, stanchezza, abbattimento, estenuazione, immiserimento della vita. E questo, perché infatti davanti alla morale (particolarmente davanti alla cristiana, cioè la morale assoluta) la vita deve costantemente e inevitabilmente ricevere torto, essendo essa, la vita, qualcosa di essenzialmente amorale; la vita, insomma, deve essere compressa dal peso del disprezzo e dell’eterno Nulla, come indegna di desiderio, come immeritevole di essere sentita e goduta per sé. La stessa morale, come? la morale non sarebbe forse una « volontà di annientamento della vita », un segreto istinto di annullamento, un principio di corrompimento e menomamento e vilipendio, un principio della fine? E, per conseguenza, non sarebbe il pericolo dei pericoli? Il mio istinto, dunque, con questo libro discutibile si volse allora contro la morale, come istinto assertore della vita, e rinvenne una dottrina sistematicamente contrapposta, un’opposta valutazione della vita, una dottrina puramente artistica e anticristiana. Come chiamarla? Come filologo e conoscitore dell’elocuzione, io, non senza qualche libertà, giacché chi mai accetterebbe e capirebbe il vero nome di anticristiano? la battezzai col nome di un dio greco e la denominai dionisiaca. |
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6. |
Si comprende ora quale fu il cómpito che già in questo libro io mi arrisicai ad imprendere? Come lamento, adesso, di non aver avuto allora il coraggio (o la baldanza?) di permettermi in ogni riguardo anche un linguaggio mio personale per queste intuizioni e questi ardimenti tanto personali! di aver faticosamente cercato di esprimere con formole schopenhaueriane e kantiane le strane e nuove valutazioni, che contrastavano dal fondo allo spirito di Kant e di Schopenhauer, altrettanto che al loro gusto! Invero, che cosa pensava lo Schopenhauer della tragedia? «Ciò che conferisce al senso tragico il suo particolare impulso all’elevazione,» egli afferma (II mondo come volontà e rappresentazione, II, 495) «è l’acquisto della persuasione, che il mondo, che la vita non possa dare nessuna vera soddisfazione, e che perciò non meriti il nostro attaccamento: in ciò consiste lo spirito tragico, il quale conduce quindi alla rassegnazione». Oh, come diversamente parlò a me Dioniso! Oh, quanto era allora lungi da me proprio cotesto spirito di rassegnazione! Ma in questo libro, e devo lamentarlo anche più, vi è qualcosa di peggio, che l’aver offuscato e guasto con formole schopenhaueriane le precursioni dionisiache: vi è, soprattutto, che con l’intrusione di vedute modernissime io in sostanza deformai il grandioso problema greco, quale esso mi si era presentato alla mente! Che concepii speranze dove nulla era a sperare, dove tutto anche troppo chiaramente accennava alla fine! Che, fondandomi sull’ultima manifestazione della musica tedesca, principiai a favoleggiare dell’ « anima tedesca », come se questa fosse in procinto di scoprirsi e di ritrovarsi; e ciò in un tempo, in cui lo spirito tedesco, che poco dianzi aveva mostrato la volontà di dominare l’Europa e la forza di conquistare l’egemonia sull’Europa, all’ultimo andava volontariamente e legittimamente a finire in una rinunzia, e, sotto il pomposo pretesto della fondazione dell’Impero, compiva la propria conversione all’accomodante mediocrità, alla democrazia e alle «idee moderne»! Col fatto, io frattanto imparai a sciogliermi la mente da ogni speranza e riguardo verso cotesta « anima tedesca », del pari che verso la presente musica tedesca, come quella che va sempre più rivelandosi come romantica, come la meno greca di tutte le possibili forme di arte: per giunta, è una logoratrice di nervi di prima forza, e doppiamente pericolosa a un popolo che ama il bicchiere e venera l’oscurità come una virtù; vale a dire, è pericolosa nella sua duplice proprietà di narcotico ubbriacante e, insieme, offuscante. Ma, lasciando da parte tutte le speranze affrettate e le fallaci applicazioni alle esigenze del momento, con cui allora rovinai il mio primo libro, rimane sempre più intatto, quale io allora lo posi, il grande problema dionisiaco anche rispetto alla musica: in che modo dovrebbe essere conformata una musica, la quale non fosse più di origine romantica come la tedesca, sibbene di origine dionisiaca? |
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7. |
Ma, signor mio, che cosa mai è romantico a questo mondo, se il vostro libro non è romantico? L’odio profondo al « tempo d’oggi », alla « realtà » e alle « idee moderne » può forse essere spinto più oltre, che non sia nella vostra metafisica da artista? la quale crede più volentieri al Nulla, più volentieri al diavolo, che non all’« oggi »? Forse che sotto tutta la vostra arte degli accordi contrappuntistici e la vostra ammaliazione degli orecchi, non brontola come nota fondamentale del basso la collera e il gusto di annientamento, una furiosa risolutezza contro tutto ciò che è « oggi », una volontà che non è affatto troppo lontana dal nichilismo pratico e che sembra dire: « è meglio che sia vero il Nulla, piuttosto che voialtri abbiate ragione, piuttosto che la vostra verità vinca! »? Tendete gli orecchi, signor pessimista e deificatore dell’arte, a una sola voce scelta dal vostro libro, in quel luogo abbastanza eloquente dell’uccisor di draghi, che all’udito e al cuore dei giovani deve suonare insidioso e trappolante: come? Non è cotesta la schietta spiccicata profession di fede romantica del 1830 sotto la maschera del pessimismo del 1850? non preludia sotto di quella il solito finale romantico, caduta, rovinio, ritorno e genuflessione all’antica fede, ai piedi dell’antico Iddio? Come? il vostro libro pessimista non è forse esso stesso un esemplare di anti-ellenismo e di romantica, esso stesso qualcosa di « altrettanto ubbriacante che offuscante », comunque, un narcotico, anzi un esemplare di musica e di musica tedesca? Ma si ascolti: «Figuriamoci una generazione venuta su con questa intrepidità di sguardo, con questo impeto eroico pel prodigioso: figuriamoci il passo ardimentoso di questi uccisori di draghi, la superba temerità con cui voltano le spalle a tutte le pusillanimità dottrinali dell’ottimismo, per « vivere risolutamente » in tutto e per tutto: non sarebbe necessario, che l’uomo tragico di siffatta cultura, per la sua propria educazione alla fortezza e al terribile, domandasse un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica, la tragedia, come l’Elena a lui dovuta, ed esclamasse come Faust: E non dovrei io, la più anelante delle potenze, Condurre alla vita la più sublime delle apparizioni?» «Non sarebbe necessario?». No, tre volte no, o giovani romantici: non è affatto necessario! È invece molto verosimile che la vada a finire, che voi andiate a finire così come è scritto, cioè « consolati », ad onta di tutta la vostra iniziazione alla fortezza e al terribile; « consolati metafisicamente », vale a dire, finiate, come finiscono tutti i romantici, nel bacio del cristianesimo. No! Voi dovreste prima imparare l’arte della consolazione del di qua; dovreste imparare a ridere, o miei giovani amici, se, comunque, volete serbarvi affatto pessimisti; e forse allora, ridendo, manderete una volta al diavolo la consolazione metafisica e con essa la metafisica! O, per dirla con le parole di quello stregone dionisiaco che si chiama Zarathustra: «In alto i cuori, o fratelli, alzateli in alto, sempre più in alto! E non vi scordate le gambe! Alzate anche le vostre gambe, o voi buoni danzatori, e alzatele sempre meglio; anzi piantatevi addirittura sulla testa! Questa corona del riso, questa corona inghirlandata di rose, io stesso me la son messa in capo, io stesso ho dichiarata santa la mia risata. Io oggigiorno non ho trovato nessun altro abbastanza eroico a tal cómpito. Zarathustra il danzatore, Zarathustra il leggero, che fa cenno con le ali, maestro di volo, che dà il segno a tutti gli uccelli, presto e destro, beato volatico: Zarathustra il veridico, Zarathustra dal vero riso, niente affatto insofferente, niente affatto assoluto; uno che ama i salti e gli scansi: io stesso mi sono incoronato con questa corona! Questa corona dell’uomo che ride, questa corona inghirlandata di rose: a voi, o fratelli, io gitto questa corona! Io ho detto santo il riso: voi, uomini superiori, imparate da me a ridere!». (Così parlò Zarathustra, VI, 428-430). Sils-Maria, Alta Engadina, agosto 1886. |
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PREFAZIONE A RICCARDO WAGNER |
Per distogliere la mente dal pensiero degli scrupoli, delle irritazioni, dei malintesi che le idee raccolte in questo lavoro certamente non mancheranno di risvegliare a cagion medesima del peculiare carattere delle opinioni estetiche correnti, e anche per segnare queste parole d’introduzione con l’animo aperto allo stesso rapimento contemplativo, di cui coteste idee portano il vestigio in ogni pagina come un segno d’incarnazione delle buone ore elevatrici, io mi fo con la fantasia, mio rispettabile amico, al momento in cui Ella riceverà questo volume. Me La figuro, di ritorno da un giro notturno sulla neve invernale, dare un’occhiata sulla copertina al Prometeo liberato, leggere il mio nome, e subito indursi a ritenere che, quale si sia il contenuto del lavoro, l’autore ha avuto da dire qualcosa di serio e di compenetrante, e che, insieme, dibattendo con Lei, come se fosse stato presente, tutto ciò che veniva meditando, non ha potuto stendere nulla che a tale presenza non rispondesse. Ella si ricorderà che io mi raccolsi in questi pensieri nello stesso torno di tempo in cui apparve la Sua magnifica commemorazione di Beethoven, vale a dire durante lo sgomento e l’esaltazione della guerra allora scoppiata. Sbaglierebbero però molto coloro, i quali immaginassero in quel mio raccoglimento il contrasto tra l’eccitazione patriottica e l’ebbrezza estetica, tra la prodezza conscia e la serena contemplazione. Anzi, se leggeranno con cura questo volume, tanto più stupiranno di veder chiara la gravità del problema che trattiamo, e che deve essere veramente piantato da noi, come nodo e cardine, al centro delle speranze tedesche. Solo che proprio a loro tornerà come indecoroso il veder preso tanto sul serio un problema estetico, ove non siano in grado di riconoscere nell'arte nulla più che un piacevole superfluo, che un tintinnio di sonagli anche troppo futile per la « serietà dell’esistenza »: quasi che poi nessuno sapesse in che cosa consista cotesta contrapposizione della « serietà dell’esistenza ». A siffatti seriosi uomini valga di ammaestramento, che io considero l’arte come il cómpito supremo e come l’attività metafisica propria della nostra vita, secondo il pensiero dell’uomo, al quale intendo dedicata quest’opera come al mio insigne precursore sul campo di lotta. Basilea, sulla fine del 1871. |
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Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti non solo al concetto logico, ma anche all’immediata certezza dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla dualità dei sessi in continua contesa tra loro e in riconciliazione meramente periodica. Questi vocaboli li prendiamo a prestito dai greci, i quali fanno accessibile all’intelligenza la profonda scienza occulta della loro concezione artistica non già per mezzo delle idee, bensì per mezzo delle immagini incisivamente nette del loro Olimpo. Sulle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, è fondata la nostra teoria, che nel mondo greco esiste un enorme contrasto, enorme per l’origine e pel fine, tra l’arte figurativa, quella di Apollo, e l’arte non figurativa della musica, che è propriamente quella di Dioniso. I due istinti, tanto diversi tra loro, vanno l’uno accanto all’altro, per lo più in aperta discordia, ma pure eccitandosi reciprocamente a nuovi parti sempre più gagliardi, al fine di trasmettere e perpetuare lo spirito di quel contrasto, che la comune parola di « arte » risolve solo in apparenza; fino a quando, in virtù di un miracolo metafisico della « volontà » ellenica, compaiono in ultimo accoppiati l’uno con l’altro, e in questo accoppiamento finale generano l’opera d’arte, altrettanto dionisiaca che apollinea, che è la tragedia attica. Se vogliamo intendere meglio questi due istinti, immaginiamoli innanzi tutto come i due mondi artistici distinti del sogno e dell’ebbrezza: tra i loro rispettivi fenomeni psicologici corre lo stesso divario che, come si rileva, intercede tra l’apollineo e il dionisiaco. Nel sogno, secondo il pensiero di Lucrezio, apparvero la prima volta alle anime umane le sovrane immagini degli dèi, nel sogno il grande artista figuratore vide le forme affascinanti di esseri sovrumani; e il poeta ellenico, domandato del segreto della creazione poetica, si sarebbe anch’esso ricordato del sogno e avrebbe risposto con lo stesso ammaestramento, che ha dato Hans Sachs nei Maestri Cantori: Amico, l’opera del poeta è appunto questa, Che egli interpreti e fissi il suo sognare. Credete a me: l’illusione più vera dell’uomo Gli viene rivelata nel sogno: Tutta l’arte e la poesia Altro non è che rivelazione della verità nel sogno. La bella apparizione dei mondi del sogno, nella cui creazione ogni uomo è perfetto artista, è il presupposto di ogni arte figurativa, e anzi, come vedremo, di una buona metà della poesia. Noi godiamo in modo immediato la comprensione dell’immagine, tutte le forme ci parlano, senza nulla d’indifferente o di non necessario. Nulladimeno, anche nella massima intensità di vita di questa realtà di sogno, noi serbiamo la sensazione che essa è un’apparenza: almeno tale è la mia esperienza, sulla cui generalità, anzi normalità, potrei addurre non poche testimonianze, e le stesse impressioni dei poeti. Di più, l’uomo filosofico ha il presentimento, che anche dietro la realtà nella quale viviamo e siamo, se ne nasconda un’altra, in modo che anche questa nostra realtà sia quindi un’apparenza; e Schopenhauer indica addirittura come contrassegno del talento filosofico il dono che altri abbia di vedere in certi momenti gli uomini e tutte le cose come puri fantasmi o ombre di sogno. Come il filosofo con la realtà dell’esistenza, così l’uomo artisticamente sensibile si comporta con la realtà del sogno: la contempla con diligenza e con soddisfazione; perché dalle immagini del sogno impara a spiegarsi la vita, e su queste esperienze si esercita per la vita. E non sono solamente le immagini amene e amiche quelle che egli apprende in sé stesse con piena lucidità di apprensiva: davanti a lui passa anche l’austero, il cupo, il luttuoso, il sinistro, e le brusche fermate, e le angherie del caso, e le aspettazioni angosciose, insomma tutta quanta la Divina Commedia della vita col suo inferno; e non passa meramente come la processione di una lanterna magica; ché egli vive queste scene e soffre insieme coi loro fantasmi, sebbene non smarrisca interamente la fuggevole sensazione della loro apparenza; anzi molti forse, come me, si ricordano, che tra i pericoli e lo spavento del sogno gridarono, riprendendo intanto animo e con effetto immediato: «È un sogno! Voglio sognarlo ancora!» Similmente, mi è stato raccontato di gente, che avevano la facoltà di prolungare l’incentivo e la ripetizione dello stesso sogno per tre e più notti successive: fatti, i quali chiaramente attestano, che la nostra intima natura, la sostanza a noi tutti comune sperimenta nel sogno per sé stesso un profondo piacere e una dolce necessità. Questa dolce necessità dell’imparare dal sogno, i greci l’hanno configurata nel loro Apollo: Apollo, dio di tutte le facoltà figurative, è, insieme, il dio profetico. Esso che, secondo la radice del nome, è il «risplendente», la divinità della luce, è anche il patrono del bello splendore dell’intimo mondo della fantasia. La più alta verità, la compiutezza di questo dominio all’incontro della comune realtà intelligibile solo moncamente, del pari che la profonda coscienza che la natura risana ed aiuta durante il sonno e il sogno, formano il riscontro simbolico della facoltà profetica e in generale delle arti, in virtù delle quali la vita diviene comportabile e meritevole di esser vissuta. Ma nemmeno nella figurazione di Apollo deve mancare quella tenera ombreggiatura, che l’immagine sognata non può oltrepassare senza avere effetto patologico; altrimenti l’apparenza c’ingannerebbe come una realtà grossolana: dico quel senso adeguato del limite, quell’immunità dalle commozioni sfrenate, quella sapiente pacatezza del dio delle forme. L’occhio di lui, conformemente all’origine, dev’essere «sereno come il sole»; anche quando si adira e guarda accipigliato, splende intorno a lui la santità del bel sembiante. Perciò in un senso analogico potrebbe ripetersi di Apollo ciò che lo Schopenhauer dice dell’uomo preso nel velo di Maia (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, S. 146): «Come sul mare in tempesta che, senza confini da nessuna parte, solleva ululando e sprofonda montagne d’acqua, il marinaio se ne sta nel suo battello, e confida nel fragile schifo che lo porta, così sta tranquillo in mezzo ad un mondo di dolore e tormento l’uomo singolo, fondando e fidando sul principium individuationis». Certo, bisogna dire, che la fiducia imperturbabile in quel principium e la tranquillità di chi vi si fonda, hanno avuto in Apollo l’espressione sovrana; e anzi bisogna riconoscere il superbo prototipo divino del principium individuationis appunto in Apollo, di cui i gesti e gli sguardi ci comunicano tutto il piacere e la saggezza dell’«apparenza» in uno con la sua bellezza. Nello stesso luogo lo Schopenhauer ci ha descritto il mostruoso orrore da cui l’uomo è assalito, quando è staccato via di botto dalle abituali forme conoscitive del fenomeno, pel fatto che il principio di causa sembra che in taluna delle sue manifestazioni non si avveri, soffra eccezione. Se accanto a questo orrore poniamo il rapimento ardente, che per l’infrazione stessa del principium individuationis sale dal tondo intimo dell’uomo, anzi della natura, noi ci formiamo l’idea dell’essenza del dionisiaco, che ci è resa anche più accessibile mercè il paragone con la ebbrezza. Quei commovimenti dionisiaci, che sollevandosi sommergono in completo oblio il senso subiettivo, sorgono o per effetto delle bevande narcotiche, in virtù delle quali tutti gli uomini e i popoli primitivi parlano per inni, oppure per la potenza della primavera, il cui approssimarsi compenetra di allegrezza l’intera natura. Anche nel medio evo tedesco schiere sempre più fitte, prese dallo stesso ardore dionisiaco, si avvicendavano di borgo in borgo cantando e danzando: in cotesti danzatori di San Giovanni e di San Vito noi ritroviamo i cori bacchici dei greci, con le loro reminiscenze dell’Asia Minore, e perfino di Babilonia e delle feste orgiastiche sacee. Non mancano uomini che, imbaldanziti del senso della propria sanità, beffano o lamentano, per difetto di esperienza o per stupidità, siffatti fenomeni, considerandoli come «malattie popolari»: cotesti poveri di spirito non sospettano neppure fino a qual punto appare cadaverica e spettrale la loro «sanità», quando passa rombando vicino a loro il vampo di vita dei tripudiatori dionisiaci. Il fascino dionisiaco non ripristina solamente i vincoli tra uomo e uomo: anche la natura, straniata o ostica o soggiogata, celebra la festa di riconciliazione col suo figliuolo smarrito l’uomo. La terra gitta di buon grado i suoi doni, e le belve rapaci delle rupi e del deserti si avvicinano in pace. Il carro di Dioniso è coperto di fiori e ghirlande; la pantera e la tigre avanzano sotto il suo giogo. Si trasmuti il cantico dell’«allegrezza» di Beethoven in un quadro dipinto, e non si arresti il corso dell’immaginativa fino a quando milioni di esseri non cadano fremendo nella polvere, percossi dal prodigio: solo così possiamo appressarci a ciò che è l’amraaliazione dionisiaca. Ecco che lo schiavo è libero, ecco che tutti infrangono le rigide, nemiche barriere, che il bisogno, l’arbitrio o «la moda insolente» hanno piantato tra gli uomini. Ecco che nel vangelo dell’armonia universale ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma si sente fatto uno con lui, quasi che il velo di Maia fosse squarciato e svolazzasse non più che in brandelli davanti al mistero dell Uno primigenio Nel canto e nella danza l’uomo si palesa come componente di una comunità superiore, egli ha disimparato a camminare e a parlare, e danzando è in atto di volarsene via nell’aria. Nei suoi atteggiamenti parla la magia. E come frattanto gli animali ora parlano e la terra dà latte e miele, così anche da lui si propaga armoniosamente alcunché di soprannaturale: e e li si sente come un dio, ed ora egli stesso incede rapito e sublime, come vide in sogno incedere gli dèi. L’uomo non è più artista; è divenuto egli stesso l’opera d’arte: la potenza artistica di tutta la natura, a suprema beatificazione dell’Uno primigenio, si rivela ora nello stupore dell’ebbrezza. La creta più nobile, il marmo più prezioso vengono ora impastati e levigati: l’uomo: e ai colpi di subbia dell’artista dionisiaco costruttore di mondi risuona la voce dei misteri di Eleusi: «O milioni di esseri, voi vi prosternate? O mondo, presenti tu il creatore?». |
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2. |
Finora abbiamo considerato il senso apollineo e il suo opposto, il dionisiaco, come forze artistiche che scaturiscono dal seno stesso della natura, senza intervenzione dell’artista umano, e nelle quali gl’istinti artistici della natura medesima trovano il primo e diretto appagamento: prima come mondo figurativo del sogno, la cui compiutezza non ha alcun rapporto con l’altezza intellettuale o con l’educazione artistica del singolo; poi come realtà piena di ebbrezza, che neppure fa conto del singolo, ma anzi cerca di abnegare l’individuo e scioglierlo in un misticismo unitario. Davanti a tali stati artistici immediati della natura ogni artista è «imitatore»; vale a dire, o è artista apollineo del sogno, o artista dionisiaco dell’ebbrezza, o, infine, come per esempio nella tragedia greca, è artista del sogno insieme e dell’ebbrezza. Quest’ultimo ci è dato immaginarlo simile a un dipresso a colui che, caduto a terra durante l’ebbrezza dionisiaca e l’abnegazione mistica, rimane solo, appartato dai cori deliranti: in virtù del sogno apollineo, il suo proprio stato, vale a dire la sua unità con l’intima sostanza del mondo, ora gli si rivela in una visione allegorica di sogno. Con tali presupposti e tali premesse possiamo ora guardare più da vicino i greci, e riconoscere fino a qual grado e fino a quale altezza siano apparsi sviluppati in loro cotesti istinti artistici della natura: per tal modo ci metteremo in condizione d’intendere e di apprezzare più profondamente il rapporto in cui l’artista greco si trova coi suoi modelli, o, come Aristotele lo chiama, «l’imitazione della natura». Quanto ai sogni dei greci, nonostante tutta la loro letteratura sul sogno e i loro copiosi aneddoti sul sogno, è dato parlarne solo per congetture. Ma davanti alla virtù plastica incredibilmente precisa e sicura del loro occhio, in uno col loro sereno e composto godimento del colore, non è possibile trattenersi dal presumere, a scorno di tutti i posteri, che anche i loro sogni erano regolati da un’intima causalità logica di linee e di contorni, di colori e di aggruppamenti, e svolgevano una successione di scene arieggiante i loro migliori bassorilievi; la perfezione delle quali, se un paragone ci fosse consentito, certamente ci autorizzerebbe a rappresentarci i greci quando sognavano come altrettanti Omeri, ed Omero come un greco durante il sogno; e ciò in un senso più profondo, che se l’uomo moderno, davanti al suo sogno, osasse compararsi a Shakspeare. Per contro, non si è punto costretti a parlare solo per congetture, quando si tratta di scoprire l’abisso che separa i greci dionisiaci dai barbari dionisiaci. In tutti i confini del vecchio mondo, per tacere del nuovo, siamo al caso di documentare, da Roma a Babilonia, l’esistenza di feste dionisiache, il cui tipo, nel miglior caso, si ragguaglia al tipo delle greche, come il satiro barbuto, che ha preso dal caprone il nome e gli attributi, è ragguagliabile a Dioniso in persona. Quasi dovunque il nocciolo di tali feste consisteva in una enorme scostumatezza sessuale, le cui ondate sommergevano ogni sentimento della famiglia e le pudiche e sacre sue leggi: si scatenavano allora le più selvagge bestie della natura, fino a quell’orrendo miscuglio di lussuria e di atrocità, che a me è parso sempre come il vero e proprio «filtro delle streghe». Dai sommovimenti febbrili di quelle feste, il cui contagio li premeva da tutte le terre e da tutti i mari, sembra che i greci siano stati protetti e tutelati dall’immagine di Apollo, che si ergeva in mezzo a loro in tutto il suo orgoglio, e che non poteva alzare la testa di Medusa contro una potenza più pericolosa di questa potenza dionisiaca grottescamente informe. L’arte dorica è propriamente quella, in cui si è eternato cotesto atteggiamento maestosamente allontanativo di Apollo. Più scabrosa divenne questa resistenza, anzi impossibile, quando infine i consimili istinti si aprirono l’adito dalle più profonde radici del genio ellenico: allora l’opera del dio delfico si circoscrisse a strappar di mano al gagliardo avversario, con una conciliazione fatta a tempo, le armi della distruzione. Questa conciliazione è il momento più importante della storia del culto greco: le trasformazioni arrecate da tale evento sono visibili dovunque si guarda. Fu, quella, la riconciliazione di due avversari, fatta con la rigorosa determi, nazione dei rispettivi confini che da ora in poi bisognava osservare, e con lo scambio periodico di doni onorari; ma in ’fondo lo screzio non fu spianato. Se però guardiamo al modo come la potenza dionisiaca ebbe a palesarsi sotto l’influenza di quel patto pacifico, noi veniamo a riconoscere nelle orgie dionisiache dei greci, raffrontate con le sacee di Babilonia e con la connessa ricaduta dell’uomo a tigre e a scimmia, la significazione di feste di redenzione universale e di trasfigurazione. Per la prima volta in mezzo a loro la natura celebrò il suo giubilo artistico; per la prima volta in mezzo a loro l’infrazione del principium individuationis diventò un fenomeno artistico. Qui, tra i greci, queiresecrabile filtro delle streghe stillato dalla lussuria e dall’atrocità non aveva forza: lo ricorda unicamente, come i rimedi energici ricordano i veleni mortali, la meravigliosa mescolanza o duplicità di affetti del tripudiatore dionisiaco; lo ricorda solo lo strano fenomeno, che i dolori producono sensazioni di delizia, che il giubilo strappa al petto voci di angoscia. Dalla più alta allegrezza scoppia il grido del terrore o l’urlo di lamento e di ansia per una perdita irreparabile. In quelle feste greche emana per così dire uno sfogo sentimentale della natura, come se le cavasse gemiti e singhiozzi il proprio smembrarsi in altrettanti individui. Il canto e la mimica di cosiffatti convulsionari di gioia insieme e di spasimo, parvero qualcosa di nuovo e di inaudito al mondo greco-omerico: particolarmente la musica dionisiaca gli fece terrore e orrore. Se evidentemente la musica era già riconosciuta come un’arte apollinea, vuol dire che essa, esattamente intesa, non era tale se non come onda ritmica, la cui forza figurativa venisse svolta a produrre stati d’animo apollinei. La musica di Apollo era l’architettura dorica espressa in note, ma in note leggere e descrittive, quali sono proprie della cetra. L’elemento che in essa era evitato con cura, come non apollineo, era appunto quello che forma il carattere della musica dionisiaca e della musica in generale, vale a dire la vigoria scotente del suono, il torrente compatto della melodia e il mondo affatto impareggiabile dell’armonia. Nel ditirambo dionisiaco l’uomo viene eccitato alla più alta esaltazione di tutti i suoi talenti simbolici: qualcosa di non mai provato fa impeto per venir fuori, per trovare espressione; è la distruzione del velo di Maia, l’unità dell’essere come genio della generazione, della stessa natura. Qui l’essenza della natura deve esprimersi simbolicamente: è necessario un nuovo mondo di simboli, è necessaria l’intera simbolica del corpo, non già la mera simbolica della bocca, del viso, della parola, sibbene la piena mimica della danza, quella che move insieme ritmicamente tutte le membra. Allora di botto, impetuosamente, le altre forze simboliche, quelle della musica, si sviluppano in ritmica, in dinamica, in armonia. Per comprendere cotesto simultaneo sprigionamento di tutte le forze simboliche, bisogna che l’uomo sia già arrivato a quel fastigio dell abnegazione e oblio di sé stesso, che appunto in tali forze si esprime simbolicamente: e perciò il servente ditirambico di Dioniso non è compreso se non dal proprio simile e conservo! Con quale stupore dovè guardarlo il greco apollineo! Con uno stupore che era tanto più cupo, in quanto vi si mescolava l’orrore del presentimento, che pure tutto ciò in fondo non gli fosse interamente estraneo; che, purtroppo, la sua coscienza apollinea non fosse altro, in fondo, che un velo steso a celargli quel mondo dionisiaco. |
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Se tutto questo vogliamo ben capirlo, dobbiamo disfare a pietra a pietra, per così dire, l’edificio estetico della civiltà apollinea e arrivare alle fondamenta sulle quali è eretto. Vi troviamo in primo luogo le immagini sovrane degli dèi olimpici, che si ergono in cima all’edifizio, e le cui gesta adornano i suoi fregi in bassorilievi vistosi. Se anche Apollo è in mezzo a loro come una divinità in mezzo alle altre, senza pretendere al primo posto, questa eguaglianza di grado non deve trarci in inganno. Tutto quanto quel mondo olimpico è in genetale il prodotto del medesimo istinto che si è incarnato in Apollo; e in questo senso possiamo ben tenerne Apollo come padre. Quale fu il bisogno prodigioso, dal quale scaturì cotesto splendido gruppo di creature olimpiche? Chi si accosta a questi olimpici con un alti a religione nel cuore, e domanda loro altezza morale, anzi santità, domanda spiritualità incorporea, misericordiosa amorevolezza, fa presto a voltar loro le spalle, scorato e deluso. Nulla in loro sa di ascesi, di spiritualità, di moralità: presso di loro non altro ci parla, che una lussureggiante, una trionfale esistenza, nella quale ogni cosa è deificata, e non importa nulla se sia buona o cattiva. Perciò l’osservatore deve fermarsi davvero stupito davanti a una siffatta soverchianza fantastica della vita, per domandarsi qual filtro magico avevano in corpo cotesti baldanzosi uomini, da godere in tal modo la vita, che dovunque guardassero, vedevano lampeggiarsi davanti il sorriso di Elena, immagine Fdeale della loro esistenza, «librata nella soavità dell’apparenza sensibile». Ma a questo osservatore già volto a tornare indietro, bisogna gridare: «Non venir via, prima di porgere l’orecchio a ciò che la sapienza del popolo greco ti dichiara intorno a quella vita medesima, che ti si stende innanzi con una serenità tanto inesplicabile! Racconta la favola antica, che il re Mida inseguì a lungo nella selva il savio Sileno, il compagno di Dioniso, senza poterlo prendere. Quando finalmente gli cadde nelle mani, gli domandò il re quale fosse per gli uomini la cosa migliore e la più eccellente di tutte. Il demone taceva, rigido e immoto; finché, sforzato dal re, ruppe in un riso sibilante con queste parole. Stirpe misera e caduca, figlia del caso e dell’ansia, perché mi costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma, dopo questa impossibile, la cosa migliore per te, ecco, è morir subito». In che modo il mondo degli dèi olimpici si comporta davanti a cotesta sapienza popolare? Come la visione estetica del martire davanti ai suoi tormenti. Così il monte incantato dell’Olimpo si fende, per così dire, al nostro sguardo, e ci mostra le radici. Il greco sapeva e sentiva i terrori e gli orrori dell’esistenza: precisamente per trovare la forza di vivere fu indotto a porre davanti a sé la luminosa creazione del sogno olimpico. Quella mostruosa confidenza contro le forze titaniche della natura, quella Moira spietata intronizzata a dominare su ogni conoscenza, quell’avoltoio che rode Prometeo, il grande amico dell’uomo, quel tremendo destino del savio Edipo, quella stirpe maledetta degli Atridi il cui fato costringe Oreste al matricidio, in una parola, tutta quella filosofia del dio silvestre insieme coi suoi esempi mitici, filosofia esaurita a fondo dai malinconici etruschi, ebbene, fu di continuo risoprasalita dall’espediente del mondo degli Olimpici, e, a ogni modo, fu coperta di un velo e sottratta allo sguardo. Sforzati dalla stretta più cupa della necessità, i greci per poter vivere doverono creare questi dèi; e il loro avvento possiamo rappresentarcelo chiaro, come il passaggio che, sotto l’istinto della bellezza apollinea, si compie lentamente dall’originaria teogonia titanica del terrore alla teogonia olimpica della gioia, al modo stesso come sbocciano le rose da uno spineto. Altrimenti, come mai quel popolo tanto suscettibile nel sentire, aperto a desideri tanto impetuosi, unico nella capacità di soffrire, avrebbe potuto tollerare l’esistenza, se l’esistenza non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi, circonfusa di una gloria più alta? L’identico istinto che dà la vita all’arte, come a un complemento e completamento dell’esistenza che consiglia di continuare a vivere, diede anche origine al mondo olimpico, nel quale la «volontà» ellenica alzò davanti a sé stessa uno specchio trasfiguratore. Così gli dèi giustificano la vita umana, in quanto essi stessi vivono: ed è la sola teodicea che soddisfa! L’esistenza sotto il limpido splendore solare di tali dèi viene sentita come per sé stessa desiderabile, tanto che per gli uomini omerici il dolore vero e proprio non consisteva in altro che nel doversene separare, e, soprattutto, nel separarsene presto: in modo che di loro si può dire, invertendo il detto della saggezza silenica, che per essi «il primo dei peggiori mali è il morir presto, e il secondo è, comunque, il dover morire». Quando risuona un tal lamento, trova eco in Achille dalla vita breve, nel continuo trapasso del genere umano caduco e risorgente come le foglie del bosco, nel tramonto dei tempi eroici. Non è indegno del più grande degli eroi il desiderio di vivere ancora sulla terra, sia pure come un giornaliero. La «volontà» ispirata dal senso apollineo anela con tale brama a questa esistenza, l’uomo omerico si sente così unificato con essa, che perfino il lamento diviene il suo canto di gloria. Qui corre l’obbligo di dichiarare, che questa armonia guardata così nostalgicamente dagli uomini moderni, questa unificazione dell uomo con la natura, per cui Schiller ha dato valore all’accezione artistica dal vocabolo ingenuo, non è minimamente uno stato tanto semplice e ingenuo, nato per sé stesso e, per così (lire, inevitabile, che dobbiamo per forza incontrarlo sulla soglia di ogni civiltà, come un paradiso del genere umano: a una cosa simile poteva prestarsi fede solo in un tempo, in cui si cercava di figurarsi l’Emilio di Rousseau anche come artista, e si fantasticava di aver trovato appunto in Omero cotesto Emilio artista, educato nel seno della natura. Invece, quando in arte ci viene incontro l’ingenuo, dobbiamo riconoscere in esso il più alto effetto della cultura apollinea: la quale ha sempre il cómpito di principiare con l’abbattere un regno di titani e uccidere mostri, e con potenti figurazioni fantastiche ed illusioni ardenti deve uscire vittoriosa dal formidabile abisso della nozione del mondo, e dell’inclinazione al dolore spinta alla massima eccitabilità. Ma quanto di rado è raggiunto l’ingenuo, è raggiunta l’ingenuità, la completa immedesimazione nella bellezza dell’immagine! Come è perciò ineffabilmente sublime Omero, che unico si attiene a quella cultura popolare apollinea, unico artista del sogno, che esprime la potenza del sogno propria del popolo e in generale della natura! La «ingenuità» bisogna intenderla puramente come la completa vittoria dell’illusione apollinea: ed è una di quelle illusioni, di cui fa uso tanto frequente la natura, per raggiungere i propri fini. 11 vero scopo è nascosto dietro un’immagine illusoria: noi le tendiamo le mani, ed ecco che col nostro inganno la natura lo raggiunge. Nei greci la «volontà» volle contemplare sé stessa glorificata nella trasfigurazione del genio e del mondo dell’arte: per glorificarsi, bisognava che le stesse sue creature si sentissero degne di gloria, si rivedessero in una sfera più alta, senza che quel mondo perfetto dell’intuizione operasse sopra di loro come un imperativo o come un rimbrotto. Ed è questa la sfera della bellezza, in cui vedevano, come in uno specchio, le proprie immagini, gli dèi di Olimpo. Armata di cotesto specchio della bellezza, la «volontà» ellenica lottò contro il correlativo talento artistico del dolore e della saggezza del dolore: e come un monumento della sua vittoria si eleva davanti a noi Omero, l’artista ingenuo. |
