Free bilingual books

Così parlò Zarathustra
Friedrich W. Nietzsche

Downloading books is available only for authorized users

 
Content
Prefazione di Zarathustra
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Parte prima I discorsi di Zarathustra
Delle tre metamorfosi
Delle cattedre della virtù
Dei transmondani
Degli spregiatori del corpo
Delle gioie e delle passioni
Del pallido delinquente
Del leggere e dello scrìvere
Dell’albero sul fianco della montagna
Dei predicatori della morte
Della guerra e dei guerrieri
Del nuovo idolo
Delle mosche del mercato
Della castità
Dell’amico
Di mille e una meta
Dell’amore del prossimo
Del cammino del creatore
Di donnicciuole vecchie e giovani
Del morso della vipera
Del figlio e del matrimonio
Della libera morte
Della virtù che dona
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Parte seconda
Il fanciullo con lo specchio
Sulle isole beate
Dei compassionevoli
Dei preti
Dei virtuosi
Della plebe
Delle tarantole
Dei famosi saggi
Il canto notturno
Il canto di danza
II canto funebre
Dell’autosuperamento
Dei sublimi
Del paese della cultura
Dell’immacolata conoscenza
Dei dotti
Dei poeti
Dei grandi eventi
Il profeta
Della redenzione
Dell’accortezza verso gli uomini
L’ora più silenziosa
Parte terza
Il viandante
Della visione e dell’enigma
Capitolo 1
Capitolo 2
Della beatitudine non voluta
Prima del levar del sole
Della virtù che rimpicciolisce
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Sull’uliveto
Del passare oltre
Degli apostati
Capitolo 1
Capitolo 2
II ritorno in patria
Delle tre cose cattive
Capitolo 1
Capitolo 2
Dello spirito di gravità
Capitolo 1
Capitolo 2
Di tavole antiche e nuove
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Il convalescente
Capitolo 1
Capitolo 2
Del grande anelito
Il secondo canto di danza
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
I sette sigilli (Ovvero il canto del sì e dell’amen)
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Parte quarta e ultima
Il sacrificio del miele
Il grido d’aiuto
Colloquio coi re
Capitolo 1
Capitolo 2
La sanguisuga
Il mago
Capitolo 1
Capitolo 2
Fuori servizio
L’uomo più brutto
Il mendicante volontario
L’ombra
Meriggio
Il saluto
La cena
Dell’uomo superiore
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Il canto della melanconia
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Dunque
Della scienza
Tra figlie del deserto
Capitolo 1
Capitolo 2
Il risveglio
Capitolo 1
Capitolo 2
La festa dell’asino
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Il canto d’ebbrezza
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Il segno
 
Prefazione di Zarathustra

 
Capitolo 1
Quando Zarathustra ebbe trent’anni, abbandonò il suo paese e il lago del suo paese e andò sulla montagna. Qui godette del proprio spirito e della propria solitudine, e per dieci anni non se ne stancò. Ma alla fine il suo cuore si trasformò e un mattino egli si levò all’aurora, si pose di fronte al sole e così gli parlò: «Tu grande astro! Che sarebbe la tua felicità se tu non avessi quelli a cui risplendi!

Per dieci anni salisti quassù alla mia caverna: ti sarebbero venuti a noia la tua luce e questo cammino, senza di me, la mia aquila e il mio serpente.

Ma noi ti aspettavamo ogni mattino, ti toglievamo il superfluo e in cambio ti benedicevamo.

Ecco! Ne ho abbastanza della mia saggezza; come l’ape che ha raccolto troppo miele, ho bisogno di mani che si tendano.

Vorrei profondere e distribuire, finché i saggi tra gli uomini di nuovo si rallegrassero della loro stoltezza e i poveri della loro ricchezza.

Per questo debbo scendere nel profondo: come fai tu la sera quando tramonti dietro il mare e porti luce agli inferi, tu opulento astro.

Al pari di te, io debbo tramontare, come dicono gli uomini, ai quali voglio discendere.

Benedicimi dunque, tu placido occhio che sai guardare senza invidia anche una felicità troppo grande.

Benedici la coppa che vuole traboccare, che l’acqua ne trabocchi dorata e porti dappertutto il riflesso della tua beatitudine.

Guarda! Di nuovo questa coppa vuole vuotarsi, e Zarathustra vuole ridiventare uomo».

— Così incominciò il tramonto di Zarathustra.


 
Capitolo 2
Zarathustra scese solitario dalla montagna e non incontrò nessuno. Ma quando giunse ai boschi, gli si parò davanti un vecchio che aveva lasciato la sua santa capanna per cercare radici nel bosco. E così parlò il vecchio a Zarathustra: «Non mi è ignoto questo viaggiatore: alcuni anni or sono passò di qui. Si chiamava Zarathustra; ma si è trasformato.

Allora portavi la tua cenere al monte; oggi vuoi portare il tuo fuoco nelle valli? Non temi le punizioni che colpiscono l’incendiario?

Sì, io riconosco Zarathustra. Puro è il suo occhio e sulla sua bocca non v’è ombra di disgusto. Non incede come un danzatore?

Trasformato è Zarathustra, è diventato un bambino Zarathustra, un risvegliato è Zarathustra: che cosa cerchi ora fra i dormienti?

Come in un mare vivevi nella tua solitudine, e il mare ti portava. Ahimè, vuoi mettere piede sulla terra? Ahimè, vuoi di nuovo trascinare tu stesso il tuo corpo?»

Zarathustra rispose: «Io amo gli uomini».

«Perché» disse il santo «io venni nel bosco e nella solitudine? Non perché amavo troppo gli uomini?

Ora amo Dio: gli uomini non li amo. L’uomo è per me cosa troppo imperfetta. L’amore per l’uomo mi ucciderebbe».

Zarathustra rispose: «Perché ho parlato d’amore! Io reco agli uomini un dono».

«Non dar loro nulla» disse il santo. «Piuttosto sollevali di qualcosa e portane insieme con loro il peso — questo gioverà loro più di tutto: purché giovi anche a te!

E se vuoi dare, non dare più di un’elemosina, e fa che debbano mendicarla!»

«No», rispose Zarathustra «io non do elemosina. Non sono abbastanza povero per questo».

Il santo rise di Zarathustra e parlò così: «Allora fa che essi accettino i tuoi tesori. Sono diffidenti con gli eremiti e non credono che noi veniamo per donare.

I nostri passi risuonano loro troppo solitari per le strade. Come quando di notte, nei loro letti sentono passare un uomo molto prima che si levi il sole; di certo si chiedono: dove va il ladro?

Non andare dagli uomini e resta nel bosco! Va piuttosto ancora dagli animali! Perché non vuoi essere come me, — un orso fra orsi, un uccello fra uccelli?»

«E che cosa fa il santo nel bosco?» chiese Zarathustra.

II santo rispose: «Faccio canti e li canto, e quando faccio canti, rido, piango e borbotto: così lodo Dio.

Cantando, piangendo, ridendo e borbottando io lodo il dio che è mio dio. Ma che ci rechi tu in dono?»

Quando Zarathustra ebbe udito queste parole, salutò il santo e disse: «Che cosa avrei mai da darvi? Ma lasciatemi partire subito, affinché non vi prenda nulla!» — E così si separarono, il vecchio e l’uomo, ridendo come ridono due fanciulli.

Ma quando Zarathustra fu solo, così parlò al proprio cuore: «Allora è possibile! Questo vecchio santo nella sua foresta non ha ancora sentito che Dio è morto».


 
Capitolo 3
Quando Zarathustra giunse nella prima città al margine dei boschi, vi trovò gran popolo radunato sul mercato perché era stato promesso che si sarebbe veduto un funambolo. E Zarathustra così parlò al popolo: Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?

Finora tutti gli uomini hanno creato qualcosa al di sopra di loro stessi: e voi volete essere il deflusso di questa grande marea e ritornare all’animale piuttosto che superare l’uomo?

Che cos’è la scimmia per l’uomo? Oggetto di riso o dolorosa vergogna. E proprio questo deve essere l’uomo per il superuomo: oggetto di riso o dolorosa vergogna.

Voi avete percorso il cammino dal verme all’uomo e molto in voi è ancora verme. Un tempo eravate scimmie, ma ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia.

Ma anche il più saggio tra voi, anche quello è soltanto uno scisso e un ibrido tra pianta e fantasma. Ma io vi comando di diventare fantasmi o piante?

Ecco, io vi insegno il superuomo!

Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: il superuomo sia il senso della terra!

Io vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Sono avvelenatori, lo sappiano o no.

Spregiatori della vita sono, moribondi e loro stessi avvelenati, di cui la terra è stanca: vadano dove vogliono!

Un tempo il sacrilegio contro Dio era il maggiore dei sacrilegi, ma Dio è morto e con esso sono morti anche questi sacrileghi. Un sacrilegio contro la terra è ora la cosa più terribile, e venerare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!

Un tempo l’anima guardava con disprezzo al corpo: e allora questo disprezzo era la cosa più alta: — essa lo voleva magro, orrendo, famelico. Così pensava di sfuggire al corpo e alla terra.

Oh, ma quest’anima era anche lei magra, orrenda e famelica: e la crudeltà era la voluttà di quest’anima!

Ma anche voi, miei fratelli, ditemi: che cosa rivela il vostro corpo della vostra anima? Non è la vostra anima povertà e sozzura e miserabile compiacimento?

In verità l’uomo è una sozza corrente. Bisogna essere un mare per poter accogliere una sozza corrente senza divenire impuri.

Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo mare e in lui può sprofondare il vostro grande disprezzo.

Qual è la cosa più grande che voi possiate provare? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui la vostra felicità vi dà la nausea, e così la vostra ragione e così la vostra virtù.

L’ora in cui dite: «Che importa della mia felicità! È povertà e sozzura e un miserabile compiacimento. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare la stessa esistenza!»

L’ora in cui dite: «Che importa della mia ragione! Ha fame del suo sapere come il leone del suo nutrimento? È povertà e sozzura e un miserabile compiacimento!»

L’ora in cui dite: «Che importa della virtù! Non mi ha reso ancora folle. Come sono stanco del mio bene e del mio male. Tutto ciò è povertà e sozzura e un miserabile compiacimento!»

L’ora in cui dite: «Che importa della mia giustizia! Non mi sembra di essere vampa e brace. Ma il giusto è vampa e brace».

L’ora in cui dite: «Che importa della mia compassione! La compassione non è la croce a cui viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia compassione non è una crocifissione».

Parlaste già così? Gridaste già così? Oh, se vi avessi uditi già gridare così!

Non il vostro peccato — la vostra parsimonia grida vendetta al cielo, la vostra avarizia persino nel peccato grida vendetta al cielo.

Dov’è la folgore che vi lambisca con la sua lingua? Dov’è la pazzia che dovrebbero inocularvi?

Vedete, io vi insegno il superuomo: egli è questa folgore, egli è questa pazzia! —

Quando Zarathustra ebbe così parlato, gridò uno del popolo: «Abbiamo sentito già troppo parlare del funambolo; ora vogliamo anche vederlo!» E tutto il popolo rise di Zarathustra. E il funambolo, che credeva che ci si rivolgesse a lui, si mise all’opera.


 
Capitolo 4
Ma Zarathustra guardò il popolo e si meravigliò. Poi disse:

L’uomo è una fune sospesa tra l’animale e il superuomo, — una fune sopra l’abisso.

Un pericoloso passare dall’altra parte, un pericoloso esser per via, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso inorridire e arrestarsi.

Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte e non una meta: quel che si può amare nell’uomo è che egli è transizione e tramonto.

Io amo coloro che non sanno vivere se non per tramontare, perché sono coloro che passano dall’altra parte.

Io amo i grandi spregiatori, perché sono i grandi veneratori e frecce del desiderio verso l’altra sponda.

Io amo coloro che non cercano oltre le stelle una ragione per tramontare e sacrificarsi: bensì si sacrificano alla terra perché divenga un giorno del superuomo.

Io amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere perché un giorno viva il superuomo. Così egli vuole il proprio tramonto.

Io amo colui che lavora e inventa per edificare la casa al superuomo e preparargli terra animali e piante: perché così egli vuole il proprio tramonto.

Io amo colui che ama la propria virtù: perché la virtù è la volontà di tramontare e una freccia del desiderio.

Io amo colui che non serba per sé una goccia di spirito, ma vuole essere per intero lo spirito della sua virtù: così egli varca come spirito il ponte.

Io amo colui che della sua virtù fa la propria inclinazione e il proprio destino: così egli vuole vivere ancora e non vivere più per amore della propria virtù.

Io amo colui che non vuole avere troppe virtù. Una virtù è più virtù di due, perché è un nodo più forte a cui si aggrappa il destino.

Io amo colui la cui anima si dissipa, che non vuole gratitudine e che non contraccambia: perché dona sempre e non vuole tenersi in serbo.

Io amo colui che si vergogna quando il dado cade in suo favore, e chiede: ho forse barato? — poiché egli vuole perire.

Io amo colui che getta parole d’oro prima delle sue azioni e mantiene sempre più di quanto promette: poiché egli vuole perire.

Io amo colui che giustifica i venturi e assolve i passati: poiché vuole perire per causa dei presenti.

Io amo colui che punisce il proprio dio, perché ama il proprio dio: infatti egli dovrà perire dell’ira del suo dio.

Io amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita e che può perire di una piccola esperienza: così egli passa volentieri quel ponte.

Io amo colui che ha l’anima così traboccante da dimenticare se stesso e tutte le cose che sono in lui: tutte le cose diventano così il suo tramonto.

Io amo colui che ha lo spirito libero e il cuore libero: così la sua mente è solo le viscere del suo cuore, ma il suo cuore lo spinge al tramonto.

Io amo tutti coloro che sono come gocce grevi, che cadono ad una ad una dalla nube oscura sospesa sopra gli uomini: essi annunziano che viene la folgore, e periscono come annunziatori.

Ecco, io sono un annunziatore della folgore e una goccia greve della nube: ma questa folgore si chiama superuomo. —


 
Capitolo 5
Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, guardò di nuovo il popolo e tacque. «Eccoli», disse egli al proprio cuore «eccoli che ridono: non mi capiscono, io non sono la bocca che fa per questi orecchi.

Bisogna rompere loro gli orecchi, perché imparino ad ascoltare con gli occhi? Bisogna fare lo strepito dei timpani e dei predicatori di penitenza? O credono soltanto a chi balbetta?

Essi hanno qualcosa di cui sono orgogliosi. Ma come chiamano la cosa che li rende orgogliosi? Cultura la chiamano, ed essa li distingue dai caprai.

Perciò è con disappunto che sentono riferire a loro la parola “disprezzo”. Dunque io parlerò al loro orgoglio.

Dunque parlerò loro di quanto v’è di più spregevole: e questo è l’ultimo uomo».

E così parlò Zarathustra al popolo:

È tempo che l’uomo si ponga un fine. È tempo che l’uomo pianti il germe della sua massima speranza.

Il suo terreno è ancora abbastanza ricco. Ma questo terreno un giorno sarà povero e isterilito e su di esso non potrà più crescere un albero alto.

Ahimé! Si avvicina il tempo in cui l’uomo non scaglia più la freccia del suo desiderio al di là dell’uomo, e la corda del suo arco ha disimparato a sibilare.

Io vi dico: si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza. Io vi dico: avete ancora del caos in voi.

Ahimé! Si avvicina il tempo in cui l’uomo non genererà più stelle. Ahimé! Si avvicina il tempo dell’uomo più disprezzabile, quello che non sa più disprezzarsi.

Ecco, io vi mostro l’ultimo uomo.

«Che cos’è l’amore? Che cos’è la creazione? Che cos’è il desiderio? Che cos’è la stella?» — chiede l’ultimo uomo, e ammicca.

La terra è diventata piccola e su di lei saltella l’ultimo uomo che rende tutto piccolo. La sua razza è inestinguibile come quella della pulce di terra; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti.

«Noi abbiamo inventato la felicità» — dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.

Hanno abbandonato le regioni dove la vita era ardua: giacché si ha bisogno di calore. Si ama pure il vicino e ci si strofina contro di lui, giacché si ha bisogno di calore.

Ammalarsi e diffidare è da loro considerato peccaminoso: si procede circospetti. Stolto chi incespica ancora nelle pietre e negli uomini!

Un po’ di veleno di tanto in tanto: procura sogni piacevoli. E molto veleno alla fine, per una morte piacevole.

Si lavora ancora perché il lavoro è un passatempo. Ma si fa in modo che il passatempo non logori.

Non si diventa più poveri o ricchi: è troppo molesto l’uno e l’altro. Chi vuole ancora governare? Chi ancora obbedire? L’uno e l’altro è troppo molesto.

Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso, entra spontaneamente in manicomio.

«Un tempo tutto il mondo era pazzo» — dicono i più sagaci, e ammiccano.

Si è intelligenti e si sa tutto quello che è accaduto: così lo scherno non ha fine. Si litiga ancora, ma ci si riconcilia presto — altrimenti si guasta lo stomaco.

Si ha il proprio piacerucolo per il giorno e il proprio piacerucolo per la notte: ma si apprezza la salute.

«Noi abbiamo inventato la felicità» — dicono gli ultimi uomini, e ammiccano. —

E qui finì il primo discorso di Zarathustra, che si chiama anche «l’introduzione»: giacché a questo punto lo interruppero il clamore e l’allegrezza della folla. «Dacci questo ultimo uomo, o Zarathustra,» — gridavano — «rendici come questi ultimi uomini e noi regaliamo a te il superuomo!» E tutto il popolo esultava e faceva schioccare la lingua. Ma Zarathustra si contristò e disse al suo cuore: «Non mi capiscono: io non sono la bocca che fa per questi orecchi.

Troppo a lungo ho vissuto sulla montagna, troppo ho ascoltato gli alberi e i ruscelli: ora parlo loro come ai caprai.

Imperturbata è la mia anima e limpida come la montagna il mattino. Ma essi credono che io sia freddo e li schernisca con feroci beffe.

E ora mi guardano e ridono: e mentre ridono, mi odiano. Nel loro riso è il ghiaccio».


 
Capitolo 6
Ma a questo punto accadde qualcosa che rese muta ogni bocca e fisso ogni occhio. Nel frattempo il funambolo si era infatti messo all’opera: era uscito da una porticina e camminava sulla fune tesa fra due torri, sospesa quindi sopra il mercato e il popolo. Quando egli si trovava appunto a metà del cammino, la porticina si aprì per la seconda volta e ne balzò fuori un tipo variopinto, simile a un pagliaccio, e mosse a passi rapidi dietro al primo. «Avanti, storpio,» gridava con voce terrificante «avanti, poltrone, traffichino, faccia esangue. Bada che non ti faccia il solletico col mio calcagno! Perché sei quassù fra le torri? Dentro la torre devi stare, rinchiuderti si dovrebbe: tu chiudi il cammino a uno che è migliore di te!» — E ad ogni parola gli si faceva sempre più vicino; ma quando fu a un solo passo dietro di lui, accadde la cosa terribile che rese muta ogni bocca e fisso ogni occhio: egli mandò un urlo diabolico, e saltò oltre colui che gli sbarrava la via. Ma questi, allorché vide la vittoria del suo rivale, perdette la testa e la fune; gettò via la pertica e, più veloce di essa, come un vortice di braccia e di gambe, precipitò nel vuoto. Il mercato e il popolo somigliavano a un mare su cui si abbatte la bufera: tutti fuggivano disperdendosi e scavalcandosi l’un l’altro, soprattutto là dove sarebbe stramazzato il corpo.

Ma Zarathustra rimase, e il corpo cadde proprio accanto a lui, malconcio e sconquassato, ma non ancora morto. Di lì a poco lo sfracellato riprese conoscenza e vide Zarathustra inginocchiato accanto a sé. «Che fai tu qui?» disse infine «lo sapevo da un pezzo che il diavolo mi avrebbe fatto lo sgambetto. Ora mi trascina all’inferno: vuoi tu impedirglielo?»

«Sul mio onore, amico», rispose Zarathustra «tutto ciò di cui parli non esiste: non c’è né diavolo né inferno. La tua anima morirà ancor prima del tuo corpo: non temere dunque più nulla!»

L’uomo levò gli occhi con diffidenza. «Se tu dici la verità», disse poi, «perdendo la vita non perderei nulla. Io non valgo molto di più di una bestia cui si è insegnato a ballare con percosse e cibo scarso».

«Non è così»; disse Zarathustra «tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in questo non è nulla di spregevole. Ora perisci del tuo mestiere, e perciò voglio seppellirti con le mie mani».

Quando Zarathustra ebbe detto questo, il moribondo non rispose più; ma agitò la mano, quasi cercasse la mano di Zarathustra per ringraziarlo. —


 
Capitolo 7
Intanto scese la sera e il mercato scomparve nell’oscurità: allora il popolo si disperse, giacché anche curiosità e orrore alla fine si stancano. Ma Zarathustra sedeva per terra accanto al morto ed era immerso nei suoi pensieri: così dimenticò il tempo. Ma infine venne la notte e un vento freddo soffiò sul solitario. Allora Zarathustra si levò e disse al suo cuore: «In verità, oggi ha fatto una bella pesca Zarathustra! Non ha preso uomini, bensì un cadavere.

Strana è l’esistenza umana e tuttora senza senso: un buffone può esserle fatale.

Voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: qual è il superuomo, la folgore della nube oscura chiamata uomo.

Ma sono ancora lontano da loro e il mio senso non parla ai loro sensi. Per gli uomini sono ancora a metà tra il folle e il cadavere.

Oscura è la notte, oscure sono le vie di Zarathustra. Vieni, freddo e rigido compagno di strada! Ti porto dove ti seppellirò con le mie mani.»


 
Capitolo 8
Quando Zarathustra ebbe detto ciò al proprio cuore, si caricò il cadavere sulle spalle e si mise in cammino. E non aveva fatto cento passi che gli scivolò accanto qualcuno e gli sussurrò all’orecchio — ed ecco! Colui che gli parlava era il pagliaccio della torre. «Va via da questa città, Zarathustra», diceva «qui ti odiano in troppi. Ti odiano i buoni e i giusti e ti chiamano loro nemico e spregiatore; ti odiano i fedeli della vera fede e ti chiamano un pericolo per la folla. La tua fortuna è stata che si sia riso di te: e in verità tu parlasti come un pagliaccio. La tua fortuna è stata che tu ti sia accompagnato a questo cane morto; poiché ti sei in tal modo umiliato, per oggi ti sei salvato. Ma va via da questa città, o domani salterò oltre te, un vivente oltre un cadavere». Detto ciò, l’uomo scomparve; ma Zarathustra proseguì per le vie oscure.

Alla porta della città gli si fecero incontro i becchini: alzarono la fiaccola all’altezza del suo viso, lo riconobbero e si presero beffe di lui: «Zarathustra porta via il cane morto: è una buona cosa che Zarathustra sia diventato becchino, giacché le nostre mani sono troppo pulite per questo piatto. Zarathustra vuole forse rubare al diavolo il suo boccone? E sia! Buon pro gli faccia! Purché il diavolo non sia un ladro migliore di Zarathustra! — allora li ruba tutti e due, li divora tutti e due!» E ridevano tra loro, con le teste vicine.

Zarathustra non disse una parola e andò per la sua strada. Dopo due ore che camminava per boschi e paludi, aveva già troppo a lungo udito l’ululo famelico dei lupi perché non gli venisse fame. Sostò allora presso una casa solitaria, in cui brillava un lume.

«La fame mi assale come un predone» disse Zarathustra. «In boschi e paludi mi assale la mia fame e nella notte profonda.

Strani capricci ha la mia fame. Spesso viene subito dopo il cibo, e oggi per tutto il giorno non mi è venuta: dov’era dunque?»

E bussò alla porta della casa. Apparve un vecchio; recava con sé il lume e chiese: «Chi viene a me e al mio cattivo sonno?»

«Un vivo e un morto» disse Zarathustra. «Datemi da mangiare e da bere: durante la giornata me ne sono dimenticato. Colui che sazia l’affamato ristora la propria anima: così parla la saggezza».

Il vecchio s’allontanò, ma ritornò quasi subito offrendo a Zarathustra pane e vino. «È un brutto posto, questo, per gli affamati» disse «perciò vi dimoro. Animali e uomini vengono a me, eremita. Ma dì anche al tuo compagno di mangiare e bere: egli è più stanco di te». Zarathustra rispose: «Morto è il mio compagno, difficilmente potrei indurvelo». «Ciò non mi riguarda»; disse il vecchio aggrondandosi «chi bussa alla mia casa deve accettare ciò che gli offro. Mangiate e state bene!» — Zarathustra camminò altre due ore affidandosi alla via e alla luce delle stelle: giacché era un nottambulo abituale e amava guardare in viso tutte le cose addormentate. Ma quando spuntò il giorno, Zarathustra si trovava in un bosco profondo dove non si scorgeva più alcuna via. Allora sdraiò il morto nel cavo di un albero all’altezza della propria testa — giacché voleva proteggerlo dai lupi — e si sdraiò lui stesso per terra e sul musco. E subito si addormentò, stanco di corpo, ma con l’anima imperturbata.


 
Capitolo 9
A lungo dormì Zarathustra e sul suo viso non passò solo l’aurora ma anche il mattino. Alla fine però aprì gli occhi: con stupore guardò Zarathustra nel bosco e nel silenzio, con stupore Zarathustra guardò in se stesso. E rapido si levò, come un navigante che a un tratto scorga la terra, ed esultò; giacché scorgeva una nuova verità. E così parlò allora al proprio cuore: Una luce è spuntata in me: di compagni di viaggio ho bisogno, e viventi, — non compagni morti e cadaveri che posso portare con me dove voglio.

Di compagni vivi ho bisogno, che mi seguono perché vogliono seguire se stessi — e proprio là dove voglio andare io.

Una luce è spuntata in me: non al popolo deve parlare Zarathustra bensì a compagni! Zarathustra non deve diventare pastore e cane di un gregge.

Per staccare molti dal gregge — per questo sono venuto. Adirarsi con me debbono popolo e gregge: un predone deve essere Zarathustra per i pastori.

Io dico i pastori, ma essi si chiamano i buoni e i giusti. Io dico i pastori: ma essi si chiamano i fedeli della vera fede.

Eccoli i buoni e i giusti! Chi odiano più di tutti? Colui che infrange le loro tavole dei valori, il distruttore, lo sfregiatore: — ma questi è il creatore.

Guarda i fedeli di tutte le fedi! Chi odiano più di tutti? Colui che infrange le loro tavole dei valori, il distruttore, lo sfregiatore: — ma questi è il creatore.

Compagni cerca il creatore e non cadaveri, ma nemmeno greggi e fedeli. Creatori cerca il creatore, coloro che scrivono nuovi valori su nuove tavole.

Compagni cerca il creatore, e chi raccolga con lui: perché in lui tutto è maturo per il raccolto. Ma gli mancano le cento falci: così egli svelle spighe ed è adirato.

Compagni cerca il creatore, e tali che sappiano affilare le loro falci. Sterminatori saranno chiamati e spregiatori del bene e del male. Ma sono coloro che raccolgono e fanno festa.

Creatori cerca Zarathustra, che con lui raccolgano e con lui facciano festa: che ha egli in comune con greggi e pastori e cadaveri!

E tu, mio primo compagno, sta bene! Bene ti seppellii nel cavo dell’albero, bene ti nascosi ai lupi.

Ma ora mi congedo da te, il tempo è trascorso. Tra aurora e aurora mi raggiunse una nuova verità.

Non pastore devo essere, non becchino. Non voglio parlare un’altra volta col popolo, per l’ultima volta ho parlato con un morto.

Ai creatori, a coloro che raccolgono, a coloro che fanno festa voglio accompagnarmi: l’arcobaleno voglio mostrare loro e tutte le scale verso il superuomo.

Ai solitari canterò il mio canto e a coloro che sono in due nella solitudine; e a chi ha orecchi per l’inaudito voglio opprimere il cuore con la mia felicità.

Alla mia meta io voglio dirigermi; io vado per la mia strada; salterò oltre i titubanti ed i tardi. E la mia strada sia il loro tramonto!


 
Capitolo 10
Così aveva parlato Zarathustra al suo cuore, allorché il sole era a mezzogiorno: ed ecco guardò in alto, interrogativo, perché udiva sopra di sé lo stridulo grido di un uccello. E guarda! Un’aquila descriveva ampi cerchi nell’aria e da lei pendeva un serpente, ma non come una preda, bensì come un amico: esso stava infatti attorcigliato al suo collo.

«Sono i miei animali!» disse Zarathustra, e gioì di cuore.

«Il più orgoglioso degli animali sotto il sole e il più accorto animale sotto il sole — sono usciti in esplorazione.

A esplorare se Zarathustra vive ancora. E in verità, vivo ancora?

Ho trovato più pericoli fra gli uomini che fra gli animali, per strade pericolose va Zarathustra. Mi guidino i miei animali!».

Quando Zarathustra ebbe detto ciò, si sovvenne delle parole del santo del bosco, sospirò e così parlò al suo cuore: «Potessi essere più accorto! Potessi essere accorto fino in fondo, come il mio serpente!

Ma chiedo l’impossibile: allora chiederò al mio orgoglio che segua sempre dappresso la mia accortezza.

E se la mia accortezza mi abbandona — ahimé, essa ama volarsene via! — possa il mio orgoglio volare insieme con la mia stoltezza!»

— Così incominciò il tramonto di Zarathustra.


 
Parte prima I discorsi di Zarathustra

 
Delle tre metamorfosi
Tre metamorfosi dello spirito vi dico: come lo spirito diventa cammello e il cammello leone e infine il leone fanciullo.

Ci sono molte cose difficili per lo spirito, per lo spirito forte e paziente che abbia in sé amore e reverenza: al difficile e al difficile del difficile aspira la sua forza.

Che cos’è difficile? chiede lo spirito paziente, s’inginocchia come il cammello, e vuole un carico pesante.

Che cos’è il difficile del difficile, voi eroi? chiede lo spirito paziente, che io possa prenderlo su di me e mi rallegri della mia forza.

Non è questo: umiliarsi, per far male al proprio orgoglio? Far brillare la propria stoltezza, per schernire la propria saggezza?

Oppure è questo: separarci dalla nostra causa quando essa celebra la sua vittoria?

Oppure è questo: nutrirsi di ghiande ed erbe della conoscenza ed essere affamati nell’anima per amore della verità?

Oppure è questo: essere ammalato e rimandare i consolatori e stringere amicizia con le colombe che non odono ciò che tu vuoi?

Oppure è questo: entrare nell’acqua sporca, se è l’acqua della verità, e non respingere da sé rane fredde e rospi caldi?

Oppure è questo: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando esso vuole farci paura?

Tutte queste cose difficili tra le difficili prende lo spirito paziente su di sé: come il cammello che, caricato, si avvia nel deserto, si avvia nel suo deserto.

Ma nel deserto più solitario ha luogo la seconda trasformazione: lo spirito diventa qui un leone, vuole impadronirsi della libertà ed essere padrone nel proprio deserto.

Qui esso cerca il suo ultimo padrone: vuole diventargli nemico e nemico del suo ultimo dio, la vittoria vuole contendere al grande drago.

Qual è il grande drago che lo spirito non vuole più chiamare signore e dio? «Tu devi» si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice «io voglio».

«Tu devi» è coricato sul suo cammino, scintillante d’oro, una fiera con le squame, e su ogni squama splende dorato «Tu devi!»

Valori millenari splendono su queste squame e così parla il più potente di tutti i draghi: «Ogni valore delle cose risplende su di me.

Tutti i valori furono già creati e ogni valore creato — sono io. In verità, non deve esistere più nessun “io voglio”». Così parla il drago.

Fratelli, che bisogno c’è del leone nello spirito? Non basta l’animale da carico, che rinuncia ed è timorato?

Creare nuovi valori; nemmeno il leone ne è capace. Ma crearsi libertà per nuove creazioni, di questo è capace la forza del leone.

Crearsi la libertà, crearsi un sacro no anche di fronte al dovere: per questo, fratelli, c’è bisogno del leone.

Prendersi il diritto a nuovi valori è il prendere più terribile che vi sia per uno spirito paziente e timorato. In verità è per lui un predare e un atto da animale da preda.

Come la cosa più santa egli amava un tempo il «tu devi»: ora è costretto a scorgere illusione e arbitrio anche nella cosa più santa, per poter predare libertà a prezzo del suo amore: per questa rapina c’è bisogno del leone.

Ma dite, fratelli, che cosa può il fanciullo, che non potè nemmeno il leone? Perché il leone predatore deve ancora diventare un fanciullo?

Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì.

Sì, al gioco della creazione, fratelli, occorre un santo dire sì: lo spirito vuole la propria volontà, chi è perduto al mondo conquista il proprio mondo.

Tre metamorfosi dello spirito vi dissi: come lo spirito diventa cammello e il cammello leone e per ultimo il leone fanciullo.

Così parlò Zarathustra. E allora dimorava nella città che si chiama: «Vacca pezzata»


 
Delle cattedre della virtù
Vantavano a Zarathustra un saggio che sapeva parlare bene del sonno e della virtù: riceveva per questo molti onori e compensi, e tutti i giovani sedevano sotto la sua cattedra. Da lui andò Zarathustra e sedette insieme con tutti i giovani sotto la sua cattedra. E così parlò il saggio: Onore e rispetto al sonno! È la prima cosa. Ed evitare coloro che dormono male e vegliano la notte.

Rispettoso del sonno è anche il ladro: sguscia silenzioso nella notte. Irrispettoso è invece il guardiano notturno e senza rispetto porta in giro il suo corno.

Dormire non è poca arte: è necessario vegliare per tutto il giorno per giungervi.

Dieci volte al giorno devi superare te stesso: ciò procura una buona stanchezza ed è papavero per l’anima.

Dieci volte devi riconciliarti con te stesso: perché superarsi è amarezza, e dorme male chi non si è riconciliato.

Dieci verità al giorno devi trovare; altrimenti cerchi la verità anche durante la notte e la tua anima è rimasta affamata.

Dieci volte al giorno devi ridere ed essere sereno: altrimenti di notte lo stomaco ti disturberà, questo padre dell’afflizione.

Pochi lo sanno: ma bisogna possedere tutte le virtù per dormire bene. Dirò falsa testimonianza? Commetterò adulterio?

Concupirò la serva del mio vicino? Tutto ciò mal si concilierebbe col buon sonno.

E perfino quando si abbiano tutte le virtù, si deve potere un’altra cosa ancora: mandare a dormire anche le virtù.

Che non alterchino fra di loro, le brave donnine! E sul tuo conto, sciagurato!

Pace con Dio e col vicino: così vuole il buon sonno. E pace anche col diavolo del vicino. Altrimenti si aggira in casa tua durante la notte.

Onore alle autorità ed obbedienza, anche all’autorità storta. Così vuole il buon sonno. Che posso farci se il potere ama camminare con gambe storte?

Il miglior pastore sarà per me sempre quello che conduce il suo gregge al pascolo più verde: questo si concilia col buon sonno.

Molti onori non voglio, né grandi tesori: infiammano la milza. Ma si dorme male senza un buon nome e senza un piccolo tesoro.

Una piccola società mi è più gradita di una cattiva: ma deve venire e andarsene al momento giusto. Questo si concilia col buon sonno.

Molto mi piacciono anche i poveri di spirito: essi favoriscono il sonno. Beati sono, soprattutto se si dà loro sempre ragione.

Così trascorre dunque la giornata del virtuoso. Quando viene la notte, mi guardo bene dall’invocare il sonno. Non vuole essere invocato il sonno, che è signore di tutte le virtù!

Penso invece a quello che durante il giorno ho fatto e pensato. Ruminando mi chiedo, paziente come una vacca: quali sono stati i tuoi dieci superamenti?

E quali le dieci riconciliazioni e le dieci verità e le dieci risate, con cui il mio cuore si è allietato?

Così meditando e cullato da quaranta pensieri, sono colto a un tratto dal sonno, il non chiamato, il signore di tutte le virtù.

Il sonno batte al mio occhio, ed esso si fa pesante. Il sonno mi sfiora la bocca, ed essa rimane aperta.

In verità viene a me in punta di piedi, fra i ladri il più gradito, e mi ruba i pensieri: e io mi ritrovo vuoto come questa cattedra.

Ma non rimango a lungo in piedi: eccomi già coricato. —

Quando Zarathustra sentì il saggio parlare a questo modo, rise in cuor suo: giacché si era accesa in lui una luce. Ed egli così parlò al suo cuore: Uno stolto è per me questo saggio con i suoi quaranta pensieri: ma credo che del sonno se ne intenda.

Felice chi vive accanto a questo saggio! Un simile sonno è contagioso anche attraverso una spessa parete.

Persino nella sua cattedra c’è una malia. E non invano sedettero i giovani davanti al predicatore di virtù.

La sua saggezza si chiama: vegliare per dormir bene. E in verità, se la vita non avesse senso e io dovessi scegliere il non-senso, questo sarebbe anche per me il non-senso più degno d’essere prescelto.

Ora vedo chiaramente che cosa un tempo si cercava soprattutto, quando si cercavano maestri di virtù. Buon sonno si cercava e virtù papaveriche!

Per tutti questi laudati saggi delle cattedre la saggezza era il sonno senza sogni: essi non trovavano alla vita senso migliore.

Ancor oggi ci sono predicatori di virtù come questo; ma non sempre così onesti: ma è passato il loro tempo. E non rimangono a lungo in piedi: eccoli già coricati.

Beati sono i sonnolenti: perché presto si addormenteranno. —

Così parlò Zarathustra.


 
Dei transmondani
Una volta Zarathustra gettò la sua follia al di là dell’uomo, come fanno tutti i transmondani.

Opera di un dio sofferente e lacerato dall’angoscia mi apparve allora il mondo.

Un sogno m’apparve allora il mondo e il poema di un dio, fumo colorato davanti agli occhi di un divinamente insoddisfatto.

Bene e male, gioia e dolore, io e tu — fumo colorato mi sembrava, fumo davanti a occhi creatori. Stornare lo sguardo da se stesso voleva il creatore, — e creò il mondo.

Voluttà inebriante è per chi soffre stornare lo sguardo dalla propria sofferenza e perdersi. Voluttà inebriante e perdere se stessi mi sembrava una volta il mondo.

Questo mondo, l’eternamente imperfetto, immagine di una eterna contraddizione e immagine imperfetta — un piacere inebriante per il suo imperfetto creatore: — tale mi appariva una volta il mondo.

Così una volta gettai la mia follia al di là degli uomini, come fanno tutti i transmondani. Davvero al di là dell’uomo?

Ah, fratelli, questo dio che creai era opera e follia umana, come tutti gli dei!

Uomo era, e solo un povero frammento di uomo e di io: dalla mia cenere e dalla mia vampa venne a me, questo fantasma. E in verità non mi venne dall’aldilà!

Ma che avvenne, fratelli? Superai me stesso, me stesso sofferente, portai la mia cenere al monte, trovai per me una fiamma più limpida. Ed ecco! Il fantasma si allontanò da me!

Sofferenza sarebbe per me ora, un tormento per il convalescente, credere a simili fantasmi: sofferenza sarebbe per me ora e umiliazione. Così parlò a quelli che abitano dietro il mondo.

Sofferenza era ed impotenza — questo creò tutti i transmondani; e quella breve follia della felicità che solo il più sofferente esperimenta.

Stanchezza che vuole raggiungere l’ultimo bene con un salto, con un salto mortale, una povera ignorante stanchezza che non vuole nemmeno più volere: essa creò tutti gli dei e tutti i transmondani.

Credetemi, fratelli. Fu il corpo che disperò del corpo, — esso tastò con le dita dello spirito offuscato le pareti ultime.

Credetemi, fratelli. Fu il corpo che disperò della terra, — esso sentì il ventre dell’essere che gli parlava.

E allora volle rompere con la testa le pareti ultime, e non solo con la testa, — e passare di là, in «quel mondo».

Ma «quel mondo» è ben celato all’uomo, quel mondo disumanizzato e disumano che è un nulla celeste; e il ventre dell’essere non parla all’uomo se non come uomo.

In verità, difficile da dimostrare è tutto l’essere e difficile indurlo a parlare. Ditemi, fratelli, la cosa più strana di tutte non è ancora la meglio dimostrabile?

Sì, questo io e la contraddizione e la confusione dell’io parlano ancor più sinceramente del suo essere, questo io che crea, vuole, valuta, che è la misura e il valore delle cose.

E questo essere più sincero, l’io — parla del corpo e vuole pur sempre il corpo, anche quando scrive versi e fantastica e svolazza con le ali spezzate.

Sempre più sinceramente impara a parlare, l’io: e più impara, più parole e onori trova per il corpo e la terra.

Un nuovo orgoglio mi insegnò il mio io, e io lo insegno agli uomini: non nascondere più la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portala libera e scoperta, una testa terrena che crea un senso alla terra!

- Una nuova volontà insegno agli uomini: volere questa via che l’uomo ha percorso ciecamente e chiamarla buona e non scivolare fuori come i malati e i moribondi!

Malati e moribondi erano quelli che disprezzavano corpo e terra e inventarono il cielo e le redentrici gocce di sangue: ma anche questi dolci e tetri veleni li presero dal corpo e dalla terra.

Alla propria miseria volevano sfuggire, e le stelle erano per loro troppo lontane. Allora sospirarono: «Oh se vi fossero strade celesti per scivolare in un altro essere e in un’altra felicità!» — e inventarono per sé vie tortuose e bevande sanguinolente!

D’essersi sottratti al proprio corpo e a questa terra vaneggiavano, questi ingrati.

Ma a chi dovevano spasimo e voluttà dell’essersi sottratti? Al loro corpo e a questa terra.

Mite è Zarathustra con i malati. In verità egli non si adira con le loro forme di conforto e d’ingratitudine. Possano lentamente guarire e superare se stessi e crearsi un corpo migliore!

Né si adira Zarathustra con il convalescente, se questi guarda con tenerezza alla sua follia e a mezzanotte si aggira intorno al sepolcro del suo dio: ma anche le sue lacrime restano per me malattia e corpo malato.

Furono sempre molti i malsani tra quelli che scrivono versi e cercano Dio; un odio furibondo hanno verso chi si è dato alla conoscenza e verso la più giovane delle virtù, che si chiama: sincerità.