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4. |
L’analogia del sogno ci offre abbastanza esplicazioni su questo artista ingenuo. Quando ci rappresentiamo l’uomo che sogna nell’atto che, immerso nel mondo illusorio del sogno e senza turbarlo, dice a sé stesso: «è un sogno; voglio sognare ancora», e dobbiamo quindi dedurne che quello delle immagini sognate è un profondo piacere intimo, e che, d’altra parte, per godere questo intimo diletto dello spettacolo sognato, bisogna che dimentichiamo completamente la vita quotidiana e le sue terribili urgenze; noi siamo spinti a interpretare tufti questi fenomeni, sotto la guida di Apollo onirocritico, nel seguente modo. Certo, delle due metà della vita, la desta e la sognante, la desia sembra a tutti incomparabilmente la più preferibile, più importante, più degna, più meritevole di esser vissuta, anzi come la sola vissuta; ebbene, ad onta di qualunque apparenza di venir fuori con un paradosso, io, appoggiandomi su quel misterioso fondo dell’essenza nostra della quale noi siamo niente altro che un fenomeno, vorrei per contro affermare, che il valore del sogno non è minore dell’altro. Vale a dire, quanto più io avverto nella natura quei potenti istinti artistici mossi da un’anelanza ardente alle apparenze immaginarie, alla redenzione per virtù del mondo della fantasia, tanto più mi sento confermato nell’idea metafìsica, che il vero ente, che l’uno primigenio, come eterno sofferente e pieno di contraddizioni, ha insiememente bisogno, per la sua continua liberazione, della visione affascinante, della gaudiosa apparenza. Apparenza che noi, completamente presi in lei e in niente altro consistenti che in lei, siamo costretti a sentire come il vero non essere, ossia come il continuo divenire nel tempo, nello spazio e nella causalità, o, in altre parole, come realtà empirica. Se dunque astraiamo per un istante dalla nostra propria «realtà» e intendiamo la nostra esistenza empirica, e il mondo in generale, come una rappresentazione prodotta ogni momento dall’uno primigenio, ecco che il sogno deve avere per noi il valore di un’apparenza dell’apparenza, di un fenomeno del fenomeno, e, insieme, il valore di un appagamento anche più alto, dato alla brama originaria dell’apparenza. Questa stessa è la ragione per che l’intima essenza della natura gode un piacere indescrivibile davanti all’artista ingenuo e all’opera d’arte ingenua, che è parimente non altro che «apparenza di apparenza». Raffaello, che è egli stesso uno di quegl’» ingenui» immortali, ci ha rappresentato in un dipinto allegorico cotesta depotenziazione dell’apparenza dell’apparenza, ossia il processo originario dell’artista ingenuo e, insieme, della cultura apollinea. Nella Trasfigurazione la metà inferiore del quadro col ragazzo ossesso, con gli uomini disperati che lo conducono, coi discepoli in angustie e che non sanno che fare, ci dà lo specchio dell’etewio dolore primordiale, della ragione unica del mondo, qui l’«apparenza» è il riflesso dell eterno contrasto, padre delle cose. Ma da questa apparenza sale in alto, come un vapore di ambrosia, la visione di un altro mondo nell’apparenza, della quale nulla vedono i personaggi avvolti in quella di sotto; ed ò un luminoso librarsi nel più puro gaudio e in una contemplazione immacolata dal dolore, irradiata da occhi lontani. Qui abbiamo davanti allo sguardo, nella suprema simbolica dell’arte, il mondo apollineo della bellezza e il suo sostrato, la terribile sapienza di Sileno, e per mezzo dell’intuizione comprendiamo la necessità della sua reciprocanza. E Apollo ci torna davanti come la deificazione del principium individuationis, nel quale, e in esso soltanto, si compie il fine eternamente raggiunto dell’uno primigenio e la sua liberazione per mezzo dell’apparenza: egli col sublime atteggiamento ci mostra che tutto il mondo del travaglio è necessario, affinché l’individuo ne venga spinto a produrre la visione liberatrice, e quindi, immerso nella contemplazione di quella, stia tranquillo sul suo schifo trabalzato, in mezzo al mare. Cotesta deificazione dell’individuazione, quando è pensata generalmente come imperativa e prescrittiva, conosce solamente una legge, l’individuo, vale a dire la determinazione dei limiti dell’individuo, la misura nel senso ellenico. Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, perché venga osservata, la conoscenza di sé. Perciò la necessità estetica della bellezza è accompagnata dall’esigenza del «conosci te stesso!» e del «non troppo!»; laddove la superbia e la dismisura sono riguardate come i demoni propriamente ostili appartenenti alla sfera non apollinea; e quindi come le qualità peculiari dell’età preapollinea, dell’età titanica, e del mondo estraapollineo, ossia del mondo barbarico. A causa del suo amore titanico agli uomini Prometeo dovè essere straziato dall’avoltoio, a causa della sua sapienza fuor di misura, che sciolse l’enigma della Sfinge, Edipo dovè precipitare in un turbine inesplicabile di misfatti: in questo modo il dio delfico interpetrava gli antichissimi eventi della Grecia. I greci apollinei giudicavano «titanico» e «barbarico» anche l’effetto suscitato dal senso dionisiaco, senza peraltro dissimularsi che questo era nello stesso tempo intimamente affine a quei titani ed eroi abbattuti. Dovevano anzi confessare a sé stessi anche di più: che, cioè, la loro intera esistenza con tutta la sua bellezza e misuratezza era piantata su un fondo nascosto di dolore e di conoscenza, che lo spirito dionisiaco rimetteva in mostra. E guarda! Apollo non poteva vivere senza Dioniso! In ultima analisi il «titanico» e il «barbarico» erano altrettanto una necessità, quanto l’apollineo! E ora immaginiamo con quale fascino sempre più attraente dovè spandersi in questo mondo fondato sull’apparenza e la proporzione, e artisticamente circoscritto, il suono estatico dei festeggiatori di Dioniso, e con quale strepito, fino al grido lacerante, dovè traboccarvi tuttala smisuratezza della natura in gioia e dolore e conoscenza; immaginiamo che cosa potesse significare, davanti a cotesta cantata demoniaca di un popolo in tripudio, la salmodia dell’artista di Apollo, esalta tra i sospiri dell’arpa! Le muse dell’arte dell’«apparenza» impallidirono davanti a un arte che nella sua ebbrezza diceva la verità: in faccia ai sereni celiceli dell’Olimpo la saggezza di Sileno gridò guai! guai! L’individuo adesso, con tutti i suoi limiti e misure, si sommerse nell’oblio di sé stesso, proprio dello stato dionisiaco, e dimenticò i precetti di Apollo. La dismisura si palliò come verità; la contraddizione, la voluttà sbocciata dal dolore, trovò da sé il suo linguaggio sgorgando dal cuore della natura. E così, da per tutto dove penetrò il senso dionisiaco, l’apollineo fu soppiantato e annientato. Ma è altrettanto certo, che dove il primo assalto fu sostenuto, l’autorità e la maestà del dio delfico si mostrarono più rigide e minacciose che mai. Io non potrei spiegarmi altrimenti lo stato dorico e l’arte dorica, che come una fortezza avanzata del pensiero apollineo: un’arte così fieramente cruda, circondata di bastioni, un’educazione così guerriera e aspra, una costituzione statale così feroce e disumana non è ammissibile che durasse a lungo, se non come una resistenza pertinace all’essenza titano-barbarica dell’impulso dionisiaco. Fin qui ho svolto l’argomento con cui aveva principiato questa trattazione: che, cioè, il senso dionisiaco e l’apollineo hanno dominato l’essenza dell’ellenismo con sempre nuove rinascite seguenti l’una all’altra, e rincarando a vicenda l’uno sull’altro; che dall’epoca del «bronzo», con le sue titanomachie e l’aspra filosofia popolare si sviluppò il mondo omerico guidato dall’istinto apollineo della bellezza; che questo dominio «ingenuo» venne di nuovo inghiottito dall’irrompente flutto dionisiaco, e che in faccia a questa novella potenza lo spirito apollineo si levò nella rigida maestà dell’arte e della concezione dorica del mondo. Se in tal modo, nella contesa di questi due grandi principii ostili, la vetusta storia greca si divide in quattro grandi periodi artistici, noi ci vediamo indotti a domandarci quale sia ancora l’estremo disegno di questo divenire e di questo impulso, posto che il periodo ultimo e più ricco, quello dell’arte dorica, non possa minimamente valere come il fastigio e il fine di cotesto istinto artistico: ed ecco che si offre al nostro sguardo la sublime e celebrata opera della tragedia attica e del ditirambo drammatico, quale meta comune dei due istinti, il cui misterioso consorzio, dopo un lungo contrasto di preparazione, ebbe il suggello di gloria in una tale figlia, che è, insieme, Antigone e Cassandra. |
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Ci appressiamo ora al vero e proprio scopo della nostra ricerca, che mira alla conoscenza del genio dioniso-apollineo e del suo capolavoro, o almeno alla comprensione, piena di presentimento, del mistero di cotesta unione. E principiamo col chiederci dove mai nel mondo ellenico venga in luce la prima volta quel nuovo germe, che poi si svolge fino alla tragedia e al ditirambo drammatico. Su ciò l’antichità stessa ci dà effigiata la notizia, quando nelle sculture, nelle gemme e simili, ritrae l’uno accanto all’altro Omero e Archiloco come progenitori e lampedefori della poesia greca, col fermo sentimento, che soli questi due erano da riguardarsi come le nature egualmente e pienamente originali, onde poi scaturì e si sparse una lava di fuoco su tutta la posterità greca. Omero, il canuto sognatore immerso in sé stesso, il tipo dell’artista apollineo, ingenuo, eccolo guardare stupito la testa passionata del battagliero alunno delle muse, Archiloco, fieramente incalzato tra le vicissitudini dell’esistenza: l’estetica moderna null’altro saprebbe chiaramente aggiungervi, se non che qui all’artista «obiettivo» è contrapposto il primo artista «subiettivo». Solo che a noi questa dilucidazione giova poco, perchè noi riguardiamo l’artista subiettivo meramente come cattivo artista, esigiamo sopra tutto e prima di tutto in ogni forma e altezza di arte la vittoria sul subiettivo, la liberazione dall’«io» e il tacimento di ogni volontà e motivo individuale; anzi non possiamo affatto credere alla minima produzione artistica senza obiettività, senza l’intuizione pura e disinteressata. Occorre perciò che la nostra estetica risolva in primo luogo il problema, come mai è possibile il «lirico» come artista: proprio desso, che, stando all’esperienza di tutti i tempi, dice sempre «io» e ricanta innanzi a noi l’intera gamma cromatica delle sue passioni e delle sue aspirazioni. Allato a Omero, per l’appunto cotesto Archiloco ci spaventa, col suo grido di odio e di scherno, collo scoppio insensato delle sue brame: è egli il primo artista così detto subiettivo, oppure è propriamente il non artista? Ma allora donde nasce il rispetto, che proprio l’oracolo di Delfo, il focolare dell’arte «obiettiva» ha dimostrato a lui, al poeta, in memorandi responsi? Lo Schiller ci ha illuminati sul processo del suo poetare con una osservazione psicologica a lui stesso inesplicabile, ma che a noi non sembra dubbia: confessa, cioè, di non avere davanti a sé e in sé, come stato preparatorio all’atto della creazione poetica, qualcosa come una serie d’immagini con una catena causale di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale dell’animo. («Il sentimento in me sul principio non ha un oggetto determinato e chiaro: questo si forma più tardi. Precede una certa predisposizione musicale dell’animo, dopo la quale l’idea poetica principia ad apparire»). Se ora aggiungiamo a ciò il fenomeno più importante dell’intera lirica antica, la quale dovunque significa unificazione naturale anzi identità del lirico col musico, davanti a cui la nostra lirica moderna sembra l’immagine di un dio senza testa, noi possiamo bene, fondandoci sui principii sopra esposti della nostra metafisica estetica, spiegare il lirico nel modo seguente. Egli, come artista dionisiaco, comincia col diventare completamente uno con l’uno primigenio e col suo dolore e contrasto, e rende come musica l’immagine di quest’uno primigenio, giacché la musica ben a ragione è stata denominata una riproduzione del mondo e un suo secondo getto; ma poi, sotto l’azione apollinea del sogno, la musica per lui diventa visibile, come una visione simbolica di sogno. Il riflesso, senza immagine e senza idea, del dolore primordiale nella musica, risolvendosi nell’apparimento della visione, produce poi un secondo riflesso, come unico simbolo o esempio. L’artista ha già abnegato la propria subiettività nel processo dionisiaco: l’immagine, che ora gli mostra la sua unità col cuore del mondo, è una scena di sogno, che gli rende sensibili e concreti, insieme col piacere originario della parvenza, il contrasto e il dolore originari. L’«io» del lirico sale dunque e risuona dal fondo dell’essere; la sua «subiettività», nel senso inteso dagli esteti moderni, è un abbaglio. Quando Archiloco, il primo lirico greco, manifesta il suo folle amore e, insieme, il suo sdegno per le figlie di Licambo, non punto la sua passione impazza davanti a noi in vertigine orgiastica: noi vediamo, invece, Dioniso e le menadi, e vediamo l’ebbro tripudiatore Archiloco cascato giù nel sonno; nel sonno quale ce lo descrive Euripide nelle Baccanti, quello che piglia in cima alle montagne in pieno sole di mezzodì; e Apollo gli si avvicina e lo tocca con l’alloro. E l’incantesimo dionisiaco-rausicale del dormente sprizza, per così dire, d’intorno in scintille d’immagini, in poemi lirici, che nel loro massimo svolgimento si chiamano poi tragedie e ditirambi drammatici. L’artista plastico, e con lui il poeta a lui affine, l’epico, è immerso nella intuizione pura delle immagini. Invece il musico dionisiaco non vede alcuna immagine; egli è completamente e unicamente lo stesso dolore primordiale ed echeggio di quel dolore. Il genio lirico sente sorgere dalla propria abnegazione mistica e dalla propria identificazione con l’uno primigenio un mondo d’immagini e di simboli, che ha un colorito, una causalità e una rapidità di movimento affatto diversi dal mondo dell’artista plastico e del poeta epico. Laddove quest’ultimo vive con dilettoso compiacimento in coteste immagini ed unicamente in esse, e non si sazia di contemplarle amorosamente fino ai lineamenti più impercettibili; laddove perfino l’immagine dell’irato Achille non è altro per lui che un’immagine, la cui espressione collerica egli gode con quel suo gusto di sogno alla visione, in modo che da questo stesso specchio della visione egli è protetto dall’identificarsi e fondersi con le sue figure; all’opposto le immagini del lirico non sono altro che egli stesso e, per così dire, non sono altro che diverse obiettivazioni di sé stesso, tanto che egli può dire «io» appunto perché è il centro motore di quel mondo; con questo, però, che cotesto «io» non è punto lo stesso «io» dell’uomo desto, dell’uomo empirico-reale, sibbene è l’«io» unico, universale ed eterno, vivente in fondo a tutte le cose, attraverso il riflesso del quale il genio lirico penetra con l’occhio del sentimento appunto in cotesto fondo di tutte le cose. Se ora noi immaginiamo che in mezzo a coteste figurazioni egli veda anche sé stesso come non genio, ossia veda anche il proprio «subietto», veda tutto quanto il groppo delle passioni e volizioni subiettive indirizzate a uno scopo determinato che a lui sembra reale; se ora pare quasi che il genio lirico sia uno col non genio a lui legato, e che il primo parli di sé quando pronunzia il monosillabo «io»; rimane stabilito, che questa parvenza non può più trarci in inganno, come ha indubbiamente tratto in inganno coloro che hanno qualificato il lirico come poeta subiettivo. In verità Archiloco, l’uomo infiammato dalle passioni, ardente di amore e di odio, è meramente una visione del genio, che non è più Archiloco, bensì è il genio universale, che esprime simbolicamente il dolore primordiale nella figura dell’uomo Archiloco; laddove l’uomo Archiloco, che ha le sue volizioni e brame subiettive, non è in sostanza né può mai essere poeta. Se non che, non è affatto necessario, che il lirico non veda proprio nient’altro davanti a sé che il fenomeno dell’uomo Archiloco come riflesso dell’essere eterno; e la tragedia dimostra, di quanto il mondo fantastico del lirico possa dilungarsi da quel fenomeno, che senza dubbio gli è affine. Lo Schopenhauer, che non si nasconde la difficoltà che suscita il problema del poeta lirico nello studio filosofico dell’estetica, crede di aver trovato un espediente, in cui non posso seguirlo: eppure egli solo, nella sua profonda metafìsica della musica, aveva a portata il mezzo decisivo per spacciarsi di quella difficoltà; come, interpretando il suo spirito e ad onor suo, credo di aver fatto io. Per contro, egli determina la peculiare essenza del canto nel modo seguente (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, S. 295): «Ciò che la coscienza di chi canta sente, ò il soggetto della volontà, vale a dire il proprio volere, sovente come volontà affrancata, liberata (gioia), ma più sovente come volontà tarpata (tristezza), ma sempre come affetto, passione, commozione. Solo che accanto a questo stato emotivo e insieme con questo, chi canta acquista anche, alla vista della natura circostante, la coscienza di essere soggetto della conoscenza pura, scevra di volontà, la cui calma imperturbabile e beata viene tanto più a contrasto con l’insistenza del volere sempre limitato, sempre indigente: il sentimento di tale contrasto, di tale alternazione, costituisce propriamente ciò che viene espresso nella sostanza del canto, e che forma in generale lo stato lirico. Nel quale la conoscenza pura ci viene, per così dire, incontro, per liberarci dal volere e dalle sue strette: e noi la seguiamo; ma solo pel momento: il volere, il pensiero dei nostri fini personali ritorna sempre a strapparci alla nostra tranquilla contemplazione; ma, del pari, è sempre lì a sottrarsi nuovamente al volere l’immediata e bellavista delle cose che ci circondano, e che ci dànno la conoscenza pura, scussa di volontà. Perciò nel canto e nella disposizione lirica dell’animo il volere (l’interesse personale dei fini) e la pura intuizione delle cose intorno sono mirabilmente commisti tra loro: vengono cercati e immaginati rapporti tra l’uno e l’altra: la disposizione subiettiva, la passione del volere partecipa alle cose intuite intorno, e queste partecipano a quella, il proprio colore e il proprio riflesso: lo schietto canto è l’espressione di tutto quanto cotesto stato d’animo così commisto e diviso». Chi si attenderebbe a disconoscere, che in cotesta descrizione la lirica viene caratterizzata come un’arte imperfettamente raggiunta, che va alla meta solo, per così dire, saltelloni e di rado; insomma come una mezza arte, la cui essenza consista in questo, che la volontà e la pura intuizione, vale a dire lo stato d’animo estetico e lo stato inestetico, vadano mirabilmente commisti tra loro? Noi invece affermiamo, che tutto il contrasto secondo il quale anche lo Schopenhauer divide le arti come con un coltello che le scinde in valori contrari, cioè il contrasto del subiettivo e dell’obiettivo, precisamente nell’estetica è affatto improprio, perché il subietto, ossia l’individuo volente e perseguente i suoi fini egoistici, può pensarsi solamente come avversario e non già come genitore dell’arte. Infatti il subietto, in quanto artista, è già liberato per ciò stesso del suo volere individuale ed è divenuto, per così dire, un medium, per mezzo del quale un soggetto realmente esistente celebra la propria liberazione nella visione artistica. Giacché, a nostra umiliazione ed esaltazione, bisogna che noi ci rendiamo chiaro conto di questo, che tutta la commedia delle arti non è eseguita affatto per noi, per una nostra qualsiasi edificazione o educazione, anzi, che noi non siamo minimamente i veri e propri creatori del mondo dell’arte; ma che solo ci è dato riceverlo dal nostro intimo, perché noi stessi pel vero creatore di quel mondo non siamo più che immagini e proiezioni artistiche, e la nostra suprema dignità consiste appunto nell’importanza che abbiamo come opere d’arte; essendo che l’esistenza ed il mondo sono eternamente giustificati solo come fenomeno estetico: laddove indubitabilmente la nostra coscienza di tale nostra importanza estetica a stento differisce da quella, che i guerrieri dipinti su una tela hanno della battaglia ivi rappresentata. Per conseguenza tutto il nostro sapere artistico in fondo è completamente illusorio, perché noi, come coscienti, non facciamo uno né siamo identici con l’essere il quale, come unico creatore e spettatore della commedia artistica, ne apparecchia a sé stesso un eterno godimento. Solo in quanto nell’atto della produzione artistica il genio si fonde con l’artista primigenio del mondo, egli sa qualcosa dell’eterna essenza dell’arte; giacché solo in quell’istante egli somiglia in modo meraviglioso all’arcana immagine della favola, che può rivolgere gli occhi su sé e contemplare sé stessa: allora egli è insiememente soggetto e oggetto, è insiememente poeta e attore e spettatore. |
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Quanto ad Archiloco, l’indagine erudita ha scoperto che egli indusse nella letteratura il canto popolare, e che questo fatto gli conferì nella universale estimazione dei greci l’onore di esser collocato accanto a Omero. Ma che cosa è mai il canto popolare in confronto dell’epos pienamente apollineo? Che cosa, se non il perpetuum vestigium di una unione del senso apollineo col dionisiaco? La sua enorme diffusione estesa in tutti i popoli e moltiplicata in nascite sempre nuove, ci attesta quanto sia forte cotesto duplice istinto della natura, il quale lascia le sue orme nel canto popolare nel modo medesimo come le emozioni orgiastiche di un popolo si perpetuano nella sua musica. Tanto è vero, che è dato dimostrare anche storicamente, come ogni periodo riccamente produttivo di canti popolari sia stato agitato nel modo più energico dalle correnti dionisiache, che dobbiamo sempre considerare quali sfondo e presupposto del cauto popolare. Ma il canto popolare ha per noi l’immediato valore di uno specchio musicale del mondo, di una melodia primordiale che cerca poi la sua adeguata visione di un sogno, e la esprime nella poesia. La melodia è dunque il sentimento primo ed universale, che perciò comporta svariate obiettivazioni in testi svariati. E nella stima ingenua del popolo essa è anche la cosa di gran lunga più importante e più necessaria. La melodia genera dalla propria essenza la poesia e sempre di nuovo la rigenera; nulla altro ci dice la forma strofica del canto popolare; fenomeno che io ho guardato sempre con stupore, finché ne ho trovato, ora, la spiegazione. Chi considera alla luce di questa teoria una raccolta di canzoni popolari, per esempio quella del Knaben Wunderhorn, trova innumerevoli esempi di cotesto scintillio d’immagini sprizzato dalla inesauribile fecondità della melodia; immagini, che nel loro vertiginoso cangiamento, nel loro pazzo precipizio rivelano una potenza del tutto estranea alla visione epica e al suo tranquillo scorrimento. Cotesto ineguale e irregolare mondo fantastico della lirica è, sotto l’aspetto dell’epos, semplicemente da condannare; e questo hanno fatto certamente all’epoca di Terpandro i solenni rapsodi epici delle feste apollinee. Nella poesia del canto popolare vediamo, dunque, che la lingua è tesa fino all’estremo nell’imitazione della musica; ragion per che principia con Archiloco un nuovo mondo poetico, che nelle sue più profonde radici contrasta con quello omerico. Abbiamo così determinato l’unico rapporto possibile tra la poesia e la musica, tra la parola e il suono: la parola, l’immagine, l’idea cerca un’espressione analoga alla musica e comporta in sé la potenza della musica. Nel qual senso ci è lecito distinguere nella storia linguistica del popolo greco due correnti principali, secondo che la lingua abbia imitato il mondo della visione e dell’immagine, oppure il mondo della musica. Per capire l’importanza di tale contrasto, si mediti profondamente sulla differenza linguistica del colore, della costruzione sintattica, dell’eloquio in Omero e in Pindaro: e ognuno toccherà con mano, che tra Omero e Pindaro doverono risuonare le modulazioni dei flauti orgiastici dell’Olimpo, che tuttora al tempo di Aristotele suscitavano, quando la musica si era infinitamente sviluppata, un entusiasmo ebbro, e con la loro efficacia originaria trascinavano certamente all’imitazione tutti i mezzi di espressione poetica dei contemporanei. Ricordo qui un noto fenomeno dei nostri giorni, che solo apparentemente urta contro la nostra estetica. Noi sperimentiamo ogni giorno, che una sinfonia di Beethoven induce i singoli ascoltatori a un linguaggio immaginoso, anche perché il raccostamento degli svariati mondi fantastici prodotti da un pezzo musicale si presenta fantasmagoricamente vario, anzi contraddittorio: è proprio di quella estetica da assidui ai concerti esercitare il loro povero spirito su tali composizioni, e sorvolare sul fenomeno che è effettivamente degno di spiegazione. Mi spiego. Quando lo stesso poeta dei suoni, lo stesso musicista ha parlato della sua composizione per immagini, quando cioè ha dato a una sua sinfonia la qualificazione di pastorale, a un suo pezzo quella di «Scena in riva a un ruscello», e a un altro quella di «Gaia comitiva di contadini», ebbene, coteste sono parimente nulla più che rappresentazioni allegoriche che sono nate dalla musica, e non già soggetti che la musica abbia imitati; rappresentazioni o idee, che non possono per nessun verso istruirci sul contenuto dionisiaco della musica, e che anzi non hanno nessun valore esclusivo accanto alle altre immagini. Cotesto processo di partenogenesi della musica partoriente immagini, noi dobbiamo ora trasportarlo in mezzo alla moltitudine di un popolo giovanilmente fresco, linguisticamente creativo, se vogliamo avere il presentimento del come nasce il canto popolare strofico, e del come tutta la potenza della lingua viene suscitata e spinta alla creazione dal nuovo principio dell’imitazione della musica. Essendoci consentito, dunque, di riguardare la poesia lirica come una emanazione imitativa della musica irradiata in immagini e idee, possiamo ora domandarci: «in che modo appare la musica nello specchio dell’immaginativa e delle idee?» Essa appare come volontà, intesa la parola nel senso schopenhaueriano, cioè come l’opposto della disposizione estetica puramente intuitiva e scevra di volontà. E qui occorre distinguere, più nettamente che è possibile, il concetto dell’essenza da quello del fenomeno o apparenza; giacché la musica, secondo la sua essenza, non può essere volontà, altrimenti come tale bisognerebbe affatto scacciarla dal campo dell’arte, per la ragione che la volontà per sé stessa è del tutto anestetica: essa, bensì, appare come volontà. Infatti, per esprimere in immagini la sua apparenza, il lirico ha bisogno di tutti i modi della passione, dal susurro dell’inclinazione fino al livore maniaco: stimolato dall’istinto di tradurre la musica in simboli apollinei, egli sente tutta la natura, e sé stesso nella natura, unicamente come volere, desiderio, anelito eterni. Ma in quanto interpetra la musica in immagini, egli stesso riposa tranquillo nel calmo oceano della contemplazione apollinea, e non importa che intorno a lui tutto ciò che contempla attraverso il medium della musica, si agita e turbina a tempesta. Anzi, se attraverso cotale medium guarda sé stesso, la sua stessa immagine gli si palesa in preda allo scontento: il suo stesso volere, anelare, sospirare, giubilare è per lui un simbolo, col quale egli si spiega la musica. Tale è il fenomeno del lirico: come genio apollineo egli interpetra la musica attraverso l’immagine della volontà, mentre egli stesso, completamente immune dallo stimolo insaziabile della volontà, è un occhio pieno di sole, puro e imperturbato. Tutta questa disamina mette in sodo, che la lirica tanto dipende dallo spirito della musica, quanto invece la musica, nella sua completa illimitatezza, non ha bisogno d’immagine e d’idea, ma solamente la comporta accanto a sé. La poesia del lirico non può dire ciò che già nella sua più portentosa universalità ed efficienza non sia contenuto nella musica, che appunto ha costretto il lirico a esprimersi per immagini. Precisamente per ciò la simbolica universale della musica non si può minimamente esaurire con la parola, perché essa risale simbolicamente al contrasto e al dolore primordiali nel cuore dell’uno primigenio, in modo che simboleggia una sfera che è collocata al disopra di ogni apparenza, e che precede ogni apparenza. Anzi rispetto ad essa ogni apparenza è puramente un simbolo; e perciò la parola, come organo e simbolo delle parvenze, non possiede mai e in nessun modo la virtù di rendere all’esterno la più profonda intimità della musica, ma, ogniqualvolta trascorre all’imitazione della musica, rimane sempre nei limiti di un contatto esteriore con essa, laddove il senso profondo della musica non può esserci avvicinato di un sol passo nemmeno da tutta quanta l’eloquenza lirica. |