Indietro guardano sempre, a tempi oscuri: allora follia e fede erano certo un’altra cosa; la pazzia della ragione era somiglianza con Dio, e il dubbio era peccato.

Troppo bene conosco questi simili a Dio: vogliono che si creda in loro e che il dubbio sia peccato. Troppo bene so anche a che cosa essi soprattutto credono.

In verità non a mondi dietro il mondo e a gocce di sangue redentrici: è al corpo che soprattutto credono e il loro corpo è per loro una cosa a sé.

Ed è una cosa malsana: e volentieri uscirebbero dalla propria pelle. Per questo porgono orecchio ai predicatori della morte e predicano loro stessi mondi dietro il mondo.

Ascoltate, fratelli, la voce del corpo sano: è una voce più sincera e più pura.

Più sincero e più puro parla il corpo sano, il corpo perfetto ed eretto: parla del suo senso della terra.

Così parlò Zarathustra.


 
Degli spregiatori del corpo
Agli spregiatori del corpo voglio dire la mia parola. Non debbono imparare e insegnare l’opposto di quello che hanno imparato e insegnato finora, bensì dire addio al proprio corpo — e quindi ammutolire.

«Io sono corpo e anima» — così parla il bambino, e perché non si dovrebbe parlare come i bambini?

Ma l’uomo desto, l’uomo cosciente dice: Io sono tutto corpo e nulla fuori di questo; e anima è solo una parola per qualcosa che è nel corpo.

Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra ed una pace, un gregge ed un pastore.

Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami «spirito», un piccolo strumento e zimbello della tua grande ragione.

«Io» dici e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa più grande — cui non vuoi credere — è il tuo corpo e la sua grande ragione; questa non dice io, ma fa da io.

Quel che il senso percepisce, quel che lo spirito conosce, non ha mai in sé la sua fine. Ma senso e spirito vorrebbero persuaderti che essi sono la fine di tutte le cose: tanta è la loro vanità.

Strumento e zimbello sono senso e spirito: dietro di essi sta ancora il Se stesso. Il Se stesso è in cerca anche con gli occhi dei sensi ed è in ascolto anche con gli orecchi dello spirito.

Sempre è in ascolto il Se stesso e in cerca: confronta, costringe, conquista, distrugge. Domina ed è anche il dominatore dell’io.

Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un potente sovrano, un saggio sconosciuto — si chiama Se stesso. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo.

C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chissà mai perché il tuo corpo ha bisogno proprio della tua miglior saggezza?

Il tuo Se stesso ride del tuo io e dei suoi orgogliosi salti. «Che sono per me questi salti e voli del pensiero?» si dice «Un giro vizioso rispetto al mio scopo. Io tengo le fila dell’io e sono l’ispirazione dei suoi concetti».

Il Se stesso dice all’io: «Qui prova dolore». E soffre e pensa come non soffrire più — e a questo scopo deve appunto pensare.

Il Se stesso dice all’io: «Qui prova piacere». E si rallegra e pensa come rallegrarsi molte altre volte ancora — e a questo scopo deve appunto pensare.

Agli spregiatori del corpo voglio dire una parola. Che essi disprezzino fa sì che apprezzino. Che cosa creò apprezzare e disprezzare e valore e volontà?

Il Se stesso creante si creò l’apprezzare e il disprezzare, si creò piacere e dolore. Il corpo creante si creò lo spirito come una mano della sua volontà.

Perfino nella vostra stoltezza e disprezzo, voi spregiatori del corpo, servite al vostro Se stesso. E io vi dico: il vostro Se stesso vuole morire e si distacca dalla vita.

Non può più fare ciò che sopra ogni cosa vuole — creare al di sopra di se stesso. Questo vuole sopra ogni cosa, questa è la sua passione.

Ma è troppo tardi per lui: così il vostro Se stesso vuole perire, o spregiatori del corpo.

Perire vuole il vostro Se stesso, e per questo diventaste spregiatori del corpo, giacché non potete più creare al di sopra di voi stessi.

E per questo vi adirate con la vita e con la terra. Un’inconscia invidia è nello sguardo bieco del vostro disprezzo.

Io non vado per la vostra strada, spregiatori del corpo. Non mi siete ponte verso il superuomo! —

Così parlò Zarathustra.


 
Delle gioie e delle passioni
Fratello, se hai una virtù ed è la tua virtù, non ce l’hai in comune con nessuno.

E di certo vuoi chiamarla per nome e accarezzarla; vuoi vellicarle l’orecchio e spassartela con lei.

Invece, ecco! Ora hai il suo nome in comune col popolo e sei diventato popolo e gregge, con la tua virtù.

Faresti meglio a dire: «È impronunciabile e senza nome ciò che fa il tormento e la dolcezza della mia anima ed è anche la fame delle mie viscere».

La tua virtù sia troppo in alto per la confidenza dei nomi: e se devi parlare di lei, non ti vergognare se balbetti.

Parla dunque, e balbetta: «Questo è il mio bene, questo io amo, così mi piace interamente, solo così io voglio il bene.

Non lo voglio come una legge di Dio, non lo voglio come precetto e necessità umana: non sia per me un segnavia per sovramondi e paradisi.

Una virtù terrena sia quella che amo: in essa è poco intelligenza e meno che mai la ragione di tutti.

Ma quest’uccello edificò il suo nido presso di me: per questo lo amo e lo accarezzo, — ora cova presso di me le sue uova d’oro».

Così devi balbettare e lodare la tua virtù.

Un tempo avevi passioni e le chiamavi cattive. Ma ora hai soltanto le tue virtù: sono scaturite dalle tue passioni.

Rendesti cara a queste passioni la tua meta più alta: così esse divennero le tue virtù e le tue gioie.

E che tu fossi della stirpe degli iracondi o di quella dei libidinosi o dei fanatici o dei vendicativi.

Alla fine tutte le tue passioni diventarono virtù e tutti i tuoi diavoli angeli.

Un tempo avevi cani feroci nella tua cantina: ma alla fine si trasformarono in uccelli e in soavi canterine.

Con i tuoi veleni ti distillasti il tuo balsamo; la tua mucca mestizia mungesti, — e ora bevi il dolce latte della sua mammella.

E nulla di male scaturisce più da te, eccetto il male che scaturisce dalla lotta delle tue virtù.

Fratello, se avrai fortuna, avrai una sola virtù e quella sola: così passerai più facilmente il ponte.

È un segno distintivo avere molte virtù, ma anche una dura sorte; più d’uno andò nel deserto e si uccise perché era stanco di essere battaglia e campo di battaglie di virtù.

Fratello, guerra e battaglie sono male? Ma necessario è questo male, necessaria è l’invidia e la sfiducia e la calunnia fra le tue virtù.

Vedi come ognuna delle tue virtù aspira a mete supreme: essa vuole tutto il tuo spirito, vuole che esso sia il suo araldo, vuole tutta la tua forza nell’ira, nell’odio e nell’amore.

Gelosa è ogni virtù dell’altra e la gelosia è cosa feconda. Anche le virtù possono perire a causa della gelosia.

Chi è assalito dalla fiamma della gelosia fa come lo scorpione che da ultimo rivolge contro se stesso il pungiglione avvelenato.

Ah, fratello, non vedesti mai finora una virtù che calunnia e pugnala se stessa?

L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Per questo devi amare le tue virtù —: perché perirai per causa loro. —

Così parlò Zarathustra.


 
Del pallido delinquente
Voi non volete uccidere, giudici e sacrificanti, prima che l’animale abbia piegato il capo? Ed ecco, il pallido delinquente ha piegato il capo: dal suo occhio parla il grande disprezzo.

«Il mio io è qualcosa che deve essere superato: il mio io è per me il grande disprezzo dell’uomo»: così parla quest’occhio.

Giudicare se stesso è stato il suo istante supremo: non fate ritornare il sublime alla sua parte più bassa.

Non c’è redenzione per colui che soffre tanto di sé, se non la morte rapida.

Il vostro uccidere, giudici, dev’essere compassione e non vendetta. E mentre uccidete, fate in modo di giustificare voi stessi la vita!

Non basta che vi conciliate con colui che uccidete. La vostra tristezza sia amore per il superuomo: così giustificate il vostro vivere ancora!

«Nemico» dovete dire e non «malvagio», «malato» dovete dire, e non «malandrino», «stolto» dovete dire, e non «peccatore».

E se tu, giudice rosso, volessi dire forte tutto ciò che hai già fatto nei tuoi pensieri, ognuno griderebbe: «Finiamola con questa sozzura, con questo serpente velenoso!»

Ma una cosa è il pensiero, una cosa l’azione, una cosa l’immagine dell’azione. La ruota del motivo non passa tra loro.

Un’immagine rende pallido quest’uomo. Egli era all’altezza della propria azione quando la compì: ma non sopportò la sua immagine, quando essa fu compiuta.

Sempre vedeva se stesso come l’autore di una sola azione. Follia io la chiamo: l’eccezione si tramutò per lui in sostanza.

Una linea tracciata per terra fa fuggire la gallina; il colpo che egli inferse fece fuggire la sua povera ragione, — questo si chiama per me la follia dopo l’azione.

Udite, giudici! C’è ancora un’altra follia: ed è quella prima dell’azione. Ah, non mi scendeste abbastanza in fondo in quest’anima!

Così parla il giudice rosso: «Perché ha assassinato questo delinquente? Voleva rapinare». Ma io vi dico: la sua anima voleva sangue, non rapina; egli aveva sete della felicità del coltello!

Ma la sua povera ragione non capì questa follia e lo convinse. «Che importa del sangue!» gli disse «Non vuoi approfittarne per commettere almeno una rapina? Prenderti una vendetta?»

Egli diede retta alla sua povera ragione: come piombo gravavano su di lui le sue parole, — e quando assassinò, rapinò. Non voleva vergognarsi della propria follia.

E di nuovo grava su di lui il piombo della sua colpa; e di nuovo la sua ragione è così rigida, così paralizzata, così pesante.

Solo che egli potesse scuotere il capo, la soma gli rotolerebbe giù: ma chi scuote questo capo?

Che cos’è quest’uomo? Un cumulo di malattie che attraverso lo spirito si protendono sul mondo: vogliono farvi bottino.

Ma cos’è quest’uomo? Un groviglio di serpenti selvaggi che di rado hanno pace tra loro, — e così se ne vanno ciascuno per conto proprio e cercano bottino nel mondo.

Guardate questo povero corpo! Ciò che sofferse e bramò questa povera anima volle interpretarlo, — e lo interpretò come impulso omicida e brama della felicità del coltello.

Chi ora cade ammalato è aggredito dal male che ora è male: dolore vuole arrecare con quello che gli arreca dolore. Ma ci furono tempi diversi e un bene e un male diversi.

Una volta era male il dubbio e la volontà di raggiungere il Se stesso. Allora il malato diventava eretico e strega: e come eretico e strega soffriva e voleva far soffrire.

Ma questo non vuol entrarvi negli orecchi: nuoce ai vostri buoni, mi dite. Ma che m’importa dei vostri buoni!

Molto nei vostri buoni mi fa nausea, e non certo il male che recano in sé. Come vorrei che avessero una follia di cui perire, come questo pallido delinquente!

Davvero! Vorrei che la loro follia si chiamasse verità o fedeltà o giustizia: ma essi hanno la loro virtù per vivere a lungo e in un miserevole benessere.

Io sono un parapetto presso la corrente: mi afferri chi mi può afferrare! Ma non sono la vostra stampella. —

Così parlò Zarathustra.


 
Del leggere e dello scrìvere
Di tutto quanto è scritto amo solo quello che uno scrive col proprio sangue. Scrivi col sangue: e apprenderai che il sangue è spirito.

Non è facile capire il sangue altrui: io odio quelli che leggono da oziosi.

Chi conosce il lettore, non fa più nulla per il lettore. Ancora un secolo di lettori — e perfino lo spirito puzzerà.

Che a ognuno sia permesso d’imparare a leggere a lungo andare guasta non solo lo scrivere ma anche il pensare.

Una volta lo spirito era dio, poi diventò uomo, e ora è diventato addirittura plebe.

Chi scrive in sangue e sentenze non deve essere letto, ma imparato a memoria.

In montagna il cammino diretto è di vetta in vetta: ma devi avere le gambe lunghe. Le sentenze debbono essere vette: e coloro per i quali sono pronunciate debbono essere grandi e di alta statura.

L’aria sottile e pura, il pericolo vicino e lo spirito pieno di gaia malvagità: bene si accordano tra loro.

Voglio avere intorno a me dei coboldi, giacché sono coraggioso. Il coraggio che fa fuggire i fantasmi si crea da se stesso coboldi, — il coraggio vuole ridere.

Io non sento più all’unisono con voi: questa nube che vedo sotto di me, questo nero e questa gravità di cui io rido, — ecco la vostra nube foriera di tempesta.

Voi guardate in alto, quando cercate l’elevazione. E io guardo in basso, perché sono elevato.

Chi di voi sa a un tempo ridere ed essere elevato?

Chi sale sulla montagna più alta ride di tutti i drammi seri e faceti.

Incuranti, irridenti, violenti — così ci vuole la saggezza: essa è una donna e ama sempre e soltanto un guerriero.

Voi mi dite: «La vita è difficile a sopportarsi». Allora perché avreste quell’orgoglio al mattino e quella remissività la sera?

La vita è difficile a sopportarsi: ma non fatemi i delicati! Siamo pur tutti quanti graziosi e asine da soma.

Che abbiamo in comune col bocciolo di rosa che trema perché sul suo corpo si è posata una goccia di rugiada?

È vero: amiamo la vita non perché siamo abituati alla vita, ma perché siamo abituati ad amare.

C’è sempre un po’ di follia nell’amore. Ma c’è sempre un po’ di ragione nella follia.

E anche a me, che ho cara la vita, farfalle e bolle di sapone e quel che di simile ad esse v’è tra gli uomini sembrano più di tutti intendersi di felicità.

Vedere queste animucce leggere, stolte, mobili, leggiadre, svolazzare — seduce Zarathustra a lacrime e canti.

Io crederei solo a un Dio che sapesse danzare.

E quando vidi il mio diavolo, lo trovai serio, esatto, profondo e solenne. Era lo spirito della gravità — per lui precipitano tutte le cose.

Non si uccide con l’ira, ma con il riso. Su, uccidiamo lo spirito della gravità!

Ho imparato a camminare: da allora faccio in modo di correre. Ho imparato a volare: da allora non aspetto di essere urtato per muovermi dal mio posto.

Ora sono leggero, ora volo, ora mi vedo sotto di me, ora è un dio che si serve di me per danzare. —

Così parlò Zarathustra.


 
Dell’albero sul fianco della montagna
L’occhio di Zarathustra aveva visto che un giovane lo sfuggiva. E una sera che se ne andava per i monti che circondano la città chiamata «Vacca pezzata», ecco! per via s’imbattè in quel giovane, che sedeva appoggiato a un albero e contemplava con sguardo stanco la valle. Zarathustra afferrò l’albero presso il quale sedeva il giovane e così parlò: «Se volessi scuotere quest’albero con le mie mani non ci riuscirei.

Ma il vento che noi vediamo lo tormenta e lo piega dalla parte che vuole. Noi siamo piegati e tormentati nel modo più tremendo da mani invisibili».

Allora il giovane si levò stupito e disse: «Sento Zarathustra e stavo pensando giusto a lui». Zarathustra rispose: «Perché dunque ti spaventi? Agli uomini accade quel che accade all’albero.

Quanto più in alto e più nella luce vuole ascendere, con tanta più forza le sue radici si spingono dentro la terra, verso il basso, nel buio, nel profondo, — nel male».

«Sì, nel male!» esclamò il giovane «Com’è possibile che tu abbia scoperto la mia anima?»

Zarathustra sorrise e disse: «Certe anime non si scoprono mai a meno che prima non si inventino».

«Sì, nel male!» esclamò il giovane un’altra volta.

«Dicesti la verità, Zarathustra. Non mi fido più di me dacché voglio spingermi verso l’alto, e nessuno si fida più di me. Come può essere?

Mi trasformo troppo in fretta: il mio oggi contraddice il mio ieri. Io salto i gradini, quando salgo, — e nessuno dei gradini me lo perdona.

Quando sono in alto mi trovo sempre solo. Nessuno parla con me, il gelo della solitudine mi fa tremare. Che cosa cerco lassù in alto?

Il mio disprezzo e la mia nostalgia crescono di pari passo; più in alto salgo, più disprezzo colui che sale. Che cosa cerco lassù in alto?

Come mi vergogno del mio salire e del mio inciampare. Come schernisco il mio forte ansimare! Come odio il fuggitivo! Come sono stanco quando sono in alto!»

Qui il giovane tacque. E Zarathustra considerò l’albero presso il quale stavano e così parlò:

«Quest’albero se ne sta qui solitario sul fianco del monte; crebbe alto superando l’uomo e l’animale.

E se volesse parlare, non avrebbe nessuno che lo capirebbe: tanto è cresciuto.

Ora attende e attende, — ma che cosa attende? Abita troppo vicino alla dimora delle nubi: aspetta forse la prima folgore?»

Quando Zarathustra ebbe detto ciò, il giovane esclamò con un gesto impetuoso: «Sì, Zarathustra, tu dici la verità. Bramavo il mio tramonto quando volevo spingermi verso l’alto, e tu sei la folgore che io attendevo. Ecco! Chi sono io dacché tu comparisti fra noi? L’invidia per te è quella che mi ha distrutto!» — Così parlò il giovane e pianse amaramente. Ma Zarathustra lo cinse col braccio e lo condusse via con sé.

E quando furono andati per un buon tratto, Zarathustra prese a parlare così:

Mi strazia il cuore. Meglio di quanto dicano le tue parole, mi dice il mio occhio tutto il pericolo in cui ti trovi.

Ancora non sei libero, tu cerchi ancora la libertà. Logoro e insonne ti ha reso il tuo cercare.

A libere altezze vuoi ascendere, di stelle ha sete la tua anima. Ma anche i tuoi impulsi malvagi hanno sete di libertà.

I tuoi cani selvaggi vogliono essere messi in libertà; abbaiano di piacere nella loro cella, quando il tuo spirito medita di spalancare ogni prigione.

Ancora sei per me un prigioniero che escogita libertà; ah, intelligente diventa l’anima di simili prigionieri, ma anche astuta e perfida.

Purificarsi deve ancora il liberato dello spirito. Molta prigione e muffa sono rimaste in lui: puro deve diventare ancora il suo occhio.

Sì, io conosco il tuo pericolo. Ma per il mio amore e per la mia speranza ti scongiuro: non gettar via il tuo amore e la tua speranza.

Nobile ti senti ancora e nobile ti sentono ancora gli altri, che ti vogliono male e ti gettano occhiate cattive. Sappi che a tutti è d’intralcio un uomo nobile.

Anche ai buoni è d’intralcio un uomo nobile: e perfino quando lo chiamano buono, intendono con questo toglierlo di mezzo.

Il nobile vuol creare del nuovo e una nuova virtù. Il buono vuole il vecchio e che il vecchio sia conservato.

Ma non questo è il pericolo del nobile, che diventi un buono, bensì che diventi uno spavaldo, uno schernitore, un annientatore.

Ah, ho conosciuto nobili che perdettero la loro più alta speranza. E ora calunniavano tutte le speranze alte.

Ora vivevano spavaldamente di bravi piaceri e non ponevano più le loro mete al di là della giornata presente.

«Lo spirito è anche voluttà» — così dicevano. Così spezzarono al loro spirito le ali: ora esso s’aggira strisciando e rosica tutto insozzandolo.

Un tempo essi pensavano di diventare eroi: gaudenti sono ora. Afflizione e orrore per loro l’eroe.

Ma per il mio amore e per la mia speranza ti scongiuro: non gettar via l’eroe nella tua anima! Considera sacra la tua speranza più alta! —


 
Dei predicatori della morte
Ci sono predicatori della morte: e la terra è piena di uomini cui non si può predicare il distacco dalla vita.

Piena è la terra di superflui, corrotta è la vita dei troppi. Si potesse attrarli fuori da questa vita allettandoli con la «vita eterna»!

«Gialli»: così si chiamano i predicatori della morte, o «neri». Ma voglio mostrarveli anche in altri colori.

Ci sono i terribili, che portano dentro l’animale da preda e non hanno altra scelta che tra i piaceri e l’autodilaniarsi. Ma anche i loro piaceri sono un autodilaniarsi.

Non sono neppure diventati uomini questi terribili: possano predicare il distacco dalla vita e loro stessi allontanarsi in quella direzione!

Ci sono i tisici dell’anima: sono appena nati e già cominciano a morire e sono alla ricerca di dottrine della stanchezza e della rinuncia.

Vorrebbero essere morti, e noi dovremmo approvare questa loro volontà! Guardiamoci dal destare questi morti e dal ferire queste bare viventi!

Incontrano un malato o un vecchio o un cadavere e subito dicono: «La vita è confutata!»

Ma loro soli sono confutati e il loro occhio che scorge quel solo aspetto dell’esistenza.

Avvolti in fitta melanconia e avidi di piccoli casi fortuiti che portino la morte: così essi attendono stringendo i denti.

Oppure: prendono dolciumi e deridono la propria puerilità: sono aggrappati alla loro festuca di vita e ridono di essere ancora aggrappati a una festuca.

La loro sapienza suona: «Stolto è chi rimane in vita, ma tanto stolti siamo anche noi! E questo è appunto ciò che ha di più stolto la vita!» — «La vita è solo sofferenza» — così dicono altri e non mentono: ma allora fate in modo di cessare voi di esistere. Allora fate in modo che cessi la vita che è solo dolore!

E così suona la dottrina della vostra virtù: «Devi uccidere te stesso! Devi sottrarti a te stesso!»

«Voluttà è peccato», dicono gli uni che predicano la morte «tiriamoci in disparte e non generiamo figli!»

«Generare è fatica», dicono gli altri «perché partorire ancora? Non si partoriscono che infelici!» E anche loro sono predicatori della morte.

«La comprensione è necessaria» dicono i terzi. «Prendete quel che ho! Prendete quel che sono! Tanto meno mi legherà a sé la vita!»

Se fossero compassionevoli fino in fondo, rovinerebbero la vita al loro prossimo. Essere cattivi — sarebbe la loro vera bontà.

Ma essi vogliono disfarsi della vita: che cosa gli importa se con le loro catene e i loro regali legano altri più saldamente alla vita? — E anche voi, cui la vita è selvaggio lavoro e inquietudine: non siete molto stanchi della vita? Non siete molto maturi per la predica della morte?

Voi tutti, cui è caro il selvaggio lavoro e ciò che è rapido, nuovo, estraneo, — voi sopportate male voi stessi, la vostra diligenza è maledizione e volontà di dimenticare voi stessi.

Se voi credeste di più alla vita, vi dareste meno in preda all’attimo. Ma per attendere non avete in voi stessi sufficiente contenuto: nemmeno per essere pigri!

Al di sopra di tutto risuona la voce di quelli che predicano la morte: e la terra è piena di quelli cui non si può non predicare la morte.

O «la vita eterna»: per me è lo stesso, — purché essi ci vadano al più presto!

Così parlò Zarathustra.


 
Della guerra e dei guerrieri
Dai nostri migliori nemici non vogliamo essere risparmiati, nemmeno da quelli che amiamo profondamente. Lasciate dunque che vi dica la verità.

Fratelli miei nella guerra! Io vi amo profondamente, sono e fui uno dei vostri. E sono anche il vostro miglior nemico. Lasciate dunque che vi dica la verità!

So l’odio e l’invidia del nostro cuore. Non siete abbastanza grandi per non conoscere odio e invidia. Siate almeno abbastanza grandi per non vergognarvi di essi!

E se non potete essere santi della conoscenza, siatene almeno i guerrieri. Questi sono i compagni di strada e precursori di tale santità.

Vedo molti soldati: potessi vedere molti guerrieri! «Uniforme» si chiama ciò che indossano: possa non essere uniforme quel che celano sotto di essa!

Per me dovete essere di quelli il cui occhio cerca sempre un nemico — il vostro nemico. E in alcuni di voi c’è anche l’odio a prima vista.

Il vostro nemico dovete cercare, la vostra guerra dovete condurre e per i vostri pensieri! E se il vostro pensiero soccombe, la vostra sincerità deve proclamare il trionfo!

Dovete amare la pace come mezzo per nuove guerre. E la pace corta più di quella lunga.

Non vi consiglio il lavoro, ma la lotta. Non vi consiglio la pace, ma la vittoria. Il vostro lavoro sia una lotta, la vostra pace sia una vittoria!

Si può tacere e star fermi soltanto quando si ha freccia ed arco: altrimenti si chiacchiera e si contende. La vostra pace sia una vittoria!

Voi dite che è la buona causa che santifica persino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra che santifica ogni causa.

La guerra e il coraggio hanno fatto più grandi cose dell’amor del prossimo. Non la vostra compassione, ma il vostro valore ha salvato finora i colpiti da sciagura.

Che cos’è bene? chiedete. Essere valorosi è bene. Lasciate dire alle fanciullette: «Bene è ciò che è insieme grazioso e commovente».

Vi chiamano senza cuore: ma il vostro cuore è sincero, e io amo il pudore della vostra cordialità. Vi vergognate della vostra piena, e altri si vergognano della loro magra.

Siete brutti? Ebbene, fratelli! Avvolgetevi nel sublime, nel mantello della bruttezza!

E se la vostra anima diventa grande, diventa anche superba, e nella vostra sublimità è cattiveria. Io vi conosco.

Nella cattiveria il superbo s’incontra col debole. Ma non si capiscono. Io vi conosco.

Potete avere solo nemici che siano da odiare, ma non nemici da disprezzare. Dovete andare fieri del vostro nemico: allora i successi del vostro nemico saranno anche i vostri successi.

Ribellione — questa è la superiorità in uno schiavo. La vostra superiorità sia l’obbedienza! Anche il vostro comandare sia un obbedire!

A un buon guerriero «tu devi» suona più gradito di «io voglio». E tutto quello che vi è caro dovete aspettare che ve lo comandino.

Il vostro amore per la vita sia amore per la vostra speranza più alta: e la vostra più alta speranza sia il più alto pensiero della vita!

Ma il vostro pensiero più alto dovete aspettare che sia io a comandarvelo — e suona: l’uomo è qualcosa che deve essere superato.

Vivete dunque la vostra vita di obbedienza e di guerra! Che vale una lunga vita! Quale guerriero vorrebbe essere risparmiato?

Io non vi risparmio, io vi amo profondamente, miei fratelli nella guerra! —

Così parlò Zarathustra.


 
Del nuovo idolo
Da qualche parte ci sono ancora popoli e greggi, ma non più da noi, fratelli: da noi ci sono soltanto Stati.

Stato? Che cos’è? Orsù! Aprite gli orecchi, perché ora vi dico la mia parola sulla morte dei popoli.

Stato si chiama il più freddo di tutti i freddi mostri. Ed è freddo anche nel suo mentire; e dalla sua bocca striscia questa menzogna: «Io, lo Stato, sono il popolo».

È una menzogna! Creatori erano coloro che crearono i popoli e sospesero sopra di essi una fede e un amore: e così servivano la vita.

Distruttori sono coloro che tendono trappole per molti e le chiamano Stato: essi sospendono sopra di essi una spada e cento brame.

Dove c’è ancora popolo, esso non capisce lo Stato e lo odia come malocchio e peccato contro costumi e diritto.

Questo segno vi do: ogni popolo parla la sua lingua del bene e del male: il vicino non lo capisce. Si inventò la sua lingua in costumi e diritto.

Ma lo Stato mente in tutte le lingue del bene e del male; e qualunque cosa dica, mente — e qualunque cosa abbia l’ha rubata.

Tutto in esso è falso; con denti rubati morde, il mordace. False sono persino le sue viscere.

Confusione delle lingue del bene e del male: questo segno vi do come segno dello Stato. In verità, questo segno indica la volontà di morte! In verità, esso richiama i predicatori della morte!

Troppi uomini nascono: per i superflui fu inventato lo Stato!

Guardate come li attrae a sé, i troppi. Come li fagocita e mastica e rimastica!

«Sulla terra non c’è nulla di più grande di me: io sono il dito ordinatore di Dio» — così strepita la bestia. E non solo gli orecchiuti e i miopi cadono in ginocchio!

Ah, anche in voi, grandi anime, sussurra le sue tetre menzogne! Ah, egli indovina i cuori ricchi che si sperperano volentieri!

Sì, anche voi indovina, vincitori del vecchio dio! Vi ha stancato la lotta o ora la vostra stanchezza serve il nuovo idolo.

Di eroi e uomini d’onore vorrebbe circondarsi il nuovo idolo! Gli piace crogiolarsi al sole delle buone coscienze, — la fredda bestia!

Tutto vi darà, se voi lo adorate, il nuovo idolo: così egli si compera il fulgore della vostra virtù e lo sguardo dei vostri occhi fieri.

Adescare i troppi vuole con voi! Sì, fu inventata una macchina infernale, un cavallo della morte tintinnante sotto la bardatura di onori divini!

Sì, una morte per molti fu allora inventata, che esalta se stessa come vita: in verità, un servizio inestimabile ai predicatori della morte!

Stato io chiamo quello dove tutti sono assuefatti al veleno, buoni e cattivi: Stato, dove tutti perdono se stessi, buoni e cattivi: Stato, dove il lento suicidio di tutti si chiama «la vita».

Guardate questi superflui! Rubano per sé le opere degli inventori e i tesori dei saggi: cultura chiamano il loro furto — e tutto diventa per loro malattia e molestia!

Guardate questi superflui! Sono sempre ammalati vomitano la loro bile e lo chiamano giornale. S’inghiottono a vicenda e non riescono nemmeno a digerirsi.

Guardate questi superflui! Acquistano ricchezze e con esse diventano soltanto più poveri. Potenza vogliono e innanzi tutto il grimaldello della potenza, molto denaro, — questi impotenti!

Guardatele arrampicarsi, queste agili scimmie! S’arrampicano una sull’altra e così una trascina l’altra nel fango e nell’abisso.

Vogliono arrivare tutte al trono: è la loro follia, — come se sul trono fosse assisa la felicità! Spesso sul trono è assiso il fango — anzi, spesso anche il trono sta sul fango.

Folli sono tutti per me e scimmie che si arrampicano e maniaci. Puzza per me il loro idolo, la fredda bestia: puzzano per me tutti quanti, questi adoratori di idoli.

Fratelli miei, volete dunque soffocare nell’alito dei vostri musi e delle loro voglie? Fareste meglio a infrangere le finestre e a balzare all’aperto.

Fuggite dal cattivo odore! Allontanatevi dall’idolatria dei superflui!

Fuggite dal cattivo odore! Fuggite l’esalazione di questi sacrifici umani.

Libera è ancor oggi per le anime grandi la terra. Vuote sono ancora molte sedi per i solitari e per coloro che sono in due nella solitudine, intorno alle quali aleggia il profumo di mari tranquilli.

Libera è ancora per le grandi anime una libera vita. In verità, chi poco possiede, tanto meno è posseduto: sia lodata la piccola povertà!

Là dove lo Stato cessa, là incomincia l’uomo che non è superfluo: là incomincia il canto del necessario, la melodia unica e insostituibile.

Là dove lo Stato cessa — là guardate, fratelli miei! Non li vedete l’arcobaleno e i ponti del superuomo? —

Così parlò Zarathustra.


 
Delle mosche del mercato
Fuggi, amico mio, nella mia solitudine! Io ti vedo stordito dal rumore dei grandi uomini e trafitto dai pungiglioni dei piccoli.

Con dignità sanno tacere con te bosco e rupe. Assomiglia di nuovo all’albero che ami, dalle ampie fronde: silenzioso e in ascolto si protende sul mare.

Dove cessa la solitudine, là incomincia il mercato e dove incomincia il mercato, là incomincia anche il rumore dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche velenose.

Nel mondo le cose migliori non servono a nulla, se non v’è nessuno che le rappresenti: grandi uomini chiama il popolo questi rappresentatori.

Poco comprende il popolo la grandezza, cioè il creare. Ma è sensibile a tutti i rappresentatori e commedianti di grandi vicende.

Intorno agli inventori di nuovi valori ruota il mondo: ruota in modo invisibile. Ma intorno ai commedianti ruotano il popolo e la fama: questo è il «corso del mondo».

Spirito ha il commediante, ma poca coscienza dello spirito. Sempre crede in ciò con cui riesce a far credere gli altri più fortemente, — far credere in lui stesso!

Domani avrà una nuova fede e dopodomani un’altra ancora. Ha i sensi pronti come il popolo e umori variabili.

Rovesciare — significa per lui: dimostrare. Render folli — significa per lui: convincere. E il sangue è per lui il migliore degli argomenti.

Una verità che penetra solo in orecchi fini egli la chiama menzogna e nulla. Infatti egli crede soltanto a dei che suscitino gran frastuono nel mondo!

Pieno di solenni saltimbanchi è il mercato — e il popolo si vanta dei suoi grandi uomini: questo sono per lui i padroni dell’ora.

Ma l’ora li incalza: così essi incalzano te. E anche da te vogliono un sì o un no. Ahimè, tu vuoi collocare la tua sedia fra il pro e il contro?

Di questi incalzanti assolutisti non essere geloso, tu, amante della verità! Mai fino ad oggi la verità andò al braccio di un assolutista.

A causa di questi precipitosi ritorna nella tua sicurezza: solo al mercato si viene aggrediti con «sì? o no?».

Lenta è l’esperienza per le fontane profonde: a lungo debbono aspettare prima di sapere che cosa è caduto nel profondo.

Lontano dal mercato e dalla fama avvengono tutte le cose grandi: lontano dal mercato e dalla fama abitarono da sempre gli inventori di nuovi valori.

Fuggi, amico mio, nella tua solitudine: ti vedo trafitto da punture di mosche velenose. Fuggi là dove spira un’aria rude e forte!

Fuggi nella tua solitudine! Vivesti troppo vicino ai piccini e ai miserabili. Sfuggi alla loro invisibile vendetta. Contro di te essi non sono altro che vendetta.

Non levare più il braccio contro di loro! Sono innumerevoli e non tocca a te di fare lo scacciamosche.

Innumerevoli sono questi piccini e miserabili; e già più di un superbo edificio bastarono a farlo perire gocce di pioggia ed erbacce.

Tu non sei una pietra, ma fosti già scavato da molte gocce. T’infrangerai e scoppierai se ti scaveranno molte gocce ancora.

Fiaccato ti vedo dalle mosche velenose, ti vedo trafitto a sangue in cento punti; e il tuo orgoglio non vuole nemmeno adirarsi.

Sangue vorrebbero da te in piena innocenza, sangue bramano le loro anime esangui — e per questo pungono in piena innocenza.

Ma tu profondo, soffri troppo profondamente anche di piccole ferite; e prima ancora che tu sia guarito, lo stesso verme velenoso ti striscia sulla mano.

Troppo fiero sei per uccidere questi ingordi. Ma bada che non ti diventi fatale portare su di te la loro velenosa ingiustizia!

Ronzano intorno a te anche con la loro lode: invadenza è la loro lode. Essi vogliono la vicinanza della tua pelle e del tuo sangue.

Ti adulano come un dio o un demonio; piagnucolano davanti a te come davanti a un dio o a un demonio. Che importa! Adulatori sono e piagnoni, e nulla più.

Spesso fanno con te gli amabili. Ma questa fu sempre l’astuzia dei vili. Sì, i vili sono astuti!

Essi rimuginano molto su di te nella loro anima angusta, — sospetto sei loro in ogni istante! Tutto quello che viene molto rimuginato, diviene sospetto.

Ti puniscono per tutte le tue virtù. Ti perdonano di cuore soltanto i tuoi sbagli.

Poiché sei mite e giusto, dici: «Non hanno colpa della loro piccola esistenza». Ma la loro anima angusta pensa: «Colpevole è ogni grande esistenza».

Anche quando sei mite con loro, si sentono pur sempre disprezzati da te, e ti ricambiano il beneficio con celati malefici.

La tua fierezza senza parole è sempre contraria al loro gusto; giubilano se capita che tu sia abbastanza modesto da essere vano.

Ciò che noi riconosciamo in un uomo lo accendiamo anche dentro di lui. Guardati perciò dai piccoli!

Davanti a te si sentono piccoli, e la loro bassezza arde in segreto e cova contro di te un’invisibile vendetta.

Non notasti come spesso ammutolirono quando tu ti avvicinavi e come le forze li abbandonarono, come il fumo il fuoco che si va spegnendo?

Sì, amico mio, tu sei la cattiva coscienza per i tuoi vicini, poiché essi sono indegni di te. Perciò ti odiano e sarebbero lieti di suggere il tuo sangue.

I tuoi vicini saranno sempre mosche velenose; ciò che in te è grande — non può che renderli più velenosi e sempre più simili alle mosche.

Fuggi, amico mio, nella tua solitudine e là dove spira un’aria rude e forte! Non tocca a te di fare lo scacciamosche. —

Così parlò Zarathustra.


 
Della castità
Io amo il bosco. Nella città si vive male: ci sono troppi lussuriosi.

Non è meglio cadere nelle mani di un assassino che nei sogni di una donna lussuriosa?

E guardate questi uomini: il loro occhio lo dice — non conoscono nulla di meglio sulla terra che giacere accanto a una donna.

Fango è sul fondo della loro anima; e guai se il loro fango ha ancora spirito!

Foste perfetti almeno come animali! Ma l’animale ha l’innocenza.

Vi esorto a uccidere i vostri sensi? Vi consiglio l’innocenza dei sensi.

Vi esorto alla castità? La castità è presso alcuni una virtù, ma presso molti quasi un vizio.

Questi esercitano sì la continenza: ma la cagna sensualità s’affaccia invidiosa in tutto quello che essi fanno.

Anche sulle vette della loro virtù e nel freddo dello spirito li segue questa bestia e la sua insoddisfazione.

E con quanto garbo sa supplicare la cagna sensualità per ottenere un pezzo di spirito, quando le viene rifiutato un pezzo di carne.

Amate le tragedie e tutto quello che spezza il cuore? Ma io diffido della vostra cagna.

Avete occhi troppo feroci e guardate con libidine i sofferenti. Non è solo la vostra voluttà che si è travestita e si chiama compassione?

E vi do anche questa similitudine: non pochi che volevano cacciare il proprio diavolo finirono loro stessi tra i porci.

A chi pesa la castità, bisogna sconsigliarla, perché non diventi la via dell’inferno — cioè fango e fregola dell’animo.

Parlo di cose sporche? Per me non è certo il peggio.

Non quando la verità è sporca, ma quando è poco profonda, colui che attende alla conoscenza entra malvolentieri nelle sue acque.

In verità ci sono uomini casti nell’intimo: sono miti di cuore, ridono più volentieri e più spesso di voi.

Ridono anche della castità e dicono: «Cos’è la castità?»

Non è stoltezza la castità? Ma questa stoltezza venne a noi, e non andammo noi ad essa.

Noi offriamo a quest’ospite alloggio e cuore: ora abita da noi, — resti quanto tempo vuole!

Così parlò Zarathustra.


 
Dell’amico
«Uno è sempre di troppo intorno a me» — così pensa l’eremita. «Uno alla volta — con l’andar del tempo fa due!».

Io e Me sono sempre troppo assorbiti dalla conversazione: come resistere se non ci fosse un amico?

Per l’eremita l’amico è sempre il terzo: il terzo è il sughero che impedisce che la conversazione dei due scenda nel profondo.

Ah, ci sono troppe profondità per tutti gli eremiti. Per questo essi bramano un amico e la sua vetta.

La nostra fede negli altri tradisce ciò che ameremmo credere di noi stessi. La nostra brama di un amico è quella che ci tradisce.

E spesso con l’amore si vuole passare oltre l’invidia. E spesso si attacca e ci si fa un nemico per nascondere che si è attaccabili.

«Sii almeno il mio nemico!» — così parla la vera reverenza, che non osa chiedere amicizia.

Se si vuol avere un amico, bisogna essere anche disposti per lui a muover guerra: e per muover guerra si deve poter essere nemico.

Nel proprio amico si deve onorare anche il nemico. Puoi accostarti al tuo amico senza passare dalla sua parte?

Nel proprio amico bisogna avere il proprio miglior nemico. Devi essergli più che mai vicino col cuore quando lo avversi.

Non vuoi portare abiti davanti al tuo amico? Dev’essere un onore per il tuo amico che tu ti dia a lui come sei? Ma lui ti manda al diavolo per questo!

Chi non fa più mistero di sé, rivolta: avete tanti motivi per temere la nudità! Certo, se foste dei, allora potreste vergognarvi dei vostri abiti!

Per il tuo amico non ti farai mai bello abbastanza: poiché devi essere per lui freccia e anelito al superuomo.

Vedesti già il tuo amico dormire, — per sapere che aspetto abbia? Che cos’è altrimenti il volto del tuo amico? È il tuo viso, riflesso in uno specchio rozzo e imperfetto.

Vedesti già il tuo amico dormire? Non ti spaventasti che il tuo amico avesse quell’aspetto? O, amico mio, l’uomo è qualcosa che deve essere superato.

Nell’indovinare e nel tacere l’amico dev’essere maestro: non tutto devi voler vedere. Il tuo sogno ti deve rivelare ciò che il tuo amico fa da sveglio.

Un indovinare sia la tua compassione: fa di sapere prima se il tuo amico vuole compassione. Forse egli di te ama l’occhio fermo e lo sguardo dell’eternità.

La compassione per l’amico si celi sotto una dura buccia: mordendo devi romperti un dente. Così avrà la sua finezza e la sua dolcezza.

Sei aria pura e solitudine e pane e medicina per il tuo amico? C’è chi non sa spezzare le proprie catene, eppure per l’amico è un liberatore.

Sei uno schiavo? Allora non puoi essere amico. Sei un tiranno? Allora non puoi avere amici.

Troppo a lungo nella donna è stato nascosto uno schiavo e un tiranno. Per questo la donna non è ancora capace di amicizia: essa conosce solo l’amore.

Nell’amore della donna c’è ingiustizia e cecità verso tutto ciò che essa non ama. E anche quando l’amore della donna è sapiente, accanto alla luce c’è pur sempre aggressione e folgore e notte.

La donna non è ancora capace di amicizia: gatti sono pur sempre le donne, e uccelli. O, nel migliore dei casi, vacche.

La donna non è ancora capace di amicizia. Ma ditemi, voi uomini, chi di voi è capace di amicizia?