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Dei principii artistici fin qui esaminati dobbiamo ora servirci per trovare la buona via nel labirinto, che così bisogna chiamarlo, dell’origine della tragedia greca. Credo di non affermare nulla di strano, dicendo che fino a oggi il problema di questa origine non è stato mai impiantato seriamente e tanto meno risolto, per quanto i brandelli volanti dell’antica tradizione siano stati soventi raccozzati e combinati insieme e poi di nuovo sparpagliati. Questa tradizione ci dice con piena risolutezza, che la tragedia è nata dal coro tragico e che in origine era unicamente coro e niente altro che coro. Onde abbiamo l’obbligo di scrutare nel nucleo vitale di questo coro come nel vero e proprio dramma primitivo, senza minimamente contentarci delle frasi fatte: che, cioè, esso sia lo spettatore ideale, oppure che rappresenti il popolo di fronte alla dimora regale prospettata dalla scena. Quest’ultima congettura, che a molti politici sembra elevata, come a dire che l’immutabile legge morale dei democratici ateniesi fosse appunto significata dal coro popolare che aveva sempre ragione delle trasgressioni e degli eccessi passionali dei re; può anche essere giustamente avvalorata da una parola di Aristotele: essa, però, non ha alcuna influenza sulla formazione originaria della tragedia, perché da quelle origini puramente religiose è escluso qualunque contrasto tra popolo e re, e in generale qualunque contrasto di natura politico-sociale. Possiamo inoltre, tenendo anche conto della forma a noi nota del coro in Eschilo e Sofocle, considerare come una bestemmia il parlare qui di un presentimento di «rappresentanza costituzionale del popolo»; sia pure che di tale bestemmia altri non si spaventino. Fatto sta, che le antiche costituzioni statali non conoscono affatto, in praxi, una rappresentanza popolare costituzionale, ed evidentemente non l’hanno mai «presentita» nemmeno nella loro tragedia. Assai più celebre di questa spiegazione politica del coro è l’idea di A. W. Schlegel, il quale ci consiglia di considerare in certo modo il coro come il complesso e il principio essenziale della moltitudine degli spettatori, come «lo spettatore ideale». Rapportata alla tradizione storica, che originariamente la tragedia non era altro che coro, cotesta opinione si rivela per quello che è, ossia per un’affermazione grezza, non scientifica, ma abbagliante; solo che il suo bagliore essa lo ha ricevuto meramente dalla forma concentrata della forinola, dalla predisposizione prettamente germanica a tutto ciò che è denominato «ideale», e dal nostro momentaneo stupefarci. Noi, cioè, ci stupiamo, quando paragoniamo il nostro noto pubblico teatrale con quel coro, e ci domandiamo, se davvero sarebbe possibile idealizzare questo nostro pubblico fino a cavarne qualcosa di analogo al coro tragico. Noi in segreto neghiamo una simile possibilità, e tanto più ci meravigliamo sia dell’arditezza dell’affermazione dello Schlegel, sia della natura totalmente diversa del pubblico greco. Vale a dire, noi avevamo sempre opinato, che il vero spettatore, sia quale si voglia, si tenesse sempre conscio di trovarsi davanti a un’opera d’arte, non già a una realtà empirica; laddove il coro tragico dei greci è invece costretto a riconoscere vere esistenze viventi nei personaggi della scena. Il coro delle Oceanidi crede effettivamente di avere davanti a sé il titano Prometeo, e si tiene altrettanto reale quanto lo stesso dio sulla scena. L il più alto e puro tipo di spettatore sarebbe quello che, come le Oceanidi, ritenesse Prometeo come reale ed esistente in corpo e persona? Noi credevamo che un pubblico estetico e il singolo spettatore fosse più raffinato, quanto più in grado di prendere l’opera d’arte per arte, cioè d’intenderla esteticamente; ed ecco che la forinola schlegeliana viene a significarci, che il perfetto spettatore ideale sente non già l’effetto estetico del mondo della scena, ma l’effetto di una cosa corporeamente empirica. Oh, quei greci! sospiriamo: essi ci scombussolano la nostra estetica! E con questa abitudine, ripetiamo l’aforismo di Schlegel ogniqualvolta discorrendo torna in campo il coro. Se non che, quella tradizione così esplicita si volta contro Schlegel: il coro per sé stesso, senza scena, dunque la forma primitiva della tragedia e il coro di spettatori ideali sono incompatibili tra loro. Che specie di produzione artistica sarebbe quella che fosse cavata fuori dall’idea dello spettatore, quasi che dovesse valere come la vera e propria forma dello «spettatore in sé»? Lo spettatore senza spettacolo è un concetto assurdo. Noi dubitiamo che la nascita della tragedia sia da spiegarsi con l’estimazione dell’intelligenza morale delle moltitudini, o col concetto dello spettatore senza spettacolo, e giudichiamo che il problema sia troppo profondo, perché sia lecito sfiorarlo semplicemente con così futili toccate di assaggio. Un’idea infinitamente più valevole è quella esposta sul significato del coro da Schiller nella famosa prefazione alla «Sposa di Messina»: egli considera il coro come un vivente muro di cinta che la tragedia alza intorno a sé, per segregarsi nettamente dal mondo reale e serbarsi interamente al suo campo ideale e alla sua libertà poetica. Schiller combatte l’idea comune del naturale, la pretensione comune dell’illusione nella poesia drammatica, con questo argomento capitale. Quando sul teatro il giorno stesso è meramente artificiale, l’architettura meramente simbolica e il linguaggio metrico ha un carattere ideale, nel complesso ciò che domina è l’inganno: dunque non basta che si tolleri solamente come libertà poetica proprio ciò, che pure costituisce l’essenza di tutta la poesia. L’introduzione del coro è, quindi, egli afferma, il passo decisivo con cui nell’arte si dichiara apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo. Cotesto criterio, come a me pare, è quello a cui il nostro tempo, che si crede superiore, ha applicato lo sprezzante epiteto di «pseudoidealismo». Io invece temo, che col nostro odierno culto del naturale e del reale siamo arrivati agli antipodi di ogni idealismo, vale a dire al paese dei musei di statue di cera. Esiste un’arte anche in questi, come esiste in certi romanzi oggi in voga; ma non ci affliggano con la pretensione, che con cotesta arte lo «pseudoidealismo» di Schiller e di Goethe sia bello e superato. Senza dubbio è «ideale» il terreno, sul quale, secondo la giusta idea dello Schiller, usa moversi il coro greco dei satiri, il coro della tragedia originaria; un terreno situato molto al disopra della reale passeggiata dei mortali. Il greco ha asciato per questo coro il palco pensile di un finto stato di natura e vi ha collocato finti esseri naturali. La tragedia è cresciuta su questo fondamento e, certo, già solo per questo venne fin dagl’inizi dispensata da una tormentosa contraffazione della realtà. Se non che, cotesto mondo non è punto un mondo fantasticato a capriccio tra cielo e terra: anzi è un mondo egualmente dotato di realtà e degno di fede, quali agli occhi degli elleni credenti le possedeva l’Olimpo coi suoi abitatori. Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta, sotto la sanzione del mito e del culto. Che la tragedia abbia inizio con esso, che per sua bocca parli la sapienza dionisiaca della tragedia, è per noi un fenomeno tanto singolare, come lo è in generale la derivazione della tragedia dal coro. Arriviamo forse a un punto decisivo per l’esatta considerazione del problema, quando io pongo l’affermazione, che il satiro, il finto essere naturale, si comporta rispetto all’uomo incivilito nella stessa guisa come la musica dionisiaca rispetto alla civiltà. Della quale Riccardo Wagner dice, che essa viene dileguata dalla musica come il lume di una lampada dalla luce del giorno. Nella stessa guisa, io credo, l’uomo incivilito greco si sentì andare in dileguo davanti al coro dei satiri; ed è questo l’effetto immediato della tragedia dionisiaca: che lo stato e la società, e in generale i distacchi tra uomo e uomo scompaiono sotto la prepotenza di un sentimento di unità che riconduce ogni cosa nel seno della natura. La consolazione metafisica, che, come ho già significato, lascia in noi ogni vera tragedia; la consolazione, che nel fondo delle cose, nonostante qualunque vicenda dei fenomeni, la vita duri indistruttibilmente potente e dilettosa, ebbene ci appare in tutta evidenza corporea come coro di satiri, come coro di esseri naturali, che vivono indistruttibili dietro, per così dire, qualunque civiltà, e che, ad onta di qualunque cangiamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi. Con questo coro si consolò l’elleno dall’animo profondo, unico al mondo nella capacità degli affetti più teneri e delle più cupe passioni; egli che con occhio consapevole discerse lo spirito di annientamento della così detta storia universale, del pari che la crudeltà della natura, e fu a rischio di sospirare un annichilamento buddista della volontà. L’arte lo salvò, e per mezzo dell’arte gli si salvò la vita. L’estasi dello stato dionisiaco, con l’annullamento che porta delle limitazioni abituali e dei termini dell’esistenza, importa per tutta la sua durata un elemento letargico, nel quale rimane sommerso quanto vi è di personale nella vita finora vissuta e tutto il passato. Proprio cotesto abisso dell’oblio scinde il mondo quotidiano dalla realtà dionisiaca. Ma non appena la realtà quotidiana si riaffaccia alla coscienza, essa, come tale, è sentita con disgusto: conseguenza di quello stato è una disposizione ascetica dell’animo, abnegante la volontà. In questo senso l’uomo dionisiaco arieggia Amleto: l’uno e l’altro hanno gettato uno sguardo verace nell’essenza nelle cose; essi le hanno conosciute, e ne prendono ribrezzo a occuparsene, perché la loro azione nulla può mutare all’eterna essenza delle cose; onde stimano ridicolo o degradante che si pretenda da loro il raddirizzamento del mondo uscito dai cardini. La conoscenza uccide l’azione; proprio dell’azione è l’essere avvolta nel velo dell’illusione: tale è il pensiero di Amleto, non già la saggezza a buon mercato di Hans il sognatore; di Amleto, il quale per troppa riflessione, come per l’accumularsi di un soprappiù di possibilità, non si decide mai all’azione: non già la riflessione, no, ma la vera conoscenza, ma la vista dell’orribile verità soffoca ogni motivo che spinge all’azione, tanto in Amleto quanto nell’uomo dionisiaco. La consolazione allora non ha più presa; il disperato desiderio anela alla morte di là da un mondo, di là dagli stessi dèi; l’esistenza è negata insieme coi suoi fulgidi specchiamenti della vita degli dèi o di un di là immortale. Nella consapevolezza della verità, una volta rivelata al suo sguardo, l’uomo vede da per ogni dove non altro più, che il terribile o l’assurdo dell’essere: egli ora comprende il senso simbolico del destino di Ofelia, ora capisce la sapienza del dio silvestre Sileno: tutto per lui è disgusto. Ed ecco, in questo pericolo supremo della volontà sopravviene redentrice la maga foriera di salute, l’arte: essa sola le idee di disgusto sul terribile o l’assurdo dell’esistenza ha il potere di conformarle a rappresentazioni che fanno ritollerare la vita: e tali rappresentazioni sono il sublime, considerato come domesticamento del terribile, e il comico, come sollievo artistico dal disgusto dell’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo è l’azione salvatrice dell’arte greca: gli accessi di disperazione or ora descritti si esaurirono nel mondo intermedio di questi compagni di Dioniso. |
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Il satiro e il pastore del tempo moderno sono parimente figli l’uno e l’altro di una nostalgia del primitivo e del naturale; ma con quale presa ferma e impavida il greco afferrò il suo uomo silvestre, e con che smaccata mollezza invece l’uomo moderno si trastulla con la carezzosa immagine del tenero pastorello effemminato e flautizzante! La natura non elaborata ancora da nessuna conoscenza, in cui non sono ancora spuntate le regole della civiltà: ecco ciò che il greco vide nel suo satiro, che perciò non ha ancora nulla di comune con la scimmia. Tutto al contrario: era proprio l’immagine primitiva dell’uomo, l’espressione delle sue passioni più alte e più veementi, quale entusiasta zelatore inebbriato dalla presenza del dio, quale compagno compaziente che ripativa le sofferenze del dio, quale interpetre della sapienza cavata dal più profondo cuore della natura, quale emblema dell’onnipotenza generativa della natura; proprio questo era ciò che il greco si era abituato a considerare con divoto stupore. Il satiro era qualcosa di altissimo e di divino: tale dovè singolarmente sembrare all’occhio velato di dolore dell’uomo dionisiaco. Il pastore abbigliato, finto, lo avrebbe offeso: con sublime appagamento saziava l’occhio sugli aperti lineamenti della natura inviolatamente grandiosi: qui l’illusione della civiltà era spazzata via dall’immagine primordiale dell’uomo, qui si svelava l’uomo schietto, il satiro barbuto, giubilante al suo dio. Davanti a lui l’uomo incivilito rimprosciuttiva in una bugiarda caricatura. Anche rispetto a questi inizi dell’arte tragica Schiller ha ragione: il coro è un muro vivente contro la realtà irrompente, perché esso, il coro dei satiri, ritrae al vivo l’esistenza più veracemente, più realmente, più compiutamente che non faccia l’uomo incivilito, che comunemente si pretende di essere l’unica realtà. La sfera della poesia non è fuori del mondo, come l’impossibile fantasticheria di un cervello poetico: vuol essere precisamente il contrario, l’espressione, cioè, non imbellettata della verità, e appunto per questo deve respingere lungi da sé il menzognero ornamento della pretesa realtà dell’uomo incivilito. Il contrasto tra questa vera e propria verità naturale e la menzogna della civiltà atteggiatesi a unica realtà, è lo stesso che quello tra l’eterno nocciolo della cosa, della cosa in sé, e tutto quanto il mondo fenomenico; e come la tragedia con la sua consolazione metafisica indica la vita eterna di quel nocciolo esistenziale in mezzo al continuo trapasso dei fenomeni, così la stessa simbolica del coro dei satiri esprime allegoricamente quel rapporto originario tra la cosa in sé e il fenomeno. Il pastore idilliaco dell’uomo moderno è meramente una contraffazione del complesso d’illusioni culturali che per l’uomo moderno vale come natura; laddove il greco dionisiaco vuole la verità e la natura nella sua suprema potenza; e si vede trasformato d’incanto in satiro. Con tali disposizioni e conoscenze passa in giubilo la folla tripudiante dei servi di Dioniso; la cui potenza si trasmuta ai loro propri occhi, in modo che folleggiando credono di vedere sé stessi ripristinati in geni naturali, ritornati satiri. La costituzione posteriore del coro tragico è l’imitazione artistica di quel fenomeno naturale; con questo, che ora divenne necessaria la separazione tra gli spettatori dionisiaci e i coreuti affatturati da Dioniso. Solo che bisogna tener presente, che il pubblico della tragedia attica vedeva sé stesso nel coro dell’orchestra, e che in fondo non esisteva alcun contrasto tra il pubblico e il coro; giacché il tutto non era altro che un gran coro alto di satiri danzanti e cantanti, e di spettatori che si sentivano rappresentati in quei satiri. Perciò dalla parola di Schlegel si può spremere un senso più profondo. Il coro è «lo spettatore ideale», in quanto è l’unico spettatore, lo spettatore del mondo di visioni evocato sulla scena. Un pubblico di spettatori quale è oggi il nostro, era ignoto ai greci: nei loro teatri, data la forma concentrica di costruzione a terrazza dello spazio riservato agli spettatori, ognuno era ben in grado di astrarsi interamente e propriamente dal mondo incivilito a lui dintorno, e in soddisfatta contemplazione credere e sentire coreuta sé stesso. Con questa idea possiamo chiamare il coro, nel primitivo grado della tragedia originaria, lo specchio dell’uomo dionisiaco; fenomeno che si rende chiarissimo, quando si segua il processo intimo dell’attore, il quale, se ha vere doti di artista, vede presentarglisi palpabile davanti agli occhi la figura del personaggio che interpetra. Il coro dei satiri è inizialmente una visione della moltitudine dionisiaca, come a sua volta il mondo della scena è una visione di cotesto stesso coro: la potenza di tale visione è abbastanza gagliarda per rendere inaccessibile e insensibile lo sguardo all’impressione della realtà, all’impressione dei semicerchi di uomini inciviliti seduti intorno sui loro sedili. La forma del teatro greco arieggia una valle solitaria aperta in un anfiteatro di montagne; l’architettura della scena rassomiglia a un’immagine di nubi lucenti, che le baccanti folleggianti sui monti contemplano di sulle cime, come la cornice magnifica in mezzo alla quale si rivela ai loro sguardi la vista di Dioniso. Codesto fenomeno artistico primitivo, che qui abbiamo rievocato allo scopo di spiegare il coro tragico, ripugna quasi con la nostra concezione dottrinale degli elementari processi artistici; laddove nulla di perfetto è possibile, se non quando il poeta è poeta solo per questo, che egli si veda circondato da figure che vivono e operano davanti ai suoi occhi, e di cui discerne l’intima essenza. Per una peculiare debolezza della mentalità moderna, noi incliniamo a rappresentarci troppo complicato e astratto il fenomeno estetico primitivo. Pel vero poeta la metafora non è una figura rettorica, ma una immagine rappresentativa che gli compare come reale nella mente al posto di un’idea. Per lui il carattere non è qualcosa come un tutto composito, costituito di singoli lineamenti raccolti insieme, ma una persona insistentemente viva davanti ai suoi occhi, la quale si distingue dalla corrispondente visione del pittore solo pel suo continuo moversi, pel suo vivere e operare incessante. Perché mai Omero dipinge ad evidenza, più di tutti gli altri poeti? Perché egli vede e intuisce tanto più di loro. Noi parliamo della poesia con tanta astrattezza, perché tutti noi siamo di solito cattivi poeti. In fondo il fenomeno estetico è semplice: si abbia la semplice facoltà di vedere svolgersi continuata un’azione vivente, si viva circondati senza posa da folle di spiriti, e si è poeti: si abbia il semplice istinto di cangiarsi e di parlare trasfusi in altri corpi e altre anime, e si è drammaturghi. L’emozione dionisiaca è in grado di comunicare a un’intera moltitudine cotesta facoltà artistica, di vedersi cioè circondata da una siffatta folla di spiriti, con la quale essa si sente intimamente una, unanime. In cotesto processo del coro tragico consiste il fenomeno drammatico primitivo: vedere sé stessi trasformati davanti a sé, come se effettivamente si fosse entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Tale è il processo che presiede all’inizio dello sviluppo del dramma. Qui abbiamo qualcosa di differente dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini, ma, simile al pittore, le guarda fuori di sé con occhio osservativo; qui abbiamo l’abnegazione dell’individuo che si trasfonde in una natura a lui estranea. Perciò appunto questo fenomeno si presenta epidemico: tutta intera una folla si sente affatturata in siffatta maniera. Ragion per cui il ditirambo si distingue essenzialmente da qualunque altro canto corale. Le vergini che portando rami di alloro vanno solennemente al tempio di Apollo e cantano in processione, rimangono quali sono, serbano il loro nome cittadino: al contrario, il coro ditirambico è un coro di trasformati, che hanno dimenticato completamente il loro passato civile, la loro posizione sociale; essi sono divenuti i senza tempo, i servi del loro dio viventi fuori di ogni sfera sociale. Qualunque altra lirica corale degli elleni non è altro che un enorme moltiplicamento del singolo cantore apollineo; laddove nel ditirambo siamo davanti a una comunità di inconsci attori, che si considerano tra di loro come trasmutati a vicenda l’uno nell’altro. L’incantesimo è il presupposto di ogni arte drammatica. Preso da tale incantesimo, il tripudiatore dionisiaco si vede satiro, e in quanto satiro egli vede il dio, vale a dire, nella propria trasformazione contempla fuori di sé una nuova visione, come perfezionamento apollineo del proprio stato. Con questa nuova visione il dramma è completo. Secondo tale dottrina bisogna intendere la tragedia greca come lo stesso coro dionisiaco, che di continuo si va sempre alleviando di un nuovo mondo figurativo apollineo. Le parti corali di cui la tragedia è intrecciata sono dunque in certo modo la matrice dell’intero così detto dialogo, vale a dire di tutto il mondo scenico, del vero e proprio dramma. Questa matrice originaria della tragedia produce la visione del dramma per opera di più parti succeduti l’uno all’altro; visione, che è assolutamente un’apparizione di sogno e perciò di natura epica, ma che, d’altra parte, essendo l’obiettivazione di uno stato d’anima dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nel mondo dell’apparenza, ma al contrario il sommergimento dell’individuo e la sua unificazione con l’uno primigenio. Per conseguenza il dramma è l’incarnamento apollineo di conoscenze e impressioni dionisiache, e perciò è separato dall’epos come da un enorme baratro. In questo nostro concetto trova completa spiegazione il coro della tragedia greca, il simbolo dell’intera moltitudine invasa dall’eccitazione dionisiaca. Mentre prima, abituati alla situazione di un coro sulla scena moderna, specialmente di un coro di opera, noi non eravamo punto al caso di comprendere come mai il coro tragico dei greci potesse essere più antico, più originario, perfino più importante della vera e propria «azione», secondo che pure ci era tramandato con tanta chiarezza; mentre prima non riescivamo a conciliare quella tradizione dell’alta importanza e della primordialità del coro con la umiltà dei suoi componenti, esseri bassi e servili, anzi in principio esclusivamente satiri capribarbicornipedi; mentre la collocazione dell’orchestra davanti alla scena rimaneva per noi sempre un enimma; eccoci ora pervenuti alla conclusione, che fondamentalmente e originariamente la scena in uno con l’azione non fu pensata in altro modo che come visione, e che unica «realtà» è appunto il coro, il quale genera di sé, dal proprio intimo, la visione, e della visione parla con tutta la simbolica della danza, del suono e della parola. Questo coro nella sua visione contempla il suo signore e maestro Dioniso, e perciò è eternamente il coro servente: esso vede come il dio soffre e si glorifica, e quindi per proprio conto non agisce. Nonostante cotesta situazione affatto servile di fronte al dio, esso nulladimeno è l’espressione suprema, vale a dire dionisiaca, della natura, e, come questa, pronunzia nell’enlusiasmo detti oracolari e proverbi di sapienza: come compaziente esso è, insieme, il savio, che annunzia la verità dal cuore del mondo. Così nasce quindi la figura fantastica e tanto ripugnante del satiro sapiente ed entusiasta che, nello stesso tempo, in contrapposto al dio, è «il tonto uomo»: immagine della natura e dei suoi più forti istinti, vero simbolo di lei e, insieme, annunziatore della sua scienza ed arte; musico, poeta, danzatore tutto in uno, e contemplatore di spiriti. Secondo questa teoria e secondo la tradizione, Dioniso, che è il vero e proprio protagonista scenico al centro della visione, in principio, nel periodo più antico della tragedia, non esiste veramente, ma solo viene ideato come se realmente ci fosse; vai quanto dire, che originariamente la tragedia è unicamente «coro» e non già «dramma». Solo più tardi si vinse la prova di presentare il dio come un personaggio reale, e di fare accessibile a ognuno l’immagine della visione insieme con la sua cornice trasfigurante; e così ebbe inizio il «dramma» propriamente detto. Nel quale il coro ditirambico riceve l’ufficio di movere fino al grado dionisiaco l’animo degli spettatori, in modo che, quando l’eroe tragico compare sulla scena, essi non vedano qualcosa come un uomo grottescamente mascherato, ma l’immagine propria della visione sorta dal loro stesso rapimento. Figuriamoci Admeto in preda al profondo sentimento della sposa Alceste troppo precocemente perduta, consumarsi nel rievocarla in ispirito; quando all’improvviso gli si fa innanzi velata una figura di donna che ha la stessa statura e lo stesso passo: figuriamoci il suo tremito repentino e la perplessità, la sua assomigliazione fulminea e la sua istintiva persuasione; e abbiamo così un quissimile dell’animo, con cui lo spettatore dionisiacamente eccitato vedeva comparire sulla scena il dio, con le passioni del quale era già divenuto tutt’uno. Egli involontariamente trasferiva su quella figura mascherata l’immagine del dio che col suo incanto magico gli teneva l’anima tutta tremante, e risolveva, per così dire, in una irrealtà immaginativa la sua realtà. Ed è questo lo stato apollineo di sogno, nel quale il mondo quotidiano viene a velarsi, e davanti ai nostri occhi, in continua vicenda, nasce un nuovo mondo più evidente, più intelligibile, più comprensibile di quello, eppure più simile ad ombra. Ragion per cui nella tragedia riscontriamo un energico contrasto di stile: lingua, colore, movimento, dinamica della parola, da una parte, nella lirica dionisiaca del coro, e, dall’altra, nel mondo di sogno apollineo della scena, appaiono come sfere di espressione completamente separate l’una dall’altra. Le apparizioni apollinee, nelle quali Dioniso si obiettiva, non sono più «un mare eterno, un instabile cangiamento, una vita ardente», come è la musica del coro; non sono più quelle forze meramente sentite e non chiarificate nell’immagine poetica, nelle quali il servente entusiasmato di Dioniso presente la vicinanza del dio: adesso gli parla dalla scena l’evidenza e la solidità della figura epica; adesso Dioniso parla non più per mezzo delle forze di un sentimento non discriminato, ma parla come un eroe epico, quasi col linguaggio di Omero. |
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9. |
Tutto ciò che sale alla superficie nella parte apollinea della tragedia greca, nel dialogo, appare semplice, trasparente, bello. In questo senso il dialogo è un’immagine degli elleni, la cui natura si manifesta nella danza, giacché nella danza il colmo della forza è meramente potenziale, ma si tradisce nella flessuosità ed esuberanza del movimento. Il linguaggio degli eroi sofoclei ci meraviglia tanto con la sua precisione e chiarezza apollinea, che crediamo di guardare subito fino al fondo del loro essere, non senza stupirci che la via di arrivo a quel fondo sia così breve. Se però astraiamo un momento dal carattere dell’eroe che si para davanti sulla superficie e diventa visibile, e che, del resto, non è altro che un’immagine luminosa gittata su una parete oscura, vale a dire assoluta apparenza; se piuttosto penetriamo nel mito che sbattimenta coteste figure, noi avvertiamo subito un fenomeno, che ha un rapporto inverso con un noto fenomeno ottico. Quando, sforzatici violentemente di tener fisse le pupille nel sole, ce ne stacchiamo abbagliati, noi abbiamo davanti agli occhi delle macchie cupamente colorate, che fanno, per così dire, da rimedio all’abbagliamento: al contrario, le apparizioni luminose dell’eroe sofocleo, in una parola, l’aspetto apollineo della maschera, sono prodotti necessari dell’aver guardato nell’intimo e nel terribile della natura, cioè sono esse stesse, per così dire, macchie lucenti a soccorso dell’occhio offeso dall’orribile tenebra. Solo in questo senso ci è dato credere di comprendere congruentemente il concetto serio e importante della «serenità greca»; laddove per tutte le strade e i sentieri del presente incontriamo invece il concetto falsamente inteso di cotesta serenità, interpetrata come inattaccabile benestare. Il personaggio più doloroso della scena greca, l’infelice Edipo, fu inteso da Sofocle come la figura dell’uomo nobile, che nonostante la sua saggezza è destinato all’errore e alla miseria, ma che alla fine, stesso in virtù del suo enorme patire, esercita intorno a sé un incanto benedetto, duraturo ed efficace anche dopo la sua morte. L’uomo nobile non pecca mai, vuol dirci l’animo profondo del poeta: vada pure in fascio, per sua opera, ogni legge, ogni ordine naturale, perfino lo stesso mondo morale: ebbene, appunto per l’opera sua sarà messa in moto una più alta sfera magica di azioni, che va a fondare un nuovo mondo sulle rovine del vecchio andato in precipizio. Ciò vuole istillarci il poeta, in quanto è, insieme, pensatore religioso: come poeta egli principia col mostrarci un groviglio processuale prodigiosamente intricato, che il giudice scioglie lentamente, nodo su nodo, a sua propria perdizione: il godimento schiettamente ellenico per tale soluzione dialettica è tanto grande, che un raggio di serenità superiore ridonda su tutta l’opera, e spiana dovunque le punte ripugnanti degli orrori che hanno preceduto il processo. La stessa serenità incontriamo nello «Edipo a Colono», ma trasfigurata nell’altezza di una luce infinita: di contro al vegliardo soverchiato dall’eccesso della miseria, e che cade in preda a tutto ciò che lo soverchia non altrimenti che come paziente, si spande la serenità oltramondana irradiata della sfera divina, la quale ci significa che l’eroe col suo contegno passivo ha raggiunto la suprema attività, che serberà una lunga efficacia sulla sua vita, laddove il suo conscio e voluto sforzarsi e travagliarsi nel corso precedente della sua esistenza non lo ha condotto ad altro che alla passività. In tal modo si viene lentamente distrigando il groviglio della favola di Edipo che all’occhio mortale sembrava insolubile, e da questa divina contfascena della dialettica è suscitata in noi la più profonda allegrezza umana. Resa giustizia, con questa spiegazione, al poeta, possiamo però tuttora domandarci, se con ciò il contenuto del mito è risolto interamente; e qui risulta chiaro, che tutta la concezione del poeta non è altro che quell’immagine luminosa che a noi riserva la natura risanatrice, dopo che abbiamo guardato nel tetro fondo. Edipo, l’uccisore di suo padre, il marito di sua madre, Edipo, il solutore dell’enigma della sfinge: che cosa ci dice la misteriosa triplicità di cotesti atti fatali? Un’antichissima credenza popolare, propriamente parsia, dice che solo dall’incesto[2] può nascere un mago sapiente: cosa che rispetto a Edipo, solutore dell’enimma e marito di sua madre, dobbiamo subito interpetrare nel senso, che dove la potenza magica ha violato la via del presente e del futuro, la rigida legge dell’individuazione e in generale l’incantesimo proprio della natura, tutto ciò dev’essere proceduto, come dalla sua causa, da una enormezza contro natura, quale è, in questo caso, l’incesto; giacché, come mai si potrebbe sforzare la natura a lasciar andare i propri segreti, se non combattendola vittoriosamente, e cioè con mezzi innaturali? Io vedo impressa appunto cotesta teoria sull’atroce triplicità del destino di Edipo: lo stesso uomo che scioglie l’enimma della natura, vai quanto dire della sfinge biforme, deve anche infrangere le più sacre leggi naturali come uccisore del padre e marito della madre. Proprio così: il mito sembra che voglia susurrarci, che la sapienza, e propriamente la sapienza dionisiaca, è un’abominio contro natura; che chi col suo sapere precipita la natura nell’abisso dell’annientamento, deve provare anche su sé medesimo la dissoluzione della natura. «La punta della sapienza si rivolta contro il sapiente: la sapienza è un delitto contro la natura»: tali sono le terribili sentenze che ci grida il mito: ma il poeta ellenico tocca come un raggio di sole la sublime e tremenda colonna memnonica del mito, talché essa d’un subito principia a risuonare; e risuona delle melodie sofoclee! Alla gloria della passività contrappongo la gloria dell’attività, che illumina il Prometeo di Eschilo. Ciò che il pensatore Eschilo voleva dirci, ma che il poeta ci fa solo presentire con la sua immagine allegorica, ce lo ha saputo rivelare il giovane Goethe nelle ardimentose parole del suo Prometeo: Qui saldo io sto, ed uomini Formo ad immagin mia: Una gente a me eguale Nel soffrire e nel piangere, Nel godere e gioire, E di te non curarsi, Come fo io![3.] L’uomo, esaltandosi all’altezza titanica, conquista da sé la propria civiltà e costringe gli dèi ad allearsi con lui, perché col crescere autarchico della sua sapienza ha in propria mano l’esistenza e i suoi limiti. Ma in quel poema di Prometeo, che, secondo il pensiero fondamentale del Goethe, è il vero e proprio inno dell’empietà, la meraviglia più grande è la profonda movenza eschilea alla giustizia: l’incommensurabile dolore dell’ardito singolo» da una parte, e dall’altra la divina distretta, anzi il presentimento di un crepuscolo degli dèi, la potenza che preme quei due mondi di patimento alla conciliazione, all’unificazione metafisica; tutto ciò ricorda nel modo più energico il punto centrale e la tesi capitale della concezione eschilea del mondo, la quale sopra gli dèi e gli uomini vede sovraneggiare la Moira, come eterna giustizia. Dato il meraviglioso ardimento con cui Eschilo pone il mondo olimpico sulla bilancia della giustizia, ci è lecito opinare, che il profondo poeta greco appoggiasse i suoi misteri sopra un fondo irremovibilmente saldo di pensiero metafisico, onde tutti i suoi assalti scettici potessero scaricarsi sugli Olimpici. Rispetto a tali divinità l’artista greco provava in particolare un oscuro sentimento di dipendenza reciproca: e questo sentimento è simboleggiato appunto nel Prometeo eschileo. L’artista titanico trovava in sé la fede e l’orgoglio di possedere la potenza di creare uomini e almeno la forza di annientare gli dèi olimpici; e ciò in virtù della sua alta sapienza, che purtroppo era costretto a espiare con un eterno patire. Il magnifico «potere» del genio, che perfino con l’eterno dolore è scontato troppo poco, il duro orgoglio dell’artista, ecco il contenuto e l’anima della poesia eschilea, laddove Sofocle col suo Edipo intona l’inno vittorioso della santità. Ma anche con la significazione datagli da Eschilo, lo stupefacente abisso di terrore del mito non è misurato tutto: anzi la gioia di creare dell’artista, la serenità della creazione artistica di fronte a ogni sventura, non è altro che una distesa luminosa di cielo e di nubi, specchiata nel fosco lago della tristezza. Il mito di Prometeo è originariamente un’eredità comune della razza ariana, ed è un documento della sua attitudine alla profondità tragica; anzi si direbbe non senza verosimiglianza, che esso rispetto al genio ario possiede ingenita proprio la stessa caratteristica importanza, che per la stirpe semitica ha il peccato originale; e che tra i due miti corre il medesimo grado di parentela, che tra fratello e sorella. Il presupposto del mito prometeico è l’inestimabile valore che una umanità ingenua assegna al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà nascente e ascendente; ma che l’uomo disponga liberamente del fuoco, e che non lo riceva punto come un esclusivo dono del cielo in forma di folgore accendifuoco o di calore riscaldante del sole, cotesto ai contemplanti uomini primitivi parve empietà, parve una rapina alla natura degli dèi. E così stesso, il primo problema filosofico pianta un penoso e insolubile contrasto tra l’uomo e dio, e lo trascina come un macigno sulla soglia di ogni civiltà. Il bene migliore e più alto, a cui sia dato all’umanità di partecipare, lo consegue a prezzo di un misfatto: essa deve dunque accettarne le conseguenze, cioè tutto intero il torrente di dolori e di affanni, col quale i celesti offesi mettono a prova l’uman genere anelante a nobili cose: che è un’austera idea, la quale, per la dignità che conferisce al delitto, contrasta stranamente col peccato originale semitico, in cui la curiosità, la bugiarda lusinga, la seduzione, la cupidigia, in una parola, una filza di passioni prevalentemente femminili, vengono riguardate come origine del male. Ciò che segnala la concezione aria, è l’elevata idea del peccato attivo, quale virtù specificamente prometeica; nel che si riscontra, insieme, il fondo etico della tragedia pessimistica, come giustificazione dell’umano male, e quindi tanto della umana colpa quauto del patire che ne consegue. L’avversità nell’essenza delle cose, sulla quale l’ario meditativo non è disposto a sottilizzare e spacciarsene, il contrasto nel cuore del mondo gli si palesa come un miscuglio di mondi diversi, per esempio di un mondo divino e uno umano, dei quali ciascuno come individuo ha il suo pieno diritto, ma come singolo accanto all’altro deve soffrire per la propria individuazione. Il singolo col suo impeto eroico verso la universalità, col tentativo di sormontare la via dell’individuazione e diventare esso medesimo un solo essere universale, ripaga a prezzo di sé stesso il contrasto originario celato nelle cose; vale a dire misfà e patisce. Perciò gli arii concepiscono il delitto come maschio, i semiti il peccato come femmina; in modo che il delitto originale è commesso dall’uomo, il peccato originale dalla donna. D’altronde il coro delle streghe canta: Noi non andiamo con troppo rigore: La donna la fa con mille passi; Ma per quanto essa possa affrettarsi, L’uomo la fa con un salto. Chi comprende l’intimo nocciolo del mito di Prometeo, vale a dire la necessità del misfatto imposta all’individuo anelante alla potenza titanica, sentirà insiememente anche ciò che di non apollineo contiene cotesta idea pessimista; giacché Apollo vuol condurre alla calma gli esseri singoli appunto tracciando tra loro le rispettive linee limitative, e tenendole sempre loro presenti, come le più sacre leggi universali, coi suoi precetti di conoscenza di sé e di misura. Ma affinché con questa tendenza apollinea la forma non si congeli nella rigidità e freddezza egiziana; affinché nella sollecitudine di predeterminare alle singole onde il loro corso e la loro estensione, il moto di tutto il mare non resti morto, l’alta marea del senso dionisiaco sopravviene di tempo in tempo a rimescolare tutti quei piccoli cerchi, in cui la «volontà» unilateralmente apollinea cerca d’incantare e irrigidire l’ellenismo. 11 fiotto repentinamente sollevato del senso dionisiaco prendeva allora sul dorso le singole piccole cime ondulate degl’individui, come il fratello di Prometeo, il titano Atlante, prendeva sul dorso la terra. Cotesto impeto titanico, l’impeto, cioè, di diventare l’Atlante di tutti i singoli e di portarli sull’ampio dorso sempre più in alto e sempre più lontano, costituisce il punto comune tra il genio prometeico e il dionisiaco. Per tale riguardo il Prometeo eschileo è una maschera dionisiaca, laddove, per le tendenze sopra menzionate alla giustizia, Eschilo all’occhio intelligente tradisce la sua discendenza paterna da Apollo, il dio dell’individuazione e dei termini della giustizia. Talché la duplice essenza del Prometeo eschileo, la sua natura dionisiaca insieme e apollinea potrebbe tradursi in una forinola compendiosa così: «Tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e come giusto e come ingiusto è egualmente giustificato». Tale è il tuo mondo, ossia un mondo! |