Oh, la vostra povertà, uomini, e l’avarizia della vostra anima! Quel che voi date all’amico io lo darò al mio nemico e non mi troverò più povero.

C’è cameratismo: potesse esservi amicizia!

Così parlò Zarathustra.


 
Di mille e una meta
Molti paesi vide Zarathustra e molti popoli: così egli scoprì il bene e il male di molti popoli. Forza più grande non trovò Zarathustra sulla terra di quella del bene e del male.

Nessun popolo potè vivere che prima non valutasse: ma se vuole sopravvivere, non deve valutare come valuta il vicino.

Molte cose apparvero buone a un popolo che a un altro apparvero causa di scherno e vergogna: questo trovai. Molte cose trovai chiamate cattive qui e là coperte di purpurei onori.

Mai un vicino comprese l’altro: sempre si vergognò la sua anima della follia e della cattiveria del vicino.

Una tavola delle cose buone è sospesa sopra ogni popolo. Ecco, è la tavola dei suoi superamenti; ecco, è la voce della sua volontà di potenza.

Lodevole è quel che gli sembra arduo; quel che è inevitabile e arduo si chiama buono; e ciò che libera dall’estremo bisogno, il raro, il sommamente arduo, — è celebrato come santo.

Ciò che lo fa dominare, vincere, risplendere, con orrore e invidia del suo vicino, è per lui la cosa più alta, la prima, l’unità di misura, il senso di tutte le cose.

In verità, fratello mio, se di un popolo conoscesti già il bisogno e la terra e il cielo e il vicino, indovinerai la legge dei suoi superamenti e perché ascenda su quella scala alla tua speranza.

«Sempre devi essere il primo ed eccellere sugli altri: la tua anima gelosa non deve amare nessuno, tranne l’amico» — questo faceva fremere l’anima al greco. Così egli percorse il sentiero della sua grandezza.

«Dire la verità e maneggiare destramente arco e freccia» — questo apparve caro e arduo al popolo da cui viene il mio nome, il nome che mi è insieme caro e arduo.

«Onorare il padre e la madre e fare la loro volontà fino alle radici dell’anima»: questa tavola del superamento sospese un altro popolo su di sé e divenne per essa potente ed eterno.

«Esercitare la fedeltà e per fedeltà porre onore e sangue anche in cause ingiuste e pericolose»: così ammaestrandosi un altro popolo domò se stesso e così domandosi divenne gravido e greve di grandi speranze.

In verità, gli uomini si diedero da sé tutto il loro bene e male. In verità, non lo presero, non lo trovarono, non scese a loro come voce dal cielo.

Fu l’uomo a riporre valori nelle cose per sopravvivere, fu lui a creare senso alle cose, un senso umano! Perciò si chiama «uomo», cioè, il valutante.

Valutare è creare: udite, creatori! Il valutare è di per sé tesoro e gioiello di tutte le cose valutate.

Solo perché si valuta esiste il valore: e senza il valutare l’esistenza sarebbe un guscio vuoto!

Mutazione dei valori — è mutazione dei creatori. Chi deve essere un creatore non fa che distruggere.

Creatori erano dapprima i popoli, e solo più tardi i singoli; in verità, il singolo stesso è ancora la creazione più recente.

I popoli sospesero su di sé una tavola del bene. L’amore che vuol dominare e l’amore che vuol obbedire crearono insieme simili tavole.

Più antico è il piacere del gregge che il piacere dell’io: e finché la buona coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io.

In verità, l’io scaltro, l’io senza amore, che vuole il proprio vantaggio nel vantaggio di molti, questo non è l’origine del gregge, ma il suo tramonto.

Amanti furono sempre e creatori quelli che crearono bene e male. Fuoco d’amore arde nel nome di tutte le virtù, e fuoco d’ira.

Molti paesi vide Zarathustra e molti popoli: nessuna potenza trovò Zarathustra sulla terra più grande delle opere di coloro che amano: «bene» e «male» è il loro nome.

In verità, un mostro è la potenza di questa lode e di questo biasimo. Ditemi, chi me lo doma, fratelli? Ditemi, chi getta un giogo sopra le mille cervici di questa fiera?

Mille mete v’erano finora, poiché v’erano mille popoli. Soltanto il giogo per le mille cervici manca ancora, manca una meta unica. L’umanità non ha ancora meta.

Ma ditemi, fratelli miei: se all’umanità manca ancora la meta, non manca forse ancora lei stessa? —

Così parlò Zarathustra.


 
Dell’amore del prossimo
Vi affollate intorno al prossimo e avete belle parole per questo. Ma io vi dico: il vostro amor del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi.

Sfuggite a voi stessi cercando il prossimo e vorreste farvene una virtù: ma io leggo nel vostro «altruismo».

Il tu è più vecchio dell’io; il tu è stato santificato, l’io non ancora: così l’uomo si spinge verso il prossimo.

Vi esorto io all’amore del prossimo? Vi esorto piuttosto alla fuga dal prossimo e all’amore del lontano!

Più in alto dell’amore per il prossimo sta l’amore per il lontano e il futuro; più alto dell’amore per l’uomo è per me l’amore per le cose e per i fantasmi.

Questo fantasma che corre davanti a te, fratello, è più bello di te; perché non gli dai la tua carne e le tue ossa? Ma tu hai paura e corri dal tuo prossimo.

Non resistete a voi stessi e non vi amate abbastanza: ora volete sedurre il prossimo all’amore e indorarvi col suo errore.

Preferirei che non resisteste a prossimi d’ogni sorta e ai loro vicini; così dovreste trarre il vostro amico e il suo cuore traboccante da voi stessi.

Voi invitate un testimone, quando volete parlar bene di voi; e quando l’avete sedotto a parlar bene di voi, pensate voi stessi bene di voi.

Non mente soltanto chi parla contro ciò che sa, ma soprattutto chi parla contro quello che non sa. E così voi parlate di voi nelle vostre relazioni e ingannate con voi stessi il vicino.

Così parla il buffone: «Il contatto con le persone rovina il carattere, specialmente quando non se ne ha uno».

Uno va dal prossimo, perché cerca se stesso, un altro, perché vorrebbe perdere se stesso. Il vostro cattivo amore per voi stessi fa della vostra solitudine una prigione.

Sono i lontani che pagano il vostro amore per il prossimo; e già quando siete radunati in cinque, c’è un sesto che deve morire.

Nemmeno le vostre feste amo: vi incontrai troppi commedianti, e anche gli spettatori spesso si atteggiavano come commedianti.

Non vi insegno il prossimo, ma l’amico. L’amico sia per voi la festa della terra e il presentimento del superuomo.

Vi insegno l’amico e il suo cuore colmo. Ma si deve saper essere una spugna, se si vuol essere amati da cuori colmi.

Vi insegno l’amico in cui si trova, già pronto, il mondo, una coppa di bene, — l’amico creatore, che ha ognora un mondo pronto da donare.

E il mondo, come gli si svolse davanti, così si riavvolge davanti a lui ad anelli, come lo scaturire del bene dal male, come lo scaturire dei fini dal caso fortuito.

Il futuro e il lontano sia per te la causa dell’oggi: nel tuo amico devi amare il superuomo come la tua causa.

Fratelli miei, non vi esorto all’amor del prossimo; vi esorto all’amore del lontano.

Così parlò Zarathustra.


 
Del cammino del creatore
Vuoi, tu, fratello mio, andare nell’isolamento? Vuoi cercare il cammino verso te stesso? Indugiati ancora un poco e ascoltami.

«Chi cerca va facilmente perduto. Ogni isolamento è colpa»: così parla il gregge. E tu lungo tempo appartenesti al gregge.

La voce del gregge risuonerà ancora in te. E quando dirai: «Non ho più una coscienza in comune con voi», ci saranno lamenti e dolore.

Ecco, questo dolore fu generato ancora dalla coscienza in comune: e l’ultimo bagliore di questa coscienza è riflesso ancora nella tua amarezza.

Ma tu vuoi andare per il cammino della tua amarezza, che è il cammino verso te stesso? Mostrami allora se hai il diritto e la forza di fare ciò!

Sei una nuova forza e un nuovo diritto? L’inizio di un movimento? Una ruota che gira su se stessa? Sai costringere anche le stelle a ruotare intorno a te?

Ah, c’è tanta cupidigia di vette! C’è spasimo di ambizione! Mostrami che non sei uno di questi libidinosi e ambiziosi!

Ah, ci sono tanti grandi pensieri che non fanno altro che da mantice: gonfiano e rendono più vuoti.

Ti chiami libero? Il tuo pensiero dominante voglio udire e non che ti sei sottratto a un giogo.

Sei uno cui è lecito sottrarsi a un giogo? V’è chi gettò via il suo ultimo valore quando gettò via la sua subordinazione.

Libero da che? Che importa a Zarathustra? Limpido deve annunciarmi il tuo occhio: libero a che scopo!

Sai darti da te il tuo male e il tuo bene e sospendere sopra di te il tuo volere come una legge? Sai essere giudice di te stesso e vindice della tua legge?

Terribile è l’essere soli col giudice e vindice della propria legge. Così una stella viene scagliata fuori nello spazio deserto e nel respiro di ghiaccio della solitudine.

Oggi soffri ancora a causa dei molti, tu uno: oggi hai ancora tutto il tuo coraggio e le tue speranze.

Ma verrà il momento in cui la solitudine ti stancherà, la tua fierezza si piegherà, e il tuo coraggio scricchiolerà. Griderai allora: «Sono solo!»

Non vedrai più la tua altezza e troppo vicina vedrai la tua bassezza; il sublime stesso ti incuterà paura come uno spettro. Griderai allora: «È tutto falso!»

Ci sono sentimenti che vogliono uccidere il solitario; se non vi riescono, sono costretti a morire loro! Ma sei tu capace di questo, di essere assassino?

Conosci già, fratello, la parola «disprezzo»? E il tormento della tua giustizia, di essere giusto con quelli che ti disprezzano?

Tu costringi molti a cambiare opinione al tuo riguardo; essi te ne fanno una grave colpa. Giungesti vicino a loro ma passasti oltre: non te lo perdoneranno mai.

Tu li sorpassi: ma più in alto sali, più piccolo ti vede l’occhio dell’invidia. Più di tutti è odiato chi vale.

«Come potreste voi essere giusti con me!» devi dire «Io mi scelgo la vostra ingiustizia come la parte a me dovuta».

Ingiustizia e sozzura gettano essi sul solitario: ma se vuoi essere una stella, fratello, non devi per questo risplendere oro più debolmente!

E guardati dai buoni e dai giusti. Essi crocifiggono volentieri quelli che si inventano la propria virtù, — odiano il solitario.

Guardati anche dalla santa semplicità! Tutto è per lei impuro quel che non è semplice, le piace anche giocare col fuoco — dei roghi.

E guardati anche dagli assalti del tuo amore! Troppo facilmente il solitario tende la mano a chi incontra.

A certuni non devi dar la mano, ma soltanto la zampa: e io voglio che la tua zampa abbia anche artigli.

Ma il peggior nemico che puoi incontrare sarai sempre tu stesso; tu tendi insidia a te stesso in boschi e caverne.

Solitario, tu sei in cammino verso te stesso! E passa davanti a te il tuo cammino, e ai tuoi sette demoni.

Eretico sarai per te stesso e strega e indovino e buffone, un dubbioso e un impuro e un malvagio.

Devi volerti bruciare dentro la tua fiamma: come vuoi rinnovarti se non sei ridotto in cenere!

Solitario, tu vai per la strada di colui che crea: un dio vuoi crearti dai tuoi sette demoni.

Solitario, tu vai per la strada di colui che ama: te stesso ami e per questo ti disprezzi, come solo chi ama sa disprezzare.

Creare vuole chi ama, poiché disprezza! Che ne sa dell’amore chi non ha dovuto disprezzare proprio ciò che amava!

Col tuo amore va’ nell’isolamento e col tuo creare, fratello, e solo più tardi la giustizia ti seguirà arrancando.

Con le mie lacrime va’ nell’isolamento, fratello mio. Io amo chi vuol creare al di sopra di se stesso e così perisce. —

Così parlò Zarathustra.


 
Di donnicciuole vecchie e giovani
«Perché sgusci timoroso nel crepuscolo, Zarathustra? E che nascondi con cura sotto il mantello?

È un tesoro che ti fu donato? O un figlio che ti partorirono? O sei tu stesso che vai per le vie dei ladri, tu amico dei malvagi?» — In verità, fratello! rispose Zarathustra, è un tesoro che mi fu donato: è una piccola verità che porto con me.

Ma dà in smanie come un bambino piccolo, e se non le tappo la bocca, grida a squarciagola.

Oggi mentre andavo per la mia strada, nell’ora che il sole tramonta, incontrai una vecchierella che così si rivolse alla mia anima: «Molto parlò Zarathustra anche a noi donne; mai tuttavia ci parlò della donna».

E io le risposi: «Della donna si deve discorrere solo con uomini».

«Discorri anche a me della donna» disse lei «sono abbastanza vecchia per dimenticarmene subito».

E io accontentai la vecchierella e così le parlai:

Tutto nella donna è un enigma, e tutto nella donna ha una soluzione: si chiama gravidanza.

L’uomo è per la donna un mezzo: lo scopo è sempre il figlio. Ma che cos’è la donna per l’uomo?

Due cose vuole un vero uomo: pericolo e gioco. Perciò vuole la donna, che è il giocattolo più pericoloso.

L’uomo dev’essere educato alla guerra e la donna al ristoro del guerriero: tutto il resto è sciocchezza.

Frutti troppo dolci — non piacciono al guerriero. Per questo gli piace la donna; amara è anche la donna più dolce.

La donna comprende i bambini meglio di quanto li comprenda un uomo, ma l’uomo è più infantile della donna.

Nel vero uomo è nascosto un bambino: che vuole giocare. Orsù, donne, scoprite il bambino nell’uomo!

Un giocattolo sia la donna, puro e raffinato come pietra preziosa, irradiato dalle virtù di un mondo che non c’è ancora.

Il raggio di una stella risplenda nel vostro amore! La vostra speranza ci chiami: «Possa io partorire il superuomo!»

Nel vostro amore sia intrepidezza! Col vostro amore dovete gettarvi su chi v’incute timore.

Nel vostro amore sia il vostro onore! Giacché del resto la donna poco s’intende di onore. Ma questo sia il vostro onore: amare sempre più di quanto siete amate e non venire mai seconde.

L’uomo tema la donna quando essa ama: essa affronta qualsiasi sacrificio, e ogni altra cosa per lei è priva di valore.

L’uomo tema la donna quando essa odia, perché l’uomo in fondo all’anima è solo malvagio, ma la donna è misera e cattiva.

Chi più d’ogni altro la donna odia? Così parlò il ferro al magnete: «Io odio te più d’ogni altro, perché tu attiri, ma non sei abbastanza forte per attrarre a te».

La felicità dell’uomo si chiama: io voglio. La felicità della donna si chiama: lui vuole.

«Ecco, proprio or ora il mondo divenne perfetto!» — così pensa la donna quando nella pienezza dell’amore obbedisce.

E obbedire deve la donna e trovare una profondità per la propria superficie. Superficie è l’animo della donna, sottile strato, mobile e tempestoso, su un’acqua bassa.

Ma l’animo dell’uomo è profondo, la sua corrente scroscia in caverne sotterranee: la donna ne intuisce la potenza, ma non la comprende. — Allora mi rispose la vecchierella: «Molte cose amabili disse Zarathustra, e soprattutto per quelle che sono ancora abbastanza giovani per questo.

È strano; Zarathustra conosce poco le donne, eppure su di loro ha ragione! Accade forse perché in una donna nessuna cosa è impossibile?

E ora accetta, in ringraziamento, una piccola verità. Sono troppo vecchia per tenermela!

Avvolgila bene e tappale la bocca, altrimenti grida a squarciagola, questa piccola verità».

«Dammi, donna, la tua piccola verità», dissi io. E così parlò la vecchierella:

«Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!» —

Così parlò Zarathustra.


 
Del morso della vipera
Un giorno Zarathustra si era addormentato sotto un fico, perché faceva caldo, e si era coperto il viso con le braccia. Sopraggiunse una vipera e gli morse il collo, così che Zarathustra dal dolore gettò un grido. Staccato il braccio dal viso, guardò il serpente: esso riconobbe gli occhi di Zarathustra e goffamente si girò e voleva andarsene. «Non te ne andare», disse Zarathustra, «non ti ho ancora ringraziata! Mi hai destato in tempo: il mio cammino è ancora lungo».

«Il tuo cammino è ancora breve», disse mesta la vipera «il mio veleno uccide». Zarathustra sorrise. «Quando mai morì un drago per il veleno di un serpente?» disse «Ma riprenditi il veleno! Non sei abbastanza ricca per donarmelo». Allora la vipera gli si avventò di nuovo al collo e gli leccò la ferita.

Quando Zarathustra raccontò ciò ai suoi discepoli, essi chiesero: «E qual è, Zarathustra, la morale della tua storia?» Zarathustra così rispose: Distruttore della morale mi chiamano i buoni e i giusti: la mia storia è immorale.

Se avete un nemico, non ripagategli il male col bene: poiché farebbe vergogna. Dimostrate bensì che anche lui vi ha fatto qualcosa di bene.

Ed è meglio che colpiate con l’ira piuttosto che con la vergogna! E quando vi si maledice, non mi piace che vogliate benedire. Meglio che malediciate un po’ anche voi.

E se vi fu fatto un grande torto, subito voi fatene cinque piccoli! Orribile a vedersi è colui che solo torti opprimono.

Lo sapevate già? Torto diviso è mezza ragione. E subire il torto deve solo colui che lo può sopportare.

Una piccola vendetta è più umana di nessuna vendetta. E se il castigo non è per il trasgressore un diritto e un onore, non voglio nemmeno che castighiate.

È più dignitoso dar torto a se stessi che farsi dare ragione, specialmente quando si ha ragione. Solo che si deve essere abbastanza ricchi per questo.

Non mi piace la vostra fredda giustizia; nell’occhio dei vostri giudici balenano sempre il boia e il suo freddo ferro.

Dite, dove si trova la giustizia che è amore con occhi veggenti?

Inventatemi dunque l’amore che non porta su di sé soltanto il castigo, ma anche tutta la colpa.

Inventatemi dunque la giustizia che assolve ognuno, tolto il giudicante!

Volete udire anche questo? Per chi vuol essere giusto fino in fondo anche la menzogna diventa simpatia umana.

Ma come potrei essere giusto fino in fondo! Come posso dare a ognuno il suo! Questo mi basti: io do a ciascuno il mio.

Infine fratelli, guardatevi dal far torto agli eremiti! Come può un eremita dimenticare! Come può ripagare!

Come una fontana profonda è l’eremita. È facile gettarvi una pietra; ma quando la pietra sia scesa sul fondo, dite, chi la tirerà più fuori?

Guardatevi dall’offendere l’eremita! Ma se l’avete fatto, poi almeno uccidetelo!

Così parlò Zarathustra.


 
Del figlio e del matrimonio
Ho una domanda per te solo, fratello: come uno scandaglio getto questa domanda nella tua anima per sapere quanto è profonda.

Sei giovane e desideri un figlio e il matrimonio. Ma io ti chiedo: sei un uomo cui è lecito desiderare un figlio?

Sei tu il vincitore, il dominatore di te stesso, il padrone dei tuoi sensi, il signore delle tue virtù? Questo ti chiedo.

O nel tuo desiderio parla l’animale o la necessità? O l’isolamento? O l’insoddisfazione di te stesso?

Voglio che a bramare un figlio siano la tua vittoria e la tua libertà. Monumenti viventi devi erigere. Ma prima devi essere eretto tu, squadrato nel corpo e nell’anima.

Non devi solo trapiantarti ma trascenderti! A questo ti aiuti il giardino del matrimonio!

Un corpo più alto devi creare, l’inizio di un movimento, una ruota che giri da se stessa, — un creatore devi creare.

Matrimonio: così si chiami la volontà in due, la volontà di creare l’uno che è più di quelli che lo crearono. Reverenza reciproca chiamo il matrimonio e reverenza per coloro che vogliono di un simile volere.

Questo sia il senso e la verità del tuo matrimonio. Ma ciò che i troppi chiamano matrimonio, questi superflui, — ah, come lo chiamo io?

Ah, questa povertà dell’anima in due! Ah, questo sudiciume in due! Ah, questo misero piacere in due!

Matrimonio lo chiamano loro tutto questo; e dicono che i loro matrimoni sono sanciti in cielo.

Ebbene, io non amo questo cielo dei superflui! No, io non li amo questi animali impigliati nella rete celeste!

Lungi da me il dio che si accosta zoppicando, a benedire ciò che egli non ha unito!

Non ridete di questi matrimoni! Quale figlio non avrebbe motivo di piangere dei propri genitori?

Degno mi era parso quest’uomo e maturo per il senso della terra: ma quando vidi sua moglie, la terra mi parve un ricovero di pazzi.

Sì, vorrei che la terra fremesse per lo spasimo, quando un santo e un’oca si accoppiano.

Questo andò come un eroe in cerca di verità e si guadagnò alla fine una piccola menzogna addobbata. E la chiama il suo matrimonio.

Quello era scontroso nelle sue relazioni e nelle scelte incontentabile. Ma tutt’a un tratto rovinò per sempre la sua compagnia: e lo chiama il suo matrimonio.

Quell’altro cercava una fanciulla docile con le virtù d’un angelo. Ma tutt’a un tratto divenne lui la serva di una donna e ora sarebbe necessario che egli diventasse anche un angelo.

Accorti trovai finora tutti quelli che comprano, e tutti hanno occhi scaltri. Ma anche il più scaltro compra sua moglie dentro un sacco.

Molte sciocchezze di breve durata — questo da voi si chiama amore. E il vostro matrimonio mette fine a molte sciocchezze di breve durata, perché è un’unica lunga sciocchezza.

Il vostro amore per la donna è l’amore della donna per l’uomo: ah, fosse almeno compassione per divinità velate e sofferenti! Ma per lo più è un animale che indovina la presenza dell’altro.

Ma anche il vostro amore migliore è solo una visione dell’estasi e un doloroso ardere. È una fiaccola che deve guidarvi su più alti cammini. Al di sopra di voi stessi dovete amare! Solo così imparate ad amare! E perciò dovete vuotare l’amaro calice del vostro amore.

Amarezza è nel calice anche dell’amore migliore. Così ti mette nostalgia del superuomo, così ti mette sete, creatore!

Sete al creatore, freccia e anelito al superuomo: parla, fratello, è questa la tua volontà di matrimonio?

Santi sono per me tale volontà e tale matrimonio. —

Così parlò Zarathustra.


 
Della libera morte
Molti muoiono troppo tardi, e alcuni muoiono troppo presto. Suona ancora strano l’insegnamento: «Muori al momento giusto!»

Muori al momento giusto: questo insegna Zarathustra.

In verità, chi non vive mai al momento giusto, come potrebbe morire al momento giusto? Bisognerebbe che non fosse mai nato! — Questo consiglio ai superflui.

Ma anche i superflui si danno importanza quando muoiono, e anche il guscio più vuoto vuol essere schiacciato.

Tutti danno importanza al morire: ma la morte non è ancora una festa. Gli uomini ancora non hanno imparato come si celebrano le feste più belle.

La morte come adempimento vi mostro, che diviene per i viventi una spina e una promessa.

L’adempiente muore la sua morte, vittorioso, circondato da persone che sperano e promettono.

Così si dovrebbe imparare a morire; e non ci dovrebbero essere feste dove simile morituro non abbia consacrato giuramenti dei vivi!

Morire così è la cosa migliore; ma la seconda è: morire nella lotta e profondere una grande anima.

Ma a chi lotta come a chi vince è odiosa la vostra morte ghignante, che si avvicina di soppiatto come un ladro — anche se viene da padrona.

La mia morte vi lodo, la libera morte che viene a me perché io voglio.

E quando vorrò? — Chi ha una meta e un erede, quegli vuole la morte al momento giusto per la meta e l’erede.

E per rispetto alla meta e all’erede non appenderà più corone secche nel santuario della vita.

In verità, non voglio somigliare ai funai: essi tirano in lungo la loro fune e intanto camminano sempre a ritroso.

C’è chi diventa troppo vecchio per le sue verità e vittorie; una bocca sdentata non ha più diritto a ogni verità.

E chiunque voglia avere la gloria deve congedarsi per tempo dall’onore ed esercitare la difficile arte di andarsene — al momento giusto.

Bisogna cessare di farsi mangiare quando si ha ancora il sapore migliore: lo sanno quelli che vogliono essere amati a lungo.

Ci sono invero mele aspre la cui sorte è di attendere l’ultimo giorno dell’autunno: ma nel frattempo diventano mature, gialle e rugose.

Ad altri invecchia prima il cuore, ad altri prima lo spirito. E certuni sono vecchi in gioventù: ma essere giovani tardi mantiene giovani a lungo.

A qualcuno la vita non riesce: un verme velenoso gli rode il cuore. Dia almeno l’impressione che il morire gli riuscirà per questo meglio.

Qualcuno non diventa mai dolce, marcisce già durante l’estate. Vita è quel che lo trattiene al suo ramo.

Troppi vivono e troppo a lungo restano sui loro rami. Venisse una tempesta che scrollasse dall’albero tutto questo marciume e pasto di vermi!

Venissero predicatori della morte rapida!. Sarebbero per me le giuste tempeste e i giusti scrollatori degli alberi della vita! Ma io sento solo predicare la morte lenta e pazienza con quanto è «terreno».

Ah, predicate pazienza col «terreno»? È questo «terreno» che ha troppa pazienza con voi, bocche maldicenti!

In verità, troppo presto è morto quell’ebreo che i predicatori della morte lenta onorano; e a molti fu sin d’allora fatale che egli sia morto troppo presto.

Egli conosceva soltanto le lacrime e la malinconia dell’ebreo insieme con l’odio dei buoni e dei giusti, l’ebreo Gesù: e lo assalì la nostalgia della morte.

Fosse rimasto nel deserto e lontano dai buoni e dai giusti! Forse avrebbe imparato a vivere e imparato ad amare la terra — e inoltre a ridere!

Credetemi, fratelli! Egli è morto troppo presto: avrebbe ritrattato lui stesso la sua dottrina, se fosse giunto alla mia età! Era nobile abbastanza per ritrattare!

Ma non era ancora maturato. È immaturo l’amore del giovane e immaturo il suo odio per l’uomo e la terra. Legati e grevi sono ancora il suo animo e le ali del suo spirito.

Ma nell’uomo c’è più bambino che nel giovane, e meno malinconia: egli s’intende della vita e della morte.

Libero verso la morte e libero nella morte, un santo negatore quando non è più tempo per dire sì: così intende la vita e la morte.

Che il vostro morire non sia un insulto all’uomo e alla terra, amici: questo io chiedo al miele della vostra anima.

Nel vostro morire devono brillare il vostro spirito e la vostra virtù, come il crepuscolo che avvolge la terra: oppure il morire vi è mal riuscito.

Voglio morire io stesso perché voi amici per causa mia amiate di più la terra; e terra voglio ritornare, per aver pace in quella che mi generò.

In verità, un fine aveva Zarathustra, egli gettò la sua palla: ora voi amici siete eredi del mio fine, a voi getto la palla d’oro.

Nulla vedo con più piacere di voi, amici miei, che gettate la palla d’oro! E così mi trattengo ancora un poco sulla terra: perdonatemelo!

Così parlò Zarathustra.


 
Della virtù che dona

 
Capitolo 1
Quando Zarathustra ebbe preso congedo dalla città a cui era devoto il suo cuore e il cui nome suona «Vacca pezzata», — molti lo seguirono che si chiamavano suoi discepoli e gli fecero da scorta. Così giunsero a un crocicchio: qui Zarathustra disse loro che ora voleva proseguire da solo; poiché era amico del peregrinare solitario. E i suoi discepoli congedandosi gli offrirono un bastone la cui impugnatura d’oro recava un serpente attorcigliato attorno a un sole. Zarathustra si rallegrò del bastone e vi si appoggiò; e così parlò ai suoi discepoli: Ditemi: perché l’oro ascese al massimo pregio? Perché è infrequente e inutile e rilucente di mite splendore; esso si dona sempre.

Soltanto come immagine della massima virtù ascese al massimo pregio? Aureo riluce lo sguardo di chi dona. Aureo splendore conchiude la pace tra luna e sole.

Infrequente è la massima virtù e inutile, e riluce di mite splendore: una virtù che dona è la massima virtù.

In verità, io leggo in voi, miei discepoli; voi aspirate come me alla virtù che dona. Che cosa avreste in comune con lupi e felini?

Questa è la vostra sete, divenire voi stessi vittime e doni: e perciò avete sete di accumulare tutte le ricchezze nella vostra anima.

Insaziabile aspira la vostra anima a tesori e gioielli, poiché la vostra virtù è insaziabile nel vostro donare.

Voi costringete tutte le cose a venire a voi e ad entrare in voi, di modo ch’esse rifluiscano dalla vostra sorgente come i doni del vostro amore.

In verità, tale amore che dona deve diventare un rapinatore di tutti i valori; ma sacrosanto chiamo questo egoismo. — Ma c’è un altro egoismo, troppo povero, famelico, che vuole sempre rubare, l’egoismo dei malati, l’egoismo malato.

Con l’occhio del ladro guarda tutto ciò che splende; con la smania della fame misura colui che ha da mangiare abbondantemente; e sempre s’aggira intorno alla tavola dei donatori.

Malattia parla in questa brama e invisibile degenerazione; dal corpo malato parla la ladra cupidigia di questo egoismo.

Ditemi, fratelli: che cosa consideriamo pessimo e peggio di tutto? Non è la degenerazione! — E sempre pensiamo a degenerazione, quando manca l’anima che dona.

In alto va la nostra strada, dalla specie alla super-specie. Ma un obbrobrio è per noi la mente degenerante che dice: «Tutto per me».

In alto vola la nostra mente: così è simbolo del nostro corpo, immagine di un’elevazione. Simboli di tali elevazioni sono i nomi delle virtù.

Così va il corpo attraverso la storia, divenendo e lottando. E lo spirito — che cos’è per esso? Araldo compagno ed eco delle sue lotte e vittorie.

Simboli sono tutti i nomi del bene e del male: essi non spiegano, accennano soltanto. Stolto chi vuol da loro attingere, sapere.

Badate, fratelli, in ogni istante in cui il vostro spirito vuol parlare per simboli: là è la scaturigine della vostra virtù.

Elevato è allora il vostro corpo e risorto; con la sua delizia incanta lo spirito ed esso diviene creatore e valutatore e amante e benefattore di tutte le cose.

Quando il vostro cuore ribolle ampio e colmo, simile al fiume, benedizione e minaccia per gli abitanti delle rive: là è la scaturigine della vostra virtù.

Quando vi elevate al di sopra di lode e biasimo, e la vostra volontà vuole comandare a tutte le cose, come la volontà di chi ama: là è la scaturigine della vostra virtù.

Quando siete volenti di una sola volontà e tale svolta culminante d’ogni fatalità si chiama per voi necessità: là è la scaturigine della vostra virtù.

In verità, essa è un nuovo bene e male! In verità, un nuovo mormorio profondo e la voce di una nuova sorgente!

Potenza è questa nuova virtù; è un pensiero dominante e intorno ad esso sta un’anima intelligente: un sole d’oro, e intorno ad esso il serpente della conoscenza.


 
Capitolo 2
Qui tacque Zarathustra per un poco e guardò con amore i suoi discepoli. Quindi riprese a parlare: — e la sua voce si era trasformata.

Restate fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù! Il vostro amore che dona e la vostra conoscenza serva al senso della terra. Ve ne prego e scongiuro.

Non lasciatela volare via dalla terra e sbattere con le ali contro mura eterne! Ah, ci fu sempre tanta virtù svanita!

Riportate, come me, sulla terra la virtù svanita, sì, al corpo e alla vita: che dia alla terra il suo senso, un senso umano!

In cento modi si persero e dispersero finora tanto lo spirito che la virtù. Ah, nel nostro corpo, abita ancora tanta illusione e dispersione: sono diventati corpo e volontà.

In cento modi esperimentarono ed errarono finora tanto lo spirito che la virtù. Sì, l’uomo fu un tentativo. Ah, molta ignoranza ed errore sono diventati in noi corpo!

Non solo la ragione di millenni — anche la loro follia erompe in noi. È pericoloso essere eredi.

Ancora lottiamo a ogni passo col colosso caso e sull’umanità intera regnò finora il non senso, il senza-senso.

Il vostro spirito e la vostra virtù servano al senso della terra, fratelli: e sia di nuovo stabilito da voi il valore di tutte le cose! Perciò dovete essere lottatori! Perciò dovete essere creatori!

Col sapere si purifica il corpo; esperimentando con sapienza esso si eleva; in colui che conosce si santificano tutti gli istinti; all’elevato l’anima si fa gaia.

Medico, aiuta te stesso: così aiuterai anche il tuo malato. Sarà l’aiuto migliore per lui vedere con gli occhi uno che risana se stesso.

Mille sentieri ci sono, per cui nessuno è ancora andato, mille salvezze e isole nascoste di vita. Inesauribili e inesplorati sono tuttora uomo e terra dell’uomo.

Vegliate e state in ascolto, solitari! Dal futuro giungono venti dal battito d’ala segreto; e a orecchi fini perviene una buona novella.

Voi solitari di oggi, voi che vi appartate, dovrete diventare un popolo: da voi, che scegliete voi stessi, deve nascere un popolo eletto: — e da esso il superuomo.

In verità, un luogo di guarigione deve diventare la terra! Già l’avvolge un nuovo profumo, un profumo di salvezza, — e una nuova speranza.


 
Capitolo 3
Quando Zarathustra ebbe detto ciò, tacque come uno che non ha ancora detto la sua ultima parola; a lungo fece oscillare il bastone nella sua mano, esitando. Alla fine così parlò — e la sua voce si era trasformata: Vado solo adesso, miei discepoli! Anche voi andatevene ora, e soli. Così io voglio.

In verità, vi consiglio: andatevene da me e difendetevi contro Zarathustra! E ancora meglio: vergognatevi di lui! Forse egli v’ingannò.

L’uomo della conoscenza non deve amare solo i suoi nemici, ma poter odiare anche i suoi amici.

Si ripaga male un maestro se si rimane sempre soltanto discepolo. E perché non volete strappare foglie alla mia corona?

Voi mi venerate; ma che succederebbe se la vostra venerazione un giorno crollasse? Badate che io non vi infranga un simulacro!

Dite che credete in Zarathustra? Ma che cosa importa Zarathustra! Voi siete i miei fedeli: ma che importano tutti i fedeli!

Non vi eravate ancora cercati: e trovaste me. Così fanno tutti i fedeli; per questo tutta la fede è così poca cosa.

Ora vi comando di perdermi e di trovarmi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato, voglio tornare a voi.

In verità, con altri occhi, fratelli, cercherò allora in miei perduti; con un altro amore vi amerò.

E dovrete ancora diventare miei amici e figli di un’unica speranza: allora sarò per la terza volta con voi, a festeggiare con voi il grande meriggio.

E il grande meriggio è quando l’uomo si trova a metà del suo cammino tra la bestia e il superuomo e celebra il suo cammino verso la sera come la sua massima speranza: poiché è il cammino verso un nuovo mattino.

Allora il tramontante benedirà se stesso come uno che passa al di là; e il sole della sua conoscenza sarà per lui in pieno meriggio.

«Morti sono tutti gli dei: ora vogliamo che viva il superuomo» — questa sia, nel grande meriggio la nostra ultima volontà! —

Così parlò Zarathustra.


 
Parte seconda
— e solo quando mi avrete tutti rinnegato, voglio tornare a voi.

In verità, con altri occhi, fratelli, cercherò allora i miei perduti; con un altro amore vi amerò.

Zarathustra


 
Il fanciullo con lo specchio
Allora Zarathustra tornò sulla montagna e nella solitudine della sua caverna e si sottrasse agli uomini: attendendo come un seminatore che ha sparso il suo seme. Ma la sua anima si riempì d’impazienza e di brama per quelli che amava: poiché aveva da dare loro ancora molto. Questa appunto è la cosa più difficile: per amore chiudere la mano aperta e pur donando conservare il pudore.

Così trascorsero per il solitario mesi ed anni; ma la sua sapienza cresceva e la sua sovrabbondanza gli causava dolori.

Ma una mattina si destò prima dell’alba, a lungo meditò steso sul suo giaciglio e infine parlò al proprio cuore: «Perché nel mio sogno mi spaventai al punto di svegliarmi? Non mi si avvicinava un fanciullo che recava uno specchio?

“O Zarathustra”, mi diceva il bambino “guardati nello specchio!”

Ma quando mi guardai nello specchio, gettai un grido, e il mio cuore fu sconvolto: giacché non vidi me stesso, ma il ceffo e il ghigno di un demonio.

In verità, fin troppo bene capisco il segno e l’ammonimento del sogno: la mia dottrina è in pericolo, la gramigna vuole chiamarsi grano.

I miei nemici sono diventati potenti e hanno deformato l’immagine della mia dottrina, al punto che i miei diletti debbono vergognarsi dei doni che diedi loro.

Perduti andarono i miei amici; è giunta l’ora di cercare i miei perduti!»—

Con queste parole Zarathustra balzò in piedi, non come un oppresso che cerca l’aria, ma piuttosto come un veggente e un cantore che lo spirito assale. Meravigliati, lo guardarono la sua aquila e il suo serpente: poiché simile all’aurora splendeva sul suo volto una felicità a venire.

Che m’è accaduto, animali miei? — disse Zarathustra. Non sono trasformato? Non è venuta a me la beatitudine come un turbine?

Stolta è la mia felicità e dirà stoltezze: è ancora troppo giovane — abbiate pazienza con lei!

Sono ferito dalla mia felicità: tutti i sofferenti devono essermi medici!

Posso ridiscendere dai miei amici e anche dai miei nemici! Zarathustra può di nuovo parlare e donare e fare per i suoi diletti quanto v’è di più diletto!

Il mio amore impaziente trabocca a fiumi, discende verso oriente e occidente. Da silenziose montagne e tempeste di dolore scrosciò la mia anima giù nelle valli.

Troppo a lungo provai nostalgia e guardai lontano. Troppo a lungo appartenni alla solitudine: così disimparai il silenzio. Ora divenni tutto bocca e mormorio di un torrente scaturito da alte rupi: giù nelle valli voglio far precipitare il mio discorso.

E possa precipitare il mio fiume d’amore anche in luoghi impervi! Come potrebbe un fiume non trovare alla fine il cammino verso il mare!

Un lago è dentro di me, un lago solitario, che basta a se stesso; ma il mio fiume d’amore lo trascina a valle con sé — al mare!

Vado per nuovi cammini, un nuovo linguaggio mi viene; mi sono stancato, come tutti i creatori, delle vecchie lingue. Non vuole più camminare il mio spirito su suole consunte.

Troppo lento è per me ogni discorso: — sul tuo carro balzo, tempesta! E anche te voglio frustare con la mia cattiveria!

Come un grido di giubilo voglio attraversare lontani mari, finché trovi le isole beate dove soggiornano i miei amici. — E tra loro i miei nemici! Come amo ognuno con cui mi è dato di parlare! Anche i miei nemici appartengono alla mia beatitudine.

E quando voglio montare sul più selvaggio dei miei cavalli, la mia lancia mi aiuta meglio di tutti a salire: essa è il servo sempre pronto del mio piede. — La lancia che io scaglio contro i miei nemici! Come ringrazio i miei nemici di poterla infine scagliare!

Troppo grande era la carica della mia nube: tra risate di folgori voglio scagliare nel profondo rovesci di grandine.

Possente si solleverà allora il mio petto, possente soffiava la sua tempesta sulle montagne: così proverà sollievo.

In verità, come una tempesta vengono a me la mia felicità e la mia libertà! Ma i miei amici debbono credere che il maligno imperversi sul loro capo.

Sì, anche voi sarete spaventati, amici miei, della mia selvaggia saggezza; e forse la fuggirete insieme con i miei nemici.

Ah, se sapessi richiamarvi con flauti pastorali! Ah, se la mia leonessa sapienza imparasse a ruggire con tenerezza! Molte cose imparammo già insieme!

La mia selvaggia sapienza ingravidò sulle montagne solitarie; su ruvide pietre generò il suo piccolo, il suo ultimo nato.

Ora corre come folle per il duro deserto e cerca e cerca una soffice zolla erbosa — la mia vecchia selvaggia sapienza.

Sulla soffice zolla dei vostri cuori, amici, nel vostro amore vorrebbe coricare il suo diletto! —

Così parlò Zarathustra.


 
Sulle isole beate
I fichi cadono dagli alberi, sono buoni e dolci; e alla caduta la loro pelle rossa si spacca. Io sono un vento del nord per fichi maturi.

Così, simili a fichi, cadono davanti a voi questi insegnamenti, amici: sorbite il loro succo e la loro dolce polpa! Tutt’intorno è autunno e cielo puro e pomeriggio.

Vedete quale abbondanza è intorno a noi? E nella sovrabbondanza è bello guardar lontano, verso mari lontani.

Una volta si diceva Dio, quando si guardavano mari lontani; ma io v’insegnai a dire: superuomo.

Dio è una supposizione: ma io voglio che il vostro supporre non arrivi più lontano della vostra volontà creatrice.

Potreste creare un dio? — Allora non parlatemi di dei! Potreste però creare il superuomo.

Forse non voi stessi, fratelli! Ma potreste trasformarvi in padri e antenati del superuomo: e questo sia il vostro miglior creare! — Dio è una supposizione: ma io voglio che il vostro supporre resti nei limiti della pensabilità.

Potreste pensare un dio? — Ma questo significhi per voi volontà di verità, che tutto si trasformi in umanamente pensabile, in umanamente visibile, in umanamente sensibile! Dovete pensare fino in fondo i vostri sensi!

E ciò che chiamaste mondo, dev’essere creato da voi: la vostra ragione, la vostra immagine, la vostra volontà, il vostro amore deve diventare mondo! E, in verità, ciò sarà per la vostra beatitudine, o voi che perseguite la conoscenza.

E come vorreste sopportare la vita senza questa speranza, voi che perseguite la conoscenza? Né all’inconcepibile né all’irragionevole dovreste essere nati.

Ma per aprirvi tutto il mio cuore, amici: se ci fossero dei, come sopporterei di non essere un dio! Dunque non ci sono dei.

Trassi la conclusione; ora essa trae me. —

Dio è una supposizione; ma chi berrebbe tutto il tormento di questa supposizione senza morirne? Si deve togliere al creatore la sua fede e all’aquila il suo spaziare in lontananze d’aquila?

Dio è un pensiero che fa storto tutto ciò che è diritto e fa girare quello che sta fermo. Come? Il tempo sarebbe soppresso e tutto il caduco solo menzogna?

Pensare così è vortice e vertigine alle ossa umane e dà anche il vomito allo stomaco: in verità, supporre questo io lo chiamo soffrire di capogiri.

Cattivo lo chiamo e misantropo: tutto questo insegnare di un Uno, perfetto e immobile e sazio e imperituro!

Tutto l’imperituro non è che un simbolo! E i poeti mentono fin troppo. —

Del tempo e del divenire devono parlare i migliori simboli: una lode debbono essere e una giustificazione di tutta la caducità!

Creare — questa è la grande liberazione dal dolore e l’alleggerirsi della vita. Ma perché il creatore sia, è necessario dolore e molta trasformazione.

Sì, molto amaro morire dev’essere nella vostra vita, creatori. Così siete gli affermatori e i giustificatori di ogni caducità.

Perché il creatore sia egli stesso il figlio che viene di nuovo partorito, egli deve voler essere anche colei che partorisce e il dolore di colei che partorisce.

In verità, attraverso cento anime sono andato e attraverso cento culle e doglie del parto. Più d’una volta presi congedo; conosco le ultime ore che spezzano il cuore.

Ma così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino. O, per dirvelo più sinceramente: questo destino lo vuole — proprio la mia volontà.

Tutto ciò che è sensibile soffre in me ed è in prigione: ma il mio volere giunge sempre come liberatore e rasserenatore.

Volere libera: questa è la vera dottrina della volontà e della libertà — così ve la insegna Zarathustra.

Non volere più e non valutare più e non creare più! Ah, che questa grande stanchezza sia sempre lungi da me!

Anche nel conoscere sento soltanto la gioia di generare e di divenire della mia volontà; e se la mia conoscenza è innocente, ciò accade perché in essa è volontà di generare.

Lontano da dio e dei mi attrasse questa volontà; che ci sarebbe da creare, se ci fossero — gli dei!

Verso l’uomo mi spinge sempre di nuovo la mia ardente volontà di creare; così si sente spinto il martello verso la pietra.

Ah, uomini, nella pietra dorme un’immagine, l’immagine delle mie immagini! Ah, che debba dormire nella più dura, più odiosa pietra!

Ora infuria crudele il mio martello contro la sua prigione. La pietra si scheggia; che me ne importa?

Voglio finire l’opera: poiché venne a me un’ombra — di tutte le cose la più silenziosa e leggera!

La bellezza del superuomo venne a me come ombra. Ah, fratelli! Che m’importano ancora — gli dei! —

Così parlò Zarathustra.


 
Dei compassionevoli
Amici miei, al vostro amico giunse una voce di scherno: «Guardate Zarathustra! Non passa tra noi come tra bestie?»

Ma sarebbe meglio dire così: «Colui che conosce passa tra gli uomini come tra bestie».

L’uomo per colui che conosce si chiama: la bestia che ha le guance rosse.

Come è avvenuto ciò? Non è perché ha dovuto troppo spesso vergognarsi?

O amici! Così parla colui che conosce: vergogna, vergogna — questa è la storia dell’uomo!

E per questo l’uomo nobile s’impone di non causare vergogna: vergogna e pudore egli impone a se stesso di fronte a tutto ciò che soffre.

In verità, non mi piacciono i pietosi che sono beati nel loro compassionare: troppo mancano di pudore.

Se debbo essere compassionevole, non voglio però chiamarmi tale; e se lo sono, allora meglio di lontano.

Volentieri mi velo il capo e fuggo prima di essere riconosciuto; e così ordino di fare anche a voi, amici miei!

Possa il destino condurre sulla mia strada sempre esseri senza dolore, uguali a voi, ed esseri coi quali mi sia dato avere in comune speranza, cibo e miele.

In verità, ho fatto questo e quello per i sofferenti: ma mi parve sempre di far meglio quando imparavo a rallegrarmi meglio.

Dacché vi sono uomini, l’uomo si è rallegrato troppo poco: questo solo, fratelli, è il nostro peccato originale!

E nella misura in cui impariamo a rallegrarci meglio disimpariamo a far male ad altri e ad escogitare il male.

Perciò mi lavo la mano che aiutò il sofferente, perciò mi detergo anche l’anima.

Di aver visto soffrire il sofferente mi vergogno per causa della sua vergogna; e quando lo aiutai, offesi duramente il suo orgoglio.

Grandi favori non rendono riconoscenti, bensì desiderosi di vendetta; e se il piccolo beneficio non viene dimenticato, si trasforma in un tarlo.

«Siate restii nell’accettare! Sottolineate così che accettate!» — consiglio a quelli che non hanno nulla da donare.

Ma io sono uno che dona; volentieri dono, amico agli amici. Ma anche poveri ed estranei possono cogliere da sé frutti dal mio albero: così provoca meno vergogna.

Ma i mendicanti bisognerebbe abolirli! In verità, dare a loro irrita, e irrita anche non dare.

E lo stesso è dei peccatori e delle cattive coscienze! Credetemi, amici: i rimorsi educano a mordere.

Ma peggio di tutto sono i pensieri piccini. In verità è meglio una cattiva azione che un pensiero piccino.

Voi dite: «Il piacere delle piccole cattiverie ci risparmia più d’una cattiva azione». Ma qui non si dovrebbe voler risparmiare.

Come un bubbone è la cattiva azione: prude, smania e scoppia, — cioè parla sinceramente.

«Ecco, io sono malattia» — dice la cattiva azione; questa è la sua sincerità.

Ma uguale al fungo è il pensiero piccino: s’insinua, si rannicchia e non vuol essere in nessun posto, finché tutto il corpo non è marcio e appassito e coperto di piccoli funghi.

Ma a colui che è posseduto dal diavolo dico questa parola all’orecchio: «Sarebbe meglio che tu facessi crescere il tuo diavolo! Anche per te ci sarebbe così ancora una via di grandezza!» — Ah! fratelli! Di ognuno si sa sempre qualcosa di troppo! E qualcuno ci diventa trasparente, ma non per questo possiamo passare dentro di lui.

È difficile vivere con gli uomini, perché così difficile è il silenzio.

E non verso chi ci è odioso siamo più ingiusti, bensì verso chi non ci riguarda affatto.

Se poi hai un amico che soffre, sii per il suo soffrire un luogo di riposo, ma al tempo stesso un letto duro, un letto da campo: così più che in un altro modo gli gioverai.

E se un amico ti fa qualcosa di male, digli: «Ti perdono quel che mi hai fatto; ma che tu l’abbia fatto a te, — come potere perdonarlo!»

Così parla ogni grande amore: esso supera anche il perdono e la compassione.

Si deve tener saldo il proprio cuore; se si lascia andare, presto si perde anche la testa!

Ah, dove nel mondo accaddero stoltezze maggiori che presso i compassionevoli? E che cosa nel mondo causò più sofferenza delle stoltezze del compassionevole?

Guai a chi ama e non può collocarsi più in alto della propria compassione!

Così mi disse una volta il diavolo: «Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini».

E poco tempo fa gli sentii dire questa parola: «Dio è morto; Dio è morto della sua compassione per gli uomini».

Così guardatevi dalla compassione: di là s’aduna sugli uomini una nube cupa! In verità me ne intendo di segni meteorologici!

Ma ritenete anche questa parola: ogni grande amore è al di sopra di tutta la sua compassione: perché vuole ancora — creare la cosa amata!

«Offro me stesso al mio amore, al mio prossimo come a me» — così devono dire tutti i creatori.

Tutti i creatori sono duri. —

Così parlò Zarathustra.


 
Dei preti
E una volta Zarathustra fece ai suoi discepoli un cenno e disse loro queste parole:

«Qui ci sono dei preti: ma anche se sono miei nemici, passate loro accanto in silenzio lasciando dormire la spada!

Anche tra voi ci sono eroi; molti di voi soffrirono troppo: — così vogliono far soffrire altri.

Sono nemici cattivi: nulla è più vendicativo della loro umiltà. E facilmente s’imbratta chi li assale.

Ma il mio sangue è parente del loro; e io voglio sapere il mio sangue onorato nel loro». —

E quando furono passati oltre, Zarathustra fu preso dal dolore; e non aveva lottato ancora a lungo col suo dolore che prese così a parlare: Questi preti mi fanno pietà! E sono contrari al mio gusto; ma questo sarebbe il meno, da quando io sono fra gli uomini.

Ma io soffro e soffersi con loro: per me sono dei prigionieri e dei segnati. Colui che chiamano liberatore li mise in catene.

In catene di falsi valori e folli parole! Ah, se uno li redimesse dal loro redentore!

Su un’isola credettero allora di approdare, quando il mare li circondò da ogni parte; ed ecco che era un mostro addormentato!

Falsi valori e folli parole: sono i peggiori mostri per i mortali, — a lungo dorme e attende in essi il destino.

Ma alla fine giunge: si desta e divora e inghiotte chi si edificò capanne sopra di lui.

Oh, guardate le capanne che questi preti si edificarono! Chiese chiamano essi le loro spelonche dolceodoranti!

O questa luce falsa, quest’aria intanfita! Qui dove all’anima non è dato di — volare alle sue vette!

Perché così comanda la loro fede: «Su per la scala in ginocchio, voi peccatori!»

In verità, preferisco vedere uno spudorato, piuttosto che gli occhi stravolti del loro pudore e della loro adorazione.

Chi si creò simili spelonche e scale di penitenza? Non furono coloro che si volevano nascondere e si vergognavano del cielo puro?

E solo quando il cielo puro guarderà attraverso le volte squarciate, guarderà l’erba e il rosso papavero lungo i muri squarciati, — voglio rivolgere di nuovo il mio cuore ai luoghi di questo dio.

Chiamarono Dio quel che li contraddiceva e faceva loro male: e in verità c’era molto di eroico nella loro adorazione!

E non seppero amare il loro dio in altro modo se non crocifiggendo l’uomo!

Come cadaveri pensarono di vivere, di nero pararono il loro cadavere; anche nei loro discorsi sento lo sgradevole aroma delle camere mortuarie.

E chi vive vicino a loro, vive vicino a negri stagni, da cui il rospo fa sentire il suo canto pieno di dolce profondità.

Canti migliori dovrebbero cantarmi, perché io imparassi a credere al loro redentore: più redenti dovrebbero apparirmi i suoi discepoli!

Nudi vorrei vederli: perché solo la bellezza dovrebbe predicare penitenza. Ma chi dovrebbe essere convinto da questa mestizia travestita!

In verità, i suoi redentori non vennero dalla libertà e dal settimo cielo della libertà! In verità, essi non camminarono mai sui tappeti della conoscenza!

Di lacune consisteva lo spirito di questi redentori; ma in ogni lacuna avevano messo la propria illusione, il riempitivo che chiamarono dio.

Nella loro compassione era affogato il loro spirito, e quando essi si riempivano e traboccavano di compassione, sopra galleggiava sempre una grande stoltezza.

Con zelo e alte grida spingevano il loro gregge sul loro sentiero: quasi vi fosse un solo sentiero verso il futuro! In verità, anche questi pastori erano ancora pecore!

Piccoli spiriti e anime spaziose avevano questi pastori: ma, fratelli, che piccoli paesi erano finora anche le anime più spaziose!

Fecero segni di sangue sul cammino che percorrevano e la loro stoltezza insegnò che la verità si dimostra col sangue.

Ma il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena la dottrina più pura e la cambia in follia e odio dei cuori.

E se uno va nel fuoco per la propria dottrina, che cosa dimostra! In verità è meglio che la propria dottrina venga da un incendio proprio.

Cuore torbido e testa fredda: quando s’incontrano, nasce il vento impetuoso, il «redentore».

Ci furono uomini più grandi e di più alta nascita di quelli che il popolo chiama redentori, questi venti impetuosi che travolgono!

E da uomini più grandi di tutti i redentori dovete essere redenti, fratelli, se volete la via della libertà!

Non ci fu mai finora un superuomo. Nudi vidi entrambi, il più grande e il più piccolo:

Sono troppo simili fra loro. In verità, anche il più grande lo trovai — troppo umano!

Così parlò Zarathustra.


 
Dei virtuosi
Con tuoni e celesti fuochi d’artificio si deve parlare a sensi fiacchi e addormentati.

Ma la voce della bellezza parla sommessa: essa s’insinua soltanto nelle anime più deste.

Sommesso vibrò e rise oggi il mio scudo; è il santo riso e il santo vibrare della bellezza.

Di voi, virtuosi, rise oggi la mia nuova bellezza. E così mi giunse la sua voce: «Vogliono essere anche — pagati!».

Volete anche essere pagati, voi virtuosi! Volete avere ricompensa per la virtù e il cielo per la terra ed eternità per il vostro oggi?

E vi adirate con me perché io insegno che non esiste un amministratore di paghe e ricompense? Né in verità io insegno che la virtù sia premio a se stessa.

Ah, questa è la mia tristezza: la menzogna ha iniettato ricompensa e castigo dentro tutte le cose e ora anche dentro le vostre anime, voi virtuosi!

Ma come il grugno del cinghiale e la mia parola deve lacerare il fondo delle vostre anime; vomere voglio essere per voi.

Tutti i segreti del vostro fondo debbono venire alla luce; e quando giacerete al sole sconvolti e squarciati, anche la vostra menzogna si separerà dalla vostra verità.

Giacché questa è la vostra verità: siete troppo puliti per il sudiciume delle parole: vendetta, castigo, mercede, ricompensa.

Voi amate la vostra virtù, come la madre il figlio; ma quando mai si udì che una madre volesse essere pagata per il suo amore?

È la cosa a voi più cara, la vostra virtù. In voi è la smania dell’anello: raggiungere se stesso; per questo si sforza e s’incurva ogni anello.

E come la stella che si spegne è ogni opera della vostra virtù: la sua luce resta in viaggio e continuerà a camminare — quando cesserà d’essere in viaggio?

Così la luce della vostra virtù è ancora in viaggio, anche quando l’opera è compiuta. Può essere dimenticata e morta: il suo raggio di luce vive e continua a camminare.

Che la vostra virtù sia voi stessi e non qualcosa di estraneo, non una pelle, un involucro: questa è la verità dal fondo della vostra anima, o virtuosi! — Ma ci sono certuni per cui la virtù è spasimo sotto una frusta: e voi avete prestato fin troppo orecchio alle loro grida!

E ci sono altri che chiamano virtù il marcire dei loro vizi; e quando il loro odio e la loro gelosia esalano l’ultimo respiro, la loro «giustizia» si sveglia e si strofina gli occhi assonnati.

E ci sono altri che sono trascinati dai loro demoni. Ma quanto più sprofondano, tanto più acceso si fa il loro occhio e la brama e l’anelito verso il loro dio.

Ah, anche le grida di questi giunsero ai vostri orecchi, voi virtuosi: «Quel che io non sono, questo, questo mi è dio e virtù!»

E vi sono altri che avanzano grevi e scricchiolando, come carri che trasportino pietre in discesa: parlano molto di dignità e virtù: — la loro zeppa d’arresto la chiamano virtù!

E ci sono altri che somigliano a orologi a carica giornaliera e che sono stati appunto caricati; fanno tic tac e vogliono che si chiami il tic tac — virtù.

In verità, con costoro mi diverto: dove trovo simili orologi, li carico con il mio scherno, e devono anche ronzare!

E altri sono fieri del loro pugno di giustizia e per essa commettono delitti contro tutte le cose: così che il mondo affoga nella loro ingiustizia.

Ah, come suona male in bocca a loro la parola «virtù»! E quando dicono: «io sono giusto», suona sempre come: «io sono vendicato!».

Con la loro virtù vogliono cavare gli occhi ai loro nemici; e si elevano soltanto per abbassare altri.

E poi ci sono certuni che se ne stanno nella loro palude e così parlano dal canneto: «Virtù — è starsene tranquilli nella palude.

Noi non mordiamo nessuno e scansiamo chi vuol mordere; e di tutto abbiamo l’opinione che ci danno».

E poi ci sono certuni che amano i gesti e pensano: la virtù è una specie di gesto.

Le loro ginocchia adorano sempre, e le loro mani sono sempre levate in celebrazioni della virtù, ma il loro cuore non ne sa nulla.

E poi ci sono certuni che credono sia virtù dire: «La virtù è necessaria»; ma essi credono in fondo soltanto che la polizia sia necessaria.

E certuni, che non riescono a vedere nulla di alto negli uomini, chiamano virtù il vedere troppo da vicino quanto è in loro di basso: così chiamano virtù il loro occhio maligno.

E alcuni vogliono essere edificati e raddrizzati e chiamano questo virtù; e altri vogliono essere rovesciati, e chiamano anche questo virtù.

E in tal modo credono quasi tutti fermamente di avere parte alla virtù; o perlomeno ognuno vuole essere un conoscitore di «bene» e «male».

Ma Zarathustra non venne per dire a tutti questi mentitori e buffoni: «Che ne sapete voi di virtù! Che cosa potreste sapere di virtù!

Venne bensì perché voi, amici, vi stancaste delle vecchie parole che avete appreso dai buffoni e dai mentitori: Vi stancaste delle parole «mercede», «ricompensa», «castigo», «vendetta nella giustizia». — Vi stancaste di dire: «Un’azione è buona se è altruistica».

Ah, amici miei! Che il vostro se stesso sia nell’azione come la madre nel figlio: questa sia la vostra parola sulla virtù!

In verità, io vi tolsi cento parole e i più cari trastulli della vostra virtù e voi vi adirate con me, come si adirano i bambini.

Giocavano sulla riva del mare, — arrivò l’onda e portò con sé nel profondo il loro trastullo: adesso piangono.

Ma la stessa onda deve portar loro nuovi trastulli e rovesciargli davanti nuove conchiglie variopinte!

Così si consoleranno; e come loro dovete avere anche voi, amici, i vostri conforti — e nuove conchiglie variopinte! —

Così parlò Zarathustra.


 
Della plebe
La vita è una sorgente di gioia; ma dove beve anche la plebaglia, tutti i pozzi sono avvelenati.

Di tutto ciò che è puro sono amico; ma non posso vedere i musi ghignanti e la sete degli impuri.

Gettarono l’occhio nel pozzo: ora il loro ripugnante sorriso mi risplende dal pozzo fin quassù.

L’acqua santa hanno avvelenato con la loro libidine; e quando chiamarono i loro sporchi sogni gioia, avvelenarono anche le parole.

Sdegnosa diventa la fiamma quando essi espongono al fuoco i loro cuori umidi; lo spirito gorgoglia e fuma quando la plebaglia si accosta al fuoco.

Dolciastro e flaccido diventa il frutto nella loro mano: debole al vento e secco in cima rende il loro sguardo l’albero da frutta.

E certuni che si distaccarono dalla vita, si distaccarono soltanto dalla plebaglia: non vollero dividere pozzo, fiamma e frutto con la plebaglia.

E certuni che andarono nel deserto e soffrirono la sete con gli animali da preda, non volevano semplicemente sedere intorno alla cisterna con sudici cammellieri.

E certuni che vennero come distruttori e come grandine per i campi feraci volevano soltanto piantare il piede nelle fauci alla plebaglia e serrarle la gola.

E non è questo il boccone che più spesso mi soffoca, sapere che la vostra vita stessa ha bisogno d’inimicizia e di morte e di crocefissioni: — Chiesi bensì, e la mia domanda quasi mi strozzò: come? Alla vita è necessaria anche la plebaglia?

Sono necessari pozzi avvelenati e fuochi puzzolenti e sogni sporcati e vermi nel pane della vita?

Non il mio odio, ma il mio disgusto rosicò famelico la mia vita! Ah, spesso mi stancai dello spirito, quando trovai piena di spirito anche la plebaglia!

E ai dominatori voltai le spalle quando vidi che cosa essi ora chiamano dominare: trafficare e mercanteggiare per il potere — con la plebaglia!

Tra popoli di lingua straniera vissi con gli orecchi chiusi: perché la lingua del loro trafficare mi rimanesse straniera e così il loro mercanteggiare per il potere.

E turandomi il naso andai di malavoglia attraverso tutto lo ieri e l’oggi: in verità, tutto lo ieri e l’oggi puzzano di plebaglia scrivente!

Come uno storpio divenuto sordo e cieco e muto: così vissi lungamente per non vivere con la plebaglia che domina e scrive e gode.

A fatica saliva le scale il mio spirito, e con circospezione; elemosine del piacere erano il suo ristoro; la vita trascorreva per il cieco appoggiata al bastone.

Che cosa mi accadde? Come mi liberai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come giunsi volando a un’altezza dove intorno al pozzo non c’è più seduta la plebaglia?

Il mio disgusto stesso mi diede ali e forze presaghe di fonti? In verità, dovetti volare nel luogo più alto per ritrovare la sorgente della gioia!

Fratelli miei, la trovai! Qui nel luogo più alto mi sgorga la sorgente della gioia! E c’è una vita cui non beve nessuna plebaglia!

Quasi troppo impetuosa mi fluisci, fonte della gioia! E spesso vuoti la coppa perché la vuoi riempire di nuovo!

E devo ancora imparare ad accostarmi a te con più umiltà: troppo impetuoso ti scorre ancora incontro il mio cuore: — Il mio cuore, su cui arde la mia estate, breve, calda, melanconica, piena di beatitudine: come brama il cuore estivo la tua frescura!

Passata è la titubante mestizia della mia primavera! Passata la cattiveria dei miei fiocchi di neve in giugno! Diventai tutto estate e meriggio d’estate!

Un’estate nel luogo più alto con fredde fonti e beato silenzio: venite, amici, che il silenzio diventi ancor più beato!

Giacché questa è la nostra altezza e la nostra patria: troppo alta e troppo ripida è la nostra dimora quassù per tutti gli impuri e per la loro sete.

Gettate i vostri occhi puri nella sorgente della mia gioia, amici! Come potrebbe intorpidirsi! Vi risponderà col riso della sua purezza.

Sull’albero del futuro edifichiamo il nostro nido; aquile porteranno cibo a noi solitari nei loro rostri!

In verità, non è cibo di cui possano mangiare gli immondi! Fuoco crederebbero di mangiare e le loro bocche rimarrebbero scottate!

In verità, qui non teniamo dimore pronte per immondi! Una spelonca di ghiaccio sarebbe per i loro corpi la nostra felicità e per i loro spiriti!

E come venti forti vogliamo vivere al di sopra di loro, vicini alle aquile, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono i venti forti.

E come un vento voglio soffiare tra loro e col mio spirito mozzare il respiro al loro spirito: così vuole il mio futuro.

In verità, un vento forte è Zarathustra per tutti i bassopiani; e tale consiglio consiglia ai suoi nemici e a tutti quelli che sputano e vomitano: «Guardatevi dal vomitare contro il vento!».

Così parlò Zarathustra.


 
Delle tarantole
Ecco, questa è la spelonca della tarantola! Vuoi proprio vederla? Qui è sospesa la sua tela: toccala, che tremi.

Eccola venire di buona voglia: benvenuta, tarantola! Nero hai sul dorso il tuo triangolo e contrassegno, e so anche quel che hai nell’anima.

Vendetta hai nell’anima: dove mordi cresce una crosta nera; con la vendetta il tuo veleno fa turbinare l’anima!

Così parlo a voi con una similitudine, voi che fate turbinare le anime, voi predicatori dell’uguaglianza! Tarantole siete per me e nascostamente vendicativi!

Ma io voglio portare alla luce i vostri nascondigli: perciò vi rido in faccia il mio riso dell’altitudine.

Perciò do strappi alla vostra tela, perché la vostra rabbia vi attiri fuori dalla vostra spelonca di menzogne, e la vostra vendetta salti fuori dietro la vostra parola «giustizia».

Infatti che l’uomo sia redento dalla vendetta è per me il ponte verso la più alta speranza e un arcobaleno dopo lunghi temporali.

Ma le tarantole vogliono altrimenti. «Proprio questo sia per noi la giustizia: che il mondo sia pieno dei temporali della nostra vendetta» — così parlano tra loro.

«Vendetta vogliamo infliggere e biasimo a tutti quelli che non sono uguali a noi» — così si ripromettono i cuori di tarantola.

«E “volontà di uguaglianza” — deve diventare d’ora in poi il nome della virtù; e contro tutto ciò che ha potere vogliamo levare le nostre grida!»

Voi predicatori dell’uguaglianza, la follia tirannica dell’impotenza grida in voi chiedendo «uguaglianza»: le vostre più segrete voglie tiranniche si travestono dunque da parole di virtù.

Inasprita presunzione, invidia trattenuta, forse presunzione e invidia dei vostri padri: da voi esplode come fiamma e follia di vendetta.

Ciò che il padre tacque, parla nel figlio; e spesso il figlio mi apparve il segreto denudato del padre.

Agli entusiasti assomigliano: ma non è il cuore che li entusiasma, bensì la vendetta. E quando divengono fini e freddi, non è lo spirito, ma l’invidia che li rende fini e freddi.

La loro gelosia li conduce anche sul sentiero dei pensatori; e questo è il segno della loro gelosia, che vanno sempre troppo in là: che la loro stanchezza alla fine è costretta a mettersi a dormire sulla neve.

In ogni loro lamento risuona la vendetta, in ogni loro lode c’è un’offesa; ed essere giudici sembra loro la beatitudine.

Così vi consiglio, amici: diffidate di tutti coloro in cui potente è l’impulso a punire!

È gente di pessima specie ed origine; sul loro volto traspaiono il carnefice e il segugio.

Diffidate di tutti coloro che parlano della propria giustizia. In verità, alle loro anime non manca soltanto il miele.

E quando chiamano se stessi «i buoni e i giusti» non dimenticate che per essere farisei non manca loro che — il potere.

Amici miei, non voglio essere mescolato e confuso con loro.

Ci sono certuni che predicano la mia dottrina della vita: e sono a un tempo predicatori dell’uguaglianza e delle tarantole.

Che essi parlino in favore della vita, sebbene se ne stiano nelle loro spelonche, questi ragni velenosi, e appartati dalla vita: è soltanto perché vogliono con ciò recare offesa.

Vogliono recare offesa a quelli che ora hanno il potere giacché più che altrove è di casa presso costoro la predica della morte.

Fosse diversamente, le tarantole insegnerebbero diversamente: e proprio costoro furono un tempo i migliori calunniatori del mondo e bruciatori di eretici.

Con questi predicatori dell’uguaglianza non voglio essere mescolato e confuso. Poiché così parla a me la giustizia: «Gli uomini non sono uguali».

E nemmeno debbono diventarlo! Che cosa sarebbe il mio amore per il superuomo se io parlassi diversamente?

Per mille ponti e sentieri debbono spingersi verso il futuro, e tra loro dev’essere posta sempre più guerra e disuguaglianza: così mi fa parlare il mio grande amore!

Inventori d’immagini e di spettri devono diventare nelle loro inimicizie e con le loro immagini e i loro spettri devono combattere gli uni contro gli altri il supremo combattimento!

Bene e male, ricco e povero, alto e infimo, e tutti i nomi dei valori: armi devono essere e tintinnanti segnali di questo, che la vita deve sempre di nuovo superarsi!

In alto vuole edificarsi, con pilastri e gradini, la vita stessa: vuole spaziare con lo sguardo in lontananza, verso beate bellezze, — per questo ha bisogno di altezza!

E perché ha bisogno di altezza, ha bisogno di gradini e di contraddizione fra i gradini e quelli che vi salgono! Salire vuole la vita e salendo superarsi.

Ed ecco, amici miei! Qui dov’è la spelonca della tarantola, sorgono le rovine di un antico tempio, — guardate con occhi illuminati!

In verità, chi un tempo in questo luogo accumulò i suoi pensieri in una torre di pietra conosceva il segreto di tutta la vita al pari del più saggio!

Che perfino nella bellezza vi siano lotta e disuguaglianza e guerra per il dominio e per il predominio: egli ce lo insegna con la più chiara parabola.

Come qui divinamente si scontrano volte ed archi nella lotta: come combattono con luce ed ombra uno contro l’altro, i divini anelanti lottatori. — Così sicuri e belli, lasciate che siamo anche nemici, amici miei! Vogliamo combattere, anelare divinamente l’uno contro l’altro!

Ahimé! Ecco che la tarantola, la mia vecchia nemica, morse anche me! Con divina sicurezza e bellezza, mi morse il dito!

«Ci devono essere castigo e giustizia»: così pensa essa «non per nulla egli deve intonare canzoni in onore dell’inimicizia!»

Sì, si è vendicata! E ahimé! Ora con la sua vendetta farà girare anche la mia anima!

Ma affinché io non giri, amici miei, legatemi saldamente a questa colonna! Preferisco essere un santo sulla colonna che un vortice della vendetta!

In verità, Zarathustra non è un vento turbinante e vorticante, e se è un danzatore, mai e poi mai è un danzatore della tarantola! —

Così parlò Zarathustra.


 
Dei famosi saggi
Il popolo avete servito e la superstizione del popolo, voi tutti famosi saggi! — e non la verità! E proprio per questo vi si tributò reverenza.

E anche per questo si sopportò la vostra incredulità, perché era una finzione e un giro vizioso per giungere al popolo. Così il padrone lascia fare i suoi schiavi e trae diletto dalla loro petulanza.

Ma chi è inviso al popolo come un lupo ai cani: è lo spirito libero, il nemico dei vincoli, il non-adorante, colui che dimora nei boschi.

Scacciarlo dal suo rifugio — per il popolo si chiamò sempre «avere il sentimento della giustizia»: contro di lui esso aizza sempre tra i suoi cani quelli che hanno le zanne più taglienti.

Poiché «la verità è qui: è pur qui il popolo! Guai, guai ai cercatori!» così si grida da che mondo è mondo.

Volevate creare un diritto al vostro popolo nella sua venerazione: lo chiamaste «volontà di verità», voi famosi saggi!

E il vostro cuore disse sempre tra sé: «Venni dal popolo: di là mi venne anche la voce di Dio».

Testardi e intelligenti come l’asino foste sempre, nella veste di mediatori del popolo.

E qualche potente che voleva andare d’accordo col popolo attaccò davanti ai suoi cavalli anche — un asinelio, un famoso saggio.

E ora vorrei, famosi saggi, che finalmente gettaste da voi la pelle di leone!

La pelle dell’animale da preda, maculata, e la criniera del dotto, del cercatore, del conquistatore!

Ah, perché io imparassi a credere alla vostra «veracità», dovreste prima spezzare davanti a me la vostra volontà di veneratori.

Verace — chiamo colui che va in deserti senza dei e che ha spezzato il proprio cuore di veneratore.

Nella sabbia gialla e arso dal sole, egli cerca assetato con l’occhio le isole ricche di fonti, dove gli esseri viventi riposano sotto cupi alberi.

Ma la sua sete non lo persuade a diventare uguale a questi che godono; poiché dove sono oasi, là sono anche simulacri di idoli.

Famelica, violenta, solitaria, senza dio: così vuole se stessa la volontà del leone.

Libera dalla felicità dei servi, sciolta da dei e adorazioni, imperterrita e terribile, grande e solitaria: così è la volontà del verace.

Nel deserto abitarono sempre i veraci, gli spiriti liberi, come signori del deserto; nelle città abitano i ben nutriti, i famosi saggi, — le bestie da tiro.

Giacché sempre tirano, come asini — il carro del popolo!

Non che io mi adiri con loro per questo: ma per me essi restano servi e aggiogati, anche se risplendono sotto finimenti d’oro.

E spesso furono servi buoni e pregevoli. Poiché così parla la virtù: «Se devi essere servo, cercati uno cui il tuo servizio torni utile più che ad altri!

Lo spirito e la virtù del tuo padrone debbono crescere perché tu sei il suo servo: così cresci tu stesso con il suo spirito e la sua virtù!»

E, in verità, famosi saggi, servi del popolo! Voi stessi crescete con lo spirito e la virtù del popolo — e il popolo attraverso voi! A vostro onore lo dico!

Ma popolo rimanete nelle vostre virtù, popolo con occhi stupidi, — popolo che non sa che cos’è lo spirito!

Spirito è la vita che immerge il coltello nella vita; nel proprio tormento s’accresce il proprio sapere, — lo sapevate già?

E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime a vittima del sacrificio, — lo sapevate già?

E la cecità del cieco e il suo cercare e brancolare deve testimoniare la potenza del sole a cui egli guardava, — lo sapevate già?

E con montagne deve imparare a edificare colui che conosce! È troppo poco per lo spirito muovere le montagne, — lo sapevate già?

Voi conoscete solo la scintilla dello spirito: ma non vedete l’incudine che esso è, e non la crudeltà del suo martello!

In verità, non conoscete l’orgoglio dello spirito! Ma meno ancora sopportereste la modestia dello spirito, se questa volesse parlare!

E finora mai vi fu dato di gettare il vostro spirito in una fossa piena di neve: non siete abbastanza ardenti per questo! Così non conoscete nemmeno le delizie del suo gelo.

In tutto vi prendete troppa confidenza con lo spirito; e della saggezza spesso faceste un ospizio e un ospedale per cattivi poeti.

Non siete aquile: così non provaste nemmeno la felicità nello spavento dello spirito. E chi non è un uccello, non deve accovacciarsi sopra gli abissi.

Siete dei tiepidi: ma fredda sgorga ogni profonda conoscenza. Di ghiaccio sono le più intime fonti dello spirito: refrigerio sono per mani brucianti e per mani laboriose.

Rispettabili mi state davanti e rigidi e con la schiena diritta, voi famosi saggi! — nessun vento, nessuna forte volontà vi sospinge.

Non vedeste mai una vela sul mare, arrotondata e gonfia e tremante per l’impeto del vento?

Come la vela, tremante per l’impeto dello spirito, va la mia selvaggia saggezza!

Ma voi servi del popolo, voi famosi saggi, come potreste venire con me! —

Così parlò Zarathustra.


 
Il canto notturno
È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche la mia anima è una fontana zampillante.

È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche la mia anima è il canto di un amante.

In me è qualcosa d’inappagato e d’inappagabile: vuole prender voce. Una brama d’amore è in me che parla la lingua dell’amore.

Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, essere cinto di luce.

Ah, fossi scuro e notturno! Come succhierei i semi della luce!

E benedirei anche voi, piccole stelle sfavillanti e lucciole lassù! — e sarei beato dei vostri doni di luce.

Ma io vivo nella mia propria luce, ringhiotto le fiamme che da me si sprigionano.

Non conosco la felicità di chi prende; e spesso sognai che rubare dev’essere ancor più beato che prendere.

Questa è la mia povertà, che la mia mano non riposi mai dal donare; questa è la mia invidia, vedere occhi in attesa e le illuminate notti del desiderio.

O infelicità di tutti coloro che donano! O eclissi del mio sole! O brama di bramare! O fame nella sazietà!

Essi prendono da me: ma tocco io ancora la loro anima? C’è un abisso fra il dare e il prendere; e il più piccolo abisso è l’ultimo ad essere superato.

Fame nasce dalla mia bellezza; vorrei far male a quelli cui faccio luce, derubare, quelli cui donai: — tanta fame ho di cattiveria.

La mia pienezza escogita tale vendetta: dalla mia solitudine sgorga questa malizia.

La mia felicità di donare morì nel donare, la mia virtù si stancò di se stessa per la propria sovrabbondanza!

Il pericolo di chi sempre dona è che perda il pudore; la mano di chi sempre distribuisce ha i calli per il troppo distribuire.

Il mio occhio non si riempie più di lacrime davanti alla vergogna di chi chiede; la mia mano diventò troppo dura per il tremito di mani colme.

Dov’è andata la lacrima del mio occhio e la tenera piuma del mio cuore? O solitudine di tutti quelli che danno! O muto silenzio di tutti quelli che fanno luce!

Molti soli ruotano nello spazio vuoto: a tutto quello che è scuro parlano con la loro luce, — con me tacciono.

Ingiusto nel profondo del cuore contro ogni cosa che fa luce, freddo verso i soli — così cammina ogni sole.

Come tempeste volano i soli per le loro strade, questo è il loro camminare. Seguono la propria volontà inesorabile: questa è la loro freddezza.

Oh, siete solo voi, voi scuri, voi notturni che create calore da ciò che fa luce! Voi soli a bere latte e refrigerio dalle mammelle della luce!

Ah, ghiaccio è intorno a me, la mia mano si brucia su cose di ghiaccio! Ah, sete è in me, che langue e brama la vostra sete!

È notte: ah, dover essere luce! E sete di cose notturne! E solitudine!

È notte: come una sorgente ora sgorga da me il mio desiderio, — desiderio di parlare.

È notte: ora parlano forte tutte le fontane zampillanti. E anche la mia anima è una fontana zampillante.

È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche la mia anima è il canto di un amante. —

Così cantò Zarathustra.


 
Il canto di danza
Una sera Zarathustra andava con i suoi discepoli per il bosco; e cercando una fontana, ecco che giunse su un prato verde, circondato da alberi e arbusti silenziosi: su di esso danzavano delle fanciulle tra loro. Appena le fanciulle riconobbero Zarathustra, interruppero la danza; ma Zarathustra si accostò loro con gesto amico e disse queste parole: «Non interrompete la danza, care fanciulle! Non venne a voi un guastafeste col malocchio né un nemico delle fanciulle.

Sono il mediatore di Dio presso il demonio: ma questi è lo spirito di gravità. Come potrei, voi leggere, essere nemico di danze divine? Di piedi di fanciulle dai bei malleoli?

Io sono un bosco ed una notte di cupi alberi: e chi non ha timore della mia cupezza trova anche spalliere di rose sotto i miei cipressi.

E trova anche il piccolo dio che è più di tutti caro alle fanciulle: accanto alla fontana giace, silenzioso, con gli occhi chiusi.

In verità, di giorno chiaro s’addormentò, il ladruncolo! Si affaticò forse troppo inseguendo farfalle?

Non vi adirate con me, belle danzatrici, se punisco un poco il piccolo dio! Griderà e piangerà, — ma fa ridere anche quando piange!

E con le lacrime agli occhi deve chiedervi una danza; e io stesso voglio cantare un canto per la sua danza:

Un canto di danza e di scherno per lo spirito della grevità, il mio altissimo e onnipotente demonio, di cui dicono che sia il “signore del mondo”». — E questo è il canto che Zarathustra cantò quando Cupido e le fanciulle danzarono insieme:

Nei tuoi occhi or ora guardai, o vita! E nell’insondabile mi parve di sprofondare.

Ma tu mi tirasti fuori con un amo d’oro; schernevole ridesti, quando ti chiamai insondabile.

«Così parlano tutti i pesci»; dicesti «quel che essi non riescono a sondare lo chiamano insondabile.

Ma io sono soltanto mutevole e selvaggia e in tutto una donna, e non virtuosa:

Anche se per voi uomini mi chiamo “la profonda” o “la fedele”, “l’eterna”, la “misteriosa”.

Ma voi uomini ci fate sempre dono delle vostre virtù, ah, voi virtuosi!»

Così rideva, l’incredibile; ma io non credo mai a lei e al suo sorriso, quando essa dice male di se stessa.

E quando io parlai a quattr’occhi con la mia selvaggia saggezza, essa esclamò adirata: «Tu vuoi, tu brami, tu ami, solo per questo lodi la vita!»

Avrei quasi risposto male e detto la verità all’adirata; e non si può rispondere in modo peggiore che «dicendo la verità» alla propria saggezza.

Così stanno le cose fra noi tre. Nel profondo amo solo la vita — e, in verità, più che mai quando la odio!

Che io voglia bene e spesso troppo bene alla saggezza avviene solo perché essa mi ricorda moltissimo la vita!

Ha i suoi occhi, il suo riso e persino la sua canna dall’amo d’oro: che posso io se si somigliano tanto?

E una volta che la vita mi chiese: chi è dunque la saggezza? — io risposi frettoloso: «Ah sì! La saggezza!

Si ha sete di lei e mai ci si disseta, si guarda attraverso veli, si brancola dentro reti.

È bella? Che ne so! Ma le carpe più vecchie si adescano ancora con lei.

È mutevole e ostinata; spesso la vidi mordersi il labbro e pettinarsi la chioma alla rovescia.

Forse è cattiva e falsa, e in tutto una donna; ma è proprio quando parla male di se stessa che più che mai seduce».

Quando dissi questo alla vita, essa rise malignamente e chiuse gli occhi. «Di chi stai parlando?» disse «Di me, vero?

E anche se tu avessi ragione, — dirmelo così in faccia! Ma adesso parla anche un po’ della tua saggezza!»

Ah, ed ora apristi di nuovo gli occhi, o amata vita! E nell’insondabile mi parve di nuovo di sprofondare. —

Così cantò Zarathustra. E quando la danza fu terminata e le fanciulle se ne furono andate, si rattristò.

«Il sole è già tramontato da un pezzo»; disse egli infine «il prato è umido, dai boschi spira frescura.

Qualcosa di sconosciuto aleggia intorno a me e mi guarda pensieroso. Come? Sei ancora vivo, Zarathustra?

Perché? A che scopo? Per mezzo di che cosa? In che direzione? Dove? Come?

Non è stoltezza vivere ancora? —

Ah, amici, è la sera che così m’interroga. Perdonatemi la mia tristezza!

Si è fatta sera: perdonatemi che si sia fatta sera!»

Così parlò Zarathustra.


 
II canto funebre
«Là è l’isola dei sepolcri, la silenziosa; là sono anche i sepolcri della mia giovinezza. Laggiù voglio recare una corona sempreverde della vita».

Con questa risoluzione nel cuore attraversai il mare.

O voi, volti e figure della mia giovinezza! O voi sguardi d’amore, voi istanti divini! Mi moriste così presto! Oggi volgo il pensiero a voi come ai miei morti.

Da voi, miei diletti morti, giunge a me un dolce odore, che scioglie il cuore e le lacrime. In verità, scuote e scioglie il cuore al navigatore solitario.

Sono pur sempre il più ricco e il più invidiabile, io, il più solitario! Poiché io avevo voi, e voi mi avete ancora; dite, a chi caddero come a me tali mele rosa dall’albero?