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È incontestabile tradizione, che la tragedia greca nella sua forma più antica aveva per oggetto esclusivamente i dolori di Dioniso, e che per un lunghissimo corso di tempo il solo personaggio scenico esistente fosse appunto Dioniso. Solo che con pari sicurezza è lecito affermare, che fino ad Euripide Dioniso non ha mai cessato di essere l’eroe tragico, ma che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo e via dicendo, non furono più che maschere dell’eroe originario Dioniso. Che dietro tutte coteste maschere si celasse una divinità, è questa appunto la ragione essenziale della tanto ammirata «idealità» tipica di quelle celebri figure. Non so chi ha sostenuto, che tutti gl’individui, come individui, sono comici e perciò non tragici; donde s’inferirebbe, che i greci non poterono in generale comportare individui sulla scena tragica. Sembra che effettivamente abbiamo sentito così: lo prova in generale la distinzione e valutazione platonica dell’«idea» in contrapposto all’«idolo», cioè all’immagine; distinzione che è radicata profondamente nella natura greca. Per servirci della terminologia di Platone, si potrebbe in certo modo dire dei personaggi tragici della scena greca, che il Dioniso veramente reale compare in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe lottante e, per così dire, preso alla rete della volontà del singolo. Comparendo in tale conformità e parlando e agendo corrispondentemente, il dio somiglia a un individuo che erra, che si affatica, che patisce: e in generale il suo apparire in cotesta precisione ed evidenza epica è l’opera dell’oniromante Apollo, il quale con quell’apparizione allegorica chiarifica e illustra al coro il suo confuso stato dionisiaco. Ma in verità l’eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, è il dio che prova su di sé i dolori dell’individuazione, il dio di cui i miti meravigliosi raccontano, che fanciullo fu fatto a pezzi dai titani, e in quello stato lo adorarono sotto il nome di Zagreo: donde risulta evidente, che cotesto sbranamento, in cui consiste la vera e propria passione di Dioniso, è semplicemente la trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco; e che dunque dobbiamo considerare lo stato dell’individuazione come la fonte e la cagione originale di tutto il patire, come alcunché di rifiutabile per sé stesso. Dal riso di cotesto Dioniso nacquero gli dèi olimpici, dal pianto gli uomini. Durante la sua esistenza di dio fatto in pezzi Dioniso ha la duplice natura di un feroce demone selvaggio e di un mite e clemente dominatore. Ma la speranza degli epopti correva a una rinascita di Dioniso, che in un modo pieno di presentimenti bisogna che noi comprendiamo come la fine dell’individuazione: al ritorno di questo terzo Dioniso inneggiava strepitoso il cantico di giubilo degli epopti. E solo questa speranza spande un raggio di allegrezza sulla faccia del mondo dilaniato, rotto in individui: così lo configura il mito con l’immagine di Demetra immersa in eterna afflizione, la quale per la prima volta ritorna lieta, quando le vien detto che può di nuovo partorire Dioniso. Nelle considerazioni addotte abbiamo già tutti gli elementi di una profonda e pessimistica concezione del mondo, e perciò anche la dottrina dei misteri della tragedia: abbiamo cioè la teoria fondamentale dell’unità di tutto ciò che esiste, il criterio che giudièa l’individuazione come la cagione originale del male, l’arte come lieta speranza che il corso dell’individuazione sia rotto, come presentimento di una restaurazione dell’unità. Poc’anzi si è mostrato, che l’epos omerico è il poema della civiltà olimpica, col quale essa ha cantato il suo inno di vittoria sul terrore della titanomachia. Adesso, sotto l’influenza soverchiante della poesia tragica, i miti omerici rinascono trasfigurati, e in questa metempsicosi mostrano che nel frattempo la civiltà olimpica è stata vinta da una più profonda concezione del mondo. L’altero titano Prometeo ha annunziato al suo tormentatore olimpico, che un supremo pericolo minacciava la sua dominazione, se al momento opportuno non si alleava con lui. In Eschilo apprendiamo l’alleanza del titano con Giove spaventato, trepidante per la propria fine. Così l’antica età dei titani riceve un seguito, è riportata nuovamente dal Tartaro alla luce. La filosofia della selvaggia e nuda natura guarda col viso sbendato della verità i miti del mondo omerico che le danzano davanti: essi impallidiscono, tremano sotto lo sguardo folgorante di questa dea, finché il pugno potente dell’artista dionisiaco li piega al servigio della nuova divinità. La verità dionisiaca assume l’intero dominio del mito come simbolica della sua conoscenza, e la esprime parte nel pubblico culto della tragedia, parte nella celebrazione segreta delle feste drammatiche dei misteri, ma sempre sotto l’antico velame mistico. Quale forza era cotesta, che liberava Prometeo dall’avoltoio e trasformava il mito in strumento della sapienza dionisiaca? È la forza erculea della musica: come tale, ascesa nella tragedia alla sua manifestazione suprema, la musica sa interpetrare il mito con una significazione nuova e più profonda; e noi sopra abbiamo già caratterizzato appunto in questo valore la facoltà più potente della musica. Giacché la sorte di ogni mito è quella di rattrappirsi a poco a poco nell’angustia di una pretesa realtà storica, e di essere trattato con pretese storiche da un’epoca posteriore, come un fatto puro e semplice; e i greci erano già interamente sulla via di cambiare la faccia a tutto il loro sogno mistico giovanile, e di marchiarlo con sagacità e con arbitrio come la loro storia prammatica della giovinezza. È questo infatti il modo come sogliono morire le religioni: muoiono, cioè, quando i presupposti mistici di una religione, esaminati dall’occhio rigido e critico di undommatismo ortodosso, vengono sistematizzati come una somma completa di avvenimenti storici; quando si principia perciò a difendere affannosamente la credibilità dei miti, ma si ripugna a ogni loro naturale crescimelito e sviluppo; quando dunque il sentimento del mito si estingue, e ne prende il posto la pretesa della religione a far valere le sue basi storiche. Ed ecco che il genio neonato della musica afferra il mito moribondo; e nella sua mano esso rifiorisce, e rifiorisce con colori che non ha mai mostrato, con un profumo che suscita il presentimento di un mondo metafisico. Dopo quest’ultimo risplendimento esso cade, le sue foglie appassiscono, e i beffardi Luciani dell’antichità si affrettano a ghermire i fiori sbattuti da tutti i venti, scoloriti e aridi. Con la tragedia il mito viene al suo contenuto più profondo, alla sua forma più finitamente espressiva: esso si risolleva ancora una volta, come un eroe ferito, e tutta la forza che gli rimane, insieme con la pacatezza piena di sapienza del moribondo, gli accende negli occhi il lume estremo, potente. Che cosa volevi, o sacrilego Euripide, quando cercasti di piegare ai tuoi servigi questo moribondo? Tra le tue mani gagliarde esso peri; e allora adoperasti un mito contraffatto, mascherato, che come la scimmia d’Ercole sapesse solamente adornarsi della clamide antica. E come ti morì tra mani il mito, ti morì anche il genio della musica: anche se con avida rapina avessi saccheggiato tutti i giardini della musica, pure non avresti adoperato altro a tuo uso, che una musica contraffatta e mascherata. E perché tu abbandonasti Dioniso, Apollo abbandonò te. Scova pure dalla loro tana tutte le passioni, ed esorcizzale nel tuo cerchio magico; affila e aguzza pure pei discorsi dei tuoi eroi una dialettica sofistica: ebbene, anche i tuoi eroi hanno passioni meramente contraffatte e mascherate, e recitano discorsi meramente contraffatti e mascherati. |
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11. |
La tragedia greca si spense iu modo diverso che non tutte le altre forme consorelle di arte di età più antica: morì di suicidio, in conseguenza di un conflitto insolubile: perì dunque tragicamente, laddove quelle altre si estinsero della morte più bella e tranquilla, ben avanti negli anni. Se, cioè, è proprio di un felice stato naturale il separarsi dalla vita senza spasimo e lasciandosi dietro una bella posterità, proprio quel felice stato ci mostra la fine dei generi d’arte più antichi: i quali si spengono lentamente, e davanti ai loro occhi morenti è già sorta una più bella fìgliuolanza, che in atto ardito alza il capo impaziente. Per contro, con la fine della tragedia greca si aprì un vuoto enorme, sentito dovunque profondamente; e come una volta ai tempi di Tiberio i naviganti greci udirono salire da un’isola solitaria un grido di sgomento: «il gran Pan è morto!», così ora un suono di cordoglio echeggiò pel mondo ellenico: «la tragedia è morta! Con lei la stessa poesia è andata perduta! Via, via di qui, o epigoni slombati e smilzi! Andate giù all’Ade, per potervi saziare almeno con le briciole dei maestri di una volta!». Purtroppo, quando venne in fiore un nuovo genere artistico che salutava nella tragedia la sua precorritrice e maestra, allora si verificò con terrore, che esso aveva per filo e per segno i lineamenti di sua madre; ed erano, per colmo, proprio quelli che la madre aveva mostrati durante la sua lunga agonia. Contro cotesta agonia della tragedia lottò Euripide; e il nuovo genere che ne seguì è noto sotto il nome di commedia attica nuova. In essa continuò a vivere la figura degenere della tragedia, cippo commemorativo della sua fine misera e violenta. Dato cotesto legame, si comprende l’inclinazione passionata che trovavano per Euripide i poeti della commedia nuova; tanto che non può troppo stupirci il desiderio di Filemone, di volere essere subito impiccato per andare all’inferno a visitare Euripide, solo che si fosse persuaso che il morto laggiù serbasse tuttora il suo ingegno. Ma se con la massima brevità, e senza la pretesa di dir nulla di esauriente, si vuole indicare ciò che Euripide ha di comune con Menandro e Filemone, e ciò che Io imponeva a loro come un modello irresistibile, basti dire, che Euripide ha preso lo spettatore e lo ha portato sulla scena. Chi ha capito di quale materia i tragici prometeici anteriori ad Euripide formassero i loro eroi, e quanto fosse lontana dalla loro intenzione l’idea di portare sulla scena la maschera fedele della realtà, si rende conto della tendenza del tutto diversa di Euripide. Guidato dalla sua mano, l’uomo della vita di ogni giorno passa dalla cavea sul palcoscenico: lo specchio, che prima rifletteva l’espressione dei grandi e arditi sembianti, ora mostrava quella fedeltà meticolosa, che rende con scrupolo anche i lineamenti sbagliati della natura. Ulisse, l’elleno tipico della prisca arte, adesso tra le mani dei nuovi poeti si striminzisce nella figura del greculo, il quale da ora in poi occupa il cèntro dell’interesse drammatico come servo di casa disinvolto e furbacchione. Ciò che Euripide nelle «Rane» di Aristofane ascrive a suo merito, di avere cioè liberato della corpolenza solenne l’arte tragica col suo decotto di famiglia, noi lo ritroviamo innanzi tutto nei suoi eroi tragici. In sostanza lo spettatore vedeva e udiva il proprio doppione sulla scena euripidea, e si compiaceva che sapesse parlare tanto bene. Solo che non si tennero a questa compiacenza: appresero a parlare essi stessi alla maniera di Euripide, il quale appunto di questo si vanta nella sua gara con Eschilo: che per mezzo suo il popolo aveva imparato a osservare le cose con tutte le regole dell’arte, e a trattarle e cavarne le conseguenze coi più scaltriti sofisticamenti. In generale, con siffatta metamorfosi della parlata comune egli dischiuse le porte alla commedia nuova. Giacché da ora in poi non esisteva più alcun segreto nell’uso dei modi di dire coi quali potesse essere rappresentata sulla scena la vita quotidiana. La mezzanità borghese, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche, veniva ora a ricevere la sua espressione, dopo che il semidio nella tragedia e il satiro ubbriaco o semiuomo nella commedia antica avevano prefisso il carattere dell’elocuzione. Perciò l’Euripide aristofanesco ascrisse a suo vanto l’aver rappresentato la vita e la pratica generale, notoria, quotidiana, sulla quale ognuno era posto in grado di dir la sua. Se adesso tutta la moltitudine filosofava, e con accortezza inaudita amministrava le terre e i beni e discuteva le sue cause in tribunale, era merito suo, era effetto della sapienza infusa nel popolo da lui. A una moltitudine preparata e illuminata in tal conformità doveva ora volgersi la nuova commedia, per la quale Euripide, per così dire, ha fatto da corego; solo che adesso il coro era fatto dagli spettatori. Il quale, non appena si fu addestrato a cantare sul tono di Euripide, fece sì che venisse in voga quella specie di spettacolo in forma di gioco di scacchi, che fu la commedia nuova, col suo continuo trionfo della scaltritezza e della furberia. Pertanto Euripide, il corego, fu celebrato senza fine: avrebbero voluto morire per apprendere ancora qualche cosa da lui, se non avessero saputo, che i poeti tragici erano morti non meno che la tragedia. Ma con essa l’elleno aveva smarrito la fede nella sua immortalità, e non solo la fede nel suo passato ideale, sibbene anche la fede in un avvenire ideale. La parola del noto epitaffio: «come vecchio volubile e lunatico», va detta anche del decrepito ellenismo. Il moto del momento, il motteggio, il capriccio, il ruzzo sono le sue supreme divinità: il dominio è preso dal quinto stato, quello degli schiavi, e se non proprio da lui, per lo meno dalla sua mentalità; e se adesso in generale si vuole ancora parlare della «serenità greca», essa è appunto la serenità dello schiavo, che non sa assumere alcuna responsabilità grave, non sa aspirare a nulla di grande, non sa apprezzare né passato né avvenire più preferibile del presente. E proprio questo aspetto della «serenità greca» ribellò tanto le profonde e formidabili nature dei primi quattro secoli del cristianesimo: alle quali cotesto svignarsela femminescamente davanti a ogni cosa seria e a ogni sgomento, cotesto codardo contentarsi dei propri comodi tranquilli, parve una disposizione morale non solo spregevole, ma vera e propria disposizione anticristiana. E bisogna ascrivere alla loro influenza, se l’opinione sopravvissuta per secoli intorno all’antichità greca persistè con invincibile tenacia a vederla tinta di quella serenità color di rosa, quasi che non fosse mai esistito un sesto secolo con la sua nascita della tragedia, coi suoi misteri, col suo Pitagora e il suo Eraclito; quasi che non fossero esistite le opere d’arte della grande epoca, le quali pure, ciascuna per suo conto, non si spiegano affatto sopra un tale terreno di gusto di vivere e di serenità conformi ad anime vecchie e a mentalità da schiavi, e invece dimostrano di aver avuto come causa esistenziale una concezione del mondo completamente diversa. Da quanto si è dianzi affermato, che Euripide ha portato lo spettatore sulla scena, per fare dello spettatore un giudice davvero competente del dramma, quale prima non era, sorge il sospetto, se l’antica arte tragica non fosse sproporzionata allo spettatore; onde si è tentati di vantare come un progresso su Sofocle la tendenza radicale di Euripide di mirare a una corrispondente proporzione tra l’opera d’arte e il pubblico. Ha il «pubblico» è una mera parola, e non è affatto una concretezza omogenea e consistente. Donde verrebbe all’artista il dovere di conformarsi a una forza che ha solo nel numero il suo vigore? E se pel suo talento e pei suoi fini egli si sente al disopra di tutti i singoli spettatori, come mai potrebbe tenere in maggior considerazione l’espressione comune a tutte coleste competenze a lui subordinate, anziché il singolo spettatore relativamente dotato del massimo gusto? In effetto, nessun artista greco ha durante il corso di una lunga vita trattato il suo pubblico con più audacia e sufficienza di Euripide appunto: egli che, anche quando le moltitudini gli cadevano ai piedi, buttava loro apertamente sul viso la propria tendenza, la stessa tendenza con cui aveva trionfato delle moltitudini. Se questo genio avesse provato il minimo senso di rispetto davanti al pandemonio del pubblico, sarebbe stramazzato sotto i colpi di clava delle sue disdette, prima di arrivare a mezzo della sua carriera. Facendo questa considerazione, vediamo che l’espressione da noi usata, di avere cioè Euripide trasportato lo spettatore sulla scena per farne un giudice davvero competente, è stata meramente provvisoria, e che è necessario che approfondiamo l’intendimento della sua tendenza. È, all’incontro, universalmente noto, che Eschilo e Sofocle, finché vissero e anche dopo, furono pienamente padroni del favore del pubblico, e che rispetto a questi predecessori di Euripide non è minimamente a parlarsi di una sproporzione tra l’opera d’arte e l’intelligenza del pubblico. Un artista ricco di tante doti e così infaticabilmente premuto alla creazione, da che cosa mai fu forviato oltre i termini della strada antica, sulla quale splendevano come soli i nomi dei massimi poeti e l’incorrotto cielo del favore popolare? Quale singolare riguardo allo spettatore lo pose contro lo spettatore? Come mai, per una più alta stima del suo pubblico, potè egli disistimare il pubblico? Come poeta, Euripide, ecco la soluzione dell’enimma ora posto, si senti ben al disopra della folla, ma non al disopra di due tra i suoi spettatori: trasportò la folla sulla scena, ma solo quei due spettatori stimò competenti giudici e maestri di tutta la sua arte. Seguendo i loro ammaestramenti e ammonimenti, trasferì tutto quanto il mondo di sentimenti, di passioni, di esperienze, che finora a ogni rappresentazione avevano occupato come un coro invisibile la cavea degli spettatori, nell’anima dei suoi eroi scenici; si conformò alle loro esigenze quando per cotesti nuovi caratteri ricercò anche la parola nuova e la nuova armonia, e nelle loro voci udiva unicamente le sentenze favorevoli alla sua creazione, come unicamente udiva l’incoraggiamento promettitore di vittoria, ogniqualvolta si vedeva novellamente condannato dal tribunale del pubblico. Di questi due spettatori l’uno è lo stesso Euripide, Euripide come pensatore, non come poeta. Di lui potrebbe dirsi, che lo straordinario rigoglio del suo talento critico ha, del pari che come in Lessing, se non generato, pure continuamente fecondato un istinto suppletivo produttivamente artistico. Con questa qualità, con tutta la chiaroveggenza e l’agilità della sua mente critica, Euripide si era seduto a teatro e si era sforzato di raffigurare e riconoscere tratto su tratto, linea su linea, come sopra pitture incupite dal tempo, la consistenza dei capolavori dei suoi grandi antesignani. E qui gl’incontrò quello che non deve riuscire inatteso agl’iniziati nei più profondi segreti della tragedia eschilea: egli riscontrò qualcosa d’incommensurabile in ogni tratto e in ogni linea, una certa precisione ingannevole e, insieme, una profondità enimmatica, che dico? l’infinità dello sfondo. La figura più lucida aveva sempre alle spalle come una coda di cometa, che pareva far segno ad alcunché di ambiguo, ad alcunché dove la luce non arrivava. Lo stesso lume malcerto copriva la struttura del dramma, principalmente la significazione del coro. E come rimase ambigua per lui la soluzione dei problemi etici! Come problematica la trattazione dei miti! Come sproporzionata l’assegnazione della felicità e dell’infelicità! Perfino del linguaggio della tragedia antica molto gli riusciva stonato, o per lo meno enimmatico; e specialmente trovava troppa pompa rispetto alla semplicità di casi comuni, troppe metafore e prodigiosità rispetto alla genuinità dei caratteri. Così, meditando e sottilizzando irrequieto, sedeva in teatro e confessava a sé stesso, egli, lo spettatore, di non capire i suoi grandi predecessori. Ma se per lui il comprendere significava la vera e propria radice di ogni godimento e di ogni creazione, doveva pure domandarsi e guardarsi intorno, se non c’era qualche altro che pensava come lui e come lui parimente conveniva intorno a quella incommensurabilità degli antichi tragici. Ma i molti, e coi molti anche i migliori a uno a uno, ebbero per lui non più che un sorriso diffidente; e nessuno seppe spiegargli il perché i suoi dubbi e appunti levati sui grandi maestri potessero avere un fondamento. In tale penosa situazione si abbatté nel secondo spettatore, che non capiva la tragedia e perciò non l’apprezzava. Unito in lega con questo, egli potè arrischiarsi di uscire dalla solitudine e imprendere, la lotta prodigiosa contro i capolavori di Eschilo e di Sofocle; e non già con scritti polemici, ma da poeta drammatico, che alla concezione tradizionale della tragedia contrapponeva la sua. |
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12. |
Prima di dare il nome a questo nuovo spettatore, sostiamo un momento per richiamare netta alla memoria l’impressione sopra descritta del discordante e dell’incommensurabile nell’essenza della tragedia eschilea. Pensiamo allo stupore suscitato in noi dal coro e dall’eroe tragico di tale tragedia, dei quali non sapevamo conciliare né l’uno né l’altro con la tradizione e tanto meno coi nostri criteri abituali, fino a quando non venimmo a scoprire che quella stessa duplicità era da riguardarsi per sé medesima come l’origine e l’essenza della tragedia, come l’espressione di due istinti artistici intrecciati l’uno nell’altro, l’apollineo e il dionisiaco. Scindere dalla tragedia l’originario e onnipotente elemento dionisiaco e ricostruirla pura e nuova su un’arte, una morale e una concezione del mondo non dionisiache, è questa la tendenza di Euripide, quale ora ci si rivela limpidamente rischiarata. Euripide stesso, giunto al dechino della vita, propose ai suoi contemporanei nel modo più penetrante, con un mito, la questione del valore e dell’importanza di cotesta tendenza. Il senso dionisiaco in generale deve sussistere? o non bisogna estirparlo violentemente dal suolo greco? Certamente, ci dice il poeta, se però fosse possibile: ma il dio Dioniso è troppo potente: l’avversario più accorto, come Penteo nelle «Baccanti», viene all’imprevista colpito dal suo incantesimo, e così incantato corre al suo destino. Il giudizio dei due vecchi Cadmo e Tiresia sembra essere anche il giudizio del vecchio poeta: la prudenza di quelli che erano i più savi non rigettava le antiche tradizioni popolari, il culto eternamente perpetuato di Dioniso; anzi, davanti a tali forze portentose, conveniva mostrare almeno un’adesione diplomaticamente riservata; sempre che però fosse possibile, che il dio non prendesse in mala parte un contegno così tepido verso di lui, e non concludesse col mutare il diplomatico in serpente, come capitò a Cadmo. Questo ci dice il poeta, il quale con forza eroica ha resistito a Dioniso dui-ante tutta la vita, per poi conchiuderla con la glorificazione dell’avversario e suggellare la sua carriera con un suicidio, conformemente a un malato di vertigini, che unicamente per sfuggire al terribile capogiro divenutogli ormai insopportabile, finisce chesibutta giù dalla torre. Quella tragedia è una protesta contro l’eseguibilità della sua tendenza: ma, purtroppo, era già attuata! Il prodigio era avvenuto: quando il poeta si ritrattò, la sua tendenza aveva già trionfato. Dioniso era stato già esorcizzato via dalla scena tragica, ed esorcizzato per virtù di una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide. Lo stesso Euripide, in un certo senso, era una mera maschera; la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso, ma nemmeno era Apollo, sibbene un demone di fresco nato per nome Socrate. Tale era il nuovo contrasto: l’istinto dionisiaco e la mentalità socratica, per cui effetto l’opera d’arte della tragedia greca andò in perdizione. Potè bene Euripide, ricredendosi, cercare di consolarcene; non gli venne fatto. Il più magnifico dei templi giacque nelle sue rovine: che ci giova la lamentazione del distruttore e la sua confessione, che quello era stato il più bello di tutti i templi? E anche se Euripide per la pena inflittagli dai giudici d’arte di tutti i tempi è stato mutato in serpente, ebbene, cotesto pietoso compenso chi mai riesce a contentare? E ora guardiamo da vicino cotesta tendenza socratica, in virtù della quale Euripide ha combattuta e vinta la tragedia eschilea. Quale scopo in generale, dobbiamo adesso domandarci, l’intenzione euripidea di fondare il dramma esclusivamente sullo spirito non dionisiaco poteva prefiggersi nella suprema idealità della sua esecuzione? Quale forma del dramma era tuttora ammissibile, se le era precluso di nascere dal seno materno della musica, nel misterioso crepuscolo dell’istinto dionisiaco? Non altra, che l’epos drammatizzato: che è un dominio artistico apollineo, nel quale per altro non è certamente dato raggiungere l’effetto tragico. Qui non si tratta degli avvenimenti rappreseneanzi io sono per affermare, che a Goethe, nella «Nausicaa» da lui divisata, sarebbe riuscito impossibile rendere tragicamente espressivo il suicidio di quella creatura idilliaca, con cui si sarebbe dovuto chiudere il quinto atto: tanto è straordinaria la potenza dello spirito epico-apollineo, il quale col piacere della visione epica è con la liberazione dell’animo per mezzo di tale visione veste d’incanto ai nostri occhi le cose più spaventevoli. Tanto meno è dato al poeta dell’epos drammatizzato assorbirsi completamente nelle sue immagini, come al rapsodo epico; il quale è sempre tranquillamente pacato, immerso nella lontana intuizione che raffigura le immagini davanti a sé. In questo epos drammatizzato l’attore rimane sempre, nel più profondo senso, un rapsodo: in tutte le sue azioni si esplica là consacrazione del suo intimo sognare, talché egli non è mai interamente e solamente l’attore. In che modo si comporta l’opera euripidea davanti a cotesto ideale del dramma apollineo? Si comporta come davanti ai rapsodi solenni dell’epoca antica il rapsodo moderno, che nel «Jone» platonico così descrive la propria natura: Quando io dico qualcosa di triste, gli occhi mi si empiono di lacrime; ma se ciò che dico è spaventoso e orribile, allora i capelli mi si rizzano sulla testa dal raccapriccio, e il cuore picchia». Qui non troviamo più nulla di quell’assorbimento epico nella visione, della freddezza imperturbata del vero attore, che proprio nel culmine dell’azione è tutto nella visione che rende e nella gioia di renderla. Euripide è l’attore dal cuore che picchia, dai capelli ritti sulla testa: abbozza il disegno da pensatore socratico, lo esegue da attore passionato. Egli non è un puro artista né nel disegnare né nell’eseguire. Perciò il dramma euripideo è una cosa insiememente fredda e calda, parimente buona ad agghiacciare e a bruciare: a lui riesce impossibile ottenere l’effetto apollineo dell’epos, mentre, d’altra parte, si è affrancato il più possibile dagli elementi dionisiaci, e in generale, per raggiungere l’effetto, si serve di nuovi mezzi commotivi, che non hanno nulla più di comune coi due istinti, i soli artistici, che sono l’apollineo e il dionisiaco. Tali mezzi commotivi sono freddi pensieri paradossastici al posto delle intuizioni apollinee, e affetti ardenti al posto dei rapimenti dionisiaci; e, per vero dire, sono pensieri e affetti imitati realisticamente al massimo grado, e che non sono stati minimamente immersi nell’etere dell’arte. Dopo avere così riconosciuto che Euripide in sostanza non riuscì a fondare il dramma esclusivamente sul senso apollineo, e che piuttosto sperse la sua tendenza antidionisiaca in una tendenza naturalistica e non artistica, ci bisogna ora osservare più da vicino il socratismo estetico, la cui legge sovrana suona a un dipresso così: «per essere bello, tutto dev’essere intelligibile»; che è il principio parallelo all’aforismo socratico: «solo chi sa è virtuoso». Con questo canone alla mano, Euripide proporzionò tutti i particolari uniformandoli al principio fondamentale: il linguaggio, i caratteri, la struttura drammaturgica, la musica corale. Ciò che noi così frequentemente, nel confronto con la tragedia sofoclea, sogliamo appuntare ad Euripide come deficienza e regresso poetici, è in massima parte il prodotto di quello stringente processo critico, di quell’audace intellettualità. Il prologo euripideo ci valga di esempio sulla produttività di quel metodo razionalista. Nulla riesce più ripugnante alla nostra tecnica scenica, quanto il prologo nel dramma di Euripide. Che un singolo personaggio all’inizio della rappresentazione venga a raccontare chi esso è, ciò che abbia preceduto l’azione, ciò che finora è accaduto, ciò che sarà per accadere nello svolgimento dell’opera, tutto ciò equivale a una condotta scenica che un poeta drammatico moderno qualificherebbe come una stravagante e imperdonabile rinunzia all’effetto dell’attesa. Sicuro, si viene già a conoscere per filo e per segno ciò che avverrà; e chi mai vorrà stare ad aspettare che effettivamente avvenga? giacché qui non è menomamente il caso dell’ansiosa apparizione di un sogno rivelatore, che poi vada effettuandosi nella realtà. Euripide riflette in modo afflitto diverso. L’effetto della tragedia non si poggia mai sulla tensione epica, sull’attraente ignoranza di ciò che va accadendo e che accadrà in séguito; ma piuttosto su quelle grandi scene rettorico-liriche, in cui la passione e la dialettica dell’eroe protagonista si gonfiano e prorompono in un fiume ampio e possente. Tutto era predisposto pel pathos, non per l’azione; ciò che non predisponeva gli spettatori al pathos, valeva come rifiutabile. Il fatto che massimamente trattiene lo spettatore dall’abbandonarsi con tutto l’animo al piacere di tali scene, è la mancanza di un elemento integrante, la lacuna nel tessuto dei precedenti avvenimenti: fintanto che lo spettatore deve ancora rendersi conto di ciò che significa questo o quel personaggio, di quali sono i presupposti di questo o quel conflitto d’inclinazioni e d’intenzioni, non è ancora possibile la sua piena partecipazione al soffrire e adoperare dei protagonisti, non è possibile il patire con loro affannosamente, il provare con loro la paura e lo spavento. La tragedia di Eschilo e di Sofocle impiegò i mezzi artistici più ingegnosi per porre fin dalle prime scene nelle mani dello spettatore, ma incidentemente e, per così dire, senza parere, tutti i fili indispensabili all’intelligenza dell’azione: genialità espeditiva, in cui si affermò quel nobile magistero artistico, che maschera la parte formale che s’impone come necessaria, e la fa sembrare accidentale. Tuttavia Euripide credé di notare, che durante quelle prime scene lo spettatore venisse in preda alla speciale impazienza di arguire dai fatti antecedenti i conseguenti, in modo che le bellezze poetiche e il pathos dell’esposizione andavano perdute per lui. Perciò all’esposizione prepose il prologo, e lo mise in bocca a un personaggio a cui bisognava prestar fede; vale a dire in bocca a una divinità, che doveva adeguatamente garantire al pubblico lo svolgimento della tragedia e cancellare ogni dubbio sulla realtà del mito; che è in sostanza lo stesso modo come Descartes s’indusse a dimostrare la realtà del mondo empirico: apollandosi alla veracità di Dio e alla sua incapacità di mentire. Di cotesta veracità divina Euripide si serve un’altra volta sulla fine del dramma, per rassicurare completamente il pubblico sull’avvenire dei suoi eroi: tale è il cómpito del famoso deus ex machina. L’azione drammatico-lirica, il vero e proprio «dramma» decorre tra il prologo e l’epilogo epici. Talché Euripide come poeta è soprattutto l’eco delle sue conoscenze ben meditate; e questo appunto gli assicura un posto così memorando nella storia dell’arte greca. Quanto alla natura critico-produttiva della sua composizione, dovè spesso venirgli in mente se non gli conveniva render valida anche pel dramma la protasi di quell’opera di Anassagora, le cui prime parole dicono: «in principio tutto era commisto; poi venne l’intelletto e creò l’ordine». E se Anassagora col suo «noo» parve tra i filosofi come il primo uomo in senno in mezzo a ebbri spacciati, anche Euripide dovè intendere nella medesima conformità la sua posizione rispetto agli altri poeti della tragedia. Fintanto che l’unico ordinatore e dispositore del tutto, il noo, era ancora escluso dalla creazione artistica, tutto permaneva intrugliato in un poltricchio caotico primordiale: così Euripide ebbe a giudicare; così, da primo «uomo in senno», ebbe a condannare i poeti ebbri». Ciò che Sofocle disse di Eschilo, che, cioè, quanto faceva era ben fatto, quantunque fatto inconscianiente, certamente non lo disse nel senso di Euripide; il quale invece avrebbe esclusivamente fatto valere, che Eschilo, perché creava inconsciamente, quello che creava, dunque, non era ben fatto. Anche il divino Platone quasi sempre parla con una punta d’ironia della facoltà creatrice del poeta, in quanto non è intelligenza cosciente, e la eguaglia al dono dell’indovino e dell’oniromante: che perciò non è capace di poetare prima che sia divenuto incosciente, e più non alberghi in lui alcun lume d’intelletto. Euripide s’incaricò, come se ne incaricò anche Platone, di presentare al mondo la contrapparte del poeta «inintelligente»: il principio estetico «tutto dev’essere cosciente per essere bello» è, come ho già detto, il riscontro del principio socratico «tutto dev’essere consapevole per essere buono». Conseguentemente Euripide rappresenta per noi il poeta del socratismo estetico. Giacché Socrate, e non altri che lui, è quel secondo spettatore che non comprendeva la tragedia antica e perciò non l’apprezzava: in lega con lui, Euripide osò essere l’araldo di una nuova creazione artistica. Se per sua cagione la tragedia antica andò in rovina, il principio sterminatore fu dunque il socratismo estetico; e siccome la lotta era diretta contro il senso dionisiaco dell’arte precedente, noi riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso, il nuovo Orfeo che si levò contro Dioniso, e, sebbene destinato al dilaceramento delle menadi del tribunale ateniese, pure costrinse alla fuga il prepotente iddio. Il quale, come al tempo che fuggi davanti a Licurgo re degli Edoni, chiese scampo nelle profondità del mare, vale a dire nelle onde mistiche di un culto segreto, che a poco a poco avrebbe invaso il mondo intero. |
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13. |