Sono pur sempre l’erede e la terra del vostro amore, fiorente in vostra memoria di variopinte selvatiche virtù, o voi diletti!

Ah, noi eravamo fatti per rimanere vicini, voi soavi strani prodigi; e non come uccelli spauriti veniste a me e alla mia brama — no, ma come fiduciosi al fiducioso!

Sì, fatti per la fedeltà, come me, e per tenere eternità: devo ora chiamarvi secondo la vostra infedeltà, voi sguardi e istanti divini: nessun altro nome imparai ancora.

In verità, troppo presto mi moriste, fuggitivi. Ma non fuggiste me né io fuggii voi: innocenti siamo l’uno verso l’altro nella nostra infedeltà.

Per uccidere me strozzarono voi, uccelli canori delle mie speranze!

Sì, contro di voi, diletti, scoccò sempre i suoi strali la cattiveria — per colpire il mio cuore! —

E colpì! Eravate da sempre la mia cosa più cara, il mio possesso e il mio essere posseduto: perciò doveste morir giovani e troppo presto!

Contro la cosa più vulnerabile che possedevo fu scagliata la freccia: e questa eravate voi, la cui pelle è come lanugine o, piuttosto, come sorriso ucciso da uno sguardo.

Ma una parola ai miei nemici: che cos’è qualsiasi omicidio in confronto a quello che faceste a me!

Più atroce di un omicidio fu quello che mi faceste; mi prendeste l’irrecuperabile: questo vi dico, nemici!

Assassinaste le visioni e i più cari prodigi della mia giovinezza! Mi prendeste i miei compagni di gioco, gli spiriti beati! Sulla loro memoria depongo questa corona e questa maledizione.

Questa maledizione contro di voi, miei nemici! Accorciaste la mia eternità, come un vaso di coccio che si spezza in una fredda notte! Solo come un balenare d’occhi divini giunse a me, — come fuggevole istante!

Così parlò in un’ora propizia la mia purezza: «Divini devono essere per me tutti gli esseri».

Allora mi assaliste con sporchi spettri; ah, dove fuggì la mia ora propizia!

«Tutti i giorni devono essere per me sacri» — così parlava un tempo la saggezza della mia giovinezza: in verità, parole di una gaia saggezza!

Ma allora voi nemici mi rubaste le mie notti e le vendeste per il mio insonne tormento.

Un tempo bramavo fausti segni di uccelli: allora spingeste nella mia strada un mostruoso gufo, un ripugnante gufo. Ah, dove fuggì allora la mia tenera brama?

Promisi di tenermi lontano da ogni disgusto: allora voi trasformaste i miei vicini e i miei cari in ascessi purulenti. Ah, dove fuggì allora la mia più nobile promessa?

Da cieco andavo un tempo per beate vie: allora voi gettaste lordura sulla vita del cieco: e ora l’antico sentiero disgusta il cieco.

E quando io feci quanto vi era di più arduo e celebrai la vittoria dei miei superamenti: allora voi faceste sì che quelli che mi amavano gridassero che facevo loro male, più male che ad ogni altro.

In verità, questo fu sempre il vostro agire: mesceste il fiele nel mio miglior miele e nell’industriosità delle mie migliori api.

Alla mia carità inviaste sempre i mendicanti più sfacciati; intorno alla mia compassione spingeste sempre gli spudorati incurabili. Così feriste le mie virtù nella loro fede.

E quando offrii quanto avevo di più santo in sacrificio: di volo la vostra «religiosità» pose accanto al mio i suoi doni più grassi: cosicché nei fumi del vostro grasso quanto avevo di più santo soffocò.

E una volta volevo danzare come non danzai mai: al di là di tutti i cieli volevo danzare. Allora convinceste il mio cantore più caro.

Ed egli intonò una melodia opaca e sinistra; ah, egli mi suonò negli orecchi come un tetro corno!

Cantore assassino, strumento della cattiveria, più di tutti innocente! Ero già pronto alla più bella danza: quando tu assassinasti la mia estasi con le tue note!

Solo nella danza so dire i simboli delle cose supreme: — ed ora il mio supremo simbolo rimase nelle mie membra, non detto!

Non detta e irrisolta mi rimase la massima speranza! E mi morirono tutte le visioni e i conforti della mia giovinezza!

Come sopportai? Come guarii e superai tali ferite? Come risorse la mia anima da questi sepolcri?

Sì, c’è qualcosa d’invulnerabile, d’inseppellibile in me, qualcosa che frantuma le rocce: si chiama la mia volontà. Silenziosa e immutata resta al passare degli anni.

Vuole camminare con i miei piedi la mia vecchia volontà; duro di cuore e invulnerabile è il suo fine.

Invulnerabile io sono soltanto nel tallone. Ancora vivi e sei uguale a te stessa, pazientissima! Ancora una volta ti facesti strada fra tutti i sepolcri!

In te vive ancora ciò che non si è risolto nella mia gioventù; e come vita e gioventù te ne stai ancora qui, su gialle rovine di sepolcri, sperando.

Sì, tu sei quella che trasforma tutti i sepolcri in rovine: salute a te, mia volontà! E soltanto dove ci sono sepolcri, ci sono risurrezioni. —

Così cantò Zarathustra.


 
Dell’autosuperamento
«Volontà di verità» chiamate, voi saggi fra i saggi, ciò che vi muove e vi accende?

Volontà di rendere pensabile tutto l’essere: così chiamo io la vostra volontà.

Tutto l’essere volete rendere pensabile: poiché dubitate, con giusta diffidenza, che sia pensabile.

Ciò nonostante esso deve uniformarsi e piegarsi a voi! Così vuole la vostra volontà. Piatto e liscio deve diventare e soggetto allo spirito come suo specchio e riflesso.

Questa è tutta la vostra volontà, voi saggi fra i saggi, ed è una volontà di potenza; e anche quando parlate del bene e del male e delle valutazioni.

Creare volete ancora il mondo davanti al quale potervi genuflettere: ecco la vostra ultima speranza ed ebbrezza.

Gli insipienti, invero, il popolo, — sono come un fiume su cui naviga una barca: e nella barca stanno, solenni e travestite, le valutazioni.

La vostra volontà e i vostri valori li metteste sul fiume del divenire; un’antica volontà di potenza mi si rivela ciò che dal popolo è creduto essere il bene e il male.

Voi foste, saggi fra i saggi, che metteste nella barca quei passeggeri e deste loro sfarzo e nomi superbi, voi e la vostra volontà dominante!

Ora il fiume porta con sé la vostra barca: esso deve portarla. Poco importa se l’onda infranta spumeggi e contraddica irata alla chiglia!

Non è il fiume il vostro pericolo e la fine del vostro bene e male, voi saggi fra i saggi: bensì quella stessa volontà, la volontà di potenza, — l’inesausta e generante volontà di vita.

Ma affinché comprendiate la mia parola sul bene e sul male, voglio dirvi anche la mia parola sulla vita e sull’essenza di tutto il vivente.

Sulle orme del vivente andai, andai per le strade più grandi e più piccole, per conoscere la sua essenza.

Con centuplice specchio colsi il suo sguardo, quando la sua bocca era chiusa: perché mi parlasse il suo occhio. E il suo occhio mi parlò.

Ma dove trovai essere vivente, là udii anche il discorso dell’obbedienza. Ogni essere vivente è qualcosa che obbedisce.

E questa è la seconda cosa: riceve comandi colui che non sa obbedire a se stesso. Tale è l’essenza dell’essere vivente.

E la terza cosa che udii è: che comandare è più difficile che obbedire. E non solo che chi comanda porta il peso di tutti coloro che obbediscono e che questo peso è facile che lo schiacci: — Un tentativo e un azzardo scorsi in ogni comandare; e ogni volta che comanda, l’essere vivente azzarda se stesso.

— Anche quando comanda a se stesso: anche allora deve scontare il suo ordinare. Della propria legge deve diventare il giudice, il vincitore, e la vittima.

Come può avvenire ciò? Mi chiesi. Che cosa induce l’essere vivente ad obbedire e a comandare e a esercitare obbedienza anche nel comando stesso?

Udite solo una parola, saggi fra i saggi! Esaminate attentamente se io sia penetrato fino al cuore della vita e fino alle radici del suo cuore!

Dove trovai essere vivente, là trovai volontà di potenza; e anche nella volontà di chi serve trovai la volontà di essere padrone.

A credere che il più debole debba servire il più forte, il più debole è persuaso dalla sua stessa volontà, che vuole essere padrona di un più debole ancora: a questo solo piacere esso non può sottrarsi.

E come il più piccolo si dà al più grande, perché questo tragga piacere e potenza dal più piccolo: così anche il più grande di tutto a sua volta si dà e per la potenza mette in gioco — la vita.

Questo è il darsi più grande, che è azzardo e pericolo, e giocare a dadi la morte.

E dove ci sono sacrificio, servigi e sguardi d’amore: anche là è volontà di essere padrone. Per sentieri tortuosi penetra il più debole nella roccaforte e dentro il cuore del più potente — e ruba potenza.

E questo segreto me lo svelò la vita stessa: «Ecco», — disse «io sono ciò che deve sempre superare se stessa.

In verità, voi chiamate ciò volontà di concepimento o impulso alla meta, al più alto, al lontano, al molteplice: ma è tutt’uno ed è un segreto unico.

Preferisco tramontare che rinnegare quest’uno; e in verità, dove c’è tramonto e caduta di foglie, ecco, là si sacrifica la vita — per la potenza!

Che io debba essere lotta e divenire e meta e contraddizione delle mete: ah, chi indovina la mia volontà indovina anche su quali strade torte essa deve andare!

Qualunque cosa io crei e per quanto l’ami, presto devo essere avversario suo e del suo amore: così vuole la mia volontà.

E anche tu che conosci, sei solo un sentiero e un’orma della mia volontà: in verità, la mia volontà di potenza cammina anch’essa ai piedi della tua volontà di verità!

Non colpì la verità colui che scagliò verso di essa la parola “volontà di esistere”: questa volontà — non c’è.

Poiché: quel che non c’è non può nemmeno volere; ma quel che è già nell’esistenza come potrebbe voler ancora esistere!

Solo dove c’è vita c’è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì — così t’insegno — volontà di potenza!

Molte cose per l’essere vivente valgono più della vita; ma nel valutare stesso si manifesta — la volontà di potenza!»

Così m’insegnò un tempo la vita; e tramite questo vi sciolgo, saggi fra i saggi, l’enigma del vostro cuore.

In verità, vi dico: bene e male imperituro non c’è! Da se stesso deve sempre di nuovo superarsi.

Con i vostri valori e le vostre parole di bene e male esercitate violenza, voi valutatori; e questo è il vostro amore nascosto e lo splendore, il tremore, il traboccare della vostra anima.

Ma dai vostri valori emerge un potere più forte e un nuovo superamento: in cui si rompono l’uovo e il guscio dell’uovo.

E chi dev’essere un creatore nel bene e nel male: in verità dev’essere un distruttore e infrangere valori.

Così il massimo male va congiunto alla massima bontà: ma questa è creativa. —

Parliamone, almeno, saggi fra i saggi, sebbene sia male. Tacere è peggio; tutte le verità taciute diventano velenose.

E s’infranga pur tutto quello che nelle nostre verità — può infrangersi! Restano pur da costruire ancora delle case!

Così parlò Zarathustra.


 
Dei sublimi
Calmo è il fondo del mio mare: chi immaginerebbe che nascondesse mostri faceti!

Imperturbabile è la mia profondità: ma vi nuotano luccicanti enigmi e risate.

Un sublime vidi oggi, un solenne, un penitente dello spirito: oh, come rise la mia anima sulla sua bruttezza!

Col petto gonfio come uno che inspiri: così stava davanti a me il sublime, e taciturno:

Bardato di brutte verità, suo bottino di caccia, e ricco di vesti lacerate; aveva anche molte spine — ma rose non ne vidi.

Ancora non imparò il ridere e la bellezza. Tetro rientrò questo cacciatore dal bosco della conoscenza.

Dalla battaglia tornò a casa recando con sé delle bestie feroci: ma nella sua serietà traspare ancora una fiera selvaggia — indomabile!

Ed è rimasto là, pronto, come una tigre che vuol spiccare un balzo; ma non mi piacciono queste anime tese, avverso è il mio gusto a tutti questi ritirati.

E voi mi dite, amici, che di gusti e palato non si disputa? Ma tutta la vita è una disputa di gusti e palato!

Gusti: è a un tempo peso e piatto della bilancia e pesatore; e guai ad essere vivente che volesse vivere senza contesa e peso e piatto della bilancia e pesatori!

Se si stancasse della sua sublimità, questo sublime: solo allora incomincerebbe la sua bellezza e solo allora io vorrei gustarlo e trovarlo gustoso.

E soltanto quando si distaccherà da se stesso, salterà al di là della propria ombra — e, in verità! dentro il suo sole.

Troppo a lungo rimase all’ombra, al penitente dello spirito impallidirono le guance; morì quasi di fame nelle sue aspettative.

Disprezzo è ancora nel suo occhio; e nausea ha sulla bocca.

Ora riposa, sì, ma il suo riposo non si è ancora disteso al sole.

Come il toro dovrebbe fare; e la sua felicità dovrebbe odorare di terra e non di disprezzo della terra.

Come toro bianco vorrei vederlo, precedere l’aratro sbuffando e mugghiando: e il suo muggito dovrebbe lodare tutto il terrestre!

Oscuro è ancora il suo volto; l’ombra della mano vi gioca ancora sopra. Adombrata è la vista del suo occhio.

La sua azione stessa è ancora l’ombra su di lui: la mano oscura che agisce. Egli non ha ancora superato la sua azione.

Di lui mi piace, sì, la nuca taurina: ma ora voglio vedergli anche l’occhio dell’angelo.

Anche la sua volontà eroica deve ancora disimparare: deve essere un sollevato e non soltanto un sublime: — l’etere stesso dovrebbe sollevarlo, liberato dal peso della volontà!

Domò mostri, sciolse enigmi: ma doveva anche riscattare i suoi mostri, ed enigmi, doveva trasformarli in figli celesti.

La sua conoscenza non ha ancora imparato a sorridere e ad essere senza gelosia: la sua fluente passione non si è ancora placata nella bellezza!

In verità, non nella sazietà deve tacere ed immergersi la sua brama, ma nella bellezza! La grazia fa parte della magnificenza dei magnanimi.

Il braccio intorno alla testa: così dovrebbe riposare l’eroe, così dovrebbe superare il proprio riposo.

Ma proprio per l’eroe il bello è la più difficile tra le cose. Inconquistabile è il bello a ogni volontà irruenta.

Un po’ più, un po’ meno: proprio questo qui è molto, qui è moltissimo.

Stare coi muscoli rilassati e la volontà libera dai finimenti: questa è la cosa più difficile per tutti voi sublimi.

Quando la potenza si fa grazia e discende nel visibile: bellezza chiamo questo discendere.

E da nessuno voglio come da te bellezza, tu possente: la tua bontà sia il tuo ultimo autosuperamento.

Ti credo capace di ogni male: perciò voglio da te il bene.

In verità, ho riso spesso dei deboli che si credono buoni perché hanno zampe paralitiche!

Alla virtù della colonna devi tendere: essa diventa sempre più bella e più tenera, ma all’interno più dura e tenace, quanto più in alto sale.

Sì, o sublime, una volta dovrai pur essere bello e presentare lo specchio alla tua bellezza.

Allora la tua anima rabbrividirà di divina brama; e nella tua vanità ci sarà adorazione!

Questo è infatti il segreto dell’anima: solo quando l’eroe l’ha abbandonata, si avvicina a lei, in sogno: — il supereroe.

Così parlò Zarathustra.


 
Del paese della cultura
Troppo m’inoltrai in volo nel futuro: orrore provai.

E quando mi voltai, ecco! Mio unico contemporaneo era rimasto il tempo.

Allora volai indietro, verso casa — e sempre più veloce: così giunsi a voi, voi attuali, e nel paese della cultura.

Per la prima volta portavo con me un occhio per voi e una buona brama: in verità, venni con la nostalgia nel cuore.

Ma che mi accadde? Per quanta paura avessi, dovetti ridere! Mai il mio occhio vide cosa più variopinta!

Risi e risi mentre il piede mi tremava e con esso il cuore: «Questa è la patria di tutti i secchi di colore!» — dissi.

Con cinquanta macchie di colore sul volto e sulle membra: così mi stavate davanti, con mio stupore, o miei attuali.

E con cinquanta specchi intorno che adulavano e ripetevano il vostro gioco di colori!

In verità, non potreste portare maschera migliore, voi attuali, del vostro stesso volto! Chi potrebbe riconoscervi!

Coperti di scrittura, coperti di segni del passato, e anche questi segni ripassati con nuovi segni: vi siete ben sottratti a tutti gli interpreti di segni!

E quand’anche si fosse esaminatori di reni; chi crede che abbiate reni! Di colori sembrate fatti e di foglietti incollati.

Dai vostri veli traspaiono a colori tutti i tempi e tutti i popoli; tutti i costumi e le fedi parlano nei vostri gesti.

Chi di voi si spogliasse di veli e sopravvesti e colori e gesti: serberebbe forse giusto quanto basta per spaventare gli uccelli.

In verità, io stesso sono l’uccello spaventato che una volta vi vide nudi e senza colore; e volai via quando quello scheletro mi fece cenni amorosi.

Avrei preferito essere operaio a giornata negli inferi e presso le ombre di un tempo! — Gli abitanti degli inferi sono pur sempre più grassi e pieni di voi!

Questo, sì, questo riempie d’amarezza i miei visceri, che io non vi sopporti né nudi né vestiti, voi attuali!

Quanto ha d’ignoto il futuro e ciò che faceva rabbrividire uccelli smarriti è in verità più noto e familiare della vostra «realtà».

Poiché così parlate voi: «Noi siamo affatto reali, e senza fede e superstizione»: così enfiate il petto, — ah, senza avere petto!

Sì, come potreste credere, voi variopinti! — voi che siete il quadro completo di tutto quanto fu mai creduto!

Siete riflessioni vaganti della fede stessa e il rompimembra di tutti i pensieri. Indegni di fede: così vi chiamo, voi reali!

Tutti i tempi chiacchierano l’uno contro l’altro nei vostri spiriti: e i sogni e le chiacchiere di tutti i tempi furono più reali del vostro essere desti!

Sterili siete: perciò vi manca la fede. Ma chi doveva creare, ebbe sempre i suoi sogni veritieri e i suoi segni celesti — e credeva al credere!— Porte semiaperte siete, presso cui attendono becchini. E questa è la vostra realtà: «Ogni cosa è degna di perire».

Ah, come mi state davanti, voi sterili, come siete magri nelle costole! E qualcuno di voi ne ha convenuto lui stesso.

E disse: «Mentre dormivo, un dio mi ha forse sottratto qualcosa di nascosto? In verità, quanto basta a formarsene una donnina!

Miracolosa è la povertà delle mie costole!» Così parlò già qualche attuale.

Sì, mi fate ridere, voi attuali! E specialmente quando vi meravigliate di voi stessi!

E guai a me, se non sapessi ridere della vostra meraviglia e dovessi bere nelle vostre coppe tutto quel che v’è di ripugnante!

Ma voglio prendervi alla leggera, giacché ho da portare cose pesanti; e che m’importa se sul mio fardello si posano insetti e vermi alati!

In verità, non per questo sentirò più peso! E non da voi, attuali, mi verrà la grande stanchezza. —

Ah, dove debbo ancora salire con la mia nostalgia! Da tutti i mondi cerco di scorgere paesi paterni e materni.

Ma in nessun luogo trovo patria; mobile sono in tutte le città e sono una partenza a tutte le porte.

Estranei e oggetto di scherno sono per me gli attuali, ai quali or è poco il cuore mi spinse; e scacciato sono da paesi paterni e materni.

Così amo ormai soltanto il paese dei miei figli, non ancora scoperto, sul lontano mare: a cercarlo, a cercarlo spingo le mie vele.

Con i miei figli voglio rimediare di essere il figlio dei miei padri: e con tutto il futuro rimediare questo presente!

Così parlò Zarathustra.


 
Dell’immacolata conoscenza
Quando ieri spuntò la luna, immaginai che essa volesse generare un sole: tanto larga e gravida appariva all’orizzonte.

Ma essa mentiva con la sua gravidanza; e preferisco credere a quanto v’è d’uomo che a quanto v’è di donna nella luna.

In verità ha poco dell’uomo questa timida sognatrice notturna. In verità, essa è con cattiva coscienza che cammina in alto sui tetti.

Poiché è pieno di libidine e gelosia il monaco nella luna, di libidine per la terra e per tutte le gioie degli amanti.

No, non amo questo gatto sui tetti! Ripugnanti mi sono tutti quelli che sgusciano intorno a finestre socchiuse.

Pia e silente cammina su tappeti di stelle: — ma io non amo piedi virili che non fanno rumore, a cui non tintinna sperone.

Il passo d’ogni uomo leale parla; il gatto, invece, scivola sul suolo. Vedi, come un gatto si accosta alla luna, e slealmente. — Questa similitudine do a voi sensibili ipocriti, voi della «conoscenza pura»! Voi chiamo — libidinosi!

Anche voi amate la terra e il terrestre: ho indovinato come siete! — ma vergogna c’è nel vostro amare e cattiva coscienza: uguali alla luna siete!

Al disprezzo del terrestre hanno indotto il vostro spirito, ma non le vostre viscere: e queste sono in voi la cosa più forte!

E ora il vostro spirito si vergogna di essere prono alle vostre viscere e sfugge alla propria vergogna per sentieri nascosti e sentieri di menzogne.

«Questa sarebbe per me la cosa più alta» — così parla il vostro spirito mendace a se stesso — «guardare la vita senza brama e non, come il cane, con la lingua fuori: Essere felici nel guardare, con la volontà estinta, senza impulso ad afferrare e senza brama d’egoismo — freddi e color cenere in tutto il corpo, ma con ebbri occhi di luna!

Questa sarebbe per me la cosa più cara, — così seduce se stesso il sedotto — amare la terra come l’ama la luna e soltanto con l’occhio palpare la sua bellezza.

E questa si chiama per me immacolata conoscenza di tutte le cose: non volere dalle cose nulla fuorché di poter stare davanti a loro come uno specchio con cento occhi». — O sensibili ipocriti, o libidinosi! Vi manca l’innocenza nella brama: e perciò calunniate la brama!

In verità, voi non amate la terra da creatori, generatori, ansiosi del divenire!

Dov’è innocenza? Dove c’è volontà di generare. E chi vuole creare al di sopra di se stesso ha per me la volontà più pura.

Dov’è bellezza? Dove io debbo volere con tutta la volontà; dove io voglio amare e tramontare perché un’immagine non resti solo immagine.

Amare e tramontare: vanno congiunti da che mondo è mondo. Volontà d’amore: cioè avere anche volontà di morte. Così parlo a voi codardi!

Ma ora voglio chiamare il vostro evirato sbirciare «contemplativo»! E ciò che si lascia toccare da occhi codardi dev’essere battezzato «bello»! O lordatori di nobili nomi!

Ma dev’essere la vostra maledizione, voi immacolati, voi della conoscenza pura, non poter mai generare: anche quando larghi e gravidi apparite all’orizzonte!

In verità vi riempite la bocca di nobili parole: e noi dovremmo credere che il cuore vi trabocchi, mentitori?

Ma le mie parole sono misere, disprezzate, contorte parole: volentieri raccatto quel che durante il vostro pranzo cade sotto il tavolo.

Con gli ipocriti posso pur sempre dire la verità! Sì, le mie lische, le mie conchiglie e le mie foglie aculeate debbono solleticare il naso — agli ipocriti!

C’è sempre aria cattiva intorno a voi e ai vostri pranzi: i vostri pensieri libidinosi, le vostre menzogne e la vostra segretezza sono pur nell’aria!

Non osate quasi credere a voi stessi — a voi e alle vostre viscere! Chi non crede a se stesso, mente sempre.

Una maschera di Dio vi tenete davanti, voi «puri»: in una maschera di Dio andò a rannicchiarsi il vostro orribile verme aneliate In verità, voi ingannate, voi «contemplativi»! Anche Zarathustra un tempo fu lo zimbello delle vostre pelli divine; egli non scoprì gli anelli di serpente di cui erano riempite.

L’anima di un dio credetti un tempo di veder giocare nei vostri giochi, voi della conoscenza pura! Nessun’arte credetti un tempo migliore che le vostre arti!

La lontananza mi nascose lordura di serpenti e cattivo odore: e che qui s’aggirava l’astuzia lasciva di una lucertola.

Ma io vi venni vicino: allora venne a me il giorno — ed ora viene a voi — e finì quell’amoreggiare con la luna!

Guardate! Eccola colta in fallo e pallida, davanti all’aurora!

Poiché già viene l’ardente, viene il vostro amore per la terra! Innocenza e brama creatrice è ogni amore solare!

Guardate, come impaziente s’avanza sul mare. Non sentite la sete e l’alito caldo del suo amore?

Al mare esso vuol bere e suggère la sua profondità alla propria altitudine: ecco che la brama del mare si leva con mille seni.

Baciato e bevuto esso vuol essere della sete del sole; aria vuol diventare e altitudine e sentiero della luce e luce esso stesso!

In verità, al pari del sole io amo la vita e tutti i mari profondi!

E questo si chiama per me conoscenza: tutto il profondo deve salire a me — alla mia altezza!

Così parlò Zarathustra.


 
Dei dotti
Mentre giacevo addormentato, una pecora brucò la corona d’edera sul mio capo, brucò e disse: «Zarathustra non è più un dotto».

Così disse e se ne andò fiera e spavalda. Me lo raccontò un bambino.

Volentieri me ne sto qui sdraiato, dove giocano i bambini, sotto il muro diroccato, fra cardi rossi e rossi papaveri.

Per i bambini e per i cardi e i rossi papaveri sono ancora un dotto. Essi sono innocenti, perfino nella loro cattiveria.

Ma per le pecore non lo sono più: così vuole la mia sorte — e sia benedetta!

Poiché questa è la verità: ho abbandonato la casa dei dotti e ho anche sbattuto la porta dietro di me.

Troppo a lungo sedette la mia anima affamata al loro tavolo; non sono al par di loro preparato alla conoscenza come a schiacciare le noci.

Amo la libertà e l’aria sopra la fresca terra; preferisco dormire su pelli di bue che sulle loro dignità e rispettabilità.

Sono troppo caldo e arso dai miei pensieri: spesso mi tolgono il respiro. Allora devo uscire all’aperto e allontanarmi da tutte le stanze polverose.

Ma essi se ne stanno freschi nell’ombra fresca: in tutto essi vogliono vedere soltanto spettatori e si guardano dal mettersi dove il sole scotta sui gradini.

Come quelli che se ne stanno sulla strada e contemplano incantati la gente che passa: così stanno anche loro in attesa e contemplano incantati i pensieri che altri hanno pensato.

Se si afferrano con le mani, si circondano di una nube di pulviscolo come i sacchi di farina, e senza volere; ma chi mai supporrebbe che il loro pulviscolo venga dal grano e dalla gialla delizia dei campi estivi?

Se si danno per saggi, rabbrividisco alle loro piccole sentenze e verità: la loro sapienza ha spesso un odore che sembra venire dalla palude: e in verità dalla sua parte udii anche gracidare la rana!

Sono abili e hanno dita accorte: che conta la mia semplicità presso la loro molteplicità! Tutti i modi d’infilare, annodare e intrecciare conoscono le loro dita: così intessono le calze dello spirito!

Sono buoni orologi: si provveda a caricarli a dovere! Allora segneranno l’ora senza errore e facendo un ticchettio discreto.

Come mulini lavorano e schiacciano: basta che vi si gettino dentro i loro grani! — sanno macinare fino il grano e ridurlo a bianca polvere.

Si spiano l’un l’altro le dita e non si fidano ad accostarsi al meglio.

Ingegnosi in piccole furberie, aspettano quelli il cui sapere cammina su piedi storpi, — aspettano come tanti ragni.

Li vidi sempre che con circospezione preparavano veleno; e facendo questo infilavano le dita in guanti di vetro.

Anche con dadi truccati sanno giocare; e li trovai che giocavano con tanto ardore che sudavano tutti.

Siamo estranei l’uno all’altro, e le loro virtù sono contrarie al mio gusto ancor più delle loro falsità e dei loro dadi truccati.

E quando vivevo tra loro, vivevo al di sopra di loro. Perciò si adirarono con me.

Non vogliono saperne che uno cammini al di sopra delle loro teste; e così posero legno e terra e immondizie tra me e le loro teste.

Così ammazzarono il suono dei miei passi; e chi peggio di tutti finora mi udì furono i più sapienti.

La mancanza e la debolezza di tutti gli uomini posero tra loro e me: — «falso soffitto» lo chiamano nelle loro case.

Ciò nonostante cammino coi miei pensieri sopra le loro teste; e anche se volessi camminare sui miei propri sbagli, sarei pur sempre al di sopra di loro e delle loro teste.

Poiché gli uomini non sono uguali: così parla la giustizia. E ciò che io voglio non dovrebbero volere loro .

Così parlò Zarathustra.


 
Dei poeti
«Dacché conosco meglio il corpo,» disse Zarathustra a uno dei suoi discepoli «lo spirito è per me in fondo soltanto spirito; e tutto l‘“effimero” — non è che un simbolo».

«Te l’ho sentito dire già un’altra volta»; rispose il discepolo «e allora tu aggiungesti: “Ma i poeti mentono troppo”. Perché dicesti che i poeti mentono troppo?»

«Perché» disse Zarathustra «Tu chiedi perché? Io non sono di quelli cui è lecito chiedere il loro perché.

È forse la mia esperienza di ieri? È molto tempo che ho fatto esperienza dei motivi delle mie opinioni.

Non dovrei essere una botte di memoria se volessi avere presso di me anche i miei motivi?

È già fin troppo per me tenermi le mie opinioni; qualche uccello vola via.

E talvolta trovo nella mia piccionaia anche un uccello giunto di fuori, che mi è straniero e trema quando io poso la mano su di lui.

Ma che cosa ti disse un tempo Zarathustra, che i poeti mentono troppo? Eppure anche Zarathustra è un poeta.

Credi ora che egli dicesse la verità? Perché lo credi?».

Il discepolo rispose: «Io credo in Zarathustra». Ma Zarathustra scosse il capo e sorrise.

La fede non mi rende beato, disse egli, e tanto meno la fede in me.

Ma posto che qualcuno dicesse con tutta serietà che i poeti mentono troppo: avrebbe ragione, — noi mentiamo troppo.

Noi sappiamo anche troppo poco e siamo cattivi maestri: così dobbiamo mentire.

E chi di noi poeti non avrebbe affatturato il suo vino? Più d’un velenoso miscuglio fu combinato nelle nostre cantine, l’indescrivibile divenne realtà.

E poiché sappiamo poco ci piacciono sinceramente i poveri di spirito, soprattutto se sono donnine giovani.

E siamo perfino avidi delle cose che si raccontano la sera le vecchie donnette. Queste cose in noi le chiamiamo l’eterno femminino.

E come se ci fosse un particolare accesso segreto al sapere che si ottura davanti a coloro che imparano qualcosa: così crediamo al popolo e alla sua «sapienza».

Ma questo lo credono tutti i poeti: che chi, coricato nell’erba o su solitari pendii, tende l’orecchio, apprenda qualcosa delle cose che stanno fra cielo e terra.

E se vengono loro teneri moti, i poeti pensano sempre che la natura stessa sia innamorata di loro:

E che si accosti al loro orecchio per dire qualcosa di segreto e proferire lusinghe d’innamorata: per questo s’impettiscono e si gonfiano davanti a tutti i mortali!

Ah, ci sono tante cose fra cielo e terra, di cui soltanto i poeti hanno sognato qualcosa.

E soprattutto al di là del cielo: poiché tutti gli dei sono simboli di poeti, sottratti con l’inganno dai poeti.

In verità, sempre siamo tratti verso l’alto — cioè verso il regno delle nuvole: su queste poniamo i nostri variopinti palloni e li chiamiamo dei e superuomini: — Sono abbastanza leggeri per tali seggi tutti questi dei e superuomini!

Ah, come sono stanco di tutto l’imperfetto che qui deve farsi evento! Ah, come sono stanco dei poeti!

Quando Zarathustra così parlò, il suo discepolo si adirò con lui, ma tacque. E anche Zarathustra tacque; e il suo occhio si era volto verso l’interno e pareva guardare lontano. Alla fine sospirò e prese fiato.

— Io sono di oggi e di un tempo, disse poi; ma in me c’è qualcosa che è di domani e dopodomani e dell’avvenire.

Mi stancai dei poeti, dei vecchi e dei nuovi: superficiali sono per me tutti e mari dall’acqua bassa.

Non pensarono abbastanza in profondità: perciò il loro sentimento non scese mai fino all’imo.

Un po’ di voluttà e un po’ di noia: tale è stato il loro miglior riflettere.

Soffio e guizzo di fantasmi è per me tutto il loro tintinnar d’arpe; che seppero essi finora del fervore dei suoni! — Né sono abbastanza puri: essi intorbidano le proprie acque perché sembrino profonde.

E volentieri si passano per conciliatori: ma per me restano intermediari e mescolatori, dei mezzo-e-mezzi e degli impuri.

Ah, io gettai la mia rete nelle loro mani e volevo prendere buoni pesci; ma sempre ne cavai fuori la testa di un vecchio dio.

Così il mare dava all’affamato una pietra. E loro stessi possono ben provenire dal mare.

Certo, in loro si trovano perle: tanto più essi somigliano a duri crostacei. E al posto dell’anima trovai in loro spesso viscosità salata.

Essi impararono dal mare anche la sua vanità: non è il mare il pavone dei pavoni?

Anche davanti al più brutto di tutti i bufali srotola la coda, e mai si stanca di agitare il suo ventaglio di trine d’argento e seta.

Caparbio sta a guardare il bufalo, nell’anima sua vicino alla sabbia, ma più vicino al folto del bosco, e più vicino di tutto alla palude.

Che cosa sono per lui bellezza e mare e ornamento di pavoni! Questa similitudine è per i poeti.

In verità, il loro spirito è esso stesso il pavone dei pavoni e un mare di vanità!

Spettatori vuole lo spirito del poeta: e fossero pure bufali! —

Ma di questo spirito sono stanco: e vedo venire il momento che anch’esso si stancherà di se stesso.

Trasformati vidi già i poeti e con lo sguardo volto verso se stessi.

Penitenti dello spirito vidi venire: nacquero da loro.

Così parlò Zarathustra.


 
Dei grandi eventi
C’è un’isola nel mare — non lontano dalle isole beate di Zarathustra — sulla quale fuma ininterrottamente un vulcano; di essa il popolo dice, e lo dicono soprattutto le vecchiette del popolo, che è posta come un blocco roccioso davanti alla porta degli inferi: e l’esile via che discende a questa porta degli inferi passa per il vulcano stesso.

Nel tempo in cui Zarathustra soggiornava sulle isole beate accadde che una nave gettò l’ancora presso l’isola su cui sorge la montagna fumante; e il suo equipaggio scese a terra a cacciare conigli. E verso l’ora di mezzogiorno, quando si trovavano di nuovo insieme, il capitano e i suoi uomini a un tratto videro un uomo venire verso di loro per l’aria, e una voce disse distintamente: «È tempo! È il momento!» Ma quando la figura si trovò più vicina — e passò loro accanto volando rapida come un’ombra in direzione del vulcano — essi riconobbero con grandissima meraviglia che era Zarathustra; poiché lo avevano già visto, tutti, tranne il capitano, e lo amavano come ama il popolo: in modo tale che amore e timore coesistono in parti uguali.

«Guardate un po’» disse il vecchio timoniere «ecco Zarathustra che va all’inferno!»

Nel momento in cui questi marinai erano approdati sull’isola di fuoco, correva voce che Zarathustra fosse scomparso; e quando s’interrogarono i suoi amici, essi raccontarono che egli si era imbarcato durante la notte, senza dire dove volesse andare.

Ciò fu causa d’inquietudine; ma, dopo tre giorni, a quest’inquietudine si aggiunse la storia dei marinai — e allora tutto il popolo disse che il diavolo era venuto a prendersi Zarathustra. I suoi discepoli ridevano di questa diceria, e uno di loro disse addirittura: «Mi sarebbe più facile credere che sia Zarathustra che è andato a prendersi il diavolo». Ma in fondo all’anima erano pieni di affanno e di desiderio di rivederlo: così fu grande la loro gioia quando al quinto giorno Zarathustra ricomparve tra loro.

E questo è il racconto del colloquio di Zarathustra con il cane di fuoco:

La terra, disse egli, ha la pelle; e questa pelle ha delle malattie. Una di queste malattie si chiama per esempio: «uomo».

E un’altra di queste malattie si chiama «cane di fuoco»: su di esso gli uomini si sono raccontati e si sono lasciati raccontare molte menzogne.

Per sondare il segreto andai al di là del mare: e ho visto la verità nuda, davvero! nuda dai piedi al collo!

Ora so come stanno le cose circa il cane di fuoco; e così pure circa tutti i diavoli espulsi e vomitati dalla terra, di cui hanno paura solo le vecchiette.

Fuori, cane di fuoco, fuori dal tuo profondo!, gridai, riconosci quanto profonda è questa profondità! Di dove viene quel che erutti quassù?

Tu bevi abbondantemente al mare: lo rivela la tua salace eloquenza! In verità, per essere un cane della profondità prendi il tuo cibo troppo in superficie!

Al massimo ti considero il ventriloquo della terra: e tutte le volte che sentivo parlare di diavoli espulsi e vomitati dalla terra, li trovai uguali a te: salati, mendaci e piatti.

Sapete strepitare e oscurare il mondo con la cenere! Siete i migliori fanfaroni e imparate a sufficienza l’arte di far bollire il fango.

Dove siete voi, ci dev’essere sempre nelle vicinanze il fango, e spugnosità, cavernosità, masse compresse che vogliono la libertà.

«Libertà» è il vostro strepito preferito: ma io disimparai la fede nei «grandi avvenimenti» non appena intorno a loro si leva strepitio e fumo.

Ma credimi, amico Frastuono Infernale! I massimi avvenimenti — non sono le nostre ore più rumorose, ma le nostre ore più silenziose.

Non intorno agli inventori di nuovo frastuono: intorno agli inventori di nuovi valori ruota il mondo; e ruota inudibile.

Confessalo almeno! Quasi nulla era accaduto ogni volta che il tuo frastuono e il tuo fumo si dissipavano. Che importa che una città sia diventata una mummia e che una statua giaccia nel fango!

E questa parola dico ancora ai rovesciatori di statue. È la più grande stoltezza che vi sia gettare sale nel mare e statue nel fango.

Nel fango del vostro disprezzo giaceva la statua: ma questa è appunto la sua legge, che dal disprezzo le scaturiscano nuova vita e vivente bellezza!

Con tratti divini essa si rierge, sofferente-seducente; e in verità, vi ringrazierà che l’abbiate rovesciata, o rovesciatori!

Ma questo io consiglio a voi, re e chiese, e tutto ciò che è debole per vecchiaia o debole nella virtù: — fatevi rovesciare, così tornerete a nuova vita e la virtù tornerà — a voi!

Così parlai al cane di fuoco: ed egli m’interruppe ringhioso e domandò: «Chiesa? Che cos’è?»

«Chiesa?» risposi io «È una specie di Stato, la specie più bugiarda. Ma taci tu, cane ipocrita! Tu conosci il tuo essere meglio di tutti!

Come te lo Stato è un cane ipocrita; come te parla volentieri con fumo e strepito, — in modo da far credere, come te, che parli dal ventre delle cose.

Poiché vuole essere l’animale più importante della terra, lo Stato; e viene anche creduto».

Quando ebbi detto ciò, il cane di fuoco diede in escandescenze per l’invidia. «Come?» gridò «L’animale più importante sulla terra? E viene anche creduto?» E tanto vapore e tante orribili voci gli uscirono dalle fauci che io pensai che sarebbe soffocato per il dispetto e l’invidia.

Infine ammutolì e si placò il suo ansimare; e muto che fu io dissi ridendo:

«T’indispettisci, cane di fuoco: allora ho ragione sopra di te!

E che è mia la ragione, lo sento anche da un altro cane di fuoco: quello parla veramente dal cuore della terra.

Oro egli spira e pioggia d’oro: così vuole il suo cuore. Che cosa sono per lui cenere e fumo e fango bollente!

Il riso esce da lui e gli aleggia intorno come nuvolaglia multicolore; egli è avverso al tuo gorgogliare e sputare e ai crampi delle tue viscere!

Ma l’oro e il riso — li prende dal cuore della terra: infatti, perché tu lo sappia, — il cuore della terra è d’oro».

Quando il cane di fuoco udì questo, non resistette più ad ascoltarmi. Mortificato ritirò la coda, mandò uno sbigottito bau-bau e scivolò giù nella sua spelonca.

Così raccontò Zarathustra. Ma i suoi discepoli quasi non lo ascoltavano: tanto grande era la loro brama di raccontargli dei marinai, dei conigli e dell’uomo volante.

«Che debbo pensare di ciò! — disse Zarathustra — Sono dunque un fantasma?

Ma sarà stata la mia ombra. Aveste già notizia del viandante e della sua ombra?

Ma sicuro è questo: devo tenerla a freno, altrimenti mi guasta la reputazione».

E ancora una volta Zarathustra scosse il capo e si meravigliò: «Che debbo pensare di ciò?» disse ancora una volta.

«Perché il fantasma gridò: “È tempo! È il momento!”

Per che cosa è — il momento?» —

Così parlò Zarathustra.


 
Il profeta
«— e io vidi una grande tristezza venire sugli uomini. I migliori si stancarono delle proprie opere.

Si diffuse una dottrina e accanto le correva una fede: “Tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto è stato!”

E da tutte le colline riecheggiò: “Tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto è stato!”

Abbiamo raccolto bene, ma perché tutti i frutti ci marcirono e divennero bruni? Che cosa piovve dalla luna malefica l’ultima notte quaggiù?

Vano fu tutto il lavoro, velenoso è diventato il nostro vino, il malocchio bruciò e ingiallì i nostri campi e i nostri cuori.

Secchi divenimmo; e se cade fuoco su di noi, andiamo in cenere: — perfino il fuoco stancammo.

Tutte le fonti si asciugarono davanti a noi, anche il mare si ritirò. Ogni suolo vuole squarciarsi, ma il profondo non vuole inghiottire!

“Ah, dov’è ancora un mare in cui poter annegare”: tale echeggia il nostro lamento — per depresse paludi.

In verità, siamo già troppo stanchi per morire; siamo ancora desti e continuiamo a vivere — in camere mortuarie!»

Così Zarathustra udì parlare un profeta; e la sua profezia gli toccò il cuore e lo trasformò. Triste e stanco andava attorno e divenne uguale a quelli cui il profeta aveva parlato.

In verità — disse ai suoi discepoli — manca poco a che scenda questo lungo crepuscolo. Ah, come portare in salvo la mia luce!

Che non mi resti soffocata da questa tristezza! A mondi lontani deve far luce e a notti ancor più lontane!

Così contristato nel cuore, andava attorno Zarathustra; e per tre giorni non prese né bevanda né cibo, non riposò e perse la favella. Ma alla fine cadde in un sonno profondo. I suoi discepoli rimasero intorno a lui in lunghe veglie notturne e attendevano ansiosi che si destasse e di nuovo parlasse e fosse guarito dalla sua tristezza.

E questo è il discorso che Zarathustra fece quando si destò; ma la sua voce giungeva ai discepoli come da grande lontananza: Sentite il sogno che sognai, amici, e aiutatemi a indovinare il suo significato!

Enigma è per me questo sogno; il suo significato è in esso nascosto e prigioniero e non vola ancora su di esso con libere ali.

Che avevo rinunciato a tutta la vita, così sognavo. Ero diventato guardiano notturno e guardiano di tombe, lassù nella solitaria rocca della morte sul monte.

Lassù custodivo le sue bare: gremite erano le ammuffite volte di quelle insegne di vittoria. Da bare di vetro mi guardava la vita sconfitta.

Respiravo l’odore di polverose eternità: torbida e polverosa era la mia anima. E chi lassù avrebbe potuto dare aria alla propria anima!

Chiarore di mezzanotte era sempre intorno a me, e accanto ad esso accovacciata la solitudine, e, per terzo, silenzio rantolante di morte, il peggiore dei miei amici.

Recavo delle chiavi, le più arrugginite di tutte le chiavi; e con esse sapevo aprire la più stridente di tutte le porte.

Come un maligno gracchiare correva questo suono per i lunghi corridoi, quando i battenti della porta si aprivano: infausto gridava quell’uccello; non amava essere destato.

Ma ancor più s’atterriva, ancor più si serrava il mio cuore quando di nuovo taceva e intorno si faceva silenzio e io mi ritrovavo solo in quel perfido tacere.

Così passava e sgusciava via il tempo, se tempo ancora esisteva: che ne so! Ma infine accadde quel che mi svegliò.

Tre volte batterono colpi alla porta come tuoni, i soffitti risuonarono e ulularono tre volte: allora io andai alla porta.

Alpa! gridai. Chi porta le sue ceneri al monte? Alpa! Alpa! Chi porta le sue ceneri al monte?

E giravo la chiave e spingevo la porta e mi affaticavo. Ma non s’era aperta di un dito:

Quand’ecco un vento impetuoso spalancò i due battenti: fischiarne, sibilante e tagliente gettò verso di me un sarcofago nero: E nel mormorio, nei fischi e nei sibili la bara scoppiò sputando miriadi di risate.

E da mille grottesche effigi di angeli, gufi, buffoni e farfalle grandi come bambini venivano risa, scherni e mormorii contro di me.

Terribilmente mi spaventai: fui gettato a terra. E gridavo d’orrore come mai avevo gridato.

Ma il mio stesso grido mi destò e ritornai in me. —

Così raccontò Zarathustra il suo sogno e poi tacque: perché non sapeva ancora il suo significato. Ma il discepolo che egli sopra tutti amava si levò rapido in piedi, prese la mano di Zarathustra e disse: «La tua vita stessa ci spiega questo sogno, o Zarathustra!

Non sei tu stesso il vento che fischia e sibila e spalanca le porte della rocca della morte?

Non sei tu stesso la bara piena di multicolori cattiverie e di grottesche, angeliche effigi della vita?

In verità, simile a mille risate infantili giunge Zarathustra in tutte le camere mortuarie, ridendo di questi guardiani notturni e guardiani di tombe, e di tutti coloro che fanno tintinnare tetre chiavi.

Li spaventerai e li getterai a terra con le tue risa; perdita dei sensi e risveglio proveranno il tuo potere su di loro.

E anche quando verranno il lungo crepuscolo e la stanchezza mortale, tu non tramonterai nel nostro cielo, tu paladino della vita!

Nuove stelle ci additasti e nuovi splendori notturni; in verità, tu spalancasti sopra di noi il riso come una tenda multicolore.

Ora dalle bare sgorgherà sempre un riso infantile; ora su ogni stanchezza mortale sempre si scaglierà vittorioso un forte vento: di questo tu stesso ci sei garante e profeta!

In verità, tu sognasti loro stessi, i tuoi nemici: e fu il più terribile dei tuoi sogni!

Ma come tu ti destasti da loro e tornasti in te, essi si desteranno da se stessi — e verranno a te!» —

Così parlò il discepolo; e tutti gli altri si affollarono intorno a Zarathustra e lo presero per le mani e volevano persuaderlo ad abbandonare il letto e la tristezza e a ritornare a loro. Ma Zarathustra restava seduto sul suo giaciglio, lo sguardo stranito. Come uno che ritorna a casa dopo lungo tempo da un luogo straniero, guardava i suoi discepoli e studiava i loro volti; e ancora non li riconosceva. Ma quando essi lo sollevarono e lo misero in piedi, allora ecco che subito il suo occhio si trasformò; egli afferrò tutto quello che era accaduto, si lisciò la barba e disse con voce robusta: «Ebbene, la cosa ha fatto il suo tempo; ora procurate, miei discepoli, che possiamo avere un buon pranzo, e presto! Così penso di fare penitenza per i cattivi sogni!

L’indovino deve mangiare e bere al mio fianco: e in verità gli mostrerò ancora un mare in cui potrà annegare!»

Così parlò Zarathustra. Ma poi guardò a lungo in viso il discepolo che aveva fatto da interprete del sogno e scosse il capo. —


 
Della redenzione
Un giorno che Zarathustra passava sul grande ponte, gli si fecero intorno disgraziati e mendicanti, e un gobbo così gli parlò: «Vedi, Zarathustra! Anche il popolo impara da te e acquista fede nella tua dottrina: ma perché creda totalmente in te occorre ancora una cosa — prima devi persuadere noi disgraziati! Hai una larga possibilità di scelta e in verità un’occasione che si può afferrare per più di un ciuffo! Puoi guarire i ciechi e far camminare i paralitici; e a colui che ha troppa roba sulle spalle tagliargliene via un po’: — questo sarebbe, secondo me, il modo giusto per fare che i disgraziati credano in Zarathustra».

Ma così rispose Zarathustra a colui che aveva parlato: «Se al gobbo si toglie la sua gobba, gli si toglie lo spirito — così insegna il popolo. E se al cieco si rida il suo occhio, egli vede troppe cose cattive sulla terra: cosicché maledice chi lo guarì. E colui che fa camminare il paralitico, gli arreca il più grave dei danni, giacché appena questi potrà camminare, i suoi vizi lo trascineranno con sé: così insegna il popolo sui disgraziati. E perché Zarathustra non dovrebbe imparare dal popolo, se il popolo impara da Zarathustra?

Questo è il meno che mi sia capitato da quando sono tra gli uomini: vedere che: “A costui manca un occhio e a quello un orecchio e a un terzo la gamba, e ci sono altri che perdettero la lingua o il naso o la testa”.

Vedo e vidi di peggio e certe cose così orripilanti che non posso parlare di ognuna e non voglio nemmeno tacere di alcune: e cioè uomini a cui manca tutto tranne una sola cosa che hanno invece in sovrabbondanza, uomini che non sono null’altro che un grande occhio e una grande bocca o un grande ventre o qualcosa di grande, — disgraziati alla rovescia io li chiamo.

E quando io uscii dalla mia solitudine e percorsi per la prima volta questo ponte, non credevo ai miei occhi, e guardavo e guardavo, e alla fine dissi: “Questo è un orecchio! Un orecchio grande come un uomo!” Guardai meglio: e in realtà sotto l’orecchio si muoveva ancora qualcosa, piccolo e misero e macilento da far pietà. In verità, l’enorme orecchio posava su esilissimo gambo, — ma il gambo era un uomo! Chi si fosse messo una lente davanti all’occhio avrebbe potuto riconoscere anche un visetto invidioso; e che sul gambo penzolava anche un’animuccia enfiata. Ma il popolo mi disse che il grande orecchio non era soltanto un uomo, bensì un grand’uomo, un genio. Ma io non credetti mai al popolo, quando parlava di grandi uomini — e continuai a credere che si trattasse di un disgraziato alla rovescia, che aveva troppo poco di tutto e troppo di una sola cosa».

Quando Zarathustra ebbe così parlato al gobbo e a quelli di cui questi era lingua e portavoce si volse con profondo scontento ai suoi discepoli e disse: «In verità, amici miei, io vado tra gli uomini come tra frammenti e membra di uomini!

Questo è spaventoso per il mio occhio: trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di battaglia o in un macello.

E se il mio occhio fugge dall’oggi a un tempo trova sempre lo stesso: frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!

L’oggi e l’un tempo sulla terra — ah! amici, sono per me la cosa più insostenibile; e non saprei vivere se non fossi anche un veggente di ciò che deve venire.

Un veggente, un volente, un creatore, un futuro e un ponte verso il futuro — e, ahimé, in fondo anche un disgraziato presso quel ponte: tutto questo è Zarathustra.

E anche voi spesso vi domandaste: “Chi è per noi Zarathustra? Come dobbiamo chiamarlo?” E, come me, vi deste per risposta delle domande.

È uno che promette? È uno che adempie? Un conquistatore? O un erede? Un autunno? O un aratro? Un medico? O un risanato?

È un poeta? O un veritiero? Un liberatore? O un domatore? Un buono? O un cattivo?

Io vado tra gli uomini come tra frammenti del futuro: quel futuro che io vedo.

Questo è tutto il mio fare e bramare; poter riunire e ricomporre in unità ciò che è frammento ed enigma e atroce caso.

E come sopporterei di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e scioglitore di enigmi e redentore del caso!

Redimere i passati e trasformare tutto il “fu” in un “così l’ho voluto” — questa sola per me si chiamerebbe redenzione!

Volontà — così si chiama ciò che libera e dispensa gioia: così v’insegnai, amici! Ma ora imparate questo: la volontà stessa è una prigioniera.

Volere libera: ma come si chiama ciò che getta a sua volta in catene il liberatore?

“Fu”: così si chiama il digrignar di denti della volontà e la mestizia più solitaria. Impotente contro ciò che è fatto — è un cattivo spettatore di tutto il passato.

La volontà non può volere sul passato; non poter infrangere il tempo e la brama del tempo, — ecco la più solitaria mestizia della volontà.

Volere libera: chi s’inventa da sé il volere, per gettare da sé la sua mestizia e ridersela del proprio carcere?

Ah, un pazzo diviene ogni prigioniero! Da pazza si redime anche la volontà prigioniera.

Che il tempo non torni indietro è il suo furore; “quello che fu” — così si chiama il masso che essa non può smuovere.

E così smuove altri massi per furore e dispetto e si vendica di ciò che non prova come lei furore e dispetto.

Così la volontà, la liberatrice, divenne causa di sofferenza: e su tutto quello che può soffrire, si vendica di non poter tornare indietro.

Questa, solo questa è la vendetta stessa: la ripugnanza della volontà per il tempo e per il suo “fu”.

In verità nella nostra volontà risiede una grande follia; e divenne maledizione per tutta l’umanità che questa follia imparasse lo spirito!

Lo spirito di vendetta: amici miei, questo fu finora sempre il modo migliore di riflettere degli uomini; e dov’era dolore, là doveva essere sempre castigo.

“Castigo” si chiama infatti la vendetta stessa: con una parola mendace dissimula a se stessa una buona coscienza.

E poiché anche in colui che vuole c’è dolore, dolore per non poter volere sul passato, — così il volere stesso e tutta la vita dovrebbe — essere castigo!

E allora nuvola su nuvola rotolò sullo spirito: fino a che la follia predicò: “Tutto passa, perciò tutto merita di passare!”

“E ciò stesso è la giustizia, quella legge del tempo, secondo cui il tempo deve divorare i suoi figli”: così predicò la follia.

“Le cose sono moralmente ordinate secondo diritto e castigo. Oh, dov’è la redenzione dal flusso delle cose e dal castigo ‘esistere’?” Così predicò la follia.

“Ci può essere redenzione, se c’è un diritto eterno? Ah, inamovibile è il masso ‘fu’: eterni devono essere anche tutti i castighi!” Così predicò la follia.

“Nessun’azione può essere distrutta: come potrebbe attraverso il castigo ritornare come non fatta! Questo, questo è l’eterno della pena ‘esistere’, che l’esistere dev’essere in eterno azione e colpa!

A meno che la volontà alla fine non redima se stessa e volere non diventi non volere—”: ma voi la conoscete, fratelli, questa litania della follia!

Lontano vi condussi da questi canti, quando v’insegnai: “La volontà è una cosa che crea”.

Tutto il “fu” è un frammento, un enigma, un atroce caso — finché la volontà creante non dice: “Ma così volevo” — Finché la volontà creante non dice: “Ma così voglio! Così vorrò!”

Ma essa parlò già così? E quando avverrà ciò? È la volontà già staccata dal carro della propria follia?

Fu mai la volontà a se stessa redentrice e dispensatrice di gioia? Dimenticò lo spirito di vendetta e tutto il digrignar di denti?

E chi le insegnò la conciliazione col tempo e cose più alte di ogni conciliazione?

Cose più alte di ogni conciliazione deve volere la volontà che è volontà di potenza —: ma come può avvenire ciò? Chi le insegnò anche il volere sul passato?».

— Ma a questo punto del discorso avvenne che Zarathustra di colpo si fermò e diventò in tutto uguale ad uno che prova lo spavento più grande. Con occhio atterrito guardò i suoi discepoli; il suo occhio penetrava con strali acuti i loro pensieri e quel che si celava dietro ai pensieri. Ma dopo un poco rise di nuovo e disse rabbonito: «È difficile vivere con gli uomini, perché è così difficile tacere. Soprattutto per un chiacchierone». — Così parlò Zarathustra. E il gobbo aveva ascoltato il colloquio tenendosi il viso coperto; ma quando sentì Zarathustra ridere, si scoprì gli occhi pieno di curiosità e disse lentamente: «Ma perché Zarathustra a noi parla in modo diverso che ai suoi discepoli?»

Zarathustra rispose: «Che c’è da meravigliarsi! Con i gobbi si può ben parlare gobbo!»

«Bene», disse il gobbo «e con gli scolari si può parlare di cose scolastiche.

Ma perché Zarathustra parla ai suoi scolari in modo diverso — che a se stesso?» —


 
Dell’accortezza verso gli uomini
Non l’altezza: la china è terribile!

La china dove Io sguardo precipita in basso e la mano si aggrappa in alto. Allora il cuore prova le vertigini davanti alla sua doppia volontà.

Ah, amici, indovinate anche la doppia volontà del mio cuore?

Questa è la mia china e il mio pericolo, che il mio sguardo precipiti e che la mia mano si tenga e voglia appoggiarsi — all’abisso!

Agli uomini si aggrappa la mia volontà, con catene mi lego all’uomo, perché sono trascinato in alto verso il superuomo: perché là tende l’altra mia volontà.

E perciò vivo cieco tra gli uomini: come se non li conoscessi: perché la mia mano non perda del tutto la sua fede in qualcosa di saldo.

Io non vi conosco, uomini: questa tenebra e consolazione calano spesso su di me.

Seggo presso la porta principale, esposto ad ogni briccone e chiedo: chi mi vuole ingannare?

Questa è la mia prima accortezza verso gli uomini, farmi ingannare per non dovermi guardare dagli ingannatori.

Ah, se mi guardassi dall’uomo: come potrebbe l’uomo essere un’ancora per il mio pallone? Troppo facilmente sarei rapito in aria e lontano!

Questa provvidenza domina il mio destino: dover vivere senza prudenza.

E chi non vuole morire di sete fra gli uomini, deve imparare a bere in tutti i bicchieri; e chi vuole rimanere puro fra gli uomini deve saper lavarsi anche con l’acqua sporca.

E così spesso parlai a me stesso per conforto: «Orsù! Avanti! Vecchio cuore! Una sfortuna ti è fallita: godi di ciò come della tua — fortuna!»

Ma questa è l’altra mia accortezza verso gli uomini: risparmio i vanitosi più degli orgogliosi.

La vanità offesa non è forse la madre di tutte le tragedie? Ma dove è ferito l’orgoglio, cresce qualcosa di ancor migliore dell’orgoglio.

Perché la vita sia gradevole a vedersi, il suo gioco dev’essere giocato bene: ma per questo ci vogliono buoni commedianti.

Buoni commedianti mi apparvero tutti i vanitosi: recitano e vogliono che si stia volentieri a guardarli, — tutto il loro spirito è in questa volontà.

Essi rappresentano se stessi, si inventano: vicino a loro amo stare a guardare la vita, — ciò guarisce dalla malinconia.

Perciò risparmio i vanitosi, perché sono medici alla mia malinconia e mi tengono stretto all’uomo come a uno spettacolo.

E poi: chi misura nel vanitoso tutta la profondità della sua modestia! Provo benevolenza e compassione per la sua modestia.

Da voi egli vuole imparare la sua fede in se stesso; si nutre dei vostri sguardi, viene a mangiare la lode nelle vostre mani.

Alle vostre menzogne crede ancora se voi mentite bene su di lui: poiché nel profondo il suo cuore sospira: «Che cosa sono io!»

E se la giusta virtù è quella che non sa di se stessa: ebbene, il vanitoso non sa della propria modestia!

Ma questa è la mia terza accortezza verso gli uomini, non lasciarmi avvelenare la vista dei malvagi dalla vostra pavidità.

Sono beato al vedere i miracoli che il sole ardente matura: tigri e palme e serpenti a sonagli.

Anche tra gli uomini c’è una bella prole maturata dal sole ardente e molte cose strabilianti nei malvagi.

Davvero, come i più saggi tra voi non apparvero poi così saggi: così trovai la malvagità umana inferiore alla sua fama.

E spesso chiesi scuotendo il capo: perché suonare ancora serpenti a sonagli?

In verità, anche per il male c’è un futuro! E il più caldo meridione non è stato ancora scoperto per l’uomo.

Ora si chiama già estrema perfidia ciò che è largo solo dodici piedi e lungo tre mesi! Ma verranno al mondo draghi ben più grandi.

Infatti perché al superuomo non manchi il suo drago, il superdrago che sia degno di lui: per questo deve splendere ancora molto sole ardente sulle umide foreste vergini!

I vostri gatti selvatici devono prima diventare tigri e i vostri rospi velenosi diventare coccodrilli: perché il buon cacciatore deve fare una buona caccia!

E davvero, voi buoni e giusti! Molto è ridicolo in voi, soprattutto la vostra paura di ciò che finora si chiamò «demonio»!

Nell’anima vostra siete così estranei alla grandezza che il superuomo sarebbe per voi terribile nella sua bontà!

E voi, saggi e sapienti, fuggireste dall’ardore solare della saggezza in cui il superuomo bagna con voluttà la sua nudità!

Voi, uomini più grandi che il mio occhio mai incontrò! Questo è il mio dubbio verso di voi e il mio riso nascosto: io sospetto che chiamereste il mio superuomo — demonio.

Ah, io mi stancai di questi uomini migliori e superiori: lontano dalla loro «altezza» mi sentii attratto, in alto, fuori via, verso il superuomo!

Ebbi un brivido d’orrore quando vidi nudi questi migliori: allora mi spuntarono le ali per volare via verso lontani futuri.

In più lontani futuri, in più meridionali meridioni che mai artista abbia sognato: laggiù, dove gli dei si vergognano di tutti gli abiti!

Ma voi voglio vedervi travestiti, voi prossimi e vicini, e ben lustrati, e vanitosi e dignitosi, come i «buoni e giusti». — E travestito voglio sedere io stesso tra voi, — che mi sconosca me e voi: questa è infatti la mia ultima accortezza verso gli uomini.

Così parlò Zarathustra.


 
L’ora più silenziosa
Che mi accade, amici? Mi vedete smarrito, scacciato, docile controvoglia, pronto ad andare, ah, ad andare via da voi!

Sì, ancora una volta Zarathustra deve tornare alla sua solitudine: ma questa volta malvolentieri rientra l’orso nella sua spelonca!

Che mi accade! Chi me lo ordina? — Ah, la mia adirata signora vuole così, me lo ha detto; vi ho mai fatto il suo nome?

Ieri verso sera mi parlò la mia ora più silenziosa: ecco il nome della mia terribile signora.

E così .accadde, — poiché tutto debbo dirvi, affinché il vostro cuore non s’indurisca verso colui che si stacca all’improvviso da voi.

Conoscete lo spavento di chi si addormenta? —

Fin in fondo alle dita dei piedi egli si spaventa, perché il terreno gli sfugge di sotto e incomincia il sogno.

Questo ve lo dico come similitudine. Ieri, all’ora più silenziosa, il terreno mi sfuggì di sotto: incominciò il sogno.

La lancetta avanzava, l’orologio della mia vita riprendeva fiato, — mai udii tanto silenzio intorno a me: tanto che il mio cuore provò spavento.

Allora sentii parlarmi senza voce: «Lo sai, Zarathustra?» —

E io gridai di spavento a questo sussurro e il sangue si ritirò dal mio viso: ma tacevo.

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Tu lo sai, Zarathustra, ma non lo dici!».

E infine io risposi come un insolente: «Sì, lo so, ma non voglio dire!».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Non vuoi, Zarathustra? È proprio vero? Non ti celare dietro l’insolenza!» —

E io piansi e tremai come un bambino e dissi: «Ah, vorrei anche, ma come posso! Condonami almeno questo! È al di sopra delle mie forze!».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importi tu, Zarathustra! Dì la tua parola e infrangiti!» —

E io risposi: «Ah, è forse la mia parola? Chi sono io? Io attendo uno più degno di me; non sono degno nemmeno di infrangermi contro di lui».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importi tu? Non sei ancora abbastanza umile. L’umiltà ha la pelle più dura di tutto». — E io risposi: «Che cosa non sopportò già la pelle della mia umiltà! Abito ai piedi della mia altezza: come sono alte le mie cime? Nessuno ancora me lo disse. Ma conosco bene le mie valli».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «O Zarathustra, chi ha da spostare montagne sposta anche valli e bassure». — E io risposi: «La mia parola non spostò ancora nessuna montagna e quel che dissi non giunse fino agli uomini. Andai sì dagli uomini, ma non giunsi ancora a loro».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che sai tu di questo! La rugiada piove sull’erba proprio quando la notte è più taciturna». —

E io risposi: «Essi mi schernirono quando trovai e presi la mia strada; e in verità allora mi tremarono le gambe.

E così mi parlarono: disimparasti la via, ora disimpari anche a camminare!».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importa il loro scherno! Tu sei uno che ha disimparato ad obbedire: ora devi comandare!

Non sai chi è il più necessario di tutti? Chi comanda cose grandi.

Compiere cose grandi è difficile: ma più difficile è comandare cose grandi.

Questo è quel che meno di tutto si può perdonarti: tu hai il potere e non vuoi dominare». —

E io risposi: «Mi manca la voce del leone per comandare».

Allora di nuovo sentii parlarmi con un bisbiglio: «Le parole più silenziose sono quelle che suscitano la tempesta. Pensieri che vengono su piedi di colomba, dirigono il mondo.

O Zarathustra, tu devi andare come un’ombra di ciò che ha a venire: così comanderai e comandando precederai gli altri» — E io risposi: «Mi vergogno».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Devi tornare bambino e senza vergogna.

L’orgoglio della gioventù grava ancora su di te, sei entrato tardi nella giovinezza: ma chi vuole diventare bambino, deve superare ancora la sua giovinezza». — E io meditai a lungo e tremai. Ma alla fine dissi quel che avevo detto all’inizio: «Non voglio».

Allora sentii ridere intorno a me. Ahimè, come mi straziò le viscere e mi spaccò il cuore questo riso!

E per l’ultima volta sentii parlarmi: «O Zarathustra, i tuoi frutti sono maturi, ma tu non sei maturo per i tuoi frutti!

Così devi tornare alla solitudine: perché devi ancora ammorbidirti!». —

E di nuovo sentii ridere e il riso dissolversi: poi intorno tutto si fece silenzioso come di un duplice silenzio. Ma io giacevo a terra e su tutte le membra mi colava il sudore.

— Ora udiste tutto e perché debbo ritornare nella mia solitudine. Nulla vi ho taciuto, amici.

Ma anche questo udiste da me, chi fra gli uomini è pur sempre più taciturno — e vuol esser tale!

Ah, amici miei! Avrei da dirvi ancora qualcosa, avrei da darvi ancora qualcosa! Perché non ve lo do? Sono avaro? —

Ma quando Zarathustra ebbe detto queste parole, fu sopraffatto dalla violenza del dolore e dall’ormai prossima separazione dagli amici, cosicché pianse forte; e nessuno seppe consolarlo. Ma durante la notte se ne andò via solo e abbandonò i suoi amici.


 
Parte terza
Voi guardate verso l’alto, quando cercate l’elevazione. E io guardo verso il basso perché sono elevato.

Chi di voi sa ad un tempo ridere ed essere elevato?

Chi sale sulla montagna più alta ride su tutti i drammi seri e faceti.

Zarathustra


 
Il viandante
Era intorno a mezzanotte quando Zarathustra si mise in cammino sul dorso dell’isola, per giungere su far del giorno all’altra riva: poiché là voleva imbarcarsi. Là c’era infatti una buona rada, in cui gettavano volentieri l’ancora anche navi straniere; esse prendevano con sé qualcuno che voleva lasciare le isole beate e attraversare il mare.

Mentre così saliva per la montagna, Zarathustra, strada facendo, pensava al suo lungo solitario peregrinare sin dalla giovinezza e su quante montagne e dorsi e vette era già salito.

Io sono un viandante e uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo.

E qualunque destino o esperienza mi tocchi, — in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.

È trascorso il tempo in cui potevano ancora avvenirmi fatti casuali; e che cosa potrebbe capitarmi ora che non fosse già mio!

Torna indietro, torna a casa il mio me stesso e ciò che di esso fu a lungo in terra straniera e disperso fra tutte le cose e i fatti casuali.

E ancora una cosa so: ora mi trovo davanti alla mia ultima vetta e davanti a ciò che più a lungo mi fu risparmiato. Ah, debbo salire la più dura delle mie vette! Ah, ho incominciato la più solitaria delle mie peregrinazioni!

Chi però è della mia specie non sfugge a tale ora: all’ora che gli dice: «Solo adesso vai per la tua strada di grandezza! Vetta ed abisso — sono compresi in uno!

— Tu vai per la tua strada di grandezza: ora è diventato il tuo ultimo rifugio ciò che finora si considerava il tuo ultimo pericolo!

Tu vai per la tua strada di grandezza: ora il tuo coraggio migliore dev’essere questo, che dietro di te non ci sono più altre strade!

Tu vai per la tua strada di grandezza: qui non ti striscerà dietro nessuno! Il tuo piede stesso cancellò la via dietro di te, e sopra di te sta scritto: impossibilità.

E quando ti mancheranno tutte le scale, devi sapere salire sopra la tua testa: come altrimenti pretenderesti di salire in alto?

Sulla tua testa e scavalcando il tuo cuore! Quanto in te v’è di più mite deve ora diventare la cosa più dura.

Chi si è sempre troppo risparmiato, alla fine si ammala del suo essersi troppo risparmiato. Sia lodato ciò che rende duri! Io non lodo il paese dove burro e miele — scorrono a fiumi!

Imparare a non vedere in dipendenza da quel che siamo è necessario per vedere molto: — questa durezza è necessaria ad ogni scalatore.

Ma chi, come uomo della conoscenza, è con gli occhi indiscreto, come potrebbe vedere in tutte le cose al di là dei loro primi piani!

Ma tu, o Zarathustra, volevi contemplare il fondo o lo sfondo di tutte le cose; così devi salire sopra te stesso, — avanti, più in alto, finché avrai sotto di te anche le tue stelle!»

Sì! Guardate dall’alto su di me e anche sulle mie stelle: questo sì sarebbe la mia vetta, questo mi è ancora rimasto come la mia ultima vetta!—

Così parlò Zarathustra a se stesso mentre saliva, consolando il suo cuore con brevi e dure massime: poiché egli era ferito al cuore come non mai. E quando giunse in cima al monte, ecco spalancarsi davanti a lui l’altro mare: egli si fermò e rimase a lungo silenzioso. Ma la notte era fredda a quell’altitudine, e limpida e tutta stellata.

Io riconosco la mia sorte, disse egli infine con tristezza. Ebbene! Sono pronto. Incominciare la mia ultima solitudine.

Ah, questo triste e negro mare sotto di me! Ah, questa gravida riluttante lentezza della notte! Ah, destino e mare! A voi debbo discendere, in basso!

Mi trovo davanti al più alto dei miei monti e alla più lunga delle mie peregrinazioni: perciò devo scendere più in fondo di quanto non sia mai salito: — più in fondo nel dolore di quanto non sia mai salito; fin dentro il suo flutto più nero! Così vuole il mio destino: orsù! Io sono pronto.

Di dove vengono le montagne più alte? chiesi una volta. Allora appresi che vengono dal mare.

Questa testimonianza è scritta nella loro pietra e nelle pareti delle loro vette. Dal più profondo deve ascendere la cosa più alta alla sua altezza.

Così parlò Zarathustra sulla cima del monte, dove faceva freddo: ma quando giunse nei pressi del mare e fu infine solo tra gli scogli si trovo stanco del cammino e più che mai preso dalla nostalgia.

Tutto dorme ancora, disse; anche il mare dorme. Ebbro di sonno e assente mi guarda il suo occhio.

Ma il suo respiro è caldo, Io sento. E sento anche che sogna. Sognando si rigira su duri cuscini.

Ascolta! Ascolta! Come geme per cattivi ricordi! O per cattivi presentimenti?

Ah, sono triste insieme con te, tu scuro mostro e ancora adirato con me stesso per causa tua.

Ah, che la mia mano non abbia abbastanza forza! Volentieri, in verità, ti libererei dai cattivi sogni! —

E mentre Zarathustra così parlava, rideva malinconico e amaro di se stesso. «Come! Zarathustra!» egli disse «Vuoi anche consolare il mare con il tuo canto?

O tu, amoroso folle, Zarathustra, tu superfiducioso! Ma fosti sempre così: sempre ti accostasti fiducioso a tutte le cose spaventose.

Ogni mostro cercasti di accarezzare. Un soffio d’alito caldo, un po’ di vello morbido sulla zampa: — e tu eri già pronto ad amarlo e ad allettarlo.

L’amore è il pericolo del solitario, l’amore, per qualsiasi cosa, purché sia viva! Risibile è in verità la mia follia e la mia modestia nell’amore!» —

Così parlò Zarathustra e intanto rise per la seconda volta: ma qui si sovvenne degli amici che aveva abbandonato —, e come se nei pensieri avesse peccato contro di loro, si adirò con questi suoi pensieri. E subito dopo accadde che il ridente pianse: — per l’ira e la nostalgia Zarathustra amaramente pianse.


 
Della visione e dell’enigma

 
Capitolo 1
Quando fra i marinai corse voce che Zarathustra era sulla nave — poiché insieme con lui era venuto a bordo un uomo che veniva dalle isole beate, — ne nacque grande curiosità e attesa. Ma Zarathustra tacque per due interi giorni ed era nella sua tristezza così freddo e sordo, da non rispondere né a sguardi né a domande. Ma la sera del secondo giorno egli riaprì le sue orecchie, sebbene continuasse a tacere: poiché v’erano molte cose strane e pericolose da ascoltare su quella nave che veniva di lontano e voleva andare ancora lontano. Ma Zarathustra era amico di tutti coloro che compiono lunghi viaggi e non sanno vivere senza pericolo. E guarda! Alla fine ascoltando gli si sciolse anche la lingua, e il ghiaccio del suo cuore si spezzò: — allora incominciò a parlare così: a voi, audaci nel cercare e nel tentare e a chi mai s’imbarcò con accorte vele su terribili mari. — a voi ebbri di enigmi, amanti d’ogni luce crepuscolare, la cui anima è attratta da flauti verso ogni voragine dell’io: — e poiché voi non volete seguire con mano codarda un filo; e dove potete indovinare odiate dischiudere, —

a voi soli racconto l’enigma che vidi, — la visione del più solitario.

— Tetro me ne andavo, non molto tempo fa, in un cadaverico crepuscolo, — tetro e duro, le labbra serrate. Non soltanto un sole mi era tramontato.

Un sentiero, che saliva ostile tra il pietrame, maligno, solitario, abbandonato anche da erbacce ed arbusti, un sentiero di montagna scricchiolava sotto l’assalto del mio piede.

Muto camminando su uno schernevole crepitio di ciottoli, calpestando la pietra che lo faceva scivolare: così il mio piede si faceva strada verso l’alto.

Verso l’alto: — a dispetto dello spirito, che lo attirava verso il basso, verso l’abisso, a dispetto dello spirito di gravità, il mio demonio e nemico mortale.

Verso l’alto: — sebbene fosse seduto su di me, mezzo nano, mezzo talpa; storpio e storpiante; piombo nel mio orecchio, stillando pensieri — gocce-di-piombo nel mio cervello.

«O Zarathustra», sussurrava schernevole sillaba per sillaba «pietra filosofale! Scagliasti te stesso in alto, ma ogni pietra scagliata deve — ricadere!

O Zarathustra, pietra filosofale, pietra di fionda, frantumatore di stelle ! Scagliasti te stesso tanto in alto, — ma ogni pietra scagliata — deve ricadere!

Condannato a te stesso e all’autolapidazione: o Zarathustra scagliasti, sì, lontano la pietra — ma essa, ricadrà su di te!»

Qui il nano tacque; e ciò durò a lungo. Ma il suo tacere mi opprimeva; ed essere in due in questo mondo, è in verità essere più soli che da soli!

Salivo, salivo, sognavo, pensavo, — ma tutto mi opprimeva; somigliavo a un malato che la sua tremenda tortura rende affranto e che un sogno ancor più tremendo ridesta mentre sta per addormentarsi. — Ma c’è qualcosa in me che io chiamo coraggio: e questo finora mi ammazzò sempre ogni scoraggiamento. Questo coraggio alla fine mi ordinò di fermarmi e dire: «Nano! Tu o io!»

Il coraggio è infatti il miglior ammazzatore, — il coraggio, che attacca, poiché in ogni attacco v’è un tamburo battente.

Ma l’uomo è l’animale più coraggioso: così superò ogni animale. A tamburo battente superò anche ogni dolore; ma il dolore dell’uomo è il dolore più profondo.

Il coraggio ammazza anche le vertigini sull’orlo degli abissi: e quando mai l’uomo non pencola sull’orlo di abissi! Lo stesso vedere non è forse — vedere abissi?

Il coraggio è il miglior ammazzatore; il coraggio ammazza anche la compassione. La compassione è l’abisso più profondo: quanto più a fondo penetra l’uomo nella vita, tanto più a fondo penetra nel dolore.

Ma il coraggio è il miglior sterminatore, il coraggio che attacca: esso stermina anche la morte, perché dice: «Era questa la vita? Orsù! Di nuovo!»

In questa sentenza c’è però molto gioco sonante. Chi ha orecchi, intenda. —


 
Capitolo 2
«Alt, nano!» dissi «O io! O tu! Ma io sono il più forte dei due —: tu non conosci il mio abissale pensiero! Quello non potresti sopportarlo!»—

Allora accadde qualcosa che mi alleggerì: poiché il nano mi saltò giù dalla spalla, il curioso! E si accoccolò su una pietra davanti a me. Ma là dove ci eravamo fermati era giusto una porta maestra.

«Guarda questa porta, nano!» continuai io «Ha due facce. È il punto di convergenza di due strade: nessuno le percorse mai sino in fondo.

Questa lunga via fino alla porta: dura un’eternità. E quella lunga via al di là della porta — è un’altra eternità.

Si contraddicono questi due cammini; cozzano con la testa uno contro l’altro: — e qui, a questa porta maestra, è il punto dove convergono. Il nome della porta maestra è scritto lassù in alto: “Attimo”.

Ma chi ne percorresse uno dei due — sempre avanti, sempre più lontano: credi, nano, che questi cammini si contraddicano in eterno?» — «Tutto quel che è rettilineo mente» mormorò con disprezzo il nano. «Tutte le verità sono ricurve, il tempo stesso è un circolo».

«Tu spirito di gravità!» dissi io adirato «Non prendertela troppo alla leggera! O ti lascio accoccolato dove stai ora, pie storpio, — io che ti portai in alto!

Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta maestra detta Attimo si diparte all’indietro una via lunga ed eterna: dietro di noi si stende un’eternità.

Quelle che fra le cose possono camminare non devono per forza aver percorso una volta questa via? Non deve ogni cosa che può accadere essere già accaduta, compiuta, passata oltre?

E se tutto è già esistito: che cosa pensi, nano, di quest’attimo? Anche questa porta maestra non deve essere già per forza esistita?

E non sono forse tutte le cose saldamente annodate fra loro, cosicché questo attimo attira a sé tutte le cose venture? Dunque ancora se stesso?

Poiché ogni cosa che può camminare: anche per questa lunga via al di là della porta deve ancora una volta andare! —

E questo lento ragno che arranca al chiaro di luna e lo stesso chiaro di luna e io e te presso la porta maestra, sussurrando fra noi, sussurrando di cose eterne, — non dobbiamo essere tutti già esistiti?

— e ritornare e andare per quell’altra via, al di là della porta, davanti a noi, per quella lunga orrida via — non dobbiamo ritornare eternamente?»

Così parlavo, sempre più sommesso: poiché avevo paura dei miei stessi pensieri e di quel che si celava dietro i pensieri. E qui, all’improvviso, sentii, non lontano da noi, ululare un cane. Udii mai un cane ululare così? Il mio pensiero ritornò indietro di corsa. Sì! Quando ero bambino, nella più remota infanzia: — Allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa alta, tremante, nella più silenziosa mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri: — così che provai compassione. Proprio in quel momento la luna piena, muta come la notte, comparve sopra la casa, si fermò, rotondo ardore, — silenziosa su un tetto piatto, come sulla proprietà altrui: — il cane allora si spaventò moltissimo: poiché i cani credono ai ladri e agli spettri. E quando io udii ululare così un’altra volta, provai di nuovo compassione.

Dov’era andato il nano? E la porta maestra? E il ragno? E tutto il sussurrare? Stavo dunque sognando? Mi ero destato? A un tratto mi trovai fra selvagge rupi, solo, deserto, nel più deserto chiaro di luna.

Ma qui giaceva un uomo! Ed ecco! Il cane, saltellante, col pelo irto, uggiolante, — ora vedeva che mi avvicinavo — ululò di nuovo, gridò: — udii mai un cane gridare aiuto a questo modo?

E, in verità, di quel che allora vidi non avevo mai visto l’uguale. Un giovane pastore vidi, che soffocando si contorceva, si scuoteva, il volto sconvolto, e a cui penzolava dalla bocca un pesante serpente nero.

Vidi mai tanto schifo e livido orrore su un volto? Aveva forse giaciuto addormentato? E il serpente gli era scivolato in gola — e lì si era aggrappato coi denti.

La mia mano afferrò il serpente e strappò e strappò: — invano! non riuscì a strappare il serpente da quella gola. Allora sentii gridare da dentro di me «Mordi! Mordi!

Staccagli la testa! Mordi» — così sentii gridare da dentro di me; il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia compassione, tutto il mio bene e il mio male gridarono da dentro di me ad una voce. — Voi audaci intorno a me! Voi che cercate e sperimentate, e chi di voi s’imbarcò con accorte vele su mari inesplorati! Voi amanti degli enigmi!

Scioglietemi dunque l’enigma che io vidi, spiegatemi dunque la visione del più solitario fra tutti!

Poiché era una visione e una previsione: — che cosa vidi allora in forma di similitudine? E chi è che deve ancora venire?

Chi è il pastore, a cui era scivolato in gola il serpente? Chi è l’uomo a cui scivolerà in gola quanto v’è di più pesante, di più nero?

— Ma il pastore morde, come il mio grido gli consigliava; morde con buon morso! E sputò lontano la testa del serpente —: e balzò in piedi.

Non più pastore, non più uomo, — un trasfigurato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai ancora sulla terra aveva riso un uomo come rise quello!

O miei fratelli, udii un ridere che non era il ridere di un uomo, e adesso mi divora una sete, una nostalgia che mai si placa.

La nostalgia di questo riso mi divora: oh, come sopporto di vivere ancora! Ma come sopporterei di morire ora! —

Così parlò Zarathustra.


 
Della beatitudine non voluta
Con tali enigmi ed amarezza in cuore Zarathustra prese il mare. Ma quando fu a quattro giorni di viaggio dalle isole beate e dai suoi amici, ecco che aveva superato tutto il suo dolore: — vittorioso e saldo di nuovo sul suo destino. E così parlò Zarathustra alla sua coscienza esultante:

Sono di nuovo solo e voglio essere solo, solo col cielo puro e il mare aperto; e di nuovo intorno a me è pomeriggio.

Di pomeriggio incontrai per la prima volta i miei amici, di pomeriggio anche la seconda volta: — nell’ora in cui ogni luce si fa più silenziosa.

Poiché ciò che è felicità ed è ancora in cammino tra cielo e terra ricerca per suo asilo un’anima luminosa: per la felicità ogni luce si è fatta ora più silenziosa.

O pomeriggio della mia vita! Una volta anche la mia felicità scese a valle a cercarsi un asilo: e allora trovò queste anime aperte e ospitali.

O pomeriggio della mia vita! Che cosa non diedi per avere una cosa: questa piantagione vivente dei miei pensieri e questa luce mattutina della mia suprema speranza!