All’antichità contemporanea non sfuggi la stretta affinità di tendenza che legava Socrate ad Euripide; e l’espressione più eloquente di cotesto sentore indovino è la diceria diffusa in Atene, che Socrate solesse dare una mano ad Euripide nel poetare. I due nomi venivano pronunziati insieme dai partigiani del «buon tempo antico», quando si trattava di mentovare i sodduttori del popolo: dipendeva dalla loro influenza, se l’antica quadrata gagliardia maratonia del corpo e dell’anima, col continuato snervamento delle forze corporee e spirituali, era sacrificata a una cultura sempre più scettica. In siffatto tono, metà di sdegno, metà di sprezzo, la commedia aristofanesca usa parlare di quegli uomini, con grande scandalo dei giovani, che in verità avrebbero pure buttato a mare Euripide, ma che non arrivavano a stupirsi abbastanza, come mai Aristofane potesse presentare Socrate pel primo e sovrano sofista, per lo specchio e il compendio di tutti gli arzigogoli sofistici: contro di che una sola consolazione rimaneva; ed era di mettere alla berlina lo stesso Aristofane come un dissoluto e bugiardo Alcibiade della poesia. Senza fermarmi a questo punto a difendere da tali contrattacchi i profondi istinti di Aristofane, continuo a dimostrare, fondandomi sullo stato d’animo del tempo, la stretta congruenza del genio di Socrate col talento di Euripide; nel qual senso bisogna specialmente ricordare, che Socrate, da avversario dell’arte tragica, si asteneva dalle rappresentazioni della tragedia, e che interveniva solo quando era portato sulla scena un nuovo lavoro di Euripide. Ma più che mai famoso è il raccostamento dei due nomi nel detto dell’oracolo di Delfo, che dichiarò Socrate il più sapiente degli uomini, e nello stesso tempo sentenziò, che nella gara della sapienza il secondo posto spettava ad Euripide. Terzo in tale graduazione era mentovato Sofocle; egli che, rispetto ad Eschilo, poteva vantarsi di far bene, e di farlo, perché sapeva ciò che era ben fatto. Evidentemente è per l’appunto il grado di chiarezza di cotesto sapere, il fatto che accomuna i tre uomini designandoli come i tre «sapienti» del loro tempo. Ma in quella nuova e inaudita esaltazione del sapere e dell’intelligenza, la parola più tagliente la disse Socrate, quando egli si trovò di essere il solo che confessava a sé stesso di non saper nulla; laddove nelle sue peregrinazioni critiche per Atene, presso i maggiori uomini di stato, oratori, poeti e artisti, s’imbatteva dovunque nella presunzione del sapere. Egli ebbe con stupore a verificare, che tutti cotesti famosi uomini non avevano neppur essi un’idea giusta e sicura del proprio cómpito, e che lo eseguivano per mero istinto. Per mero istinto»: con questa espressione tocchiamo il cuore e il centro della tendenza socratica. Al cui lume il socratismo condanna tanto l’arte quanto l’etica del suo tempo: dovunque volga lo sguardo scrutatore, vede per tutto la mancanza d’intelligenza e la potenza della suggestione, e da questa mancanza inferisce l’intimo sovvertimento e l’inammissibilità della vita come è. Movendo da un tale punto, Socrate credè di dover correggere resistenza: egli, ed egli solo, si fa avanti in aspetto di disdegno e di superiorità, come il precursore di una civiltà e arte e morale conformate del tutto diversamente, in mezzo a un mondo di cui noi ascriveremmo a somma fortuna il giungere a toccare il lembo. Ecco l’enorme perplessità che ci assale ogni volta davanti a Socrate, e che sempre più ci attrae a conoscere a fondo il senso e il fine di questo che è nell’antichità il fenomeno più meritevole d’indagine e di discussione. Chi è costui, che si attentò esso solo di negare la natura greca, che come Omero e Pindaro e Eschilo, come Fidia, come Pericle, come Pitia e Dioniso, come il più profondo abisso e l’altitudine suprema, è sicuro della nostra adorazione stupefatta? Quale potenza demonica è cotesta, che ardi gettare nella polvere un tal filtro magico? Qual semidio è questi, a cui il coro degli spiriti della più nobile umanità deve gridare: «Ahi! ahi! Tu lo hai infranto, il mondo bello, col tuo pugno possente: rovina, procombe!»? Il mirabile fenomeno mentovato come «il demone socratico» ci dà la chiave della natura di Socrate. Nelle singolari situazioni in cui il Suo intelletto enorme vacillava, egli riprendeva l’equilibrio in virtù di una voce divina che gli si manifestava in tali momenti. Cotesta voce, quando viene, è sempre dissuadente. In siffatta natura interamente abnorme, la saggezza istintiva si mostra solo per farsi incontro eventualmente alla conoscenza consapevole, come inibizione. Laddove in tutti gli uomini produttivi proprio l’istinto è la forza creativo-affermativa e la coscienza si rivela critica e infrenatrice, invece in Socrate il critico è l’istinto e il creatore è la coscienza: una vera mostruosità per defectum! Se infatti noi in ogni disposizione mistica ammettiamo un mostruoso defectus, bisogna designare Socrate come lo specifico non-mistico, nel quale la natura logica è, per superfetazione, tanto eccessivamente sviluppata, quanto è nel mistico la sapienza istintiva. D’altra parte, però, a cotesto istinto logico che appare in Socrate era completamente interdetto di ritornare sopra sé stesso: egli in questo sfrenato prorompimento mostra una veemenza naturale, quale la incontriamo, con nostro stupore e raccapriccio, nelle massime forze dell’istinto. Chi negli scritti platonici ha colto non più che un alito di quella divina semplicità e sicurezza del costume di vita socratico, sente anche, che la portentosa ruota istintiva del socratismo logico è in movimento, per così dire, alle spalle di Socrate, e che bisogna considerarla attraverso Socrate come attraverso un’ombra. Ma che di questa situazione egli avesse sentore, si palesa nella maestosa dignità con cui fece valere dovunque, e anche davanti ai suoi giudici, la sua divina vocazione. Confutarlo in questo, era in fondo altrettanto impossibile, quanto chiamar buona la sua influenza dissolvitrice degl’istinti. Essendo questo l’insolubile conflitto nel momento che Socrate fu condotto davanti alla giustizia dello stato greco, era una sola la forma di condanna che era offerta: l’esilio. Sarebbe stato lecito cacciarlo oltre i confini come alcunché di affatto enimmatico, non assegnabile ad alcuna rubrica penale, inesplicabile, senza che la posterità, forse, fosse poi stata in diritto d’incolpare gli ateniesi di un atto ignominioso. Ma sembra che lo stesso Socrate, con assoluta limpidità, e senza punto il naturale brivido davanti alla morte, abbia condotto le cose in modo, che la morte e non il semplice esilio fosse pronunziata contro di lui; e alla morte andò con la medesima calma con che, secondo la descrizione di Platone, egli, l’ultimo dei bevitori, ai primi albori lasciava il simposio per principiare una nuova giornata; e dietro di lui i convivali rimanevano addormentati sui sedili e a terra, per sognare di Socrate, il verace erotico. Il Socrate morente divenne il nuovo ideale, non mai prima contemplato, della nobile gioventù greca; e prima di tutti Platone, il tipo del virile efebo ellenico, s’inginocchiò davanti a quella immagine con tutta la devozione ardente della sua anima innamorata del cielo. |
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Pensiamo ora al grande occhio ciclopico di Socrate, volto sulla tragedia; quell’occhio in cui non si è mai accesa la vaga follia dell’entusiasmo artistico; e pensiamo che gli era inibito di guardare con diletto negli abissi dionisiaci: ebbene, nella «sublime e glorificata» arte tragica, come la chiama Platone, che cosa mai doveva vedere? Qualcosa di schiettamente irragionevole, con cause che sembravano senza effetti, e con effetti che sembravano senza cause; per giunta, un tutto talmente vario e multiforme, che a una mente riflessiva non poteva non ripugnare, e ad anime eccitabili e sensitive non riuscire un fomite pericoloso. Sappiamo, che era uno solo il genere poetico che egli intendeva, la favola di Esopo; e ciò gli accadeva senza dubbio con quella sorridente acquiescenza con cui l’onesto e buon Gellert nella favola dell’ape e della gallina canta le lodi della poesia: Tu vedi in me a che cosa giovi: Giova a chi non ha un gran comprendonio, A dirgli la verità con una similitudine. Se non che parve a Socrate, che l’arte tragica non «dice la verità» niente affatto; senza contare, che si volge a chi «non possiede molta intelligenza», e dunque non si volge ai filosofi: doppia ragione per tenersene lontani. Come Platone, egli la annoverava tra le arti seducenti che rappresentano solamente il dilettevole e non l’utile, e perciò esigeva dai suoi discepoli l’astensione e la rigida ricusazione di tali allettamenti non filosofici; con tale successo, che il giovine poeta tragico Platone, per diventare alunno di Socrate, buttò al fuoco le sue tragedie. E se vi erano talenti invincibili, che lottavano contro le massime di Socrate, pure la forza di queste, in uno con la preponderanza di quel suo portentoso carattere, era sempre abbastanza grande per sospingere la stessa poesia ad attitudini nuove, ignote fino allora. Un esempio in proposito, e ne abbiamo parlato or ora, è Platone: egli che, certo, non è rimasto indietro al cinismo del suo maestro nella condanna della tragedia e dell’arte in genere, pure per assoluta necessità artistica dovè creare una forma d’arte che è intimamente collegata proprio con quelle già in voga e da lui disapprovate. Bisognava evitare a ogni costo, che potesse rivolgersi alla nuova opera d’arte la principale censura, che Platone moveva alla vecchia arte, di essere, cioè, l’imitazione di un’immagine fenomenica e di appartenere, dunque, a una sfera anche più bassa del mondo empirico; onde vediamo Platone studiarsi di andare oltre la realtà e di afferrare e rappresentare l’idea giacente nel fondo di quella pseudorealtà. Ma così il filosofo Platone era arrivato per la via lunga allo stesso punto dove il poeta Platone era sempre rimasto a suo bell’agio, e dove Sofocle e tutta l’arte antica avevano ben ragione di protestare solerinemente contro la censura loro mossa. Se la tragedia aveva assorbito in sé tutti i precedenti generi artistici, lo stesso deve dirsi, in un senso perifrastico, del dialogo platonico, che, prodotto dalla mescolanza di tutti gli stili e forme esistenti ondeggia tra il racconto e la lirica e il dramma, tra la prosa e la poesia, e quindi trasgredisce la rigida legge antica dell’unità di forma dell’elocuzione. Che è la strada sulla quale sono trascorsi anche più lontano gli scrittori cinici, che con la massima svariazione dello stile, fluttuando or qua or là tra le forme prosaiche e le metriche, hanno reso anche letterariamente l’immagine del «Socrate delirante», che usarono rappresentare nella vita. Il dialogo platonico arieggiava una barca, sulla quale l’antica poesia aveva trovato salvamento insieme con tutte le figlie: premute in un angusto spazio e ansiosamente soggette al pilota Socrate, navigavano verso un mondo nuovo, che non sapeva saziarsi abbastanza del fantastico spettacolo di una tale traversata. Effettivamente Platone lasciò a tutta la posterità il modello di una nuova forma artistica, il modello del romanzo, che bisogna considerare come la favola esopica, arrivata al massimo grado di svolgimento, e nella quale la poesia si trova rispetto alla filosofia dialettica nel medesimo posto subalterno, che poi per molti secoli la stessa filosofia tenne davanti alla teologia, cioè nel posto di ancilla. Tale era la posizione in cui sotto la spinta del demonico Socrate Platone ridusse la poesia. Così il pensiero filosofico soverchia l’arte col suo rigoglio, e la costringe ad abbarbicarsi al tronco della dialettica. La tendenza apollinea si è trasformata nello schematismo logico: abbiamo già riscontrato qualcosa di corrispondente in Euripide, oltre il trasferimento del senso dionisiaco in affetto naturalistico. Socrate, che è l’eroe dialettico del dramma platonico, ci rammenta la natura affine dell’eroe euripideo, che è costretto a giustificare i suoi atti con ragioni e controragioni, e perciò troppo spesso rischia di farci perdere ogni compartecipazione tragica. Giacché, chi potrebbe disconoscere nell’essenza della dialettica l’elemento ottimistico, che in ogni conclusione celebra la sua festa gaudiosa, e non trova respiro altrove che nella fredda chiarezza e consapevolezza? È l’elemento ottimistico che, una volta penetrato nella tragedia, deve sommergere a poco a poco le sue regioni dionisiache e condurla di necessità all’annientamento, fino al salto mortale nel dramma borghese. Teniamo presenti non altro che le semplici conseguenze dei principii socratici: «La virtù è sapienza: si pecca solamente per ignoranza: il virtuoso è felice»: in queste tre forme fondamentali dell’ottimismo è implicita la morte della tragedia. Giacché appunto in questo modo l’eroe virtuoso dev’essere dialettico; appunto in questo modo un legame necessario ed evidente deve correre tra la virtù e il sapere, tra la fede e la morale; appunto in questo modo la soluzione trascendentale della giustizia di Eschilo viene abbassata al pedestre e sconveniente principio della «giustizia poetica» col suo solito deus ex machina. In cotesto nuovo mondo scenico socratico-ottimista, qual’è adesso la parte tenuta dal coro e in generale da tutto lo sfondo musicale-dionisiaco della tragedia? È una parte accidentale quasi una reminiscenza, e reminiscenza abbastanza trascurabile, delle origini della tragedia; laddove abbiamo invece verificato, che il coro dev’essere inteso unicamente come causa della tragedia e in generale del sentimento tragico. In Sofocle già principia a notarsi, nel coro, un certo impaccio; che è un segno importante; segno, che già in lui il terreno dionisiaco della tragedia comincia a sgretolarsi. Egli non si arrischia più di affidare al coro la parte principale dell’effetto, ma circoscrive il suo cómpito in modo, che esso ora sembra quasi coordinato con gli attori, quasi che fosse stato levato dall’orchestra e assunto sulla scena; con che la sua natura viene senza dubbio a essere completamente alterata, per quanto Aristotele dia la sua approvazione precisamente a una concezione siffatta del coro. Cotesto spostamento della posizione del coro, che Sofocle a ogni modo ha raccomandato con la pratica, se non anche, come vuole la tradizione, per mezzo di una monografia sull’argomento, è il primo passo alla soppressione del coro, le cui fasi si susseguono con terribile rapidità in Euripide, Agatone e la commedia nuova. La dialettica ottimista caccia via con la sferza dei suoi sillogismi la musica dalla tragedia; vale a dire distrugge l’essenza della tragedia, la quale s’interpetra unicamente come una manifestazione e figurazione di stati d’anima dionisiaci, come la simbolizzazione visibile della musica, come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca. Anche ammessa, dunque, una tendenza antidionisiaca già in atto prima di Socrate, ma solo con lui arrivata a un’espressione inauditamente grandiosa, bisogna che non recediamo spaventati dal problema del significato che ha un tale fenomeno, quale è la comparsa di Socrate nel mondo greco; comparsa che, per quanto riguarda i dialoghi platonici, noi non siamo in grado di intendere soltanto come una potenza dissolvente e negativa. Ché, per quanto sia certo che l’effetto immediato della tendenza socratica riuscisse a una decomposizione della tragedia dionisiaca, pure una profonda esperienza di vita da parte dello stesso Socrate c’induce alla domanda, se tra il socratismo e l’arte corresse necessariamente non altro che un rapporto antipodico, e se il sorgere di un «Socrate artistico» in generale fosse poi davvero qualcosa di per sé stesso contraddittorio. Vale a dire, davanti all’arte quel loico dispotico avvertiva come il senso di una lacuna, di un vuoto, come di un mezzo rimprovero, come di un dovere forse negletto. Sovente gli accadeva, come in carcere narra agli amici, di vedere in sogno un’apparizione, e sempre la stessa, la quale sempre gli ripeteva: «Socrate, esèrcitati nella musica!». Fino ai suoi ultimi giorni egli si tranquilla con la persuasione, che il suo filosofare sia l’arte suprema delle muse, e non crede affatto, che una divinità gli faccia richiamo alla «comune musica popolare». Finalmente in carcere, per alleviare del tutto la coscienza, si risolve anche a questo, a esercitarsi in quella musica da lui scarsamente pregiata. E in tale disposizione di animo compose un proemio ad Apollo e mise in versi alcune favole di Esopo. Ciò che lo spingeva a coteste esercitazioni era alcunché di simile alla voce ammonitrice del demone; era l’intuito apollineo, se per caso egli non fosse come un re barbarico davanti alla nobile immagine di una divinità che non intende, e pel suo manco d’intendimento rischia di peccare contro una divinità. La parola dell’apparizione che Socrate ha in sogno è l’unico seguo del sospetto, che gli viene, sui limiti della natura logica: forse, doveva egli domandarsi, non è vero che ciò che non mi riesce d’intendere sia anche l’inintelligibile? Esiste forse un dominio del sapere, dal quale il filosofo logico è escluso? Forse che l’arte è anzi un necessario correlativo e supplemento della scienza? |
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Seguendo il senso di tali domande piene di presentimenti, bisogna dichiarare, che l’influenza di Socrate, come le ombre che sempre più avanzano dopo il tramonto, si è estesa sulla posterità fino a questo momento e si diffonderà in tutto l’avvenire; che impone necessariamente e sempre imporrà la rinascita dell’arte, e diciamo, in verità, dell’arte intesa interamente nel senso metafisico più ampio e più profondo; e che con la sua propria infinità ne garantisce l’infinità. Prima che questo potesse essere riconosciuto, prima che fosse persuasivamente dimostrata l’intima dipendenza di ogni arte dai greci, dai greci da Omero a Socrate, bisognava che noi ci comportassimo con questi greci come gli ateniesi si comportarono con Socrate. Quasi ogni evo e ogni stadio di cultura ha con profondo malumore cercato di liberarsi dei greci, perché tutto ciò che era autentico e genuino e che apparentemente era affatto originale e giustamente ammirato, di botto, come veniva raffrontato con loro, sembrava perdere colore e vita, e incatorzolire in una copia disgraziata, anzi in una vera caricatura. E così tornò sempre a spuntare di nuovo il cordiale rovello contro quel popoluzzo arrogante, che osò di qualificare «barbarica» per tutti i tempi qualunque cosa non fosse stata fatta a casa lorochi sono costoro, tutti si domandavano, costoro i quali ebbero non più che uno splendore storico puramente efimero, non più che istituzioni risibilmente locali e circoscritte, non più che una dubbia bontà di costumi, e anzi sono insigni poivizi turpi, e ciò nonostante si arrogano tra i popoli la dignità e il privilegio, che tra le moltitudini competono al genio? Purtroppo, non si aveva la fortuna di trovare la tazza di cicuta, con cui un popolo così fatto fosse semplicemente levato di tra i piedi; giacché qualunque veleno, che l’invidia e la calunnia e il livore alimentano in seno, non arrivava ad annientare quella magnificenza contenta di sé, sufficiente. E così davanti ai greci si provava vergogna e paura: bisogna dunque che uno stimi la verità al disopra di tutto e quindi osi confessare anche a sé stesso questa verità: che i greci hanno nelle mani, come guidatori di cocchi, la nostra e qualunque civiltà; ma quasi sempre cocchi e cavalli sono di qualità troppo scadente, impari alla gloria dei guidatori, i quali d’altronde tengono per burla cacciare siffatti equipaggi nel precipizio: essi le scavalcano alla brava, col salto di Achille. A dimostrare che spetta anche a Socrate la dignità di cotesto grado direttivo, basta riconoscere nella sua persona il tipo di una mentalità non mai esistita prima di lui, il tipo, cioè, dell’uomo teoretico: il nostro cómpito immediato ora è di intenderne la significazione e il fine. Anche l’uomo teoretico, del pari che l’artista, trova un’infinita soddisfazione in ciò che esiste, e questa soddisfazione lo preserva, come preserva l’artista, dall’etica pratica del pessimismo e dall’occhio linceo del pessimismo che luce solo nell’oscurità. Vale a dire, se l’artista a ogni rivelazione della verità rimane sospeso con gli occhi rapiti unicamente a ciò che anche dopo la rivelazione continua a essere un velame, l’uomo teoretico gode e si appaga di scostare il velame, e trova il massimo godimento del fine raggiunto proprio nel processo di una rivelazione sempre felice, che avviene per forza propria. Non vi sarebbe alcuna scienza, se le fosse assegnato solamente di occuparsi di quell’unica dea nuda, e null’altro. Perché allora i suoi iniziati si troverebbero nella stessa condizione di animo di coloro, che volessero scavare un foro attraverso il globo; dei quali ciascuno vede che, anche dedicandovi il massimo sforzo dell’intera vita, non riescirebbe a penetrare più che in un piccolo tratto della enorme profondità, tratto che sotto i suoi stessi occhi verrebbe a essere ricoperto dal lavoro del vicino; tanto che a un terzo parrebbe più opportuno scegliere per le sue braccia un altro posto al tentativo di foratura. Ma se uno di loro si mostra persuaso che per questa via diretta non si raggiunge lo scopo di arrivare agli antipodi, e ciò nonostante continua a scavare nel vecchio foro, vuol dire che egli frattanto non si tiene mai pago di trovare pietre preziose o di scoprire leggi naturali. Perciò Lessing, il più leale degli uomini teoretici, osò dichiarare, che a lui importava più la ricerca della verità che la verità stessa: con che è stato rivelato il segreto foudamentale delia scienza, a stupore, inizi a dispetto degli scienziati. Senza dubbio accanto a questa confessione solitaria viene ad aggiungersi, come un eccesso di probità, se non di presunzione, la profonda e convinta illusione, apparsa la prima volta al mondo con la persona di Socrate, di quella fede imperturbabile, la quale crede che il pensiero, mercè il filo conduttore della causalità, arrivi fino ai più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma anche di correggere l’essere. Questa nobile illusione metafisica vale come istinto della scienza, e la riconduce sempre ai suoi confini, sui quali bisogna che si converta in arte: alla quale propriamente mira per mezzo di questo meccanismo. Contempliamo ora Socrate alla luce di cotesta idea: egli ci appare come il primo, che in preda a questo istinto della scienza seppe non solo vivere ma, ciò che è ben più, anche morire; onde l’immagine del Socrate morente, come un blasone dell’uomo che il sapere e la ragione liberano dal timore della morte, è sospesa sulla porta d’entrata della scienza, e ne ricorda a ognuno l’ufficio, che è quello, cioè, di far apparse intelligibile e quindi giustificata l’esistenza: ufficio al quale senza dubbio, se il ragionamento non vi riesce, deve in conclusione servire anche il mito, che io anzi ho or ora designato come conseguenza necessaria, di più, come mira e scopo della scienza. Chi si rende chiaro conto, che dopo Socrate, il mistagogo della scienza, le scuole filosofiche si sono succedute l’una all’altra come onda a onda; che fino ai più remoti dominii del mondo incivilito una universalità non mai prima presentita della brama di sapere sospinse la scienza, come vera e propria missione delle menti più idonee, a quell’altezza oceanica da cui in seguito non si potè mai più ricacciarla interamente; che cotesta universalità distese per la prima volta la rete comune dell’umano pensiero su tutto quanto il globo, e, per giunta, con la mira d’includere tra le sue leggi un intero sistema solare; chi tiene presente tutto ciò e, insieme, contempla la stupenda elevatezza della piramide scientifica dell’età presente, non può negare di riconoscere in Socrate il solo asse e il cardine della così detta storia universale. Si pensi infatti che cosa sarebbe avvenuto, se tutta cotesta incommensurabile somma di forza, che fu assorbita da quella tendenza universale, fosse stata impiegata non già in servizio del conoscere, ma negli scopi pratici, vale a dire egoistici, degl’individui e dei popoli. È verosimile, che nelle universali lotte di sterminio e nelle continue migrazioni dei popoli il piacere istintivo della vita si sarebbe affievolito talmente, che, divenuto il suicidio un’abitudine, il singolo avrebbe finito forse, come ultimo avanzo del sentimento del dovere, col tenersi obbligato, figlio, a strozzare i genitori amico, l’amico, secondo che usano gli abitanti delle isole Figi: un pessimismo pratico, che avrebbe potuto ingenerare perfino l’orribile etica dell’eccidio dei popoli per compassione; e che, del resto, esiste ed è esistito da per tutto nel mondo, dovunque, cioè, non è apparsa l’arte in qualsiasi forma, specialmente nella forma di religione e di scienza, a far da rimedio e da difesa contro una tal peste. Davanti a cotesto pessimismo pratico Socrate è il prototipo dell’ottimista teoretico, che, partendo dalla fede specifica nella penetrabilità della natura delle cose, attribuisce al sapere e alla conoscenza la virtù di una medicina universale e intende l’errore come male in sé stesso. L’uomo socratico giudicava come la più nobile, anzi come l’unica missione veramente umana il penetrare le cause supreme e liberare dall’apparenza sensibile e dall’errore la vera conoscenza; talché da Socrate in poi il meccanismo del concetto, del giudizio e dell’inferenza fu stimato superiore a tutte le altre facoltà, come l’efficienza suprema e il più meraviglioso dono della natura. Anche le più elevate azioni morali, i moti della compassione, del sacrifizio, dell’eroismo, e quella tranquillità dell’animo tanto diffìcile a raggiungere che il greco apollineo chiamava sofrosine, da Socrate e dai seguaci del suo pensiero fino ai giorni nostri furono dedotti dalla dialettica del sapere e per conseguenza designati come apprendibili. Chi ha sperimentato di persona il piacere della conoscenza socratica e sente che questa per cerchi sempre più ampi cerca di abbracciare l’intero rnoudo dei fenomeni, non avverte tra gli stimoli che lo attaccano all’esistenza nessuno più forte della brama di compiere la conquista, e tessere impenetrabile e infrangibile la rete della cognizione. Allora il Socrate platonico a un uomo in tale disposizione di animo appare come il maestro di una forma affatto nuova di «serenità greca» e di eudemonia; forma che cerca di effondersi nell’azione, e trova questa effusione quasi tutta negli effetti maieutici ed educativi esercitati su nobili giovani, al fine di suscitare il genio. Così, spronata dalla sua potente illusione, la scienza corre verso i propri confini, dove naufraga il suo ottimismo nascosto nell’essenza della logica. Giacché la periferia del cerchio della scienza consta d’infiniti punti; e nel momento stesso in cui non è dato vedere come mai il cerchio possa essere interamente misurato, pure l’uomo di nobile animo e ingegno, prima ancora di essere giunto a mezzo della sua esistenza, incontra inevitabilmente siffatti punti terminali della periferia, dove si arresta nello sgomento dell’inesplicabile. Qui, a suo sbigottimento, come vedo che la logica si ravvolge su sé stessa e infine si morde la coda, gli si erge davanti la forma nuova della conoscenza, la conoscenza tragica, la quale, per venire semplicemente sopportata, abbisogna dell’arte come usbergo e rimedio. Se ora contempliamo con lo sguardo rafforzato e riconfortato sui greci le supreme sfere del mondo che ci ondeggia d’intorno, verifichiamo che si è convertita in rassegnazione tragica e in esigenza artistica la brama dell’insaziabile conoscenza ottimistica, che ebbe a suo primo modello Socrate; laddove la stessa brama, nei suoi gradi inferiori, deve senza dubbio manifestarsi ostile all’arte, e principalmente aborrire nell’intimo l’arte dionisiaco-tragica, come prova l’esempio della lotta combattuta dal socratismo contro la tragedia eschilea. E qui, con l’animo commosso, noi battiamo alle porte del presente e dell’avvenire: quella «conversione» condurrà a una configurazione sempre nuova del genio, e precisamente al Socrate musicista? La rete dell’arte stesa sull’esistenza, sia pure sotto il nome della religione o della scienza, sarà intrecciata sempre più salda e più soave, oppure in questo agitarsi e turbinare irrequieto e barbarico, che oggi si chiama «la modernità», è destinata a stracciarsi in sbrendoli? Impensieriti, ma non sconsolati, noi ci teniamo alquanto da parte, come spettatori a cui è permesso di essere testimoni di quelle contese e di quei trapassi prodigiosi. Ahi! Il fascino di tali contese è proprio questo, che chi le guarda deve cacciarvisi anch’esso! |
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Dall’esempio storico addotto abbiamo cercato di chiarire, che con l’estinguersi dello spirito della musica è tanto certo che la tragedia va in rovina, che non può avere avuto altro nascimento se non da questo spirito. Per mitigare la singolarità di tale affermazione e per chiarire d’altra parte l’origine della nostra dottrina, bisogna che ora ci rappresentiamo con occhio spregiudicato i fenomeni analogici dei tempi presenti; bisogna che ci addentriamo tra quelle lotte che, come ora dicevo, vengono combattute nelle più alte sfere del nostro mondo moderno tra l’insaziabile conoscenza ottimistica e la tragica esigenza artistica. Qui intendo di prescindere da tutti gli altri avversi istinti, che in ogni tempo fermentano contro l’arte e precisamente contro la tragedia, e che anche oggigiorno si espandono vittoriosamente in tal misura, che tra le arti del teatro la farsa, per esempio, e il balletto gittano con un rigoglio abbastanza lussuriante i loro fiori, il cui olezzo forse non è gradito a tutti. Io intendo di parlare soltanto della più illustre opposizione alla concezione tragica del mondo, e tale penso essere la scienza, che nella sua più profonda essenza è ottimisticala scienza, con a capo il suo progenitore Socrate. Chiamiamo subito a raccolta le forze, che a me sembrano garantire una rinascita della tragedia, e quali altre felici speranze pel genio tedesco! Prima di lanciarci nel mezzo di coteste lotte copriamoci con l’armatura delle cognizioni acquistate tino a questo punto. All’opposto di tutti coloro che si sono industriati di derivare le arti da un unico principio, come dalla necessaria fonte vitale di ogni opera d’arte, io ho fermato lo sguardo sulle due divinità artistiche dei greci. Apollo e Dioniso, e riconosco in essi i viventi ed evidenti rappresentanti di due mondi artistici, differenti nella loro essenza più profonda e nei loro fini supremi. Apollo mi sta davanti come il genio illustratore del principium individuationis, solo per mezzo del quale è dato raggiungere veramente la liberazione nell’apparenza; laddove nel grido di giubilo di Dioniso vien rotto il corso dell’individuazione, e rimane aperta la via alle cause madri dell’essere, all’intimo nucleo delle cose. Questo enorme divario, voraginosamente aperto tra l’arte plastica come apollinea e la musica come arte dionisiaca, si è palesato a un solo tra i grandi pensatori, in tal modo, che, anche senza cotesta iniziazione della simbolica teurgica ellenica, egli aggiudicò sopra tutte le altre arti alla musica un carattere e un’origine differenti, come quella che, diversamente da tutte le altre, non è un riflesso o copia del fenomeno, sibbene è il riflesso immediato della stessa volontà, e dunque rappresenta in tutta l’apparenza fisica del mondo l’essenza metafisica, tra tutti i fenomeni la cosa in sé (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 310). Su questa nozione, la più importante di tutta l’estetica, e che anzi è quella con cui l’estetica, presa in un senso più serio e filosofico, ha il suo vero inizio, Riccardo Wagner, in corroborazione della sua eterna verità, ha impresso il proprio suggello, quando nel «Beethoven» ha stabilito, che bisogna giudicare la musica secondo principii estetici affatto diversi da quelli di tutte le arti figurative, e in generale non bisogna giudicarla secondo le categorie della bellezza; quantunque un’estetica errata, al servigio di un’arte traviata e degenere, partendo da quell’idea della bellezza per sé stessa, valida pel modo figurativo, si sia abituata a pretendere dalla musica un effetto simile a quello nascente dalle opere dell’arte figurativa, vale a dire la suscitazione del piacere per le belle forme. Spinto dalla conoscenza di quell’enorme contrasto, io mi sentii fortemente costretto ad appressarmi all’essenza della tragedia greca e quindi alla più profonda rivelazione del genio ellenico; ché solo così credei d’impadronirmi del filtro incantato, che mi desse la virtù di rappresentarmi vivo e concreto davanti all’anima il problema originario della tragedia, passando sulla fraseologia della nostra estetica usuale; filtro, che mi permise di contemplare il mondo ellenico con uno sguardo così singolarmente mio proprio, da dovermi poi sembrare, che la nostra scienza classico-ellenica atteggiata a si orgogliosa impostatura, in sostanza sui punti capitali avesse finora saputo pascersi non d’altro che di ombre colorate ed esteriorità. Cotesto problema originario potremmo forse riassumerlo con la domanda: Qual è l’effetto estetico che nasce, quando le facoltà artistiche separate del senso apollineo e del senso dionisiaco concorrono in un’azione l’una accanto all’altra? O più brevemente: Come si comporta la musica con l’immagine e col concetto? Schopenhauer, di cui Riccardo Wagner loda proprio su questo punto una chiarezza e una lucidità non troppo, a dir vero, eccessiva di esposizione, si esprime in proposito nel modo più ampio nel luogo seguente, che riporto integralmente: (Il mondo come v. e r., I, § 309) «In conseguenza di tutto ciò, noi possiamo considerare il mondo fenomenico, o natura, e la musica come due espressioni diverse della stessa cosa, la quale appunto per questo è la sola mediatrice della analogia delle due, ed è necessario conoscerla per intendere cotesta analogia. Perciò la musica, riguardata come espressione del mondo, è un linguaggio universale in sommo grado, il quale anzi sta all’universalità del concetto come l’universalità del concetto sta alle singole cose. Ma la sua universalità non ò affatto la vuota universalità dell’astrazione, bensì di natura tutta diversa, ed è legata a uua determinatezza più generale e più chiara. Esso somiglia in ciò alle figure geometriche e ai numeri, i quali come forme universali sono applicabili a tutti gli oggetti possibili dell’esperienza e a tutti gli a priori, eppure non sono astratti, sibbcne sono intuitivamente e genericamente determinati. Tutti i possibili impulsi, commovimenti e manifestazioni della volontà, tutte quelle vicissitudini intime dell’uomo, che la ragione getta sotto il vasto e negativo concetto di sentimento, trovano espressione nelle innumerevoli infinite melodie; ma sempre nell’universalità della pura forma, senza materia; sempre unicamente secondo l’in sé, non già secondo il fenomeno; vale a dire, conformemente alla loro intima anima, senza corpo. Con questo intimo rapporto, che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si spiega altresì, che quando una melodia ritrae coi suoni una scena, un’azione, un avvenimento, un aspetto di vita, essa sembra aprircene il senso più segreto ed esserne il commento più