Compagni di strada si cercò un tempo il creatore e figli della sua speranza: ed ecco si trovò che egli non avrebbe potuto trovarli, a meno di non crearli lui stesso.

Dunque io sono nel pieno della mia opera, vado ai miei figli e ne ritorno: per amore dei suoi figli Zarathustra deve compiere se stesso.

Poiché profondamente si amano il proprio figlio e la propria opera; e dove c’è un grande amore per se stessi, là è il segno della gravidanza: così trovai.

Ancora verdeggiano i miei figli nella loro acerba primavera, l’uno accanto all’altro e squassati dagli stessi venti, gli alberi del mio giardino e del miglior luogo della terra.

E in verità! Dove simili alberi stanno uno accanto all’altro, là sono le isole beate!

Ma una volta li sradicherò e li ripianterò sparsi e distanti: perché ognuno impari solitudine e sfida e prudenza.

Nodoso e curvo e di flessibile durezza, dovrà starmi in riva al mare, faro vivente di vita invincibile.

Là dove le bufere si precipitano nel mare, e la proboscide della montagna beve l’acqua, là ognuno deve avere una volta le sue veglie diurne e notturne a sua prova e conoscenza.

Conosciuto e provato egli deve essere, — se sia della mia specie e della mia origine, se sia padrone di una lunga volontà, taciturno anche quando parla, e così pronto a dare che nel dare prende: —

— che egli diventi un giorno mio compagno di strada, un con-crea-tore, e un con-celebratore di feste di Zarathustra —: uno che scriva la mia volontà sulle mie tavole: per il più completo compimento di tutte le cose.

E per amor suo e dei suoi pari io devo compiere me stesso: perciò mi sottraggo alla mia felicità e mi offro ad ogni infelicità — a mia ultima prova e conoscenza.

E, in verità, era tempo che me ne andassi; e l’ombra del viandante e il tempo più lento a passare e l’ora più silenziosa — tutti mi dicevano: «È il momento!»

Il vento mi soffiò nel buco della serratura e disse: «Vieni!». La porta, astuta, mi si spalancò davanti e disse: «Va!»

Ma io giacevo incatenato all’amore per i miei figli: la brama mi aveva messo questi lacci, la brama d’amore, di diventare preda dei miei figli e di perdermi per loro.

Brama — già questo significa per me: essermi perduto. Ma io ho voi, figli miei! In questo avervi, tutto dev’essere sicurezza e niente brama.

Ma, come a covarmi, stava sopra di me il sole del mio amore, e nel proprio succo cuoceva Zarathustra, — ed ecco che volarono via da me ombre e dubbi.

Di gelo e d’inverno ero già voglioso: «Oh se gelo e inverno mi facessero di nuovo scricchiolare e crepitare!», sospiravo: — ed ecco che da me salirono nebbie ghiacciate.

Il mio passato infranse le sue bombe, qualche dolore sepolto vivo si ridestò —: non aveva che dormito a sazietà, celato in un sudario.

Così tutto mi gridò a segni: «È tempo!» Ma io — non udivo: finché il mio abisso si riscosse e il mio pensiero mi morse.

— Ah, pensiero abissale, che sei il mio pensiero! Quando troverò la forza di sentirti scavare, senza più tremare?

In gola mi balza il cuore, quando ti sento scavare! Il tuo silenzio mi vuole soffocare, tu abisso taciturno!

Mai finora osai chiamarti quassù: è già abbastanza che io ti abbia — portato con me! Non ero ancora forte abbastanza per l’estrema audacia e tracotanza leonina.

Abbastanza terribile fu per me sempre il tuo stesso peso: ma una volta troverò pure la forza e la voce leonina che ti chiami quassù!

Quando mi sarò superato in questo, voglio superarmi anche nella cosa più grande: e una vittoria dev’essere il sigillo del mio compimento!—

Nel frattempo erro ancora per mari incerti; il caso mi lusinga, con la sua tenera lingua; mi guardo avanti e indietro —, e non vedo ancora la fine.

Ancora non venne l’ora della mia ultima lotta, — o sta giusto venendo? In verità, con perfida bellezza tutt’intorno mi guardano il mare e la vita!

O pomeriggio della mia vita! O felicità prima della sera! O porto in alto mare! O pace nell’incerto! Come diffido di voi tutti!

In verità, io diffido della vostra perfida bellezza! All’amante io somiglio che diffida di un sorriso troppo vellutato.

Come egli respinge da sé la donna amata, tenero anche nella sua durezza, e geloso —, così io respingo da me quest’ora di beatitudine.

Vattene, ora beata! Con te mi venne una beatitudine controvoglia! Voglia ho del mio più profondo dolore: — fuori tempo venisti!

Vattene, ora beata! È meglio che tu cerchi asilo laggiù — presso i miei figli! Svelta! E benedicili prima di sera, con la mia felicità!

Già si appressa la sera: il sole tramonta. Allontanati, mia felicità! —

Così parlò Zarathustra. E attese per tutta la notte la sua infelicità: ma attese invano. La notte rimase chiara e silenziosa, e la felicità gli si faceva sempre più accosto; Ma verso mattina Zarathustra rise col proprio cuore e beffardo disse: «La felicità mi rincorre. Ciò accade perché io non rincorro le femmine. E la felicità è femmina».


 
Prima del levar del sole
O cielo sopra di me, tu puro! Tu profondo! Tu abisso di luce! Contemplando rabbrividisco di divine brame.

Precipitami nella tua altezza — questa è la mia profondità! Celarmi nella tua purezza — questa è la mia innocenza!

Il dio si ammanta della sua bellezza: così tu celi le tue stelle. Tu non parli: così mi manifesti la tua saggezza.

Muto sul mare spumeggiante oggi ti sei levato, il tuo amore e il tuo pudore parlano rivelazione alla mia anima spumeggiante.

Che tu venisti a me così bello, ammantato nella tua bellezza, che tu mi parli tacendo, manifesto nella tua saggezza: Oh, come potrei non indovinare tutto il pudore della tua anima! Prima del sole venisti a me, al più solitario fra tutti.

Noi siamo amici da sempre: abbiamo in comune mestizia e orrore e fondo: anche il sole abbiamo in comune.

Non parliamo fra noi, perché sappiamo troppo —: ci scambiamo silenzio, ci comunichiamo sorridendo il nostro sapere.

Non sei tu la luce per il mio fuoco? Non hai tu l’anima-sorella della mia contemplazione?

Insieme apprendemmo ogni cosa; insieme apprendemmo a salire al di sopra di noi verso di noi e a sorridere senza nubi: — — a guardar in basso sorridendo senza nubi, con occhi luminosi e da lontananze di miglia, quando sotto di noi come pioggia fumante sono costrizione e scopo e colpa.

E solo peregrinai: di che era affamata la mia anima nelle notti e sulle strade sbagliate? E quando salivo per i monti, chi cercavo mai, se non te, sui monti?

E tutto il mio peregrinare e scalare: era solo una necessità e un aiuto provvisorio per lo sprovvisto di aiuto: — volare soltanto era tutta la mia volontà, volare dentro di te!

E chi odiavo più delle nuvole che passano e di tutto ciò che ti contamina? E poi odiavo il mio stesso odio perché esso ti contaminava!

Con le nuvole che passano sono adirato, con questi indolenti rapaci felini: sottraggono a te e a me ciò che abbiamo in comune, — l’immane smisurato «dire sì e amen».

Con questi mediatori e rimescolatori siamo adirati, con le nuvole che passano: con questi mezzo-e-mezzi che non imparano a benedire, ma nemmeno a maledire dal profondo.

Meglio per me stare sotto un cielo sbarrato, nella botte, meglio per me stare senza cielo, nell’abisso, che vedere te, cielo di luce, contaminato da nuvole che passano!

E spesso provai la voglia di infilzarle con gli aurei fili seghettati della folgore e, come il tuono, di suonare il tamburo sulla pentola del loro ventre: — — un furibondo suonatore di tamburo, perché essi mi rubano il tuo «sì! e amen!», tu cielo, sopra di me, tu puro! Luminoso! Abisso di luce! — perché ti rubano il mio «sì! e amen!».

Giacché io preferisco rumore e tuono e le maledizioni del temporale a questa circospetta e dubbiosa quiete felina: e anche fra gli uomini odio soprattutto quelli che camminano senza rumore e i mezzo-e-mezzi e le dubbiose e titubanti nuvole che passano.

E «chi non sa benedire, deve imparare a maledire!» — questo luminoso insegnamento mi cadde dal cielo, questa stella brilla nel mio cielo anche nelle notti nere.

Ma io sono uno che benedice e uno che dice sì, solo che tu sia intorno a me, tu puro! Luminoso! Tu abisso di luce! — in tutti gli abissi porto con me il mio benedicente dire di sì.

Sono diventato uno che benedice e che dice sì: e per giungervi combattei a lungo e fui un lottatore, per avere un giorno le mani libere per benedire.

Ma questa è la mia benedizione: stare sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come il suo tetto ricurvo, la sua campana azzurra e la sua eterna sicurezza: e beato è colui che così benedice!

Giacché tutte le cose sono battezzate alla fonte dell’eternità, e al di là del bene e del male; ma il bene e il male sono di per sé ombre intermedie e umidi turbamenti e nuvole che passano.

In verità, è un benedire e non un imprecare, quando insegno: «Al di sopra di tutte le cose sta il cielo caso, il cielo innocenza, il cielo accidente, il cielo audacia».

«Per accidente» — questa è la più antica nobiltà del mondo, io la restituii a tutte le cose, le liberai dall’asservimento al fine.

Questa libertà e serenità del cielo posi come campana azzurra su tutte le cose, quando insegnai che al di sopra di loro e tramite loro non vi è una «volontà eterna» — che vuole.

Questa audacia e questa follia misi al posto di quella volontà quando insegnai: «In tutto una sola cosa è impossibile — razionalità!».

Un po’ di ragione, un seme di saggezza sparso da stella a stella, — questo lievito è invero mescolato in tutte le cose: a causa della follia la saggezza è mescolata in tutte le cose!

Un po’ di saggezza è anche possibile:, ma in tutte le cose trovai questa beata sicurezza: che esse preferiscono —danzare sui piedi del caso.

O cielo sopra di me, tu puro! Alto! Questa è per me ora la tua purezza, che non ci siano ragno né ragnatele della ragione eterna: — — che tu sia per me una pista da ballo per casi divini, che tu sia per me un tavolo divino per dadi e giocatori divini! — Ma tu arrossisci? Ho detto cose indicibili? Ho imprecato, mentre volevo benedirti?

O è il pudore in due che ti fa arrossire? — Mi comandi di andarmene e tacere, poiché ora sta venendo — il giorno”) Il mondo è profondo —: e più profondo di quanto il giorno mai abbia pensato. Non a tutti è data la parola in presenza del giorno. Ma il giorno viene: così ci separiamo!

O cielo sopra di me, o pudico! O ardente! O tu mia felicità prima che il sole si levi! Il giorno viene: ecco che ci separiamo! —

Così parlò Zarathustra.


 
Della virtù che rimpicciolisce

 
Capitolo 1
Quando Zarathustra fu di nuovo sulla terraferma, non si diresse subito alle sue montagne e alla sua spelonca, percorse bensì molte strade e pose molte domande, e s’informò di questo e di quello, tanto che disse, scherzando, di se stesso: «Ecco un fiume che con molti meandri ritorna alla sorgente!» Giacché egli voleva fare esperienza di ciò che nel frattempo fosse avvenuto dell’ uomo: se fosse diventato più grande o più piccolo. E una volta vide una fila di case nuove; allora si meravigliò e disse:

Che significano queste case? In verità, non le edificò una grande anima, a propria immagine!

Le tirò fuori un bambino scemo dalla sua scatola dei giocattoli? Se un altro bambino le riponesse nella sua scatola!

E queste calde stanzette e camere: possono entrarvi e uscirvi degli uomini! Mi sembrano fatte per bambole di seta e per gatte golose, che si danno volentieri all’altrui golosità.

E Zarathustra si fermò a pensare. Alla fine disse turbato: «È diventato tutto più piccolo!

Dappertutto vedo porte più basse: chi è della mia specie ci passa ancora, sì, ma — deve piegarsi!

Oh, quando ritornerò nella mia patria, dove non mi devo più piegare — non mi devo più piegare davanti ai piccini!» — E Zarathustra sospirò e guardò lontano. —

Ma quello stesso giorno pronunciò il suo discorso sulla virtù che rimpicciolisce.


 
Capitolo 2
Passo in mezzo a questo popolo e tengo gli occhi aperti: essi non mi perdonano che io non sia invidioso delle loro virtù.

Essi cercano di mordermi, perché io dico loro: alla gente piccina sono necessarie virtù piccine — e perché mi è duro convincermi che la gente piccina sia necessaria!

Io somiglio ancora a un gallo capitato in una fattoria altrui: le galline cercano di morderlo; ma io non me la prendo con queste galline.

Sono cortese con loro, come con ogni piccola seccatura; essere pungenti con quel che è piccolo mi sembra una saggezza da istrice.

Parlano tutti di me, quando la sera si mettono intorno al fuoco, — parlano di me, ma nessuno pensa — a me!

Questo è il nuovo silenzio che appresi: il loro rumore intorno a me stende un mantello sui miei pensieri.

Essi rumoreggiano tra loro: «Che vuole da noi questa nuvola cupa? Badiamo che non ci porti un’epidemia!».

E poco fa una donna strinse a sé il figlio che voleva venire a me: «Portate via i bambini!» gridò «Occhi come questi inceneriscono le anime dei bambini».

Tossiscono quando io parlo: credono che tossire sia una obiezione ai venti impetuosi; — essi non immaginano lo spumeggiare della mia felicità!

«Non abbiamo tempo per Zarathustra» così obiettano; che importa di un tempo che «non ha tempo» per Zarathustra?

E quando mi elogiano: come potrei addormentarmi sul loro elogio? Una cintura di spine è per me il loro elogio: mi graffia persino quando me la tolgo.

E anche questo imparai fra loro: chi loda si atteggia a restitutore; in verità è uno che vuole ricevere più regali!

Interrogate il mio piede, se la loro melodia di lode e di richiamo gli piace! In verità esso non può né danzare né star fermo a un simile ritmo, a simile tic tac.

Vorrebbero attrarmi alla piccola virtù e lodarmi; al tic tac della piccola felicità vorrebbero ridurre il mio piede.

Io vado in mezzo a questo popolo e tengo gli occhi aperti: sono diventati più piccini e diventano sempre più piccini: ma questo è dovuto alla loro dottrina di felicità e di virtù.

Essi infatti sono modesti anche nella virtù — perché vogliono il benessere. Ma col benessere si accorda solo una virtù modesta.

Essi imparano, sì, a modo loro, a camminare e ad avanzare: questo io lo chiamo il loro zoppicare —. Così sono di intralcio a chiunque abbia fretta.

E qualcuno di loro avanza, ma avanzando si guarda indietro, con la nuca irrigidita: e uno così mi piace investirlo.

Piede ed occhio non devono mentire né smentirsi a vicenda. Ma c’è molta menzogna presso la gente piccina.

Alcuni di loro vogliono, ma i più sono soltanto voluti. Alcuni di loro sono autentici, ma i più sono soltanto cattivi attori.

Ci sono tra loro attori incoscienti e attori involontari —, gli autentici sono sempre rari, e rari sono soprattutto gli attori autentici.

C’è poca virilità: per questo si virilizzano le loro donne. Giacché soltanto chi è uomo abbastanza — redimerà la donna nella donna.

E questa simulazione trovai la peggiore di tutte: che anche quelli che comandano simulano le virtù di quelli che servono.

«Io servo, tu servi, noi serviamo» — così prega anche la simulazione di quelli che dominano, — e guai, quando il primo signore è soltanto il primo servitore!

Ah, anche nelle loro simulazioni si smarrì la curiosità del mio occhio; e io indovinai bene tutta la loro felicità di mosche e il loro ronzare su vetri caldi di finestre soleggiate.

Tanta bontà, altrettanta debolezza vedo. Tanta giustizia e compassione, altrettanta debolezza.

Rotondi, giusti e benevoli sono l’uno con l’altro, come i granelli di sabbia sono rotondi, giusti e benevoli con i granelli di sabbia.

Abbracciare umilmente una piccola felicità — questa essi la chiamano «rassegnazione»! E intanto sbirciano già umilmente verso una nuova piccola felicità.

In fondo essi vogliono ingenuamente una cosa soprattutto: che nessuno faccia loro male. Così prevengono ognuno e gli fanno del bene.

Ma questa è viltà: sebbene si chiami «virtù».

E anche se capita che parli rudemente, questa piccola gente: io non odo in ciò che la loro afonia, giacché ogni corrente d’aria li rende afoni.

Sono accorti, le loro virtù hanno dita accorte. Ma mancano loro i pugni, le loro dita non sanno nascondersi dentro il pugno.

Virtù è per loro ciò che rende umili e miti: così fecero del lupo un cane e dell’uomo stesso il miglior animale domestico dell’uomo.

«Noi collochiamo la nostra sedia nel mezzo — mi dice il loro sorriso soddisfatto — a uguale distanza da gladiatori morenti e da scrofe appagate».

Ma questa è —mediocrità: sebbene sia chiamata misura. —


 
Capitolo 3
Io vado in mezzo a questo popolo e lascio cadere qualche parola: ma esso non sa né prendere né serbare.

Si meravigliano che sia venuto a imprecare sui piaceri e sui vizi; ma in verità io non sono venuto nemmeno per metterli in guardia contro i borsaioli!

Si meravigliano che io non sia pronto a rendere più sapida ed acuta la loro accortezza: come se tra loro non avessero ancora abbastanza intelligentoni la cui voce mi solletica come il frusciare di una matita!

E quando grido: «Maledite tutti i diavoli codardi in voi, che piagnucolano volentieri e giungono le mani e vorrebbero adorare», essi gridano: «Zarathustra è senza dio».

E lo gridano soprattutto i loro maestri della rassegnazione —; ma giusto a loro amo gridare negli orecchi: Sì, io sono Zarathustra, il senza dio!

Questi maestri della rassegnazione! Dovunque sia piccineria, malattia e rogna, arrancano loro, come pidocchi: e solo lo schifo m’impedisce di schiacciarli.

Orsù! Questa è la mia predica per i loro orecchi: io sono Zarathustra, il senza dio, che dice: «Chi è più senza dio di me, che io possa godere dei suoi ammaestramenti?»

Io sono Zarathustra, il senza dio: dove troverò i miei pari? E tutti sono miei pari quelli che danno a se stessi la propria volontà ed eliminano da sé ogni dedizione.

Io sono Zarathustra, il senza dio: ancora mi cuocio qualsiasi caso fortuito nella mia pentola. E solo quando è giunto a cottura, gli do il benvenuto come mio cibo.

E in verità, qualche caso venne a me imperioso: ma ancora più imperiosa parlò ad esso la mia volontà — ed esso cadeva già supplicando in ginocchio —

— supplicando di trovare asilo e un cuore in me, e sforzandomi con le lusinghe: «Guarda, Zarathustra, come solo un amico può venire all’amico!» — Ma perché parlo dove nessuno ha le mie orecchie? E così voglio gridare ai quattro venti:

Voi diventate sempre più piccini, voi gente piccina! Vi sgretolate, amanti del comodo! Voi andrete in rovina —

— per le molte vostre piccole virtù, per le molte vostre piccole omissioni, per la molta vostra piccola rassegnazione!

Troppo liscio, troppo cedevole: così è il vostro suolo! Ma perché un albero diventi alto, deve gettare dure radici intorno a dure rocce!

Anche ciò che voi omettete, tesse alla tela di tutto il futuro degli uomini; anche il vostro nulla è una ragnatela e un ragno che vive del sangue del futuro.

E quando prendete è come se rubaste, voi piccoli virtuosi; ma anche tra bricconi l’onore dice: «Si deve rubare soltanto dove non si può rapinare».

«Si dà» — anche questo è un insegnamento della rassegnazione. Ma io vi dico, o amanti del comodo: da voi si prende e si prenderà sempre di più!

Ah, se allontanaste da voi ogni volere a metà e foste decisi all’indolenza come all’azione!

Ah, se capiste la mia parola: «Fate sempre quel che volete, — ma prima siate di quelli che sanno volere!».

«Amate il vostro prossimo come voi stessi, — ma siate di quelli che amano se stessi —

— amano con grande amore, amano con grande disprezzo!» Così parla Zarathustra, il senza dio. —

Ma perché parlo dove nessuno ha i miei orecchi! Sono venuto con un’ora di anticipo.

Sono il precursore di me stesso in mezzo a questo popolo, il canto del gallo di me stesso per le vie buie.

Ma la loro ora viene! E viene anche la mia! D’ora in ora diventano più piccoli, più poveri, più sterili, — povera vegetazione, povero suolo!

E presto mi staranno davanti ridotti a erba secca e a steppa, e in verità! Stanchi di loro stessi — e assetati, più che d’acqua, di fuoco!

O benedetta ora della folgore! O segreto prima del mezzogiorno! Fuochi migranti voglio fare di voi e annunziatori dalle lingue di fiamma: — dovranno ancora annunziarmi con lingue di fiamma: Vieni, è vicino il grande meriggio!

Così parlò Zarathustra.


 
Sull’uliveto
L’inverno, sgradito ospite, è in casa mia; blu sono le mie mani per la stretta di mano della sua amicizia.

Io lo onoro, questo sgradito ospite, ma lo lascio volentieri solo. Volentieri mi allontano da lui; e se si corre bene, si riesce a sfuggirgli!

Con piedi caldi e pensieri caldi io corro là dove il vento tace, nell’angolo assolato del mio uliveto.

Là rido del mio rigido ospite e gli sono perfino riconoscente che in casa mi acchiappi le mosche e taciti molti piccoli rumori.

Egli infatti non soffre se uno o anche due moscerini vogliono ronzare; solo la via egli rende solitaria, cosicché il chiaro di luna che la visita la notte s’impaurisce.

È un ospite duro, — ma io lo onoro, e non mi prosterno, come i tenerelli, al panciuto idolo del fuoco.

Meglio battere per un po’ ancora i denti che adorare idoli! — così vuole il mio carattere. Straordinariamente avverso sono a tutti i caldi, fumanti, gradevoli idoli del fuoco.

Chi amo, lo amo meglio d’inverno che d’estate; meglio schernisco i miei nemici e più robustamente, da quando l’inverno è in casa mia.

Davvero robustamente, perfino quando mi rintano nel letto —: allora ride e rimbaldanzisce la mia felicità rintanata, ride anche il mio sogno menzognero.

Io — uno che si rintana? Mai nella vita mi rintanai davanti ai potenti; e se mai mentii, mentii per amore. Perciò sono felice anche nel letto invernale.

Un letto misero mi scalda più di uno ricco, perché io sono geloso della mia povertà. E d’inverno mi è più che mai fedele.

Con una cattiveria comincio ogni giornata e con un bagno freddo irrido all’inverno: e il mio rigido amico di casa brontola.

Mi piace anche fargli il solletico con una candelina di cera: perché alla fine mi lasci sgusciar fuori il cielo dal crepuscolo cinereo.

La mattina sono infatti straordinariamente cattivo: di buonora, quando il secchio del pozzo cigola e i cavalli mandano caldi nitriti per le vie grigie: — Impaziente attendo che mi si spalanchi finalmente il cielo luminoso, il cielo invernale dalla barba di neve, il vecchio dal capo bianco, — il cielo invernale, il taciturno, che spesso tace il proprio sole!

Non appresi forse da lui il lungo tacere luminoso? O lo appresi da me? O l’ha inventato ciascuno di noi?

Ogni cosa buona ha mille origini — ogni cosa buona e proterva balza gioiosa nell’esistenza: come dovrebbe fare ciò sempre soltanto — una volta!

Cosa buona e proterva è anche il lungo tacere e il guardare, come il cielo invernale, con volto luminoso e occhi rotondi: — — come lui tacere il proprio sole e la propria indomita volontà solare; davvero, quest’arte e questa protervia invernale le ho apprese bene!

La mia cattiveria ed arte preferita è che il mio tacere abbia appreso a non tradirsi tacendo.

Con chiasso di parole e di dadi inganno coloro che, solenni, attendono: a tutti questi rigidi sorveglianti devono sgusciare di mano la mia volontà e il mio scopo.

Perché nessuno sguardo scenda in fondo a me e alla mia volontà ultima — a ciò m’inventai il lungo tacere luminoso.

Qualche uomo accorto ho trovato: esso velava il proprio volto e intorbidiva la propria acqua perché nessuno potesse penetrarvi o discendervi con lo sguardo.

Ma proprio da lui andarono i più accorti diffidenti e schiacciatori di noci: proprio in lui pescarono il pesce più recondito!

Ma i chiari, i prodi, i trasparenti — questi sono per me i più accorti fra coloro che tacciono: coloro il cui fondo è così profondo che anche l’acqua più chiara — non lo tradisce. —

Tu silenzioso cielo invernale dalla barba bianca, tu bianca testa dagli occhi rotondi sopra di me! O tu celeste simbolo della mia anima e della sua protervia!

E non devo io nascondermi come uno che ha inghiottito dell’oro, — perché non si cerchi di squarciarmi l’anima?

Non devo andare sui trampoli, in modo che essi non scorgano le mie lunghe gambe, — tutti questi invidiosi e maligni che mi circondano?

Queste anime affumicate, rannicchiate presso la stufa, consunte, inacidite, coperte d’erbacce — come potrebbe la loro invidia sopportare la mia felicità!

Così mostrò loro solo il ghiaccio e l’inverno delle mie vette — e non che il mio monte si cinge anche di molte cinture di sole!

Essi sentono fischiare le mie bufere invernali: e non che io navigo anche sui mari caldi, simile a venti del sud, caldi, grevi e nostalgici.

S’impietosiscono dei miei incidenti e dei miei casi: — ma la mia parola è «lasciate che il caso venga a me: esso è innocente come un bambinello!»

Come potrebbero sopportare la mia felicità, se io non vestissi la mia felicità di incidenti e disagi invernali e cappucci di orso bianco e di coltri di cielo nevoso!

— se non m’impietosissi della loro compassione: della compassione di questi invidiosi e maligni!

— se davanti a loro non sospirassi e non battessi io stesso i denti dal freddo, e non mi lasciassi pazientemente avvolgere nella loro compassione!

Questa è la saggia protervia e la retta volontà della mia anima, che essa non cela i suoi inverni e le sue gelide bufere; e non cela nemmeno i suoi geloni.

La solitudine dell’uno è la fuga del malato; la solitudine dell’altro è la fuga dal malato.

Mi sentano pure tremare e sospirare per il freddo invernale, tutti questi poveri biechi bricconi intorno a me! Con questo sospirare e tremare riesco a fuggire dalle loro stanze riscaldate.

Mi compassionino e sospirino sui miei geloni: «Ci morirò congelato, al ghiaccio della conoscenza!» — così si lamentano.

Intanto, coi piedi caldi io vado avanti e indietro per il mio uliveto: nell’angolo assolato del mio uliveto io canto e schernisco ogni compassione. —

Così parlò Zarathustra.


 
Del passare oltre
Così, procedendo lentamente in mezzo al popolo e a molte svariate città, tornava Zarathustra, allungando la strada, alla sua montagna e alla sua spelonca. Ed ecco che senz’accorgersene giunse alle porte della grande città: e qui si gettò su di lui a braccia aperte un folle con la schiuma alla bocca e gli sbarrò la strada. Costui era lo stesso folle che il popolo chiamava «la scimmia di Zarathustra»: perché aveva preso qualcosa del ritmo e dell’intonazione del suo discorrere e volentieri attingeva anche al tesoro della sua saggezza. E così parlò il folle a Zarathustra: «O Zarathustra, ecco la grande città: qui non hai niente da acquistare e tutto da perdere.

Perché mai guardi questo fango? Abbi compassione del tuo piede! Sputa piuttosto sulla porta della città e — torna indietro!

Qui è l’inferno per i pensieri da eremita: qui i grandi pensieri vengono lessati vivi e cotti a pezzetti.

Qui si putrefanno tutti i grandi sentimenti: qui possono far sentire i loro passi stenti solo sentimentucci stenti ed ossuti!

Non lo senti già l’odore dei macelli e delle bettole dello spirito? Non esala questa città i fumi dello spirito macellato?

Non vedi penzolare le anime come flosci e luridi stracci? — Di questi stracci fanno ancora giornali!

Non senti che qui lo spirito è diventato un gioco di parole? E butta fuori una ripugnante risciacquatura di parole! — E di questa risciacquatura fanno ancora giornali.

Si aizzano a vicenda e non sanno contro che cosa. Si riscaldano a vicenda e non sanno perché. Fanno chiasso con la loro latta, tintinnano col loro oro.

Sono freddi e cercano calore nell’acquavite: sono riscaldati e cercano rinfresco presso spiriti congelati; sono tutti infermi e affetti da opinioni pubbliche.

Qui sono di casa tutte le voglie e tutti i difetti; ma ci sono anche dei virtuosi, c’è molta virtù servizievole e in servizio — Molta virtù servizievole con dita scrivane e un deretano sodo, atto alla pazienza e all’attesa, virtù benedetta da piccole stelle sul petto e da figlie imbottite e senza didietro.

Anche qui c’è molta devozione e molto credulo leccare e adulare e un continuo sfornare lusinghe davanti al dio degli eserciti.

“Dall’alto” gocciolano giù la stella e la saliva della benevolenza; all’alto aspira ogni petto sguarnito di stelle.

La luna ha il suo alone, ovvero la sua corte, e la corte ha le sue escrescenze: ma a tutto ciò che viene dalla corte rivolge le sue preghiere il popolo mendico e ogni virtù mendica e servizievole.

“Io servo, tu servi, egli serve” — così prega ogni virtù servizievole rivolta al suo principe: che la stella guadagnata sia alfine appuntata sull’esile petto!

Ma la luna ruota ancora intorno a quanto vi è di terrestre: così ruota anche il principe intorno a quanto v’è di più terrestre: — ed è l’oro dei mercanti.

Il dio degli eserciti non è un dio dalle barre d’oro: il principe propone e il mercante — dispone!

Per tutto quanto è luminoso e forte e buono in te, o Zarathustra! Sputa su questa città di mercanti e torna indietro!

Qui il sangue scorre per tutte le vene marcio, tiepido e spumoso: sputa sulla grande città che è la grande cloaca dove si radunano schiumeggiando le sozzure!

Sputa su questa città di anime schiacciate e di petti esili di occhi pungenti, di dita appiccicose —

— su questa città di invadenti, di spudorati, di scrivani e di urloni, di ambiziosi accalorati: —

— dove quanto v’è di corrotto, infame, libidinoso, tetro, rammollito, ulceroso, celato come congiura, confluisce in un unico ascesso: — — sputa sulla grande città e torna indietro!»

Ma qui Zarathustra interruppe il folle schiumante d’ira e gli tappò la bocca.

«Smettila, finalmente!» gridò Zarathustra «Già da un pezzo mi nausea il tuo discorrere e il tuo modo!

Perché dimorasti così a lungo presso la palude, da dover diventare tu stesso rana e rospo?

Non ti scorre già forse nelle vene un putrido spumoso sangue palustre, sì che imparasti a gracidare e a imprecare?

Perché non andasti nel bosco? O non arasti la terra? Non è pieno il mare di verdi isole?

Io disprezzo il tuo disprezzare; e giacché tu mi ammonisti, perché non ammonisci te stesso?

Soltanto dall’amore deve levarsi in volo il mio disprezzo e il mio uccello ammonitore: non dalla palude! —

Ti chiamano la mia scimmia, folle schiumante: ma io ti chiamo il mio porco grugnente, — col tuo grugnito mi rovini anche la mia lode della follia.

Che cosa, infatti, ti fece grugnire la prima volta? Che nessuno ti abbia lusingato abbastanza: — per questo ti mettesti vicino a questa lordura, per avere motivo di grugnire molto, —

— per aver motivo di molta vendetta! Vendetta infatti, o vanitoso folle, è tutta la tua schiuma; io ti ho scoperto!

Ma la tua parola di folle mi arreca danno perfino dove hai ragione! E quand’anche la parola di Zarathustra avesse cento volte ragione: tu con la mia parola faresti sempre — torto!»

Così parlò Zarathustra; e guardò la grande città, sospirò e tacque a lungo. E infine parlò così:

Mi disgusta questa grande città, e non soltanto questo folle. Qui e là non v’è nulla da migliorare, nulla da peggiorare.

Guai a questa grande città! — Vorrei già scorgere la colonna di fuoco in cui essa brucia!

Poiché queste colonne di fuoco precedono inevitabilmente il grande meriggio. Ma ciò ha il suo tempo e il suo destino! — Ma a te, folle, do come congedo questo insegnamento: dove non si può più amare, là si deve passare oltre! —

Così parlò Zarathustra e passò oltre il folle e la grande città.


 
Degli apostati

 
Capitolo 1
Ah, è già tutto grigio e appassito quel che poco tempo fa era verde e variopinto su questo prato? E quanto miele di speranza io portai di qui ai miei alveari!

Questi giovani cuori sono tutti invecchiati, — e non sono vecchi! Soltanto stanchi, volgari, pigri: — essi lo chiamano: «siamo tornati ad essere pii».

Ancora poco tempo fa li vedevo il mattino presto correre fuori su piedi intrepidi: ma i loro piedi della conoscenza si stancarono ed ora essi sconfessano anche la loro mattinale intrepidezza!

In verità, alcuni di loro all’origine sollevarono le gambe come danzatori, li incitava il riso della mia saggezza: — poi ci ripensarono. E or ora li vidi trascinarsi curvi — verso la croce.

Intorno alla luce e alla libertà ronzavano come moscerini e giovani poeti. Solo un po’ più anziani, un po’ più freddi: e già sono degli oscuri, dei mormoratori, attaccati alla stufa.

Il loro cuore disperò perché la solitudine mi aveva ingoiato come una balena? Rimase il loro orecchio con lunga nostalgia — invano — in ascolto, se io giungessi o giungessero i richiami delle mie trombe e dei miei araldi?

— Ah, sono sempre pochi coloro il cui cuore ha lungo coraggio e lunga baldanza; e a questi anche lo spirito rimane paziente. Ma tutto il resto è vile.

Il resto: sono sempre i più, il quotidiano, il superfluo, i troppi — tutti costoro sono vili!

Chi è della mia specie farà sul suo cammino esperienze della mia specie: di modo che i suoi primi compagni debbono essere cadaveri e pagliacci.

Ma i suoi secondi compagni — si chiameranno i suoi fedeli: uno sciame vivente, molto amore, molta stoltezza, molta imberbe venerazione.

A questi fedeli non deve legare il suo cuore colui che tra gli uomini è della mia specie; non deve credere a queste primavere e a questi prati variopinti chi conosce la natura labile e vile dell’uomo!

Se potessero altrimenti, vorrebbero anche altrimenti. I mezzo-e-mezzi rovinano tutto ciò che è intero. Se le foglie appassiscono, — che c’è da lamentarsi!

Lasciali andare, lasciali cadere Zarathustra, e non lamentarti! Anzi, soffia tra loro con immenso fruscio di venti, — soffia tra queste foglie, o Zarathustra: che tutto quel che è appassito si allontani da te ancor più presto! —


 
Capitolo 2
«Siamo tornati ad essere pii» — dichiarano questi apostati; anzi, alcuni di loro sono troppo vili per dichiararlo.

A questi guardo negli occhi, — a questi lo dico sul viso, sul rossore delle loro guance: siete di quelli che di nuovo pregano!

Ma è un’onta pregare! Non per tutti, ma per te e per me e per chi abbia la coscienza nella testa! Per te è un’onta pregare! Lo sai bene: il diavolo vile in te, che amerebbe congiunger le mani e abbandonare le mani in grembo e avere la vita più comoda: — questo diavolo vile ti dice: «Esiste un dio!»

Con ciò tu appartieni alla specie pavida della luce, a cui la luce non dà pace; ogni giorno dovrai spingere la tua testa più in fondo nella notte e nella foschia!

E, in verità, scegliesti bene l’ora: poiché proprio adesso stanno di nuovo uscendo gli uccelli notturni. È giunta l’ora della follia pavida della luce, l’ora serale, l’ora della festa, dove non si — «fa festa».

La sento venire e ne sento l’odore: è giunta la loro ora di uscita e di caccia, non di una caccia selvaggia, ma di una caccia addomesticata, incespicante, annusante, una caccia di passi sommessi e di sommessi oranti. — — una caccia a sornioni pieni di anima: tutte le trappole per cuori sono di nuovo tese! E dove sollevo una tenda mi cade addosso una farfalla notturna.

Se ne stava forse rannicchiata insieme con un’altra farfalla? Dappertutto sento infatti odore di piccole comunità rintanate: e dove ci sono stanzette, ci sono nuovi bigotti e afa di bigotti.

Stanno seduti vicini per lunghe sere e dicono: «Diventiamo come i bambini ed esclamiamo “buon dio”!» — e hanno la bocca e lo stomaco guastati da più pasticceri.

O stanno per lunghe sere in contemplazione di uno scaltro ragno portacroce che è in agguato e predica ai ragni accortezza e così insegna: «Sotto le croci si tesse bene!»

O stanno tutto il giorno sulle paludi gettando l’amo e si credono per questo profondi; ma chi pesca dove non ci sono pesci, non lo chiamo nemmeno superficiale!

O imparano, tutti lieti e pii, a suonare l’arpa da un poeta che compone canti e amerebbe entrare suonando l’arpa nel cuore di donnine giovani: — poiché si è stancato delle vecchie e della loro lode.

O imparano a rabbrividire da un dotto mezzo folle, che attende, in buie stanze, che vengano a lui gli spiriti — e lo spirito se ne vada!

O stanno ad ascoltare un vecchio pifferaio vagabondo, che col piffero ronza e brontola ed ha appreso la mestizia delle sue note da mesti venti; ora suona secondo il vento e predica mestizia in meste note.

E alcuni di loro sono diventati addirittura guardiani notturni: ora sanno suonare il corno e di notte fare la ronda e destare vecchie cose che da un pezzo si erano addormentate.

Cinque parole circa vecchie cose udii ieri notte presso il muro del giardino: provenivano da questi vecchi, rabbuiati e aridi guardiani notturni.

«Per essere un padre non si preoccupa abbastanza dei figli: i padri umani sono migliori in questo!» —

«È troppo vecchio! Non si preoccupa già più dei figli!» — così rispose l’altro guardiano notturno.

«Ha dei figli? Nessuno può dimostrarlo, se lui stesso non lo dimostra! È un pezzo che vorrei che egli lo dimostrasse in modo radicale.»

«Dimostrare? Come se quello avesse mai dimostrato qualcosa! Dimostrare gli è difficile; egli fa gran conto che gli si creda.»

«Sì, sì! La fede lo rende beato, la fede in lui. Questo è il modo di fare dei vecchi! Così succede anche a noi!» —

— Così parlarono tra loro i due vecchi guardiani notturni e pavidi della luce, e poi soffiarono rabbuiati nei loro corni: questo avvenne ieri notte presso il muro del giardino.

E a me il cuore si rivoltò dalle risa e voleva scoppiare, ma non sapeva dove: così si sprofondò nel diaframma.

In verità, sarà la mia morte: soffocare dalle risa vedendo un asino ubriaco e sentendo guardiani notturni dubitare di Dio in questo modo.

Non è passato da un pezzo il tempo di tutti questi dubbi? A chi è lecito ridestare ancora queste vecchie cose pavide della luce e addormentate!

È finita da un pezzo per i vecchi dei: e, in verità, hanno avuto una buona e serena fine da dei!

Non il «crepuscolo» portò loro la morte, — è una menzogna! Piuttosto: essi sono morti per causa propria, sono morti dal ridere!

Accadde quando un dio si lasciò sfuggire la più empia delle parole, — la parola: «Esiste un solo dio! Non avrai altro dio all’infuori di me!»

— un vecchio barbone iroso di un dio, un dio geloso, che ebbe questa sconsideratezza: —

E tutti gli dei risero e oscillarono sui loro seggi ed esclamarono: «Che vi siano dei e nessun dio, non è questa la divinità?»

Chi ha orecchi per intendere, intenda. —

Così parlò Zarathustra nella città che amava e che è soprannominata «Vacca pezzata». Di qui aveva infatti ancora due soli giorni di cammino per raggiungere la sua spelonca e i suoi animali; e la sua anima esultava in ogni istante per la prossimità del ritorno in patria. —


 
II ritorno in patria
O solitudine! Tu patria mia, solitudine! Troppo a lungo vissi selvaggio in selvaggi paesi stranieri, per non tornare a te con le lacrime!

Ora minacciami solo col dito, come minacciano le madri, ora sorridimi, come sorridono le madri, ora dimmi: «Chi fu che come un vento impetuoso se ne andò da me? — — che partendo gridò: troppo a lungo rimasi con la mia solitudine, e disimparai il silenzio! Questo — ora l’hai imparato?

O Zarathustra, io so tutto: anche che tra i molti tu, l’uno, eri più abbandonato di quanto fossi mai stato insieme con me!

Una cosa è l’abbandono, altra è la solitudine: questo ora l’hai imparato? E che tra gli uomini sarai sempre selvaggio e straniero:

— selvaggio e straniero anche quando essi ti amano: giacché come prima cosa essi vogliono essere risparmiati da ognuno!

Ma qui sei in casa tua; qui puoi manifestare tutto e sfogare tutti i motivi, nulla si vergogna di sentimenti nascosti e ostinati.

Qui tutte le cose accorrono carezzevoli al tuo parlare, e ti lusingano: perché vogliono montare su questa groppa. In groppa ad ogni similitudine tu cavalchi verso ogni verità.

Diretto e diritto puoi qui parlare a tutte le cose: e in verità suona lodi ai loro orecchi che uno parli — senz’ambagi — con tutte le cose!

Ma altra cosa è essere abbandonati. Infatti, ricordi ancora, o Zarathustra? Quando il tuo uccello gridò sopra la tua testa, allorché, nel bosco, eri indeciso dove dirigerti? inesperto, con accanto un cadavere: — — quando dicesti: mi conducano i miei animali! Incontrai maggior pericolo tra gli uomini che tra gli animali: — questo era abbandono!