esatto e più chiaro; del pari come chi si abbandona interamente all’impressione di una sinfonia, crede quasi di vedersi trascorrere davanti tutte le possibili vicende della vita e del mondo; eppure, quando rientra in sé stesso, non può stabilire nessuna somiglianza tra quelle armonie e le cose evocategli davanti. Giacché, come ho detto, la musica si distingue da tutte le altre arti per questo, che essa non è l’immagine del fenomeno, o, più propriamente, dell’adeguata obiettività della volontà, ma è l’immagine immediata della stessa volontà, e perciò su tutta la feuomenologia fisica del mondo rappresenta l’essenza metafisica, su tutti i fenomeni rappresenta la cosa in sé. Conseguentemente il mondo si potrebbe chiamare con egual proprietà tanto musica fatta corpo quanto volontà fatta corpo, materializzazione della musica o della volontà: e in questo modo si spiega il perché la musica fa subito risaltare in più alta significazione ogni quadro, ogni scena della vita reale e del mondo; ed è evidente, che tanto più li fa risaltare, quanto più la sua melodia è analoga all’intimo spirito del fenomeno dato. Su ciò si fonda il fatto, che ad essa può appropriarsi una poesia come canto, o una rappresentazione visibile come pantomima, o l’una e l’altra come opera in musica. Tali singoli aspetti della vita umana che vengono sottoposti al linguaggio universale della musica, non sono ad essa legati o rispondenti per necessità generica; sibbene stanno rispetto ad essa solamente nel rapporto di un esempio arbitrario con un concetto universale: tali singoli aspetti rappresentano nella determinatezza della realtà quello che la musica esprime nella universalità della forma pura. Giacché le melodie, del pari che i concetti universali, sono in certo modo un’astrazione della realtà. Vale a dire questa, ossia il mondo delle singole cose, offre il visibile, il particolare, l’individuale, il caso singolo tanto alla universalità dei concetti, quanto all’universalità delle melodie; le quali due universalità sono sotto un certo aspetto opposte l’una all’altra; in quanto che i concetti comprendono solamente le fiume appena astratte dall’intuizione, e per così dire gl’involucri esterni tratti dalle cose, e sono dunque astratti nel senso vero e proprio, laddove la musica all’opposto offre il nucleo preesistente, intimo di ogni formazione, ossia il cuore delle cose. Cotesto rapporto può esprimersi esattamente col linguaggio degli scolastici, dicendo, che i concetti sono universalia post rem, la musica invece dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re. Ma che in generale sia possibile il rapporto tra una composizione musicale e una rappresentazione visibile, ciò si fonda, come si è detto, sul fatto, che l’una e l’altra espressione, per quanto diverse interamente tra loro, sono però espressioni della stessa intima essenza del mondo. Quando nel singolo caso una tale connessione tra la musica e la rappresentazione esiste realmente, vuol dire che il compositore ha saputo esprimere nel linguaggio universale della musica i moti della volontà che costituiscono il nocciolo di un dato avvenimento, allora la melodia del canto, la musica del melodramma è piena di espressione. Ma l’analogia scoperta dal compositore tra quelle due manifestazioni dell’essenza del mondo, bisogna che sia nata dalla conoscenza immediata della medesima essenza, all’insaputa della sua ragione; non deve essere minimamente un’imitazione condotta per disegno cosciente e prestabilito, mediata per mezzo di concetti; altrimenti la musica non esprime l’intima essenza, non esprime la stessa volontà, sibbene imita insufficientemente non altro che i suoi fenomeni, come fa la musica propriamente descrittiva». Seguendo la teoria dello Schopenhauer, noi dunque intendiamo la musica come linguaggio immediato della volontà, e sentiamo la nostra fantasia stimolata a configurare quel mondo di spiriti che a noi parla, che è invisibile, eppure si move con tanto fervore, e a concretarcelo in un modello conforme. D’altra parte l’immagine e il concetto, sotto l’influenza di una musica davvero rispondente, raggiungono una più elevata significazione. L’arte dionisiaca suole dunque esercitare sulla facoltà artistica apollinea due specie di effetti: la musica incita alla visione allegorica propria dell’universalità dionisiaca; la musica eleva alla suprema significazione l’immagine allegorica. Da questi fatti per sé comprensibili e che non ammettono un più profondo esame, io inferisco la capacità che ha la musica di generare il mito, vale a dire l’allegoria più significativa, e propriamente il mito tragico: il mito, che della conoscenza dionisiaca parla per similitudini. Discorrendo del fenomeno del lirico ho mostrato, che nel lirico la musica tende a palesare la propria essenza in immagini apollinee: se ora riflettiamo, che la musica nella sua manifestazione suprema deve anche cercare di raggiungere una suprema figurazione, siamo indotti a tenere possibile, che essa abbia la facoltà di trovare anche l’espressione simbolica per la sapienza dionisiaca che è la propria; e dove mai troveremo cotesta espressione, se non nella tragedia e in generale nel concetto del tragico? Il tragico, rettamente, non si può punto dedurlo dall’essenza dell’arte, quale è comunemente concepita secondo la sola categoria dell’apparenza e della bellezza: la gioia dell’annullamento dell’individuo noi la intendiamo solo quando venga ricavata dallo spirito della musica. Giacché solamente i singoli esempi di tale annullamento ci mostrano chiaro l’eterno fenomeno dell’arte dionisiaca, la quale conferisce l’espressione alla volontà, nella sua onnipotenza; volontà, che al disotto, per così dire, del principium individuationis, lavora alla eternità della vita di là da ogni fenomeno e nonostante ogni annullamento. La gioia metafisica del tragico è un trasferimento della sapienza dionisiaca istintivamente inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la manifestazione suprema della volontà, è annientato pel nostro diletto, perché esso non è altro che un fenomeno, e la eterna vita della volontà non viene punto toccata dal suo annientamento. «Noi crediamo all’eternità della vita», proclama la tragedia, mentre la musica è l’idea immediata di cotesta vita. Invece l’arte plastica ha uno scopo affatto diverso: qui Apollo supera il dolore dell’individuo con la luminosa glorificazione della eternità dell’apparenza; qui la bellezza trionfa del dolore insito nella vita; qui il dolore viene, in un certo seuso, espulso dal sembiante della natura. Nell’arte dionisiaca e nella sua simbolica tragica la stessa natura con la propria voce vera, schietta, ci ammonisce: «Siate come sono io! Io, che nella vicenda incessante dei fenomeni sono la madre primordiale eternamente creatrice, eterna impositrice dell’esistenza, che in questa vicenda dei fenomeni trova il suo eterno appagamento!». |
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Anche l’arte dionisiaca vuol persuaderci l’eterno piacere dell’esistenza; solo che sogliamo trovare cotesto piacere non già. nei fenomeni, sibbene dietro i fenomeni. Ci obbliga a riconoscere che tutto ciò che nasce dev’essere preparato a un doloroso tramonto; siamo costretti a figgere gli occhi nel terrore dell’esistenza individuale; eppure non ci è lecito agghiadare di spavento: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente al gorgo ingoiatore delle forme in perenne cangiamento. In realtà noi per brevi momenti siamo esso stesso l’essere primordiale, e ne sentiamo l’indomito desiderio e piacere di esistere: la lotta, il tormento, l’annullamento dei fenomeni ci sembrano resi necessari dall’eccesso delle innumerevoli forme di esistenza che si pigiano e si accavallano nella vita, dalla sterminata fecondità della volontà universale; noi siamo feriti dalla punta furiosa di questo tormento nel momento stesso in cui siamo fusi e, per così dire, abbiamo fatto uno con l’incommensurabile piacere primordiale dell’esistenza, e in cui veniamo a presentire nel rapimento dionisiaco l’indistruttibilità e l’eternità di cotesto piacere. Ad onta della paura e della compassione, noi siamo i viventi beati, non come individui, ma come l’uno vivente, col cui piacere generativo ci siamo fusi. La storia dell’origine della tragedia greca ci dice ora con luminosa precisione, che l’opera d’arte tragica dei greci è nata effettivamente dallo spirito della musica; idea mercè la quale crediamo di avere per la prima volta interpetrato giustamente il significato originario e tanto singolare del coro. Nello stesso tempo dobbiamo però concedere, che l’importanza sopra esposta del mito tragico non è stata mai compresa con chiarezza concettuale dai poeti greci e nemmeno dai filosofi: i loro eroi parlano, in certo modo, più superficialmente di come agiscono: il mito nella parola parlata non trova menomamente la sua obiettivazione adeguata. La connessione delle scene e dei quadri rivelano una sapienza più profonda di come il poeta stesso non l’afferri con le parole e i concetti: che è lo stesso che si nota anche nello Shakespeare, il cui Amleto, per esempio, in questo medesimo senso, parla più superficialmente di come agisce; talmente che la teoria dianzi menzionata sull’Amleto bisogna dedurla non dalle parole, bensì da una approfondita visione e ponderazione del complesso dell’opera. Quanto alla tragedia greca, la quale veramente ci è nota solo come dramma parlato, io anzi ho chiarito che cotesta incongruenza tra il mito e la parola potrebbe facilmente traviarci a ritenerla più leggera e meno importante di come è, e quindi a presupporle un effetto più superficiale di quello che ha dovuto avere secondo le testimonianze degli antichi; giacché è tanto facile dimenticare, che ciò che non riusciva al poeta parlante, di raggiungere cioè la suprema spiritualizzazione e idealità del mito, poteva riuscirgli ogni momento come musico creatore! Certo, a noi tocca di ricostruire presso che per via erudita la prepotenza dell’effetto musicale, se vogliamo provare un poco di quell’incomparabile consolazione, che deve essere la virtù propria di ogni vera tragedia. Se fossimo greci, anche questa enorme potenza della musica noi la sentiremmo come tale; laddove in tutto lo sviluppo della musica greca, tanto infinitamente più ricca se a noi fosse nota e familiare, noi crediamo di udire noti più che il canto giovanile del genio musicale, intonato per inconscia, e perciò timida, forza di sentimento. I greci, come dicono i sacerdoti egiziani, sono gli eterni fanciulli, e anche nell’arte tragica non sono altro che i fanciulli, i quali non sanno che sublime balocco è sorto dalle loro mani, e ne uscirà rotto. Cotesto impulso del genio musicale alla manifestazione simbolica e mistica, che dagl’inizi della lirica sale fino alla tragedia attica, si spezza incontanente, non appena raggiunto l’esuberante sviluppo, e scompare dalla superficie, per così dire, dell’arte ellenica; mentre la concezione dionisiaca, che da esso è nata, sopravvive nei misteri e non cessa, nelle più singolari metamorfosi e degenerazioni, di attrarre a sé le più fervide nature. Forse che un giorno non risalirà come arte fuori del suo abisso mistico? Qui viene a occuparci la questione, se la potenza, sulla cui efficacia ostile la tragedia si ruppe, ha in tutti i tempi abbastanza forza per impedire la resurrezione della tragedia e della visione tragica del mondo. Se l’antica tragedia fu traviata fuori del suo cammino dall’istinto del sapere e dall’ottimismo della scienza, bisogna arguire da questo fatto una eterna contesa tra la concezione teoretica e la concezione tragica del mondo; né è lecito sperare in una rinascita della tragedia, prima che lo spirito della scienza sia condotto fino ai suoi confini, e con la prova di tali confini sia distrutta la sua pretesa alla validità universale: che è una forma di cultura, alla cui illustrazione abbiamo posto il simbolo, nel senso sopra discusso, del Socrate musicista. Similitudine, nella quale io per spirito della scienza intendo significare la fede, apparsa la prima volta con la persona di Socrate, nella piena ed esauriente intelligibilità della natura e nella universale virtù sanatrice del sapere. Chi riflette sulle prossime conseguenze di questo spirito infaticabilmente progressivo della scienza, subito vede, che il mito ne rimase distrutto, e che da questa distruzione la poesia fu cacciata dal suo naturale terreno ideale come una, ormai, senza patria. Una volta che noi abbiamo a ragione attribuito alla musica la forza di risuscitare il mito, bisogna che cerchiamo lo spirito della scienza anche sulla strada in cui si procede ostilmente contro cotesta potenza mitogenetica della musica. Ciò accade nello sviluppo del nuovo ditirambo attico, la cui musica non esprime più l’intima essenza delle cose, ossia la stessa volontà, ma ritrae solo insufficientemente il fenomeno delle cose, in una imitazione mediata per mezzo di concetti; che è una musica intimamente degenere, dalla quale le nature veramente musicali si scostarono con la stessa ripugnanza, che provavano davanti alla tendenza di Socrate, funesta all’arte. L’istinto sicuro e sagace di Aristofane ha senza dubbio penetrato la verità, quando comprese lo stesso Socrate, la tragedia di Euripide e la musica del nuovo ditirambo in un medesimo sentimento di odio, e subodorò in tutti e tre questi fenomeni la traccia di una cultura degenerata. Col nuovo ditirambo la musica si ridusse sacrilegamente alla contraffazione imitatoria dei fenomeni, per esempio, di una battaglia, di una tempesta di mare; e così rimase onninamente defraudata del suo potere mitogenetico. Giacché, quando cerca di suscitale il nostro diletto meramente col costringerci a rinvenire analogie esteriori tra un caso della vita e della natura e certe figure ritmiche e certi suoni caratteristici della musica; quando il nostro intelletto deve contentarsi della conoscenza di tali analogie, noi veniamo abbassati a una disposizione di animo, in cui è impossibile il concepimento del mito e del mitico; perché il mito vuol essere sentito intuitivamente come un esempio unico di una universalità e verità protesa immobile nell’infinito. La vera musica dionisiaca ci si presenta appunto come un siffatto specchi universale della volontà del mondo: l’evento visibile, che si ridette in questo specchio, subito si amplia nel nostro animo nell’immagine di una verità eterna. All’opposto, tale evento viene subito spogliato di ogni carattere mitico dalla dipintura musicale del nuovo ditirambo in questo modo la musica è diventata una grama immagine del fenomeno, e perciò infinitamente più pallida e scarna dello stesso fenomeno; povertà, per cui essa ammiserisce anche il fenomeno nella sensazione naturale che ne abbiamo tanto che, per esempio, una battaglia imitata musicalmente in quella conformità si riduce ed esaurisce in rumori di marcia, clangori di trombe e via dicendo, e la nostra fantasia è fermata appunto da tali superficialità. La pittura musicale è dunque sotto ogni rapporto il rovescio della potenza mitogenetica della vera musica: essa fa il fenomeno più povero di quel che è, laddove in virtù della musica dionisiaca il singolo fenomeno si arricchisce ed amplia in immagine universale. Fu poderosa la vittoria dello spirito antidionisiaco, quando nello sviluppo del nuovo ditirambo straniò la musica da sé stessa e la umiliò a schiava del fenomeno. Euripide, che può in un senso più alto venir definito come una natura affatto amusicale, fu per questa ragione un passionato seguace della nuova musica ditirambica, di cui profuse tutti i pezzi di effetto e le virtuosità con lo scialacquo di un ladro. Noi vediamo operare in un altro senso la forza di questo spirito antidionisiaco volto contro il mito, quando fissiamo lo sguardo sul prevalere della pittura dei caratteri e della raffinatezza psicologica nella tragedia da Sofocle in poi. Il carattere non deve più universalizzarsi in tipo eterno, ma al contrario deve assumere aspetto ed effetto individuale per mezzo di speciali lineamenti artificiosi ed ombreggiature, per mezzo della più raffinata precisione di tutte le linee, in modo che lo spettatore non abbia più in generale la sensazione del mito, bensì della potente verità naturale e della potenza imitativa dell elitista. Verifichiamo anche qui il trionfo del fenomeno sull’universale, il piacere dell’individuale e, per così dire, del singolo preparato anatomico; respiriamo già l’aria di un mondo teoretico, il quale apprezza più la conoscenza scientifica, che l’immagine, vista allo specchio dell’arte, di una norma universale. Il cammino sulla linea del caratteristico andò avanti rapidamente: se tuttora Sofocle dipinge caratteri interi e aggioga il mito al loro raffinato svolgimento, Euripide già dipinge non più che grandi lineature caratteristiche singole, che sanno manifestarsi in passioni veementi; e nella commedia attica nuova finiamo con rincontrare mere maschere con una espressione unica, cioè vecchi dissoluti, ruffiani gabbati, schiavi furbi, e sempre quelli, ripetuti interminabilmente. Dov’è andato lo spirito della musica, padre del mito? Ciò che adesso rimane della musica è musica eccitativa o figurativa, vale a dire o è uno stimolante pei nervi; insensibili e consunti, oppure è pittura musicale. Quanto alla prima, il testo che le è sottoposto importa appena: già lo stesso Euripide è affatto senza regola, se tocca principiare a cantare ai suoi eroi o ai suoi cori: e coi suoi impronti successori a qual segno si sarà arrivati? Ma nell’epilogo del nuovo dramma si manifesta nel modo più evidente il nuovo spirito antidionisiaco. Nella tragedia antica si provava nella fine la consolazione metafisica, senza la quale non si spiegherebbe il diletto della tragedia in generale: forse l’Edipo a Colono è appunto la tragedia in cui risuona nel modo più ouro da un altro mondo l’armonia conciliatrice. Adesso, dopo che dalla tragedia lo spirito della musica si era involato, la tragedia, nel senso stretto, era morta; giacché donde mai poteva più cavarsi la consolazione metafisica? Si corse quindi in cerca di una soluzione terrena della dissonanza tragica: l’eroe, dopo che era stato sufficientemente martirizzato dal destino, mieteva in un magnifico matrimonio, in divine onoranze, il guiderdone ben meritato. L’eroe era divenuto come un gladiatore, al quale, dopo che era stato bravamente scorticato e cincischiato di ferite, si concedeva, per l’occasione, la libertà. Al posto della consolazione metafisica fu sostituito il deus ex machina. Non intendo dire, che la concezione tragica del mondo fosse dovunque e completamente distrutta dall’invadente spirito antidionisiaco: sappiamo solo, che, scacciata dal campo dell’arte, dové rifuggire, per dir così, nel mondo di sotto, nella degenerazione di un culto segreto. Ma sull’ampio dominio della superficie della natura greca imperversò il soffio devastatore di quello spirito, che si manifestò nella forma della «serenità greca», della quale abbiamo già discorso sopra, come di un piacere dell’esistenza senilmente improduttivo. Cotesta serenità è un contrapposto della gloriosa «ingenuità» dei greci più antichi, quale bisogna intenderla secondo la caratteristica datane, cioè come il fiore della cultura apollinea sbocciato fuori di un cupo abisso, come la vittoria che la volontà ellenica, mirandosi allo specchio della bellezza, riportò sul dolore e sulla sapienza del dolore. La forma più nobile dell’altro aspetto della «serenità greca», l’aspetto alessandrino, è la serenità dell’uomo teoretico. La quale mostra gli stessi contrassegni caratteristici, che io ho poc’anzi dedotti dallo spirito antidionisiaco: che, cioè, combatte la sapienza e l’arte dionisiache; che si sforza di dissolvere il mito; che al posto di una consolazione metafisica sostituisce una consonanza terrena, anzi un suo proprio deus ex machina, ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli, vale a dire le forze degli spiriti naturali conosciute e impiegate in servizio del più alto egoismo; che crede a una correzione del mondo per mezzo del sapere, a una vita guidata dalla scienza, ed è effettivamente anche in grado di confinare il singolo uomo in un cerchio angustissimo di problemi risolvibili, dentro il quale egli dice serenamente alla vita: «Io ti voglio: tu meriti di essere conosciuta». |
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È un fenomeno eterno: la volontà avida di esistenza trova sempre il modo di tenere attaccate alla vita, per mezzo di un’illusione sparsa sulle cose, le sue creature, e di costringerle a vivere ancora. Questo vi è tenuto legato dal piacere socratico della conoscenza e dalla persuasione di poter medicare col sapere l’eterna piaga dell’esistenza; quello è irretito dal velo della bellezza che l’arte gli fa ondeggiare davanti agli occhi; quell’altro dalla consolazione metafisica, che sotto il turbine dei fenomeni l’eternità della vita fluisce indistruttibile: e taccio delle illusioni più comuni e quasi anche più forti, che la volontà tiene pronte ogni istante. Cotesti tre gradi d’illusione sono in generale propri delle nature nobilmente dotate, che con più profondo disgusto sentono il peso e la gravezza dell’esistenza, e che perciò non si affrancano da tale disgusto se non con attrattive ricercate e fini. Di siffatte attrattive consta tutto ciò che chiamiamo cultura; e secondo la proporzione della mescolanza abbiamo una cultura prevalentemente socratica oppure artistica oppure tragica; o, se ci è consentita l’esemplificazione storica, abbiamo la cultura alessandrina, o l’ellenica, o l’indiana (brahmanica). Tutto il nostro mondo moderno è preso alla rete della cultura alessandrina, e riconosce come ideale l’uomo teoretico munito delle supreme forze conoscitive e dedito al servigio della scienza: di lui è prototipo e progenitore Socrate. Tutti i nostri mezzi educativi si uniformano originariamente a cotesto ideale: ogni altra esistenza deve faticosamente aprirsi una via subalterna, come esistenza permessa, ma non già intesa al vero fine. Ciò posto, in un senso che quasi atterrisce, l’uomo colto per una lunga età è stato riconosciuto solamente nella forma dell’uomo erudito: perfino le nostre arti poetiche hanno dovuto svilupparsi da imitazioni erudite; e nell’effetto sostanziale della rima verifichiamo tuttora la derivazione della nostra forma poetica da esperimenti artistici espressi in un linguaggio non già spontaneo, ma propriamente ed essenzialmente erudito. A un greco schietto riescirebbe affatto incomprensibile il moderno uomo di cultura, che pure è per sé stesso intelligibile, cioè Faust, l’inappagabile Faust, che esasperato dall’istinto del sapere si lancia con tutte le sue facoltà nelle braccia della magia e del diavolo; Faust, che ci basta di porre a confronto con Socrate, per avvederci, che l’uomo moderno principia a presentire i limiti di quella gioia socratica del conoscere, e dal vasto e procelloso pelago del sapere domanda ormai un approdo. Quando una volta Goethe, col pensiero a Napoleone, disse ad Eckermann: «Sì, mio buon amico, c’è auche una produttività dell’azione», egli in guisa amabilmente ingenua richiamò in sostanza il fatto, che per l’uomo moderno l’uomo non teoretico è qualcosa d’incredibile e di stupefacente; tanto che occorre la sapienza di un Goethe per ammettere come concepibile, scusabile anzi, una forma di esistenza siffattamente singolare. Né bisogna nascondersi ciò che si asconde nel seno di cotesta cultura socratica! L’ottimismo che si presume illimitato! Né bisogna spaventarsi, se i frutti di tale ottimismo maturano, se la società, lievitata fin negli strati infimi da una cultura di tal fatta, fermenta a poco a poco in sobbollimenti e pretese violenti, se la fede nella felicità terrena di tutti, la fede nella possibilità di una tale cultura scientifica universale si cangia a mano a mano nella minacciosa pretensione di una siffatta felicità terrena alessandrina, nella scongiurazione di un deus ex machina euripideo! Si noti: la cultura alessandrina esige, per durare, una casta di schiavi; ma nella sua concezione ottimistica dell’esistenza nega la necessità di tale casta, e perciò, usando l’effetto delle sue belle parole lusingatrici e contentatrici di «dignità dell’uomo» e «dignità del lavoro», cammina a poco a poco verso una orribile annichilazione. Non vi è nulla di più spaventoso di una casta barbarica di schiavi, che ha imparato a riguardare la propria esistenza come un’ingiustizia, e si prepara a trarne vendetta non solo per sé, ma per tutte le generazioni. Chi mai oserebbe, davanti a tali nembi minacciosi, ricorrere con animo sicuro alle nostre pallide e stanche religioni, che nelle loro fondamenta sono esse stesse degenerate in religioni erudite? Tanto ciò è vero, che il mito, presupposto necessario di ogni religione, è già mutilo da per ogni dove, e anche in questo campo il dominio è stato preso dallo spirito ottimistico, che noi or ora abbiamo designato come il germe distruttivo della nostra società. Mentre la malsania posata nel seno della cultura teoretica principia a poco a poco ad opprimere l’uomo moderno, il quale, inquieto, nel tesoro delle sue esperienze dà mano ai mezzi di stornare il pericolo, senza neppur credere all’efficacia di tali mezzi; mentre egli comincia, dunque, a presentire le sue proprie conseguenze, ecco che grandi menti conformate all’universalità hanno saputo, con un tatto incredibile, giovarsi degli strumenti della stessa scienza per esporre la relatività della conoscenza in generale, e per negare definitivamente la pretesa della scienza a valore e fine universali; dimostrazione, in forza della quale fu riconosciuta per illusoria l’idea che, armata del principio di causalità, presumeva di poter penetrare l’intima essenza delle cose. Alla prodigiosa valentia e sapienza di Kant e di Schopenhauer era riserbata la più ardua vittoria, la vittoria sull ottimismo, ascoso nell’essenza della logica, e che è, insieme, lo sfondo della nostra cultura. Laddove l’ottimismo, fondandosi sulla sua fede delle aeternae veritates indiscutibili, aveva creduto alla conoscibilità e alla esauriente penetrazione di tutto l’enimma dell’universo, e aveva considerato lo spazio, il tempo e la causalità come leggi del tutto assolute di valore universalissimo, Kant palesò che queste servono propriamente a niente altro, che ad elevare il mero fenomeno, l’opera di Maja, ad unica e suprema realtà, a sostituirlo all’intima e vera essenza delle cose, e quindi a impossibilitare l’effettiva conoscenza di questa vale a dire, per servirci del motto di Schopenhauer, a addorraire più forte il sognatore (Il mondo come v. e r., I, § 498). Tale dottrina dà avviamento a una cultura, che io oso definire tragica, essendone questo il contrassegno più importante, che al posto della scienza come fine supremo insedia invece la sapienza, la quale, punto illusa dagli sviamenti delle scienze, offre allo sguardo pacato l’immagine intera e complessa del mondo, e con sentimento simpatico di amore cerca di abbracciarne come proprio dolore l’eterno dolore. Figuriamoci una generazione venuta su con questa intrepidità di sguardo, con questo impeto eroico pel prodigioso; figuriamoci il passo ardimentoso di questi uccisori di draghi, la superba temerità con cui voltano le spalle a tutte le pusillanimità dottrinali dell’ottimismo per «vivere risolutamente» in tutto e per tutto: non sarebbe necessario che l’uomo di siffatta cultura, per la sua propria educazione alla fortezza e al terribile, domandasse un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica, la tragedia, come l’Elena a lui dovuta, ed esclamasse come Faust: E non dovrei io, la più anelante delle potenze, Condurre alla vita la più sublime delle apparizioni? Ma dopo che la cultura socratica è scossa dai due lati e riesce appena con mano tremante a tenere lo scettro della sua infallibilità, da un lato per la paura delle sue proprie conseguenze, che principia per l’appunto a presentire, dall’altro perché essa stessa non è più persuasa dell’eterna validità dei suoi fondamenti con l’ingenua confidenza di prima, ecco che è ben triste lo spettacolo offerto dalla danza del suo pensiero, che sempre corre anelante a nuove forme per abbracciarle, e poi d’un subito le abbandona rabbrividendo, come fa Mefistofele con le lamie tentatrici. È proprio cotesto il contrassegno di quel «fallimento», del quale ognuno suole parlare come del peccato originale della cultura moderna: che l’uomo teoretico si sgomenta davanti alle sue conseguenze, e, insodisfatto, non si arrischia più di affidarsi al formidabile fiume ghiacciato dell’esistenza: corre qua e là affannato sulla riva. Egli non vuol più saperne affatto, nulla più che vedere con l’atrocità naturale delle cose. Tanto lo ha effemminato il pensare ottimistico. Inoltre egli sente, che una cultura eretta sul principio della scienza, deve andare in rovina quando principia a diventare illogica, vale a dire a involarsi alle sue conseguenze. La nostra arte rivela questo travaglio universale: invano si cerca un appoggio a tutti i grandi periodi e i geni produttivi, invano si raccoglie a consolazione dell’uomo moderno tutta quanta la «letteratura universale», e lo si circonda degli stili e degli artisti di tutte le età, affinché egli, come Adamo agli animali, dia loro un nome: nulladimeno egli continua a essere l’eterno affamato, il «critico» senza gioia né forza, l’uomo alessandrino, che in fondo è un bibliotecario e un correttore, e si acceca miseramente sulla polvere dei libri e gli errori di stampa. |
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L’intima portata di questa cultura moderna non si caratterizza più sagacemente, che definendola la cultura dell’opera in musica; giacché in tale campo siffatta cultura ha palesato con una ingenuità tutta sua il proprio volere e il proprio conoscere, empiendoci di stupore, quando raffrontiamo la genesi dell’opera e i casi dello sviluppo operistico con le eterne verità dello spirito apollineo e del dionisiaco. Principio col ricordare l’origine dello stile rappresentativo[4] e del recitativo. È credibile, che cotesta musica operistica interamente commerciale, incapace di religiosità, sia stata accolta e carezzata da tutta un’età con un favore fanatico, quasi come la rinascita di tutta la vera musica, dalla quale era sorta dianzi la musica ineffabilmente sublime e santa di Palestrina? E, d’altra parte, chi addebiterebbe unicamente al lusso avido di piaceri della società fiorentina e alla vanità dei suoi cantori drammatici la voga ardente con cui si diffuse la passione pel melodramma? Che nella medesima età e presso il medesimo popolo sorgesse irresistibile, a fianco delle alte navate delle armonie di Palestrina, alle quali aveva dato mano l’intero medioevo cristiano, il fanatismo per un genere semimusicale, io non so spiegarmelo se non come una tendenza estrartistica cooperante con la natura stessa del recitativo. L’ascoltatore, che sotto il canto vuol sentire chiara la parola, il cantante lo soddisfa col fatto, che parla più che non canti, e che con questo mezzo canto rafforza l’espressione patetica della parola; solo che con tale rafforzamento del pathos, mentre facilita l’intendimento della parola, riduce quasi al niente l’altra metà che rimane della musica come musica. Il vero pericolo che lo minaccia, è di dare inopportunamente alla musica una preponderanza che rovina insieme il pathos del discorso e la chiarezza della parola, mentre, dall’altro canto, è trascinato dall’istinto dell’esecuzione musicale e dall’esibizione virtuosa della voce. Qui viene in suo soccorso il «poeta», che sa offrirgli abbastanza rinfranchi d’interiezioni liriche e ripetizioni di parole e di frasi e via dicendo; tutti punti nei quali il cantante può adagiarsi nell’elemento puramente musicale senza darsi pensiero della parola. Questa vicenda di discorso passionatamele compenetrante, ma solo mezzo cantato, e d’interiezione interamente cantata, che è insita nella natura dello stile rappresentativo; questa sollecitudine, istantaneamente cangiante, di fare effetto ora sul concetto e l’immaginativa, ora sulla facoltà musicale dell’ascoltatore, è qualcosa di così completamente innaturale e così intimamente contraddittorio con gl’istinti artistici dello spirito dionisiaco del pari e dello spirito apollineo, che si è dovuto inferirne un’origine del recitativo, la quale non ha niente che vedere con nessun istinto artistico. Secondo che lo abbiamo descritto, bisogna definire il recitativo come un misto di espressione epica e di espressione lirica, ma un misto senza l’intima consistenza che tra elementi tanto disparati non è dato minimamente raggiungere, bensì un accozzamento affatto esteriore, a mosaico, quale non se ne ha il minimo esempio nel dominio della natura e dell’esperienza. Ma non era questa l’idea degl’inventori del recitativo; piuttosto essi medesimi, e con loro i contemporanei, credevano, che con lo stile rappresentativo fosse svelato alfine il segreto della musica antica, quel segreto, col solo ausilio del quale era lecito spiegare l’effetto portentoso di un Orfeo, di un Anfione, se non anche della stessa tragedia greca. Il nuovo stile era tenuto come la rievocazione della musica più effettuosa, dell’antica musica greca; anzi, data la concezione generale e tutta popolare del mondo omerico come mondo primitivo, era consentito abbandonarsi al sogno di un ritorno agli esordi paradisiaci dell’umanità, nei quali anche la musica fosse necessariamente dotata di quella insuperabile purezza e potenza e innocenza, di cui i poeti sapevano parlare in modo così commovente nei loro poemi pastorali. Proprio qui noi scorgiamo l’intimo divenire di questo genere artici peculiarmente moderno, il melodramma: una potente esigenza conquista la propria arte un’esigenza d’indole inestetica; è la nostalgia dell’idillio, la fede nell’esistenza primitiva di un uomo naturalmente artistico e buono. Il recitativo significava appunto il rinvenimento del linguaggio di quell’uomo primordiale, il melodramma il ritrovamento del paese di quell’essere idilliacamente o eroicamente buono, il quale in tutte le sue azioni segue, insieme, un istinto artistico naturale, canta sempre almeno un poco qualunque cosa abbia da dire, per poi subito cantare a piena voce al più leggero moto del sentimento. A noi ora riesce indifferente, se con questa immagine rievocata dell’artista paradisiaco gli umanisti di allora abbiano combattuta l’antica idea ecclesiastica dell’uomo naturalmente peccatore e perduto; talché il melodramma deva intendersi come il contrapposto domina dell’uomo buono, col quale fu insieme trovato il rimedio confortante contro il pessimismo della Chiesa, a cui erano irresistibilmente attratti proprio i ben pensanti del tempo. Ci basti l’aver riconosciuto, che il fascino particolare e quindi la genesi di cotesta nuova forma artistica proviene da un bisogno completamente anestetico, dalla glorificazione ottimistica dell’uomo in quanto uomo, dalla concezione dell’uomo primitivo come dell’uomo buono e artistico per natura, il qual principio essenziale dell’opera in musica si é trasformato a mano a mano in una minacciosa e tremenda pretensione, che, davanti ai movimenti socialistici dei nostri tempi, non possiamo più non udire. «L’uomo buono primitivo» vuole i suoi diritti: quale avvenire paradisiaco! Aggiungo una riprova del pari evidente alla mia idea, che il melodramma è fondato sugli stessi principii della nostra cultura alessandrina. L’opera in musica è il parto dell’uomo teoretico, del laico critico, non già dell’artista; che è, nella storia di tutte le arti, uno dei fatti più singolari. Fu l’esigenza di ascoltatori propriamente amusicali quella che imponeva soprattutto che s’intendesse netta la parola; di modo che una rinascita dell’arte dei suoni era da attendersi solo nel caso che si fosse inventato un modo di cantare, in cui il testo delle parole dominasse sul contrappunto come il padrone sul servitore. Giacché le parole, come si riteneva, erano di tanto più nobili del sistema armonico di accompagnamento, di quanto l’anima è più nobile del corpo. Tale fu la rudità laicamente amusicale d’idee con cui sui primordi del melodramma fu maneggiata la connessione della musica con l’azione e la parola; tali gl’intendimenti dell’estetica con cui furono fatti i primi esperimenti negli alti circoli laici di Firenze dai poeti e cantanti ammirati e protetti. L’uomo artisticamente impotente si costruisce un genere d’arte posticcia, precisamente perché è un uomo congenitamente non artista. Appunto perché non ha alcun sentore della profondità dionisiaca della musica, egli trasforma a sua posta il godimento musicale in una rettorica intellettuale della passione verseggiata e suonata nello stile rappresentativo, e in un voluttuoso diletto delle arti del canto; perché non può contemplare alcuna visione intima, chiama a suo servigio i macchinisti e gli artisti decoratativi; perché non sa concepire la vera natura dell’artista, rievoca secondo il proprio gusto «l’uomo primitivo artistico», vale a dire l’uomo che nella passione canta e verseggia. Egli si risogna un’epoca, in cui basta la passione a partorire canti e poesie, quasi che l’affetto sia mai stato in grado di produrre alcunché di artistico. Il presupposto dell’opera è una falsa credenza nel processo artistico, è propriamente la credenza idilliaca, che ogni uomo sensibile sia peculiarmente artista. L’opera in musica, nel senso di cotesta fede, è in arte l’espressione del laicato, il quale detta le sue leggi col sereno ottimismo dell’uomo teoretico. Se desiderassimo di raccogliere in un concetto le due idee, ora esposte, determinanti l’origine del melodramma, ci rimarrebbe unicamente a parlare di una tendenza idilliaca del melodramma; tema sul quale non avremmo altro a fare che giovarci della dicitura e della esplicazione di Schiller. Egli dice: «O la natura e l’ideale sono un oggetto di afflizione, quando sono rappresentati, quella come perduta, questo come non raggiunto; oppure sono un oggetto di allegrezza, in quanto vengono rappresentati come reali. Nel primo caso si ha l’elegia in senso stretto, nel secondo l’idillio nel senso più ampio». Ora, quanto al contrassegno comune di coteste due idee nella genesi del melodramma, bisogna subito rilevare, che in esse l’ideale non è punto sentito come non raggiunto, né la natura come perduta. Invece, secondo questo sentimento insito nel melodramma, vi è stato un tempo primordiale umano, in cui l’uomo viveva nel cuore della natura e in questo stato naturale aveva, insieme, raggiunto l’ideale dell’umanità in una bontà e artisticità paradisiache: dal quale uomo perfetto noi tutti deriveremmo, anzi ne saremmo tuttora la copia fedele; solo che per ritrovare e riconoscere in noi stessi l’uomo primitivo, bisognerebbe che ci alleggerissimo e affrancassimo di qualche cosa di noi stessi, in virtù di una volontaria rinunzia a una dottrina superflua, a una cultura esuberante. L’uomo colto del Rinascimento nella sua imitazione melodrammatica della tragedia greca intese di risalire a un siffatto accordo di natura e ideale, a una realtà idilliaca di vita; si valse della tragedia greca come Dante di Virgilio, per farsi guidare fino alle porte del Paradiso; ma di là continuò ad andare innanzi indipendente, e da una imitazione della suprema forma d’arte greca passò a un «ripristinamento di tutte le cose», a una ricostituzione del mondo artistico originario dell’uomo. Quale confidente bontà di cuore in questi sforzi ardimentosi, proprio nel seno della cultura teoretica! Bontà, che si spiega unicamente con la credenza consolatrice, «che l’uomo in sé» è l’eroe melodrammatico eternamente virtuoso, è il pastore eternamente flautizzante o cantante, che alla fine deve pur sempre ritrovarsi eroe e pastore, dato che effettivamente per un certo tempo smarrisca sé stesso dove si sia; bontà, che è unicamente il frutto dell’ottimismo, che sale qui dal fondo della concezione socratica del mondo come una colonna di fumo odoroso, allettativa perché storditiva. Il sembiante del melodramma non è minimamente ombrato, dunque, dal dolore elegiaco di un’eterna perdita; piuttosto è allietato dalla serenità di un eterno riacquisto, dalla tranquilla giocondità di una realtà idilliaca, o che per lo meno si può immaginare ogni momento come effettiva realtà; salvo forse ad accorgersi, che cotesta presunta realtà non è altro che un trastullamelo fantasticamente balordo, al quale, chiunque è in grado di commisurarlo con la formidabile serietà della vera natura e di raffrontarlo con le vere scene primitive dei primordi dell’umanità, dovrebbe gridare con disgusto: Via, via il fantasma! Nulladimeno si cadrebbe in errore, se si credesse che un folleggiale balocco, come è il melodramma, si possa cacciarlo via semplicemente con un gagliardo esorcismo, come uno spettro. Chi intende di distruggere il melodramma, deve intraprendere la lotta contro quella serenità alessandrina, che in esso esprime con tanta ingenuità la sua idea favorita; serenità di cui l’opera in musica è la forma d’arte specifica. Ma che cosa c’è da attendersi a vantaggio della stessa arte dall’influenza di una forma artistica, le cui origini in genere non rimontano al dominio estetico, e che invece si è piuttosto intrusa nel campo artistico da una sfera semimorale, e solamente qua e là può talvolta mascherare la sua ibrida nascita? Di quali succhi si nutre cotesto parto operistico parassitico, se non di quelli dell’arte vera? Non è presumibile, che tra le sue seduzioni idilliache, tra le sue arti lusingatrici alessandrine, il cómpito supremo dell’arte, quello davvero serio e degno del nome, quello, cioè, di liberare gli occhi dalla vista dell’orrore delle tenebre e redimere il soggetto, mercè il balsamo salutare dell’apparenza, dallo spasimò degl’impulsi della volontà, non abbia a degenerare in una vuota e dissipante tendenza al mero divertimento? Che cosa ne sarà delle verità eterne dello spirito dionisiaco e dell’apollineo in un cosiffatto misto di stili, quale io ho dimostrato essere la natura dello stile rappresentativo? Nel quale la musica è riguardata come il servitore, il libretto come il padrone, la musica è comparata al corpo, il libretto all’anima? Nel quale la meta più alta è volta nel miglior caso a una pittura musicale descrittiva, nella guisa medesima come avvenne anticamente nel nuovo ditirambo attico? Nel quale è sottratta completamente alla musicarla sua vera dignità, quella di essere lo specchio dionisiaco dell’universo, tanto che altro non le resta se non, da schiava del fenomeno, imitarne le forme apparenti e destare un diletto esteriore col gioco delle linee e delle proporzioni? Un’indagine rigorosa rivela, che cotesta irreparabile influenza del melodramma sulla musica coincide direttamente con l’intero sviluppo musicale moderno: l’ottimismo latente nella genesi del melodramma e nell’essenza della cultura da questo rappresentata, è, con inquietante celerità, riuscito a spogliare la musica della sua missione universale dionisiaca e a imprimerle il suo carattere fantasmagorico, di mero divertimento; cangiamento, al quale in certo modo è dato paragonare solo la metamorfosi dell’uomo eschileo nell’uomo della serenità alessandrina. Ma se finora, in forza dell’esemplificazione addotta, abbiamo posto la sparizione dello spirito dionisiaco in rapporto diretto con una trasmutazione e degenerazione, che molto stupisce ma che non era stata ancora spiegata, dell’uomo greco; quali speranze mai non dovrebbero sorgere in noi, quando auspicii affatto certi e sicuri ci garentissero nel nostro mondo di oggi il processo inverso, il graduale risveglio dello spirito dionisiaco! Non è possibile che la divina forza di Eracle giaccia eternamente asservita alle voluttà di Onfale. Una potenza è sorta dal fondo dionisiaco dello spirito tedesco, la quale nulla ha di comune con le condizioni primordiali della cultura socratica, né si spiega con queste né si giustifica, anzi è sentita da cotesta cultura come un fatto terribilmente inesplicabile, come prepotentemente ostile: ed è la musica tedesca, quale dobbiamo intenderla principalmente nella sua gagliarda ascesa luminosa da Bach a Beethoven, da Beethoven a Wagner. Che cosa sarà in grado d’imprendere, nel caso più favorevole, la socratica avida di conoscenza dei nostri giorni, con questo demone sorgente da inesauribili abissi? Né nel composto merlettato e rabescato della melodia operistica, né aiutandosi con la tavola pitagorica della fuga e della dialettica contrappuntistica si troverà la forinola, alla cui luce tre volte potente si riescirebbe a sottomettere il demone e a costringerlo a parlare. Quale spettacolo, questo dei nostri esteti che dimenano la rete della loro propria «bellezza» dietro il genio musicale tumultuante in un fervore di vita imprendibile e incomprensibile, e si scalmanano a ghermire movimenti, che vanno giudicati tanto poco coi criteri della bellezza eterna quanto del sublime! Bisogna guardarli da vicino, in petto e in persona, cotesti bigotti della musica, quando gridano senza tregua bellezza! bellezza! per farci un’idea, se hanno l’aria di educati nel seno del bello e di schifiltosi beniamini della natura, oppure se piuttosto non cercano un fallace ammanto alla propria rozzezza, un paravento estetico alla propria meschinità tanto povera di sentimento: penso, per esempio, a Otto Jahn. Davanti alla musica tedesca bisogna ben guardarsi dal bugiardo e dall’ipocrita; perché in mezzo a tutta la nostra cultura è proprio dessa l’unico e alto spirito di fuoco puro e purificatore, da cui tutte le cose son mosse in una duplice via circolare, in su e in giù, come nella dottrina del grande Eraclito di Efeso: tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà pur comparire un giorno davanti all’infallibile giudice Dioniso. Riflettiamo, inoltre, che allo spirito della filosofia tedesca uscito dalla stessa fonte venne fatto, con Kant e Schopenhauer, di distruggere il pago piacere di vivere proprio della socratica scientifica, dimostrandone i confini, e che, in forza di questa dimostrazione dei confini della scienza fu iniziata una concezione dei problemi etici è dell’arte infinitamente più profonda e più grave che ci è lecito definire come sapienza dionisiaca intesa per concetti: dove ci mena il mistero di questa unità tra la musica tedesca e la filosofia tedesca, se non a una nuova forma di esistenza, di cui possiamo presagire il contenuto solo presentendolo dalle analogie elleniche? Giacché per noi, situati sulla linea di confine di due diverse forme di esistenza, il modello greco ha questo incommensurabile valore, che in esso sono anche impressi tutti i gradi e le lotte di transizione a una forma classico-istruttiva; salvo che il corso analogo di vita che noi andiamo seguendo è, per così dire, in ordine inverso alle grandi epoche principali della vita ellenica; per esempio, oggigiorno sembra che noi andiamo a ritroso dall’età alessandrina al periodo storico della tragedia. Perciò è viva in noi la sensazione, che la nascita di un evo tragico non abbia quasi a significare altro per lo spirito tedesco, che un ritorno a sé stesso, un felice ritrovarsi, dopo che per una lunga età le mostruose potenze penetrate di fuori, vivendo esso reietto nella piena barbarie della forma, lo avevano ridotto alla schiavitù della forma loro. Ma ecco che finalmente, ritornato alla fonte originaria del suo essere, può osare di farsi avanti a tutti i popoli, ardimentoso e libero, strappata la danda della civiltà romanica; purché impari ad apprendere incessantemente solo da un popolo, dal quale il saper apprendere è già per sé stesso un’alta gloria e un singoiar pregio di peregrinità: dal popolo greco. E quando di questi sommi maestri abbiamo avuto mai più bisogno di adesso, che sentiamo palpitare in noi la rinascita della tragedia, e siamo in pericolo né di sapere donde viene, né di riuscire a spiegarci dove mena? |
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Si potrebbe ponderare con l’animo di un giudice imparziale, in qual tempo e per opera di quali uomini lo spirito tedesco finora abbia rivolto le sue più forti sollecitudini ad apprendere dai greci; e, ammesso con sicurezza, che tale singolar lode vada ascritta alla nobilissima lotta educativa combattuta da Goethe, da Schiller e da Winckelmann, bisognerebbe però a ogni modo aggiungere, che da allora, e dopo i prossimi effetti di quella lotta, lo sforzo per arrivare sulla medesima via alla cultura insieme e alla comprensione dei greci si è venuto, in una maniera inconcepibile, sempre più indebolendo. Forse che, per potere non disperare interamente dello spirito tedesco, non siamo obbligati a trarre da cotesto fatto la conseguenza, che anche a quei lottatori non sia riuscito in qualche punto principale di penetrare nel cuore della natura ellenica, e di fermare un vincolo duraturo di amore tra la cultura tedesca e la greca? In tal caso è plausibile, che un inconsapevole riconoscimento di siffatta manchevolezza abbia suscitato negli animi anche i più seri il dubbio scoraggiante, se, dopo precursori di tal sorta, fosse fattibile di andare anche più avanti di loro sulla stessa via educativa e, in generale, di raggiungere la meta. Perciò da quel tempo vediamo degenerare nel modo più pericoloso il giudizio sull’efficacia dei greci nella nostra cultura: nei più diversi campi dell’intelletto e del non intelletto udiamo l’espressione di superiorità pietosa; altrove una bella oratoria che lascia il tempo che trova va ciaramellando di «armonia greca», di «bellezza greca», di «serenità greca». E precisamente nei luoghi di cui dovrebbe essere dignità e ufficio l’attingere indefessamente, per la salvezza della cultura tedesca, all’alveo greco, cioè tra gl’insegnanti dei più alti istituti educativi, si è ottimamente imparato ad aggiustarsi coi greci sbrigativamente, nel modo più comodo, non di rado fino a spacciarsi scetticamente dell’ideale greco, e fino a un completo pervertimento del vero fine di tutti gli studi dell’antichità. In quei luoghi, chi in genere non si esaurisce completamente nella tensione di riuscire un fedele correttore di testi antichi o un naturalista microscopista delle lingue, cerca forse di appropriarsi «storicamente» dell’antichità greca insieme con le altre antichità; ma, comunque sia, se ne appropria secondo il metodo e con l’aria di superiorità dell’erudita storiografia odierna. Se dunque la vera e propria efficacia educativa dei più alti istituti d’insegnamento non è mai stata più meschina e rilassata che al presente; se «il giornalista», lo schiavo della cartella, trionfa sui maggiori maestri in tutto ciò che riguarda la cultura, e al maestro non rimane altro di meglio che la metamorfosi già in corso, ossia di far suo l’eloquio del giornalista e con la «leggera eleganza» del «trafiletto» folleggiare come una luminosa farfalla della scienza spicciola; con quale penoso sbalordimento la gente educata e conformata al presente andazzo intellettuale deve fissar gli occhi in un fenomeno che gli riescirebbe alquanto comprensibile solo per analogia, desumendolo dalle più profonde ragioni vitali del genio ellenico finora incompreso: nella risurrezione, cioè, dello spirito dionisiaco e nella rinascita della tragedia? Non esiste altro periodo artistico, in cui la così detta cultura e la vera arte furono tanto straniate e avverse l’una all’altra, quali le vediamo presentemente coi nostri occhi. Noi intendiamo il perché una cultura tanto fiacca odia l’arte vera; perché teme di venirne uccisa. Ma tutto un genere di cultura, quello socratico-alessandrino, dovrebbe pur morire alla fine, dopo che si è potuto striminzire in un culmine così leziosamente fragile come la cultura odierna! Se a eroi di tal fatta, come Schiller e Goethe, non riesci d’infrangere la porta magica che mena al monte incantato della grecità, se dei loro arditi cimenti nulla perdura, altro che lo sguardo nostalgico che l’Ifigenia goethiana dalla barbara Tauride manda sul mare alla patria lontana, che cosa mai resta a sperare agli epigoni di tali eroi, quando da una parte affatto diversa, non tocca da tutti gli sforzi tentati finora dalla cultura, ecco che la porta si apre da sé, tra le armonie mistiche della musica tragica risorta? Che nessuno mai cerchi di perturbare la nostra fede in una imminente rinascita dell’antichità ellenica! Giacché solo qui è riposta la nostra speranza in un rinnovamento e in una purificazione dello spirito tedesco al fuoco magico della musica. Altrimenti a che cosa sapremmo ricorrere? che cosa potrebbe ridestare una qualche espettazione consolatrice dell’avvenire nella desolazione e nel languore dell’odierna cultura? Invano andiamo in traccia di una sola radice potentemente ramificata, di una sola aiuola di terra fertile e sana: dovunque polvere, sabbia, aridità, agonia. Onde uno spirito solitario e sconsolato non potrebbe scegliere miglior simbolo, che il cavaliere accompagnato dalla morte e dal diavolo, come lo concepì il nostro Dürer, il cavaliere chiuso nell’armatura, dal rigido sguardo di acciaio, il quale non deviato di una linea dai suoi orridi compagni, eppure senza speranza, sa seguire la sua terribile strada, solo col suo cavallo e col suo cane. Un siffatto cavaliere dilreriano fu il nostro Schopenhauer: non aveva speranza, ma voleva la verità. Il suo pari non esiste. Ma come cangia di repente la desolazione così tetramente descritta della nostra flaccida cultura, ove la tocchi l’incantesimo dionisiaco! Un turbine rapisce tutto quanto è consunto, putrido, frantumato, disfatto, lo avviluppa vorticosamente in un rosso nembo di polvere, e come un avoltoio lo trae al cielo. I nostri occhi cercano smarriti ciò che è scomparso: ciò che vedono è salito in alto come per un sommergimento nella luce dorata, tanto è pieno e fresco, tanto rigogliosamente vivo, tanto passionatamente immenso. La tragedia è assisa tra questa ridondanza di vita, di dolore di gioia, in un sublime rapimento, e ascolta di lontano un canto malinconico; il canto che le racconta della madre dell’essere, i cui nomi sono illusione, volontà, sventura. Sì, amici miei: credete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell’uomo socratico è passato: coronatevi di edera, brandite il tirso, e non vi meravigliate che la tigre e la pantera vengano carezzevolmente ad accosciarvisi ai ginocchi. Oggi è l’ora di osare di essere unicamente uomini tragici; perché bisogna che vi liberiate. Unitevi al pellegrinaggio festoso di Dioniso dall’India alla Grecia! Armatevi a dure contese, ma credete ai portenti del vostro dio! |
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Tornando dalle voci esortative alla pacatezza che si addice al pensatore, io ripeto, che solo dai greci è dato apprendere ciò che importi all’intima ragion di vita di un popolo un siffatto miracoloso e repentino risveglio della tragedia. Quello che combatte le battaglie persiane è il popolo dei misteri tragici; ed è naturale che il popolo che ha condotto quelle guerre abbia bisogno poi della tragedia come della necessaria medicina salutare. Chi mai, proprio in cotesto popolo, dopo che per più generazioni era stato agitato nell’intimo dalle più forti scosse del demone dionisiaco, avrebbe supposto un’espansione così regolatamente potente del più semplice senso politico, del più naturale istinto della patria, della voglia originariamente virile della lotta? Se però in ogni considerevole diffusione di sommovimenti dionisiaci si avverte sempre, che la liberazione dionisiaca dalle catene dell’individualità principia col manifestarsi come uno sminuimento degl’istinti politici che va a mano a mano fino all’indifferenza, anzi Ano all’avversione, d’altra parte è pur certo, che Apollo formatore di stati è anche il principium individuationis, e che lo stato e il senso della patria non possono vivere senza l’affermazione della personalità individuale. Per uscire dall’orgiasmo un popolo ha una sola via, la via che mena al buddhismo indiano, il quale non è concepibile in genere nella sua anelanza al nulla, se non col concorso di quei singolari stati dell’animo che si eleva al disopra dello spazio, del tempo e dell’individualità: stati di animo, che a loro volta richiedono una filosofia, la quale insegni a superare con una idea l’indescrivibile disgusto degli stati intermedi. La medesima necessità spinge un popolo, mosso dall’assoluto valore degl’istinti politici, sulla via dell’estrema affermazione mondana e mondiale, la cui espressione più grandiosa, ma anche la più terribile, è il romanum imperium. Situati tra l’India e Roma e spinti a una scelta seducente, riuscì ai greci di ricavare in classica purezza una terza forma, non certamente atta per lungo tempo a un vero uso, ma appunto per questo data all’immortalità. Giacché la morte precoce dei prediletti degli dèi ha riscontro, sì, in tutte le cose, ma è altrettanto certo, che essi poi vivono eternamente in seno agli dèi. Al più nobile di tutti non si domanda la durevole tenacità del cuoio: la compatta durabilità, quale fu propria, per esempio, dell’istinto nazionale romano, verosimilmente non fa parte dei predicati necessari della perfezione. Se però domandiamo quale farmaco rese possibile ai greci, nei loro grandi tempi e tra le forze straordinarie dei loro istinti dionisiaci e politici, di non esaurirsi né nel torpore estatico né nella logorante cupidità del dominio e della gloria mondiali, ma di raggiungere la stupenda contemperazione che è propria di un vino generoso, conciliante al fervore insieme e alla contemplazione, ebbene, bisogna che volgiamo la mente al prodigioso potere della tragedia, che commosse tutta la vita popolare e la purificò ed alleviò; tanto che del suo supremo valore avremo intendimento solo quando essa si presenterà a noi, del pari che ai greci, come il compendio di tutte le virtù salutari profilattiche, come la mediatrice e la disposi trice fra le più vigorose e per sé stesse predestinate qualità del popolo. La tragedia assorbe in sé il sommo orgiasmo musicale, tanto da condurre diviato alla perfezione la musica, presso i greci come presso di noi; ma per di più le pone accanto il mito tragico e l’eroe tragico, il quale, simile a un poderoso titano, si carica sul dorso l’intero mondo dionisiaco e ce ne disgrava; mentre per mezzo dello stesso mito tragico essa nella persona dell’eroe tragico sa d’altra parte liberarci dall’avida brama di questa esistenza, e con mano sapiente ci accenna e richiama a un altro essere e a una gioia più alta, a cui l’eroe preso tra le sue lotte si prepara pieno di presentimento, e vi si prepara col suo soccombere, non con la sua vittoria. Tra il valore universale della sua musica e l’ascoltatore dionisiacamente sensibile la tragedia interpone una sublime allegoria, il mito, e suscita nell’ascoltatore quasi l’illusione, che la musica non sia altro che un mezzo supremo di rappresentazione per accendere di vita il mondo plastico del mito. Confidando in questo generoso inganno, essa può movere le membra alla danza ditirambica e abbandonarsi con franchezza a un sentimento orgiastico di libertà, nel quale, come musica per sé stessa, senza quell’inganno, non le sarebbe lecito di arrischiarsi di folleggiare. Il mito ci protegge dalla soverchianza della musica, nello stesso modo come, d’altro canto, conferisce ad essa la suprema libertà. Perciò la musica, in ricompensa, concede al mito tragico una significazione metafisica così penetrante e persuasiva, quale non raggiungerebbero mai, senza l’unico suo ausilio, la parola e l’immagine; e precisamente per sua virtù è riserbato allo spettatore tragico il sicuro pregusto di quella suprema gioia, a cui conduce la via che passa tra la rovina e l’annientamento, tanto che gli sembra di udire il più profondo abisso delle cose parlargli a chiare note. Se a questo mio arduo concetto forse non mi è venuto fatto di dare nelle ultime proposizioni più che un’espressione provvisoria, accessibile a pochi, mi corre l’obbligo, proprio a questo punto, di non trascurare d’indurre gli amici a un altro tentativo, e di pregarli che si preparino all’intelligenza della tesi generale sopra un singolo esempio della nostra comune esperienza. Con questo esempio io non mi rivolgo a coloro, che si giovano delle immagini dell’azione scenica, delle parole e degli affetti dei personaggi per mettersi in grado, con questo aiuto, di avvicinarsi al sentimento musicale; giacché tutti costoro non sentono la musica come propria lingua materna e perciò, ad onta del detto aiuto, non vanno oltre il vestibolo della percezione musicale, senza poterne punto toccare gl’intimi santuari; anzi qualcuno di loro, come Gervinus, non arriva per quella via nemmeno al vestibolo. All’opposto io devo appellarmi solamente a quelli che, stretti parenti della musica, possiedono in essa, per così dire, il loro seno materno, e sono legati con le cose intorno quasi unicamente per mezzo d’inconsapevoli relazioni musicali. A queste schiette nature musicali io domando, se sanno figurarsi un uomo che sia in grado di ascoltare il terzo atto del «Tristano e Isotta» privo dei sussidi della parola e dell’immagine, puramente come prodigiosa creazione sinfonica, senza esalare lo spirito in una tensione convulsa di tutte le ali dell’anima. Un uomo che, come qui avviene, ha accostato l’orecchio, per così dire, al cavo cardiaco della volontà dell’universo, donde sente espandersi la folle brama dell’esistenza, e con questa espandersi esso medesimo, come un torrente in tempesta o come un dolcissimo rivo smarrito, in tutte le arterie del mondo; in che modo mai potrebbe non spezzarsi d’un colpo? Nel povero velo vitreo della sua corporea individualità umana, come resisterebbe egli all’ascolto dell’eco degl’innumerevoli richiami di gioia e di angoscia prodotti «dall’ampio spazio della notte dei mondi», senza strapparsi a questa ridda pastorale della metafisica e rifuggirsi inarrestabilmente nella sua patria primordiale? Che se pure una tale opera possa venir percepita nella sua complessa totalità senza l’annientamento dell’esistenza individuale, se una tale creazione fu potuta esser creata senza mettere in brani il suo creatore, ebbene, donde attingeremo la soluzione di una contraddizione siffatta? Qui tra la nostra suprema eccitazione musicale e la musica interviene il mito tragico e l’eroe tragico, in fondo non più che come allegoria dei fatti universalissimi, dei quali solo la musica ha potestà di parlare in via diretta. Se non che il mito, quale allegoria, ove lo sentissimo come puri esseri dionisiaci, rimarrebbe senza effetto e senza l’adeguato apprezzamento, né ci distoglierebbe un sol momento dal tendere l’orecchio all’eco degli universalia ante rem. Ma qui sorge la potenza apollinea, rivolta a ripristinare l’individuo quasi annientato, col balsamo salutare di un’illusione deliziosa: immantinente noi crediamo di vedere niente altro che Tristano, quando immoto e cupo si domanda: «la canzone antica: che cosa mi desta?» E ciò che prima c’invadeva come un sospiro profondo dal centro dell’essere, ora ci dice solamente che «deserto e vuoto è il mare». E dove noi senza fiato credevamo di spegnerci in una tensione convulsa di tutti i sensi, e un punto solo ci teneva legati a questa esistenza, ecco che ora udiamo e vediamo unicamente l’eroe ferito a morte, ma non morente, che esclama in un disperato singulto: «Desiderio! sospiro! Morendo io sospiro di non morire di desiderio!» E se prima il suono giubilante del corno in una tale sovrabbondanza e un tale eccesso di angosce divoranti ci spezzava il cuore come l’angoscia estrema, adesso invece tra noi e cotesto «giubilo in sé stesso» s’interpone l’esultante Kurwenal, rivolto alla nave che si porta Isotta. Pei quanto potentemente la compassione ci ricerchi l’anima, pure in un certo senso la compassione ci salva davanti al dolore primordiale del mondo, nello stesso modo come l’immagine allegorica del mito ci salva davanti all’intuizione immediata della suprema idea del mondo, e come ci salvano il pensiero e la parola davanti all illuvione irrefrenabile dell’inconscia volontà. In virtù di cotesta magnifica illusione apollinea ci sembra quasi, che lo stesso regno dei suoni ci mova incontro come un mondo plastico; ci sembra quasi, che in esso sia unicamente conformato ed effigiato ed impresso, come in una sostanza dolcissima e ubbidiente alla figura, il destino di Tristano e Isotta. In tal guisa il senso apollineo ci strappa all universalità dionisiaca e c’invaghisce degl’individui: a questi vincola la nostra compassione, per mezzo di questi appaga il sentimento della bellezza, che anela alle grandi e sublimi forme: esso ci fa scorrere davanti le immagini della vita e c’invoglia a indagarne e intenderne col pensiero il nucleo vitale riposto. Mercè l’efficacia enorme dell’immagine, del concetto, della dottrina etica, della commozione simpatica, il senso apollineo solleva l’uomo dall’orgiastico annientamento di sé stesso, e lo inganna e fa passare sull’universalità del processo dionisiaco inducendolo nella credenza illusoria, che egli vede una singola immagine del mondo, per esempio quella di Tristano e Isotta, e la vede per mezzo della musica unicamente al fine di poterla vedere anche meglio e nell’intimo. Che cosa non può fare la magia risanatrice di Apollo, se può suscitare in noi l’illusione, che essa abbia effettivamente la virtù di porre la potenza dionisiaca al servigio dell’apollinea e di accrescerne l’efficacia e gli effetti, e che anzi la stessa musica sia essenzialmente un’arte rappresentativa dal contenuto apollineo? In forza di cotesta armonia prestabilita che fonde il dramma perfetto con la sua musica, il dramma raggiunge quel sommo grado di evidenza rappresentativa, che altrimenti sarebbe inaccessibile al semplice dramma parlato. Come tutte le figure vive della scena, nelle linee melodiche che procedono indipendenti, si semplificano davanti a noi per la chiarezza della linea che risalta, così il complesso di queste linee ci suona all’orecchio nella vicenda armonica che simpatizza e si confonde nel modo più delicato con gli avvenimenti dell’azione in corso: vicenda di armonie, mercè la quale le relazioni delle cose tra loro riescono percepibili ai nostri sensi, e non già in modo astratto, ma immediatameute apprensibili, nel modo stesso come anche per mezzo di quelle armonie riconosciamo, che solo nelle relazioni delle cose si rivela con purezza 1 essenza di un carattere e di una linea melodica. E mentre la musica ci costringe così a vedere di più e più addentro che mai, e ad estendere davanti a noi la cortina delle scene come un tessuto cedevole, il mondo del teatro davanti ai nostri occhi addestrati a guardare le cose nell’intimo si amplia all’infinito, come per una luce che lo illumini dal di dentro in fuori. Che cosa potrebbe offrir di simile il librettista, che aiutandosi con un meccanismo di troppo più imperfetto, per via indiretta, partendo dalla parola e dal concetto, si affatica a ottenere quell’ampliamento interiore del mondo scenico contemplato, e l’intimo lume con cui lo rischiara l’anima dello spettatore? Anche la tragedia musicale prende a compagna, sì, la parola; ma essa può insieme porre in luce la cagione recondita e il punto dove è nata la parola, e della parola chiarire dal di dentro tutto il divenire. Se non che del processo ora descritto sarebbe altrettanto esatto dire, che esso è meramente una magnifica apparenza, vale a dire è l’illusione apollinea mentovata poc’anzi, per effetto della quale veniamo a essere sollevati dalla oppressura e dall’eccesso dionisiaci. In fondo, anzi, il rapporto della musica col dramma è precisamente l’inverso: la musica è la vera e propria idea del mondo, il dramma è meramente un riflesso di questa idea, un suo singolo fantasma staccato. L’identità fra la linea melodica e la figura vivente, fra l’armonia e i rapporti caratturistici di quella figura, è vera in un senso opposto a quale ci possa sembrare assistendo allo spettacolo della tragedia musicale. Per quanto noi possiamo movere, nel modo più evidente allo sguardo, la figura, e animarla e illuminarla dal di dentro, pure essa continua a essere non più che il fenomeno, dal quale non c’è ponte che meni alla vera realtà, all’intimo cuore del mondo. Soltanto la musica è la voce che parla dal fondo di questo cuore; e innumerevoli fenomeni di quella specie potrebbero bene passare attraverso la stessa musica, e non ne esaurirebbero mai l’essenza, bensì ne sarebbero sempre niente altro che immagini commutabili. Con l’opposizione popolare e interamente falsa di anima e corpo non si spiega, certo, nulla del difficile rapporto di musica e dramma, e si sconcerta tutto; ma la grossolanità afilosofica di quella opposizione sembra esser diventata proprio per i nostri esteti, chi sa per quali ragioni, un articolo di fede volentieri professato, mentre, nel tempo stesso, non hanno imparato nulla dall’opposizione di fenomeno e di cosa in sé, oppure, per ragioni parimente ignote, nulla hanno voluto imparare. Se abbiamo dimostrato con la nostra analisi che lo spirito apollineo nella tragedia ha, in virtù della sua illusione, riportato piena vittoria sull’elemento originario dionisiaco della musica, e che questa a sua volta ha giovato ai fini apollinei, vale a dire ha giovato a conferire al dramma La massima chiarezza, certamente però bisogna apportare a ciò una restrizione molto importante; ed è, che nei punti più essenziali l’illusione apollinea è rotta e annullata. Il dramma, che col sussidio della musica ci si svolge davanti con una chiarezza, così intimamente illuminata, di tutti i movimenti e figure, come se vedessimo nascere un tessuto sul telaio nell andirivieni della spola, raggiunge come totalità un effetto, che è riposto di là da tutti gli effetti artistici apollinei. Lo spirito dionisiaco nell’effetto totale della tragedia riprende la prevalenza: essa si chiude con una risonanza, che non potrebbe mai salire dal dominio dell’arte apollinea. E così l’illusione apollinea si rivela per quella che è, ossia come il continuo velame gettato sul vero e proprio effetto dionisiaco per tutta la durata della tragedia; effetto, il quale è pure così potente, che alla fine spinge lo stesso dramma apollineo in una sfera, dove comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e dove nega sé stesso e il suo appaiamento apollineo. Talché bisognerebbe effettivamente simboleggiare il difficile rapporto dello spirito apollineo e del dionisiaco nella tragedia con l’immagine di un affratellamento delle due divinità: Dioniso parla il linguaggio di Apollo, ma Apollo finisce col pai lai e il linguaggio di Dioniso: con che vien conseguito il fine supremo della tragedia e, in generale, dell’arte. |
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Il lettore attento e coscienzioso si richiami ora alla mente, puro e incorrotto, secondo la sua propria esperienza, l’effetto di una vera tragedia musicale. Io credo di avere illustrato dall’un lato e dall’altro il fenomeno di questo effetto, in tal modo che egli adesso saprà interpetrare i dati della sua propria esperienza. Egli, cioè, si ricorderà, che, per quanto concerne il mito che gli si svolgeva davanti, si sentiva come salito a una specie di onniscienza, quasi che la virtù visiva dei suoi occhi non fosse una potenza meramente superficiale ma fosse abilitata a penetrare nell’intimo; e quasi che le fluttuazioni della volontà, la lotta dei motivi, il trabocco dilagante delle passioni, adesso, con l’aiuto della musica, fossero divenuti visibili ai suoi occhi in modo, per così dire, tangibile ai sensi, come un tumulto di linee e di figure vivamente mosse, e al suo animo fosse dato d’immergersi nei più delicati misteri delle emozioni inconscie. Ma nel momento stesso che egli si accorge che i suoi istinti di visione e di lucidità nel veder chiaro le immagini fuori di sé gli si sono affinati al massimo grado, pure sente con altrettanta precisione, che questa lunga serie di effetti artistici apollinei non hanno punto prodotto in lui quella felice perduranza della contemplazione involontaria, che ottengono in lui l’artista plastico e il poeta epico, ossia gli artisti specificamente apollinei; vai quanto dire, che non hanno prodotto in lui la giustificazione del mondo della individuatio che si raggiunge appunto nella contemplazione, e che rappresenta il culmine e la sostanza dell’arte apollinea; Contempla, divenutogli chiaro, il mondo della scena, eppure lo nega. Vede davanti a sè con epica chiarezza e bellezza l’eroe tragico, eppure si diletta del suo annientamento. Comprende fino all’intimo gli avvenimenti scenici, eppure si rifugia volentieri nell’incomprensibile. Sente giustificati gli atti dell’eroe, eppure prova maggiore elevazione d’animo, che questi atti distruggano l’autore. Rabbrividisce dei mali che colpiscono l’eroe, eppure presagisce in cotesti mali una gioia più alta, di gran lunga più soverchiante. Vede di più e più a fondo che mai, eppure si desidera cieco. Donde deriveremmo questa stupenda antinomia interiore, questo spianamento delle cime apollinee, se non dall’incantesimo dionisiaco, che, pure eccitando al massimo grado alle forme dell’apparenza i moti apollinei, nondimeno ha virtù di sottomettere al proprio servigio cotesta esuberanza della forza apollinea? Bisogna intendere il mito tragico meramente come una figurazione allegorica della sapienza dionisiaca ottenuta mercè i mezzi artistici apollinei: esso mena il mondo del fenomeno ai limiti dove nega sé stesso e cerca di rifugiarsi nuovamente nel seno della vera e unica realtà; dove il mondo del fenomeno sembra, dunque, che intoni, con Isotta, il suo metafisico canto del cigno: Nel fiotto ondeggiante del mare voluttuoso, nell’eco sonoro delle onde vaporose, nel Tutto anelante dell’alito universale, annegarsi, sommergersi, ignoti: suprema gioia! In questo medesimo modo noi, attenendoci alle esperienze dell’ascoltatore veramente esteta, ci rappresentiamo anche l’artista tragico: egli, simile a un esuberante iddio dell’individuatio, crea le sue figure; e in questo senso la sua opera potrebbe approssimativamente forse intendersi come una «imitazione della natura»; ma poi il suo mostruoso istinto dionisiaco inghiotte tutto cotesto mondo dei fenomeni, per far presagire dietro di esso e per mezzo del suo annientamento una suprema gioia artistica primordiale nel seno dell’uno primigenio. Certo, non sanno dirci nulla i nostri esteti di questo ritorno alla patria originaria, della fratellanza delle due divinità artistiche nella tragedia, e della commozione tanto apollinea che dionisiaca dell’ascoltatore; mentre, d’altronde, non si stancano di caratterizzare la lotta dell’eroe col destino, la vittoria dell’ordine morale del mondo o la purificazione degli affetti per mezzo della tragedia, di caratterizzarle, dico, come il cómpito specificamente tragico. Pertanto questa loro infaticabile ostinatezza m’induce a pensare, che essi in generale siano uomini refrattari alle sensazioni estetiche, e che forse, quando ascoltano la tragedia, bisogna considerarli unicamente come esseri morali. Non mai, fin dai tempi di Aristotele, è stata data dell’effetto tragico una spiegazione desunta da stati d’animo artistici, ricavata dall’attitudine estetica dell’ascoltatore. Ora la compassione e la paura devono essere spinte a un sollievo di liberazione dalle più fosche peripezie, ora dobbiamo sentirci elevati e edificati dalla vittoria dei buoni e nobili principii, dall’immolazione dell’eroe fatta nel senso di una concezione morale del mondo; onde, come io credo di certo, che per moltissimi uomini è proprio questo e unicamente questo l’effetto della tragedia, così credo conseguirne chiaro e lampante, che tutti costoro, insieme con gli esteti loro interpetri, non abbiano compreso nulla della tragedia, riguardata nella vera sua essenza di somma arte. Quel sollievo patologico, la catarsi di Aristotele, che i filologi non sanno bene se bisogni annoverarla tra i fenomeni fisiologici o tra i fenomeni morali, mi riporta alla mente un notevole presagio di Goethe. «Non mi è mai riuscito senza un vivo interesse patologico», egli dice, «di elaborare una situazione tragica, e perciò ho preferito di scansarla piuttosto che andare a cercarla. É stato forse anche questo uno dei privilegi degli antichi, che per loro il supremo patetico era anch’esso un puro gioco estetico, laddove presso di noi è indispensabile, a produrre un tale effetto, la cooperazione della verità naturale?». A tale domanda, ispirata a un senso così profondo, ci è dato ora di rispondere affermativamente dopo le piagnifiche conoscenze che abbiamo apprese, dopo che appunto sulla tragedia musicale abbiamo con stupore fatto esperienza, che il supremo patetico può pure non essere altro che un semplice gioco estetico; ragion per cui ci è lecito credere, che non prima di adesso si possa descrivere con buon risultamento il fenomeno primordiale del tragico. A chiunque, ciò nonostante, non ha altri argomenti di cui parlare che gli effetti posticci presi dalle sfere estraestetiche, e non si sente sollevato al disopra del processo patologico-morale, non rimane altro, che disperare della propria natura estetica; e perciò gli commendiamo, come innocente compenso, l’interpetrazione di Shakespeare alla maniera di Gervinus e l’industre ricerca della «giustizia poetica». In tal modo, con la rinascita della tragedia è rinato anche l’ascoltatore estetico, al cui posto ha usato finora assidersi in teatro un bizzarro qui pro pro, con pretese mezzo morali e mezzo dottrinali: vale a dire il «critico». Finora nella sua sfera tutto era artificioso, tutto intonacato superficialmente con solo un’apparenza di vita. In effetto, l’artista rappresentativo non sapeva più come regolarsi davanti a un ascoltatore atteggiato a critico, e insieme col suo ispiratore, il drammaturgo o il melodrammaturgo, spiava ansiosamente gli estremi resti di vita in cotesto essere pretensiosamente arido e incapace di gusto e di godimento. Ma precisamente di critici di tal sorta era composto finora il pubblico: già l’indole stessa dell’educazione e i giornali predisponevano a una cosiffatta suscezione dell’opera d’arte, senza che se ne rendessero conto, lo studente, lo scolaro, perfino l’innocente giovinetta. Le più nobili nature di artisti, dato cotesto pubblico, facevano a fidanza sulla suscitazione delle energie morali-religiose, e revocazione dell’ordine morale del mondo» sopravveniva surrettiziamente al punto giusto, dove la vera e sola potenza del fascino artistico avrebbe dovuto rapire lo schietto ascoltatore. Oppure il drammaturgo rappresentava sulla scena una tendenza grandiosa o, almeno, passionale del momento politico e sociale, con tanta evidenza, che l’ascoltatore poteva uscire dalla sua aridità critica e abbandonarsi ai propri sentimenti come nelle ore patriottiche o guerresche, o come davanti alla solennità della tribuna parlamentare o davanti alla condanna del delitto e del vizio: che era uno straniarsi dai fini specifici dell’arte, il quale nell’un caso e nell’altro doveva condurre al culto della tendenza. Se non che, avvenne anche qui ciò che è avvenuto di tutte le arti affettate e infinte; cioè un precipitoso pervertimento di quelle tendenze; tanto precipitoso, che, per esempio, la tendenza di adibire il teatro a istituto di educazione morale del popolo, tendenza che ai tempi di Schiller fu presa sul serio, viene già annoverata tra le anticaglie poco attendibili di una cultura superata da un pezzo. Mentre in teatro e nei concerti dominava il critico, nella scuola il giornalista, nella società la stampa, l’arte si degradava in un oggetto di trattenimento della più vile specie, e la critica d’arte era adoperata come cemento a tenere insieme un mondo frivolo, dissipato, egoistico e, per giunta, miserabilmente privo di originalità, il cui stato mentale ci è fatto intendere dalla parabola schopenhaueriana degl’istrici; talmente che in nessun tempo mai si cicalò tanto di arte, e tanto poca se ne ebbe. Ma càpita tuttora di far la conoscenza di un uomo, il quale sia in grado di parlare di Beethoven e di Shakespeare? A tale domanda ognuno risponderà secondo il proprio sentimento: a ogni modo, con la risposta dimostrerà che cosa egli intende per «cultura», presupposto che in generale cerchi di rispondere alla domanda, e che sul bel principio non ammutolisca dalla stupefazione. Per contro, chi fosse stato dotato dalla natura di qualità più nobili e delicate, sebbene poi divenuto, nella conformità or ora descritta, un barbaro criticante, dovrebbe pur parlare di un effetto altrettanto inatteso quanto del tutto incomprensibile, suscitato in lui, per dirne una, da una felice esecuzione del Lohengrin; solo che forse gli mancò il filo conduttore che lo sostenesse e guidasse chiaramente nell’iniziazione; cosicché quella sensazione inconcepibilmente multiforme e assolutamente impareggiabile che allora lo scosse, rimase solitaria, e dopo un poco a guisa di un’arcana stella dileguò. Ma solo allora egli intuì ciò che sia l’ascoltatore estetico. |
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Chi voglia provare proprio con precisione sopra sé medesimo, se e in qual grado è affine al vero ascoltatore estetico, oppure se non fa parte della società degli uomini socratico-critici, non deve far altro, che domandarsi coscienziosamente qual’è la vera sensazione suscitata nel suo animo dal prodigio rappresentato sulla scena: se, cioè, egli non ne senta offeso il suo senso storico guidato dalla rigida causalità psicologica, oppure se non fa, per così dire, una benevola concessione al prodigio, come a un fenomeno comprensibile nella fanciullezza ma a lui ormai divenuto estraneo, oppure se non prova, comunque, qualcosa d’altro. Da questo, insorama, egli può misurare fino a qual segno è capace di comprendere il mito, cotesto simbolo riassuntivo dell’universo, il quale, come compendio del mondo fenomenico, non può far di meno del prodigioso. Ma è verosimile, che quasi tutti, esaminando rigorosamente sé stessi, si sentano talmente disgregati dallo spirito critico-storico della nostra cultura, che non sanno più concepire come credibile l’esistenza del mito, quale fu un tempo, se non per la via erudita, per mezzo di astrazioni. Se non che, tolto il mito, ogni cultura va spoglia della sua sana e naturale energia creatrice; solamente un orizzonte cosparso di miti raccoglie nell’unità un intero movimento di cultura. Solo il mito salva tutte le forze della fantasia e del sogno apollineo dal loro vagabondare senza direzione. Bisogna che le immagini del mito siano i non visti e onnipresenti spiriti indigeti, sotto la cui egida crescono le giovani anime, e al cui segno l’uomo maturo comprende la propria vita e le proprie lotte; e anche lo stato non conosce leggi non scritte più potenti degl’istituti mitici, che garantiscono il suo rapporto con la religione, la sua provenienza dalle rappresentazioni mitiche. Proviamo ora, invece, a contrapporre a ciò l’uomo astratto, non guidato dai miti, l’educazione astratta, i costumi astratti, il diritto astratto, lo stato astratto; rappresentiamoci il vagamento sregolato della fantasia artistica, non frenato da alcun mito ad essa familiare; figuriamoci una cultura, che non ha una sede originaria, fissa e sacra, ma che è condannata a sfruttare tutti i rinfranchi e a nutrirsi miserabilmente di tutte le culture: ebbene è proprio questo il presente, quale risulta da quel socratismo che mirò all'esterminazione del mito. Ed ecco l’uomo senza miti, eternamente in fame tra le reliquie del passato, affaticarsi a scavare e frugare tra le radici, sia pur che gli tocchi di andarle rintracciando nelle più remote antichità. Che cosa mai vuol dire l’enorme bisogno storico dell’insaziabile cultura moderna, la raccolta d’innumerevoli altre culture, la divorante brama di conoscenza, se non la perdita del mito, la perdita della patria mitica, del mitico seno materno? Si dubiti pure, se il movimento febbrile e tanto sinistro di questa cultura sia qualcos’altro che l’avidità dell’affamato che allunga la mano e ghermisce l’alimento; ma chi vorrebbe dare ancora una briciola a una siffatta cultura, che di quanto inghiotte non è mai satolla, e al cui tocco il nutrimento più sostanzioso e salubre usa cangiarsi in «Storia e Critica»? Si dovrebbe, con dolore, disperare anche della nostra vita tedesca, se il popolo tedesco si fosse già fuso indissolubilmente con la sua cultura, fosse divenuto uno con essa, nella stessa guisa come è avvenuto e, con nostro spavento, possiamo osservarlo nella incivilita Francia. E quello stesso fatto che per tanto tempo ha costituito il grande vantaggio della Francia, ed è stato la ragione della sua enorme supremazia, cioè appunto cotesta unificazione di popolo e cultura, dovrebbe in questo momento indurci ad apprezzare la fortuna, che questa nostra tanto problematica cultura non ha fino a oggi nulla di comune con l’intima e nobile essenza del carattere del nostro popolo. Tutte le nostre speranze si movono anzi con passione nostalgica verso la certezza, che sotto i flutti agitati di questa vita di cultura e i sussulti di questa educazione si celi una magnifica forza originaria, intimamente sana, la quale, invero, si solleva gagliarda solo nelle ore dei portenti, e poi ricade torpida, a risognare un futuro risveglio. Fuori di cotesto abisso balzò la Riforma germanica, e nei corali della Riforma echeggiarono la prima volta le armonie germaniche della musica dell’avvenire. Il corale di Lutero risonò profondo, ardimentoso, sgorgato dall’anima, infinitamente umano e soave, così come il primo richiamo dionisiaco che traversò i folti del bosco rinascente all’approssimarsi della primavera. Gli rispose a gara il frastuono del festoso corteo sacramente protervo di quei tripudiatori dionisiaci, ai quali noi dobbiamo la musica tedesca, ai quali noi dovremo la rinascita del mito germanico! So bene, che ora mi spetta di condurre il lettore, che mi segue con interesse, in cima a un luogo di meditazione romita, dove non avrà più di pochi compagni; e ve lo chiamo animosamente, perché abbiamo per appoggio le nostre splendide guide, i greci. Al fine di depurare la nostra conoscenza estetica, noi finora abbiamo mutuato da loro quelle due divine immagini, di cui ciascuna domina un mondo artistico a parte, e del cui reciproco rapporto e rafforzamento ci ha dato sentore lo studio d’iniziazione nei segreti della tragedia greca. Il dichino della tragedia greca doveva rivelarcisi come l’effetto di un notevole disgiungimento dei due istinti artistici primordiali; evento, il quale procedeva talmente d’accordo con la degenerazione e la trasformazione del carattere popolare greco, da indurci a gravi meditazioni, onde risulta, che nei loro elementi fondamentali l’arte e il popolo, il mito e il costume, la tragedia e lo stato sono necessariamente e strettamente cresciuti a un’unica crescenza. Il tramonto della tragedia fu nello stesso tempo il tramonto del mito. Fino allora i greci erano involontariamente costretti a riconnettere coi loro miti tutta la vita vissuta, anzi a non potersela spiegare se non per mezzo di cotesta riconnessione; di guisa che anche il prossimo presente doveva affacciarsi repentinamente ai loro occhi sub specie eterni e, in un certo senso, come non contenuto dal tempo. E nell’onda di questo fiume senza tempo s’immergeva altrettanto lo stato che l’arte, per trovarvi riposo alla gravezza e alla brama del momento. E un popolo, come, del resto, anche un uomo, solo di tanto vale, di quanto sa imprimere sugli eventi della sua vita il sigillo dell’eterno; giacché solo così egli si pone, a mo’ di dire, fuori del mondo, e mostra la sua inconscia intima persuasione della relatività del tempo e del significato vero, val quanto dire metafisico, della vita. Accade invece l’opposto, quando un popolo principia col concepirsi storicamente e con rabbattere intorno a sé i baluardi mitici; concezione storica di sé stesso, con la quale solitamente si connette un processo di decisa moudanizzazione, un distacco violento dall’inconscia metafisica della sua esistenza primitiva, con tutte le rispettive conseguenze etiche. L’arte greca, e principalmente la tragedia greca, ritardò la fine del mito: e prima di arrivare a vivere schiantati dal patrio terreno, sfrenati nella selvatichezza del pensiero, del costume e dell’azione, gli uomini doverono distruggerli tutti. Pure, cotesto istinto metafisico si sforza anche adesso di procurarsi una forma, sebbene svigorita, di trasfigurazione nel socratismo della scienza inculcante a vivere; solo che nei più bassi gradi sociali tale istinto menò a una cerca febbrile, che a poco a poco si smarrì in un pandemonio di miti e superstizioni raccattati da tutte le parti. E in mezzo al pandemonio s’indugiò il greco con l’anima inappagata, finché non si volse, come greculo, a mascherare la febbre con la serenità greca e con la leggerezza greca, oppure non s’intorpidl completamente in qualche cupa credenza orientale. Fin dal tempo della rinascita dell’antichità alessandrino-romana nel quindicesimo secolo, dopo un intermezzo difficile a descriversi, noi ci siamo raccostati a quello stato d’animo nel modo più singolare. Sulla cima, la stessa smodata brama di sapere, lo stesso gusto insaziabile della scoperta, la stessa enorme mondanizzazione, e, insieme, un vagabondare senza patria, un affollarsi avidamente intorno alle tavole straniere, una frivola apoteosi del presente oppure uno stupido e torpido distacco, tutto e sempre sub specie saeculi, dall’«oggigiorno»: sintomi, la cui somiglianza fa indovinare una consimile mancanza nell’anima di questa cultura, vale a dire la distruzione del mito. Sembra quasi impossibile trapiantare con esito duraturo un mito straniero, senza ledere sacrilegamente l’albero in tale trapiantagione: può darsi talvolta, che l’albero sia abbastanza forte e sano per espellere in una lotta formidabile l’elemento straniero; consuetamente però è condannato a languire stento e triste, oppure ad esaurirsi in un morboso rigoglio. Noi serbiamo tanta parte del seme puro e vigoroso dello spirito tedesco, che osiamo attenderci da lui l’espulsione degli elementi stranieri violentemente sovrapposti, anzi stimiamo possibile che lo spirito tedesco torni a raccogliersi nella coscienza di sé stesso. Taluno forse opinerà, che lo spirito tedesco abbia ad intraprendere la lotta con l’espulsione dell’elemento romanico; e potrebbe anzi ravvisarne la preparazione esteriore e la predisposizione nella vittoriosa bravura e nella gloria sanguinosa dell’ultima guerra; ma bisogna invece rinvenirne l’intima necessità nello zelo di emulazione, nel dovere di serbarsi degni dei nobili precursori, di Lutero non meno che dei nostri grandi artisti e poeti. Ma nessuno creda mai, che tali lotte possano combattersi senza i propri iddii familiari, senza la propria patria mitica, senza un «ripristinamento» di tutto ciò che è tedesco! E se il tedesco dovesse mai guardarsi intorno perplesso, in cerca della guida che lo riconduca nella patria da troppo tempo perduta, e di cui riconosce appena le vie e i sentieri, ebbene, si tenga allora in ascolto, al richiamo irresistibile e felice dell’uccello dionisiaco che vola sul suo capo, e gl’indicherà il cammino. |
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Tra i peculiari effetti artistici della tragedia musicale abbiamo posta in rilievo una illusione apollinea, la quale ci salva dal sommergerci in una immediata unificazione con la musica dionisiaca, porgendo alla nostra concitazione musicale il modo di alleviarsi nella calma di un dominio apollineo, nella mediazione di un mondo visibile sorto a spettacolo. In tal modo abbiamo creduto di porre in evidenza, che, appunto in virtù di cotesto alleviamento, il mondo intermedio dell’azione scenica, ossia il dramma in generale, venga reso visibile e comprensibile dall’interno all’esterno in tal grado, quale non era possibile che fosse raggiunto da tutta la precedente arte apollinea; cosicché abbiamo dovuto riconoscere che nel dramma, in cui quest'arte è, per così dire, afferrata e trasportata in alto dallo spirito della musica, avviene la suprema elevazione delle sue forze, e quindi nella fratellanza di Apollo e di Dioniso toccano il fastigio i fini artistici tanto apollinei che dionisiaci. Certo, la luminosa immagine apollinea non raggiunse, appunto in virtù stessa della luce interiore arrecatale dalla musica, l’effetto specifico del grado meno intenso dell’arte apollinea; vale a dire, non era dato conseguire col dramma nonostante la maggiore animazione ed evidenza che gli sono proprie, la potenza caratteristica dell’epos e della pietra animata, quella, cioè, di avvincere lo sguardo dell’osservatore e immergerlo nel tranquillo incanto del mondo dell’individuatio. Noi abbiamo osservato il dramma, e con occhio acuto abbiamo penetrato l’intimo mondo commosso dei suoi motivi; nulladimeno ci è capitato come se ci stendesse davanti non più che una allegoria, di cui credevamo quasi d’indovinare il senso più profondo, e che desideravamo di sollevare come una cortina, per scoprire dietro a quella l’immagine primitiva. La più limpida chiarezza dell’immagine non ci bastava; giacché ci pareva che questa altrettanto ci svelasse qualche cosa, quanto ce la velasse; e mentre con la sua rivelazione simbolica sembrava invitarci a strappare il velo, a scoprire lo sfondo misterioso, ecco che precisamente quella vistosità rischiarata da tutte le parti tornava a fermare l’occhio e lo tratteneva dal penetrare più addentro. Chi non lo ha provato, chi non ha provato come si possa nello stesso tempo guardare una cosa e, insieme, anelare a spingersi di là dalla cosa guardata, difficilmente intenderà con quale precisione e chiarezza questi due processi si svolgono l’uno accanto all’altro e sono sentiti l’uno accanto all’altro quando si assiste allo spettacolo del mito tragico; laddove invece gli spettatori veramente estetici mi confermeranno, che tra gli effetti caratteristici della tragedia il più singolare è appunto cotesto doppio processo. Si trasporti ora, in un analogo processo, all’artista tragico questo fenomeno proprio dello spettatore estetico, e s’intenderà la genesi del mito tragico. Egli partecipa col mondo artistico apollineo la piena gioia dell’apparenza e della visione, e, nello stesso tempo, rinnega tale gioia, e prova un appagamento anche più alto nell’annichilazione del mondo visibile dell’apparenza. Il contenuto del mito tragico è innanzi tutto un avvenimento epico in cui si ha la glorificazione dell’eroe in lotta; ma donde nasce quella voga per sé stessa inesplicabile, per cui il patimento nel destino dell’eroe, le più strazianti soggiogazioni, i più angosciosi contrasti di motivi, in una parola, l’esemplificazione della saggezza di Sileno o, per dirla esteticamente, il brutto e il disarmonico vengono sempre ripresentati in così innumerevoli forme, con tanta predilezione, e proprio nell’età più esuberante e più giovanile di un popolo; donde nasce, se non dalla gioia superiore che si prova da tutto cotesto tumulto di sentimenti? Giacché ciò che effettivamente avviene di tragico nella vita sarebbe il meno atto a spiegare l’origine di una forma artistica; essendo vero, all’opposto, che l’arte non è meramente un'imitazione della realtà naturale, sibbene per l’appunto un supplemento della realtà naturale postole accanto per superarla. Il mito tragico, in quanto appartiene essenzialmente all’arte, partecipa interamente a questo fine metafisico di trasfigurazione proprio dell’arte; ma che cosa mai esso trasfigura, quando presenta il mondo fenomenico sotto la figura dell’eroe che soffre? Trasfigura per lo meno la «realtà» del mondo fenomenico, giacché ci dice appunto: «Guardate! guardate a fondo! È questa la vostra vita! È questa la lancetta sull’orologio della vostra esistenza!». Il mito, adunque, ci ha mostrato questa vita per trasfigurarcela agli occhi dell’anima? Ma se così non fosse, dove consisterebbe il godimento estetico, col quale noi assistiamo al passaggio di quelle immagini? Io mi occupo del godimento estetico, ma so bene, che molte di queste immagini possono, insieme, suscitare un diletto morale, sia sotto la forma della compassione, che di un trionfo della moralità. Chi però intendesse di derivare l’effetto del tragico esclusivamente da coteste fonti morali, come, a dire il vero, si è usato troppo a lungo nell’estetica, non dovrebbe però figurarsi di aver fatto, per questa via, qualcosa a vantaggio dell’arte: la quale invece esige soprattutto, nel suo dominio, la purezza assoluta. La prima esigenza imposta dalla spiegazione del mito tragico è precisamente quella di cercare il godimento che gli è proprio nella sfera puramente estetica, senza intrusioni ed usurpazioni nel campo della compassione, del terrore, del sublime morale. Come mai il brutto e il disarmonico, che è il contenuto del mito tragico, può suscitare un godimento estetico? Qui è d’uopo lanciarci in un’ardita incursione nella metafisica dell’arte, e riprendere la tesi da me dianzi sostenuta, che l’esistenza e il mondo non appaiono giustificati altrimenti, che come fenomeno estetico: nel qual senso, precisamente il mito tragico ci ha inculcato la persuasione, che anche il brutto e il disarmonico sono un gioco estetico, che la volontà gioca con sé stessa nell’eterna pienezza del proprio godimento. Solo che questo fenomeno primordiale, difficile a comprendersi, dell’arte dionisiaca, diviene unicamente intelligibile per via diretta ed è immediatamente capito nella meravigliosa significazione della dissonanza musicale; come pure soltanto la musica, raffrontata col mondo, può dare un’idea di ciò che bisogna intendere per «giustificazione del mondo come fenomeno estetico». Il godimento prodotto dal mito tragico nasce a un solo parto con la gioiosa sensazione della dissonanza nella musica. Il senso dionisiaco, col suo piacere primordiale percepito anche nel dolore, è l’alvo comune alla musica e al mito tragico. Forse che, ricorrendo all’aiuto offertoci dal rapporto musicale della dissonanza, non ne viene essenzialmente agevolata la comprensione dell’arduo problema dell’effetto tragico? Pure, noi adesso comprendiamo che cosa significa nella tragedia la voglia di vedere e, nello stesso tempo, l’ansia di penetrare di là da ciò che si vede: che è uno stato d’animo, che, rispetto alla dissonanza adoperata a scopo artistico, avremmo dovuto appunto caratterizzare come un desiderio di ascoltare e, insieme, di trasportarci di là dall’ascoltazione. Cotesta anelanza all’infinito, cotesto colpo d’ala della nostalgia nell’istante stesso della gioia suprema provata alla chiara visione della realtà, ci dicono appunto, che nell’uno e nell’altro caso dobbiamo riconoscere un fenomeno dionisiaco, il quale sempre e in ogni cosa ci rivela il gioco di costruzione e di distruzione del mondo della individualità come lo sfogo di un piacere primordiale, nella stessa guisa come la forza creatrice del mondo viene assomigliata da Eraclito l’Oscuro al ghiribizzo di un fanciullo, che gioca a rizzare qua e là e a rovesciare castelletti di pietre e di sabbia. Se intendiamo di apprezzare esattamente l’attitudine dionisiaca di un popolo, ci è d’uopo, dunque, di non por mente solo alla sua musica, sibbene ci è altrettanto indispensabile d’interrogare, come secondo testimonio di tale sua capacità, il suo mito tragico. Tenendo conto di questa intima parentela tra la musica e il mito, è lecito presumere, che con la degenerazione e depravazione dell’una va connesso l’inaridimento dell’altro; giacché l’infiacchimento del mito esprime in generale l’estenuazione della facoltà dionisiaca. Se non che, uno sguardo gettato all’una e all’altro non ci consentirebbe alcun dubbio sullo svolgimento dell’anima tedesca: la natura dell’ottimismo socratico, altrettanto insensibile all’arte quanto corrodente la vita, ci si è svelata così nel melodramma, come nel carattere astratto della nostra esistenza nuda di miti, così in un’arte discesa a ufficio di sollazzo, come nel costume di vivere sotto la guida dell’astrazione concettuale. Ma a nostro conforto sorgono presagi, che, ciò nonostante, lo spirito tedesco, immune nella pienezza di una magnifica salute, nella profondità della potenza dionisiaca, si riposa e sogna in un precipizio inaccessibile come un cavaliero caduto in sopore: precipizio, dal quale s’innalza fino a noi l’inno dionisiaco, per dirci, che questo cavaliero germanico sogna anche adesso nelle sue sacre e austere visioni il vetusto mito dionisiaco della stirpe. Nessuno creda, che lo spirito tedesco abbia perduto per sempre la sua patria, se esso intende tuttora il linguaggio degli uccelli che gli parlano della patria antica. Giorno verrà, che egli si troverà ridesto, in tutta la freschezza mattutina seguita a un sonno portentoso: ucciderà allora i draghi, annienterà i maligni nani, sveglierà Brunilde, e nemmeno la lancia di Wotan potrà precludergli la via! O amici, voi che avete fede nella musica dionisiaca, sapete anche ciò che significhi per noi la tragedia. In essa riabbiamo, risuscitato alla vita dalla musica, il mito tragico, e dal mito vi è lecito sperare tutto e dimenticare il dolore più angoscioso! Per noi tutti il dolore più angoscioso è la lunga abiezione in cui il genio tedesco, straniato dal focolare e dalla patria, visse in servitù dei maligni nani. Voi comprendete ciò che voglio dire: comprenderete anche, in fine, le mie speranze. |
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25. |
La musica e il mito tragico sono in pari guisa l’espressione della capacità dionisiaca di un popolo, e indivisibili l’una dall’altro. Derivano ambedue da un mondo artistico posto di là dall’apollineo; ambedue trasfigurano una plaga, nei cui concenti dilettosi la dissonanza risuona irresistibile non meno che l’immagine tremenda dell’universo; ambedue giocano col pungolo del tormento confidando nella soverchianza delle loro arti incantate; ambedue giustificano con tale gioco resistenza stessa del «pessimo dei mondi». Qui lo spirito dionisiaco, commisurato con l’apollineo, si rivela come l’eterno potere artistico primordiale, che in genere chiama all’esistenza l’intero mondo del fenomeno, nel cui seno s’impone la necessità di una nuova illusione trasfiguratrice per mantenere in vita il mondo fluente dell’individuazione. Se potessimo immaginare un’incarnazione della dissonanza divenuta uomo (e che cos’altro mai è l’uomo?), cotesta dissonanza, per vivere, avrebbe bisogno di una splendida illusione, che coprisse di un velo di bellezza la sua propria natura. È questo il vero fine artistico di Apollo, sotto il cui nome sussumiamo tutte le innumerevoli illusioni della bella parvenza della realtà, le quali in genere rendono per ogni istante l’esistenza degna di essere vissuta, e la spingono a vivere l’istante, di attimo in attimo. Perciò di quel fondamento di tutte le esistenze, di quel sostrato dionisiaco del mondo non può pervenire altro sentore alla coscienza dell'individuo umano, se non precisamente quanto la forza trasfiguratrice apollinea è in grado di dominarne; talmente, che questi due istinti artistici sono costretti a svolgere le rispettive energie nella più rigorosa misura di reciprocità, secondo la legge dell’eterna giustizia. Quando le potenze dionisiache si sollevano a tempesta, quali noi ora le sperimentiamo, bisogna pure che Apollo, avvolto in una nube, sia già disceso verso di noi; e una prossima generazione ne contemplerà certamente le più rigogliose opere di bellezza. Che questa azione della bellezza sia però necessaria, lo intuisce con la maggiore certezza ognuno che, sia pure in sogno, si senta vivere in pieno mondo dell’antica Ellade. Passeggiando nel portico tra gli alti colonnati ionici, guardando lontano l’orizzonte tagliato dalle pure e nobili linee, specchiando rischiarato il volto nei marmi luminosi, vedendosi intorno uomini dal passo maestoso o dall’andatura leggiadramente spedita accompagnare col gesto ritmico e spontaneo il suono della parlata armoniosa, oh! davanti a quest’onda perenne di bellezza, egli eleverebbe le mani ad Apollo esclamando: «O beato popolo degli elleni! Quale potere enorme sopra di voi ha dovuto avere Dioniso, se il dio deliaco tenne necessario un tale incantesimo per guarirvi dalla follia ditirambica!». Ma a lui che così parlasse, un vecchio ateniese, figgendogli in viso il sublime occhio di Eschilo, saprebbe osservare: «O singolare straniero, aggiungi anche questo: quanto ha dovuto soffrire un tal popolo, per poter diventare tanto bello! Ed ora seguimi alla tragedia, e sacrifica con me nel tempio delle due divinità!». |
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1. Fa pensare involontariamente al famoso Zu was Besserm sind wir geboren dello Schiller. |
2. Presso i parsi una tale nascita non violava le leggi della natura: le loro leggi non vietavano il matrimonio tra consanguinei né in linea ascendente né in linea collaterale. Nemmeno presso i greci il matrimonio tra consanguinei era tenuto sacrilego: è notissimo il caso di Cimone, che sposò la sorella. A ogni modo questa rettificazione non infirma, nel caso specifico di Edipo, l’argomentazione di Nietzsche. |
3. Ho riportato la strofa nella recente traduzione di Benedetto Croce, che credo (cfr. Qui saldo io sto) sia la più ritraente, la più perspicace ed efficace. |
4. Nel testo è italiano; dice anzi stilo. |
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