E ricordi, o Zarathustra? Quando eri sulla tua isola, una polla di vino tra secchi vuoti, dando e distribuendo, donando e mescendo agli assetati: — finché ti trovasti solo, assetato fra gli ubriachi, e la notte lamentasti: “Prendere non è più beato che dare? E rubare non è più beato che prendere?” — Questo era l’abbandono!

E ricordi, o Zarathustra? Quando giunse la tua ora più silenziosa e ti strappò da te stesso, quando essa ti disse in un maligno assurro: “Parla e infrangiti!” — — quando essa ti rese doloroso tutto il tuo attendere e tacere e scoraggiò il tuo umile coraggio: questo era abbandono!» —

O solitudine! Tu patria mia, solitudine! Come mi parla tenera e beata la tua voce!

Non ci interroghiamo l’un l’altro, non ci accusiamo, passiamo insieme, aperti, per porte aperte.

Giacché con te tutto è aperto e chiaro; e anche le ore camminano su piedi più leggeri. Nell’oscurità il tempo pesa infatti più che alla luce.

Qui mi si dischiudono le parole e gli scrigni di parole di tutto l’essere: qui tutto l’essere vuole diventare parola, qui tutto il divenire vuole imparare a parlare da me.

Laggiù invece — tutto il parlare è invano! Laggiù, dimenticare e passare oltre è la miglior saggezza: questo — ho imparato adesso!

Chi volesse capire tutto fra gli uomini, dovrebbe toccare tutto. Ma a ciò sono troppo pure le mie mani.

Non posso nemmeno respirare il loro alito: ah, aver vissuto così a lungo nel loro frastuono e nel loro alito cattivo!

O beato silenzio intorno a me! Come puro respira dal profondo petto questo silenzio!

Ma laggiù — tutto parla e tutto resta inudito. Si può diffondere la propria sapienza con il frastuono delle campane: i mercanti sul mercato lo copriranno con tintinnio di spiccioli.

Tutto fra loro parla, nessuno sa più intendere. Tutto è un buco nell’acqua, nulla cade più in profonde sorgenti.

Tutto fra loro parla, nulla riesce più a giungere al fine. Tutto starnazza: chi vuole più starsene in silenzio nel suo nido a covare uova?

Tutto fra loro parla, tutto viene sbriciolato a forza di parole. E quel che ieri era ancora troppo duro per il tempo e per il suo dente: ecco, penzola rosicchiato e scarnificato dalle bocche degli odierni.

Tutto fra loro parla, tutto viene rivelato. E quel che si chiamava segreto e intimità di anime profonde oggi appartiene agli strombazzatori di strada e ad altre farfalle.

O natura umana, o stupefacente! Tu, frastuono per vie buie! Ora ti ho lasciata di nuovo alle mie spalle: — mi sono lasciato alle spalle il mio maggior pericolo!

Nel risparmiare e compassionare consistette sempre il mio più grande pericolo; e ogni natura umana vuol essere risparmiata e sopportata.

Con verità trattenute, con mano di folle e cuore infatuato e ripieno delle piccole bugie della compassione: — così vissi sempre fra gli uomini.

Travestito stavo tra loro, pronto a misconoscere me stesso, per sopportare loro, e cercando spesso di convincermi: «Tu stolto, tu non conosci gli uomini!»

Si disimparano gli uomini, quando si vive tra gli uomini: c’è troppa superficie in tutti gli uomini — a che servono occhi che vedono lontano, che cercano lontano!

E quando mi disconoscevano: io, folle, proprio per questo li risparmiavo più di me stesso: abituato alla durezza verso me stesso e spesso vendicandomi di questa clemenza.

Trafitto da mosche velenose e scavato, come una pietra, dalle troppe gocce della cattiveria, così stavo fra loro e cercavo ancora di convincermi: «Tutto ciò che è piccolo non ha colpa della sua piccolezza!»

Specialmente quelli che si chiamano «i buoni» trovai che erano le mosche più velenose: pungono in piena innocenza, mentono in piena innocenza; come potrebbero essere giusti — verso di me!

A chi vive tra i buoni la compassione insegna a mentire. La compassione rende l’aria afosa intorno a tutte le anime libere. La stupidità dei buoni è infatti senza fondo.

A nascondere me stesso e la mia ricchezza — imparai laggiù: poiché lì trovai uno per uno poveri nello spirito.

Fu l’inganno della mia compassione che io conoscessi ognuno.

— che di ognuno capissi, dall’aspetto e dall’odore, che cosa fosse per lui abbastanza spirito e che cosa fosse per lui troppo spirito!

I loro rigidi saggi: li chiamavo saggi, non rigidi, — così imparai a rimangiarmi le parole. I loro becchini: li chiamavo ricercatori e sperimentatori, — così imparai a scambiare le parole.

I becchini contraggono malattie col loro scavare. Sotto antichi detriti stagnano malefici miasmi. Si deve vivere sui monti.

Con le narici beate respiro di nuovo la libertà dei monti! Liberato è finalmente il mio naso dall’odore della natura umana!

Solleticata dall’aria sottile come da vini spumeggianti, la mia anima sternuta, — sternuta e si augura esultando: salute!

Così parlò Zarathustra.


 
Delle tre cose cattive

 
Capitolo 1
In sogno, nell’ultimo sogno del mattino, mi trovavo oggi su un promontorio, — al di là del mondo, e reggevo una bilancia e pesavo il mondo.

Oh, troppo presto venne per me l’aurora: col suo ardore mi svegliò, la gelosa! È sempre gelosa degli ardori dei miei sogni del mattino.

Misurabile per chi ha tempo, pesabile per un buon pesatore, raggiungibile in volo da robuste ali, indovinabile da divini solutori di enigmi: così il mio sogno trovava il mondo: — Il mio sogno, audace veleggiatore, metà nave, metà turbine, muto come farfalle, impaziente come girfalco: come poteva avere oggi pazienza e tempo di pesare il mondo!

Forse gli parlò di nascosto la mia saggezza, la mia desta e ridente saggezza diurna, che schernisce tutti i «mondi infiniti»? Poiché essa dice: «Dov’è forza, là anche il numero è padrone: esso ha più forza». Con quanta sicurezza guardava il mio sogno questo mondo finito, non curioso del nuovo, non amante del vecchio, senza timore, senza preghiera: — — come se si fosse offerta alla mia mano una mela rotonda, una mela matura, dorata, dalla fresca tenera buccia di velluto: — così mi si offerse il mondo: — — come se un albero mi avesse chiamato, un albero dalle lunghe fronde, dalla forte volontà curvata a spalliera e a pedana per lo stanco viandante: così stava il mondo sul mio promontorio: — — come se leggiadre mani mi avessero teso uno scrigno, — uno scrigno aperto per la delizia di occhi pudichi e adoranti: così oggi mi si offerse il mondo: — — non abbastanza enigma per respingere l’amore per gli uomini, non abbastanza soluzione per addormentare la saggezza umana: — una cosa umanamente buona mi apparve oggi il mondo di cui si dice tanto male!

Come ringrazio il mio sogno del mattino di avermi fatto, oggi all’alba, pesare il mondo! Venne a me come una cosa umanamente buona questo sogno e questo consolatore del cuore!

E che lo stesso possa fare di giorno e che imiti e impari di esso ciò che ha di meglio: poiché ora voglio porre sulla bilancia le tre cose più cattive e pesarle in modo umanamente buono. — Chi imparò a benedire, imparò anche a maledire: quali sono nel mondo le tre cose colpite dalle migliori maledizioni? Queste voglio porre sulla bilancia.

Voluttà, sete di dominio, egoismo: queste tre sino ad ora furono colpite dalle migliori maledizioni e dalle peggiori calunnie e menzogne, — queste tre voglio soppesarle in modo umanamente buono.

Orsù! Qui è il mio promontorio e là è il mare: esso rotola verso di me, irsuto, lusinghiero, il vecchio fedele mostro, il cane dalle cento teste che io amo! — Su qual ponte l’adesso si congiunge al futuro? Per quale costrizione l’alto si costringe al basso? E che cosa ordina a quanto v’è di più alto di — crescere ancora?

Ora la bilancia è quieta e in equilibrio: su un piatto getto tre ardue domande; l’altro piatto reca tre ardue risposte.


 
Capitolo 2
Voluttà: a tutti gli spregiatori del corpo e portatori di cilicio pungolo e spina nel fianco, e come «mondo» maledetta da tutti gli abitatori di un mondo dietro il mondo: giacché essa schernisce e gabba tutti i maestri di confusione e d’errore.

Voluttà: per la plebe il fuoco lento su cui viene bruciata: per tutti i legni tarlati, per tutti i cenci puzzolenti la stufa pronta che li arde o li cuoce gorgogliando.

Voluttà: per i cuori liberi libera e innocente, il giardino di felicità della terra, traboccante ringraziamento di tutto il futuro al presente.

Voluttà: per l’appassito un veleno dolciastro, ma per colui che ha volontà leonina il grande ristoro del cuore e il vino dei vini gelosamente tenuto in serbo.

Voluttà: felicità che è il grande simbolo di una felicità più alta e speranza suprema. A molte cose sono infatti promesse le nozze e più delle nozze, — — a molte cose estranee l’una all’altra più che uomo e donna: — e chi ha mai compreso quanto sono estranei tra loro l’uomo e la donna!

Voluttà: — ma io voglio avere siepi intorno ai miei pensieri e anche intorno alle mie parole: perché nei miei giardini non irrompano i porci e i visionari! — Sete di dominio: il flagello rovente dei più duri fra i duri di cuore; il crudele martirio che si riserba perfino al più crudele; la fosca fiamma dei roghi viventi.

Sete di dominio: il maligno freno imposto ai popoli più vani: la schernitrice di ogni virtù incerta; che cavalca ogni cavallo e ogni dignità.

Sete di dominio: il terremoto che spezza e squarcia tutto il marcio e cavernoso; la rimbombante minacciosa punitrice e distruttrice dei sepolcri imbiancati; l’interrogativo folgorante accanto a risposte premature.

Sete di dominio: sotto il suo sguardo l’uomo striscia e si rannicchia e si sottomette e diventa più basso di un serpente e di un maiale: — fino a quando da lui si leva il grido del grande disprezzo —, Sete di dominio: la terribile maestra del grande disprezzo che predica sul volto a città e regni: «È finita per te!» — fino a quando da loro si leva il grido: «È finita per me!»

Sete di dominio: ascende, con le sue seduzioni, fino ai puri e ai solitari e più su fino ad altitudini che basterebbero a se stesse, ardente come un amore che seduce tingendo di purpuree beatitudini i cieli della terra.

Sete di dominio: ma chi la chiamerebbe sete, quando è l’altitudine che discende a bramare il potere! In verità, non v’è nulla di malato e di assetato in questa brama e discesa!

Che l’altitudine solitaria non si rinchiuda per sempre nella solitudine, paga di se stessa; che la montagna venga alla valle e i venti dell’altitudine ai bassopiani: — Oh, chi potrebbe mai dare un nome a questo anelito, e il nome di una virtù! «Virtù che dona» — così Zarathustra definì un giorno l’indefinibile.

E allora accadde — e, in verità, accadeva per la prima volta! — che la sua parola esaltò l’egoismo, l’egoismo sano, integro, che sgorga da un’anima possente: —

— da un’anima possente, cui appartiene il corpo elevato, bello, vittorioso, apportatore di ristoro, intorno al quale ogni cosa diventa specchio: — il corpo sinuoso e suadente, il danzatore, simbolo e riassunto del quale è l’anima lieta di se stessa. La letizia di questi corpi ed anime chiama se stessa: «virtù».

Nelle sue parole di bene e male questa letizia di sé si rifugia come in un bosco sacro; coi nomi della sua felicità bandisce da sé quanto è spregevole.

Da sé bandisce ogni cosa vile; essa dice: cattivo — è vile! Spregevole le appare colui che è sempre in affanno, in sospiri e in lamenti e anche chi fa incetta di piccoli vantaggi.

Essa disprezza anche tutte le saggezze fondate sul dolore: giacché esiste in verità anche una saggezza che fiorisce nell’oscurità, una saggezza delle ombre notturne: come tale sospira di continuo: «Tutto è vano!»

La pavida diffidenza è per lei misera cosa e così chiunque voglia giuramenti invece di sguardi e di mani: anche ogni saggezza troppo diffidente, poiché tale è il fare delle anime vili.

Ancor più misero è per lei chi è pronto alla compiacenza, l’essere canino che si rovescia subito sul dorso, l’umile; e c’è anche una saggezza che è umile, canina, pia e pronta alla compiacenza.

Le è odioso e causa di disgusto chi non si vuole difendere, chi ingoia saliva velenosa e occhiate maligne, il troppo paziente, chi tutto sopporta: poiché questa è la specie del servo.

Che uno sia servile davanti agli dei e davanti alle parole divine, che sia servile davanti agli uomini e alle scempie opinioni umane: su tutta la specie servile sputa questo beato egoismo!

Cattivo: così si chiama tutto quello che è piegato e servilmente piegato, occhi ammiccanti senza libertà, cuori oppressi, e quella falsa cedevolezza che bacia con labbra larghe e vili.

E pseudosaggezza: così si chiama tutto ciò che escogitano servi, vecchi, stanchi; e soprattutto tutta la malvagia stoltezza, farneticante e salace dei preti!

Ma la pseudosaggezza, tutti i preti, gli stanchi del mondo e quelli che hanno anima da femmina e di servo — oh come il loro gioco ha da sempre giocato brutti tiri all’egoismo!

E proprio questo dovrebbe essere e chiamarsi virtù, giocare brutti tiri all’egoismo! E «altruista» — tali vorrebbero a buon diritto essere tutti questi vili stanchi del mondo e ragni portacroce!

Ma per tutti loro giunge ora il giorno, la trasformazione, la spada vendicatrice, il grande meriggio: allora si manifesteranno molte cose!

E chi chiama sano e santo l’io e beato l’egoismo, in verità dice soltanto quello che sa, ed è un profeta: «Guarda, viene, è vicino, il grande meriggio!»

Così parlò Zarathustra.


 
Dello spirito di gravità

 
Capitolo 1
La mia bocca — è del popolo: troppo rozzo e scoperto è il mio parlare per conigli di seta. E ancora più straniera suona la mia parola per tutte le seppie sputa-inchiostro e gli imbrattacarte.

La mia mano — è una mano di folle: guai a tutti i tavoli e alle pareti e a ciò che ha ancora posto per i ghirigori di un folle, per gli scarabocchi di un folle!

Il mio piede — è un piede equino; con esso trotto e scalpito tra fossi, siepi e pietre, in lungo e in largo per la campagna, e impazzisco di piacere ad ogni sfrenata corsa.

Il mio stomaco — è forse lo stomaco di un’aquila? Infatti più di tutto ama la carne d’agnello. Ma è senza dubbio lo stomaco di un uccello.

Nutrito di cose innocenti e di poco, pronto ed impaziente di volare, di volare via — ecco il mio essere: come potrebbe non aver qualcosa dell’uccello!

Tanto più che sono nemico dello spirito di gravità: questo è l’essere dell’uccello: davvero, nemico mortale, nemico giurato, nemico primordiale! Oh, dove non volò, dove non si smarrì volando la mia inimicizia!

Potrei cantarne già una canzone e voglio cantarla: sebbene io sia solo in una casa vuota e debba cantarla alle mie proprie orecchie.

Ci sono, è vero, altri cantori a cui solo la casa piena ammorbidisce l’ugola, rende la mano feconda, l’occhio espressivo, e vivo il cuore: — ma io non somiglio a loro.


 
Capitolo 2
Chi insegnerà agli uomini a volare avrà spostato tutte le pietre di confine; tutte le pietre di confine si leveranno in volo nell’aria, egli ribattezzerà la terra — «la leggera».

Lo struzzo è più veloce del più veloce cavallo, ma anche lui ficca pesantemente la testa nella terra pesante: e così fa l’uomo che non sa ancora volare?

Pesanti sono per lui terra e vita: e così vuole che sia lo spirito di gravità. Ma chi vuole diventare leggero, diventare un uccello, deve amare se stesso: — così v’insegno io.

Ma non certo con l’amore dei malati e degli assetati: giacché in loro puzza anche l’amor proprio!

Si deve imparare ad amare se stessi — così v’insegno — d’un amore sano e integro: tanto da riuscire a rimanere con noi stessi e non girovagare altrove.

Questo girovagare altrove si battezza «amor del prossimo»: meglio che con ogni altra si è mentito e simulato fino ad oggi con questa parola, e soprattutto da parte di quelli che a tutto il mondo riescono pesanti.

E in verità, non è un comandamento per oggi e domani: imparare ad amarsi. È piuttosto la più sottile, la più astuta, la più paziente, l’estrema di tutte le arti.

Tutto ciò che uno possiede è per lui che lo possiede ben nascosto: e di tutte le miniere preziose la propria è l’ultima ad essere scavata — ed è opera dello spirito di gravità.

Siamo ancora nella culla e già ci danno parole e valori pesanti: «bene» e «male» — così si chiama questo viatico. Grazie ad esso ci è perdonato che viviamo.

E con questo scopo si lasciano venire a sé i fanciulli, per proibir loro per tempo di amare se stessi: ed è opera dello spirito di gravità.

E noi — noi, ligi, ci portiamo dietro quello che ci danno, su spalle indurite e per aspre montagne! E se sudiamo, ci dicono: «Già, la vita è un pesante fardello!»

Ma soltanto l’uomo è a se stesso un pesante fardello! Perché porta sempre troppe cose estranee sulle proprie spalle. Come il cammello, s’inginocchia e si lascia caricare.

Soprattutto l’uomo forte, paziente, che ha in sé reverenza: troppe parole e valori estranei carica su di sé — così la vita gli appare un deserto!

E in verità! Anche certe cose proprie sono pesanti da sopportare! E molto di quanto è dentro l’uomo somiglia all’ostrica, nauseabonda, viscida, e difficile da stringere in mano —, — cosicché lo scusa soltanto un nobile guscio nobilmente decorato. Ma anche quest’arte si deve imparare: avere un guscio e una bella apparenza e una cecità accorta!

E che il guscio sia troppo misero, o squallido o troppo guscio inganna su alcune cose dell’uomo. Molta bontà e forza nascoste non vengono scorte; i più saporiti bocconi non trovano buongustai!

Le donne lo sanno, le più saporite: un po’ più grassa, un po’ più magra — oh, quanto destino è racchiuso in così poco!

L’uomo è difficile da scoprire e più difficile che mai da scoprire a se stesso; spesso lo spirito mente nei riguardi dell’anima. Ed è opera dello spirito di gravità.

Ma ha scoperto se stesso colui che dice: questo è il mio bene e male: così ha ridotto al silenzio la talpa e il nano che dice «Buono per tutti, cattivo per tutti».

In verità, io non amo quelli per cui ogni cosa è buona e questo mondo è addirittura il migliore possibile. Io chiamo costoro i sempre contenti.

Contentezza perenne, che sa gustare ogni cosa: ma non è il gusto migliore. Io venero i palati e gli stomaci difficili e caparbi, che impararono a dire «io» e «sì» e «no».

Ma masticare e digerire tutto — questo è proprio da maiali! A dire sempre di sì — questo lo imparò soltanto l’asino e chi è come lui!

Il giallo profondo e il rosso ardente: questo vuole il mio gusto, — che mescola sangue a tutti i colori. Ma chi dipinge di bianco la propria casa, tradisce un’anima dipinta di bianco.

Di mummie innamorati gli uni, gli altri di spettri; ed entrambi egualmente avversi a ciò che è carne e sangue — oh, come sono entrambi contrari al mio gusto! Poiché io amo il sangue.

E non voglio abitare e sostare là dove ognuno sputa e vomita: questo è appunto il mio gusto, — preferisco allora vivere tra ladri e spergiuri. Nessuno ha l’oro in bocca.

Ma ancora più ripugnanti sono per me tutti i leccapiedi; e l’animale umano più ripugnante che abbia mai trovato l’ho battezzato parassita: non voleva amare, ma vivere d’amore.

Sciagurati chiamo tutti quelli che hanno soltanto una scelta: diventare cattivi animali o cattivi domatori: vicino a loro non mi edificherei la capanna.

Sciagurati chiamo anche quelli che devono sempre attendere — sono contrari al mio gusto: tutti gli esattori, i mercanti e i re e gli altri custodi di paesi e di negozi.

In verità, imparai anche ad attendere e fino in fondo, — ma solo ad attendere me stesso. Ma sopra ogni cosa imparai a star fermo e a camminare e a correre e ad arrampicarmi e a danzare.

Ma questa è la mia dottrina: chi vuol imparare a volare, deve prima imparare a stare fermo e ad andare e a correre e ad arrampicarsi: — il volo non si conquista di un volo!

Con scale di corda imparai ad arrampicarmi su più di una finestra, con agili gambe giunsi fino in cima ad alti alberi di nave; starmene appollaiato su alti alberi della conoscenza non mi sembrò poca beatitudine, — — come fiammella guizzare su alti alberi di nave: piccola luce, invero, ma grande conforto a naviganti e naufraghi sperduti! — Per svariate vie e modi pervenni alla mia verità: non su un’unica scala raggiunsi la cima di dove il mio occhio spazia nelle mie lontananze.

E sempre malvolentieri domandavo la strada — era sempre contrario al mio gusto! Preferivo interrogare io stesso le strade e tentarle.

Un tentare e interrogare fu sempre il mio andare: — e in verità si deve imparare anche a rispondere a questi interrogativi! Ma questo — è il mio gusto:

— non è né buono né cattivo: è soltanto il mio gusto, di cui né più mi vergogno né faccio più mistero.

«Questa — è ora la mia strada, — dov’è la vostra?» — così rispondevo a quelli che mi chiedevano «la strada».

La strada infatti — non c’è!

Così parlò Zarathustra.


 
Di tavole antiche e nuove

 
Capitolo 1
Qui sto e attendo, e intorno a me antiche tavole spezzate e anche tavole nuove, scritte solo a metà. Quando sarà la mia ora?

— l’ora del mio declino, del mio tramonto: giacché ancora una volta voglio recarmi dagli uomini.

E questo attendo: giacché prima devono venire a me i segni che è la mia ora, — e cioè il leone ridente con lo stormo di colombi.

Intanto parlo, come uno che ha tempo, a me stesso. Nessuno mi racconta qualcosa di nuovo: così io mi racconto a me stesso.


 
Capitolo 2
Quando giunsi agli uomini, li trovai seduti sopra un’antica presunzione: presumevano tutti di sapere da gran tempo che cosa fosse per l’uomo bene e male.

Vecchia e stanca cosa appariva loro tutto il discorrere sulla virtù; e chi voleva dormire bene, prima di coricarsi parlava di «bene» e di «male».

Io scossi questo languore letargico quando insegnai: ciò che siano bene e male non sa ancora nessuno: — tranne colui che crea!

— E questi è colui che crea la meta dell’uomo e dà alla terra senso e futuro: questi soltanto fa sì che qualcosa sia bene e male.

E io ordinai loro di rovesciare le loro vecchie cattedre e ogni cosa su cui fosse stata assisa quella vecchia presunzione; e ordinai loro di ridere dei grandi maestri di virtù, santi, poeti e redentori del mondo.

Dei loro tetri sapienti e di chi era stato appollaiato, ammonendo, come negro spauracchio, sull’albero della vita.

Mi posi sulla loro grande strada dei sepolcri, accanto a carogne e ad avvoltoi — e risi di tutto il loro passato e del suo splendore putrido e cadente.

In verità, come i predicatori di penitenza e i folli, invocai ira e vendetta sulla loro grandezza e sulla loro miseria, — che quanto hanno di meglio sia così misero! Che quanto hanno di peggio sia così misero! — così ridevo.

Così gridava e rideva in me il mio saggio anelito, che è nato sui monti: davvero una saggezza selvaggia! — il mio anelito dall’immenso fruscio d’ali.

E sovente esso mi trascinò via, in alto, lontano, in mezzo al riso: allora io volavo rabbrividendo, come una saetta, in un’estasi ebbra di sole: — fuori in lontani futuri, che nessun sogno ancora vide, in meridioni più ardenti di quanto artisti mai sognarono: là, dove gli dei danzando si vergognano di tutte le vesti: — — che io parli per similitudini e come i poeti zoppichi e balbetti: e in verità io mi vergogno di dover essere ancora poeta! —

Dove tutto il divenire mi appare danza di dei, gaia baldanza di dei, e il mondo sciolto e senza freno e rifuggente in se stesso: — come un eterno fuggirsi e ricercarsi di molti dei, come il beato con traddirsi nuovamente, udirsi di nuovo, appartenersi di molti dei: — Dove ogni tempo mi appare un beato schernire gli attimi, dove la necessità era la libertà stessa, che beata giocava con il pungolo della libertà: — Dove io trovai il mio vecchio demonio e nemico mortale, lo spirito di gravità e tutto ciò che esso ha creato: costrizione, comandamento, distretta e conseguenza e scopo e volontà e bene e male: — Giacché non deve esistere qualcosa su cui si danzi, si passi oltre danzando? Non debbono esistere per causa dei leggeri, dei leggerissimi — talpe e nani grevi?


 
Capitolo 3
E fu là che io raccolsi per via la parola «superuomo», e che l’uomo è qualcosa che dev’essere superato,

— che l’uomo è un ponte e non un fine: che si chiama beato per il suo mezzogiorno e per la sua sera, come via verso nuove aurore: — la parola di Zarathustra, sul grande meriggio e quant’altro io sospesi sopra l’uomo, come purpurei secondi crepuscoli.

In verità, mostrai loro anche nuove stelle insieme con nuove notti; e sopra le nuvole, il giorno e la notte, aprii il mio riso come una tenda multicolore.

Insegnai loro tutto il mio fare e bramare: poter riunire e ricomporre in unità ciò che nell’uomo è frammento ed enigma e atroce caso, —

— come poeti, solutori di enigmi e redentori del caso, insegnai loro a creare nel futuro e a redimere — creando — tutto ciò che era.

Redimere nell’uomo il passato e trasformare tutto il «fu», sinché la volontà dica: «Ma così ho voluto che fosse! E così vorrò che sia».

— questa chiamai per loro la redenzione, questa sola insegnai loro a chiamare redenzione.

Ora attendo la mia redenzione —, per andare a loro per l’ultima volta.

Giacché per una volta ancora voglio andare agli uomini: fra loro voglio tramontare, voglio dar loro il mio più ricco dono morendo!

Dal sole imparai questo, quando si corica, l’opulento: rovescia oro nel mare, oro dalla sua inesauribile ricchezza, — — così che anche il più povero dei pescatori rema con un remo d’oro! Questo vidi e contemplandolo non potevo saziarmi di lacrime.

Come il sole vuole tramontare Zarathustra: ora se ne sta qui e attende, e intorno a lui antiche tavole spezzate e anche tavole nuove, — scritte solo a metà.


 
Capitolo 4
Guarda, qui c’è una tavola nuova: ma dove sono i miei fratelli, a trasportarla con me a valle, dentro cuori di carne?

Così pretende il mio grande amore per i più lontani: non risparmiare il tuo prossimo! L’uomo è qualcosa che deve essere superato.

Ci sono svariate vie e modi di superarlo: ma devi vedere tu! Solo un saltimbanco pensa: «L’uomo può anche essere saltato».

Supera te stesso nel tuo prossimo: e un diritto che puoi rubarti, non lasciare che te lo diano.

Quel che tu fai, non può rifarlo un altro per te. Vedi, non c’è ricompensa.

Chi non sa comandare a se stesso, deve obbedire.

Qualcuno sa anche comandare a se stesso, ma ci manca molto a che obbedisca a se stesso.


 
Capitolo 5
Così vuole l’essere delle anime nobili: esse non vogliono nulla per nulla, meno che mai la vita.

Chi appartiene alla plebe vuole vivere per nulla: ma noialtri cui la vita si è data, — meditiamo in continuazione su che cosa abbiamo di meglio da darle in cambio!

In verità, è un discorso elevato quello che dice: «Quel che la vita promette a noi, noi vogliamo mantenerlo alla vita!»

Non si deve voler godere dove non diamo da godere. E — non si deve voler godere!

Piacere e innocenza sono infatti quanto v’è di più pudico: entrambi non vogliono essere cercati. Si deve averli, ma se si cerca, si cerchino piuttosto colpa e dolore. —


 
Capitolo 6
Fratelli miei, chi è una primizia viene sempre sacrificato. Ed ora siamo noi primizie.

Sanguiniamo tutti su altari segreti, ardiamo e arrostiamo tutti in onore di vecchie immagini di idoli.

Il meglio di noi è ancora giovane: solletica vecchi palati. La nostra carne è tenera, il nostro vello è vello d’agnello: — come potremmo non solleticare vecchi sacerdoti degli idoli!

In noi risiede tuttora il vecchio sacerdote degli idoli, che arrostisce il meglio di noi per il suo banchetto. Ah, fratelli miei, come potrebbero delle primizie non essere vittime!

Ma così vuole il nostro essere; e io amo quelli che non vogliono conservare se stessi. Quelli che tramontano io amo con tutto il mio amore: poiché essi passano sull’altra sponda. —


 
Capitolo 7
Essere veri — pochi lo possono! E chi lo può, non vuole ancora! Ma meno di tutto lo possono i buoni.

Oh, questi buoni! Uomini buoni non dicono mai la verità; così per lo spirito l’essere buoni è una malattia.

Cedono, questi buoni, si arrendono, il loro cuore ripete parole, il loro fondo obbedisce: ma chi obbedisce non ascolta se stesso!

Tutto quello che il buono chiama cattivo deve congiungersi, perché sia partorita una verità: o fratelli, siete poi abbastanza cattivi per questa verità?

L’audacia spericolata, la lunga diffidenza, il no crudele, il disgusto, l’immergere il coltello nel vivo — come ciò si congiunge di rado! Ma solo da questo seme si concepisce — la verità!

Accanto alla cattiva coscienza crebbe fino ad ora tutta la scienza! Rompete, rompetemi le antiche tavole, voi che avete la conoscenza!


 
Capitolo 8
Quando nell’acqua vi sono appigli, quando attraverso il fiume sono gettati palancole e parapetti: allora in verità, non trova credito chi dice: «Tutto fluisce».

Ma perfino i babbei lo contraddicono. «Come?» dicono i babbei «Tutto fluirebbe? Al di sopra del fiume sono pur sospesi travi e parapetti».

«Al di sopra del fiume è tutto fermo, tutti i valori delle cose, i ponti, i concetti, tutto il “bene” e il “male”: tutto questo è fermo!» —

Quando poi viene il duro inverno, il domatore dei fiumi, allora anche i più sagaci imparano la diffidenza; e allora, in verità, solo i babbei dicono: «Non dovrebbe essere tutto immobile?»

«Nel profondo tutto è immobile» —, ecco una vera dottrina invernale, buona cosa nella stazione sterile, valido conforto per coloro che d’inverno vanno in letargo e per coloro che si ritirano accanto alla stufa.

«Nel profondo tutto è immobile» —; ma contro questo predica il vento del disgelo!

Il vento del disgelo, toro, ma non toro arante, — un toro furioso, un devastatore, che spezza il ghiaccio con adirate corna! Ma il ghiaccio —rompe le palancole!

O miei fratelli, oggi non è tutto un fluire! Non sono caduti nell’acqua tutti i parapetti e le palancole? Chi potrebbe aggrapparsi ancora a “bene” e “male”?

«Noi sventurati! Salute a noi! Soffia il vento del disgelo!» — Così predicate, fratelli, su tutte le strade.


 
Capitolo 9
C’è un’antica fantasia e si chiama bene e male. Intorno a indovini e ad astrologi girò fino ad oggi la ruota di questa fantasia.

Un tempo si credeva a indovini e astrologi: e perciò si credeva: «Tutto è destino: tu devi, perché sei costretto!»

Poi di nuovo si diffidò di tutti gli indovini e gli astrologi: e perciò si credette: «Tutto è libertà: tu puoi perché vuoi!»

Fratelli miei, delle stelle e del futuro fino ad oggi si è solo fantasticato e mai nulla saputo: perciò fino ad oggi si è solo fantasticato e mai nulla saputo del bene e del male!


 
Capitolo 10
«Non rubare! Non ammazzare!» — queste parole un tempo proclamavano sante; davanti ad esse si piegava il ginocchio e la testa, e si toglievano le scarpe.

Ma io vi domando: dove nel mondo si videro rapinatori e omicidi migliori di queste sante parole?

Nella vita stessa, in ogni vita, non vi sono — rapina e omicidio? E col proclamare sante queste parole, non si uccise forse — la verità stessa?

O fu una predica della morte a proclamare santo ciò che contraddiceva la vita e allontanava da essa? Fratelli miei, rompete, rompete le antiche tavole!


 
Capitolo 11
Questa è la mia compassione per tutto il passato: vedere che è stato sacrificato, —

— sacrificato al favore allo spirito, alla follia di ogni generazione che viene e interpreta ciò che fu come il proprio ponte!

Potrebbe venire un grande tiranno, un mostro col cervello fino, che col suo favore e sfavore costringesse e comprimesse tutto il passato: fino a renderlo suo ponte e presagio, araldo e canto del gallo.

Ma questo è l’altro mio pericolo e l’altra mia compassione: — chi appartiene alla plebe, risale con la memoria al proprio nonno, — e col nonno finisce per lui il tempo.

Così tutto il passato è sacrificato: giacché potrebbe accadere che la plebe diventasse padrone, e che il tempo tutto annegasse in acque poco profonde.

Perciò, fratelli miei, occorre una nuova nobiltà che avversi ogni plebe e ogni tirannia e su nuove tavole di nuovo scriva la parola «nobile».

Occorrono molti nobili e molte specie di nobili perché vi sia una nobiltà! Oppure, come un giorno dissi simbolicamente: «Questa è appunto divinità, che ci siano dei, ma nessun dio!»


 
Capitolo 12
Fratelli miei, vi addito una nuova nobiltà e vi consacro ad essa: dovete diventare genitori e allevatori e seminatori del futuro, — — in verità, non una nobiltà che possiate comprare come fanno i mercanti e con oro di mercanti: giacché poco valore ha ciò che ha un prezzo.

Non di dove venite sia d’ora in poi il vostro onore, bensì dove tendete! La vostra volontà e il vostro piede che vuole portarvi al di là di voi stessi, — questo sia il vostro nuovo onore!

In verità, non che abbiate servito a un principe — che importano i principi! — o che abbiate servito da baluardo a quanto già esiste, perché sia ancora più saldo!

Non che la vostra schiatta si sia fatta cortigiana alle corti e voi abbiate imparato, multicolori, simili a fenicotteri, a stare per lunghe ore in piedi nelle acque basse degli stagni: — poiché saper stare in piedi è un merito presso i cortigiani; e tutti i cortigiani credono che faccia parte della beatitudine dopo morti aver il permesso di star seduti! —

Non che uno spirito, che essi chiamano santo, abbia condotto i vostri avi in terre promesse , che io non lodo: poiché il paese dove cresce il peggiore di tutti gli alberi, la croce, — in nulla è degno di lode! —

— e in verità, dovunque questo «spirito santo» abbia condotto i suoi cavalieri, queste spedizioni erano sempre precedute da — capre e oche e teste confuse! —

Fratelli miei, la vostra nobiltà non deve guardare indietro, ma davanti a sé! Degli espulsi da tutte le terre dei padri e degli avi dovete essere!

Dovete amare la terra dei vostri figli: questo amore sia la vostra nuova nobiltà, — quella non ancora scoperta, sperduta nel più lontano mare! Quella io ordino alle vostre vele di cercare e cercare!

Nei vostri figli dovete rimediare di essere figli dei vostri padri: così dovete redimere tutto il passato! Questa nuova tavola pongo sopra di voi!


 
Capitolo 13
«Perché vivere? Tutto è vano! Vivere è trebbiare paglia; vivere — è bruciarsi senza riscaldarsi». —

Questa chiacchiera antiquata si considera ancora «saggezza»; è vecchia e puzza di chiuso, e perciò è rispettata. Anche la muffa nobilita.

Dei bambini potrebbero parlare così: essi paventano il fuoco perché li ha scottati! C’è molta puerilità negli antichi libri della sapienza.

E a chi non fa che «trebbiare paglia», perché dev’essere lecito di sparlare del trebbiare! Si dovrebbe mettere un bavaglio a un simile pazzo!

Costoro si seggono a tavola e non hanno portato nulla con sé, neppure l’appetito: — ed ora sparlano: «Tutto è vano!»

Ma mangiare e bere bene, fratelli miei, non è davvero un’arte vana! Rompete, rompete le tavole dei mai contenti!


 
Capitolo 14
«Tutto è puro per il puro» — così dice il popolo. Ma io vi dico: tutto è porco per i porci!

Perciò i visionari e quelli con la testa bassa, cui è sceso in basso anche il cuore, predicano: «Il mondo è una sozza mostruosità».

Ma tutti costoro hanno lo spirito impuro: soprattutto quelli fra di loro che non hanno requie finché non riescono a vedere il mondo dal di dietro, — questi transmondani!

A costoro dico in faccia, anche se non suona amabile: il mondo somiglia all’uomo in questo, che ha un didietro — sin qui è vero!

Nel mondo c’è molta sozzura: sin qui è vero! Ma non perciò il mondo è una sozza mostruosità!

C’è della saggezza in questo, che molte cose del mondo puzzano: ma la nausea genera ali e forze che hanno sentore della sorgente!

Anche nella cosa migliore c’è qualcosa che nausea; e il migliore è ancora qualcosa che dev’essere superato. —

Fratelli miei, c’è molta saggezza in questo, che nel mondo c’è molta sozzura! —


 
Capitolo 15
Simili massime sentii pronunciate da pii abitatori di un mondo al di là del mondo rivolgendosi alla loro coscienza, e davvero senza malizia né perfidia, — sebbene nel mondo non vi sia nulla di più malizioso né di più perfido.

«Lasciate il mondo essere mondo! Non levategli contro neanche un dito!»

«Lasciate che chi vuole strozzi la gente e la pugnali e la scortichi e la faccia a pezzi: tu non muovere un dito! In tal modo impareranno il distacco dal mondo».

«E la tua ragione — devi soffocarla e strozzarla tu stesso; perché è una ragione di questo mondo, — in tal modo impari tu stesso il distacco dal mondo». — — Rompete, rompete, fratelli, le antiche tavole dei pii. Rompete le massime dei calunniatori del mondo.


 
Capitolo 16
«Chi impara molto, disimpara ogni violento bramare» — ci si sussurra oggi in tutte le straducole buie.

«La saggezza affatica, non ne vale la pena; non devi bramare!» — questa nuova tavola trovai affissa anche sui pubblici mercati.

Rompete, fratelli miei, rompete questa nuova tavola! Gli stanchi del mondo l’hanno affissa e i predicatori di morte e i carcerieri: infatti, guardate, è anche una predica di servitù: — Dall’aver imparato male e non il meglio e tutto troppo presto tutto troppo in fretta: dall’aver mangiato male deriva il loro stomaco guasto, —

— uno stomaco guasto è infatti il loro spirito: ed esso esorta alla morte! Poiché, fratelli mei, lo spirito è in verità uno stomaco!

La vita è una sorgente di piacere: ma per colui nel quale parla lo stomaco guasto, padre dell’afflizione, tutte le fonti sono avvelenate.

Conoscere: questo è il piacere per chi ha la volontà del leone! Ma colui che è stanco è soltanto «voluto», con lui giocano tutte le onde.

E così sono tutti gli uomini deboli: si perdono sul loro stesso cammino. E alla fine la loro stanchezza si chiede: «A che mai prendemmo questo cammino! Tutto è uguale!»

Agli orecchi di costoro piace sentir predicare: «Nulla vale la pena! Non dovete volere!» Ma questa è una predica di servitù.

O fratelli, come un fresco vento impetuoso giunge Zarathustra a tutti gli stanchi del cammino; e farà starnutire ancora molti nasi!

Anche attraverso i muri soffia il mio libero alito, e dentro prigioni, e dentro spiriti prigionieri!

Volere libera: giacché volere è creare: così vi insegno. E solo per creare dovete imparare!

E anche l’imparare dovete prima impararlo da me, un buon imparare! — Chi ha orecchi intenda!


 
Capitolo 17
Ecco la barca, — l’altra sponda è forse il grande nulla. — Ma chi vuole salire su questo «forse»?

Nessuno di voi vuole salire sulla barca della morte! Perché allora vorreste essere stanchi del mondo!

Stanchi del mondo! Se non siete diventati neppure dei distaccati della terra! Vi vidi sempre cupidi della terra, innamorati della vostra stanchezza della terra!

Non a caso il labbro vi penzola: — vi sta ancora sopra un piccolo desiderio di terra! E nell’occhio — non vi naviga forse una nuvoletta di inobliata voglia della terra?

Sulla terra vi sono molte buone invenzioni, le une utili, le altre dilettevoli: grazie a loro si può amare la terra.

E svariate cose esistono, così ben inventate che sono come il seno della donna: utile e dilettevole.

Ma voi, stanchi del mondo! Voi pigri del mondo! Voi bisognerebbe carezzare con le verghe! A suon di vergate si dovrebbe ridare agilità alle vostre gambe.

Infatti: se non siete omuncoli ammalati e logori di cui la terra è stanca, siete dormiglioni o golose e libidinose gatte rintanate. E se non volete rimettervi a correre allegramente, andate pure laggiù.

Non si deve voler esercitare la medicina sugli incurabili: così vi insegna Zarathustra: — andate pure laggiù.

Ma ci vuole più coraggio a concludere, che a fare un verso nuovo: tutti i medici e i poeti lo sanno. —


 
Capitolo 18
Fratelli miei, ci sono tavole create dalla stanchezza e tavole create dalla pigrizia, la putrida: sebbene parlino allo stesso modo, vogliono essere intese in modo diverso. — Guardate questo essere languente! Dalla meta lo separa solo un palmo, ma dalla stanchezza si è abbandonato caparbiamente qui nella polvere: questo valoroso!

Sbadiglia di stanchezza di fronte a cammino, terra e meta: non vuol muovere più neanche un passo, — questo valoroso!

Il sole scotta su di lui e i cani gli leccano il sudore: ma egli continua a giacere nella sua caparbietà e preferisce languire e morire: — — languire a un palmo dalla meta! In verità, dovrete trascinarlo per i capelli nel suo cielo, — questo eroe!

È meglio che lo lasciate giacere dove si è abbandonato, che giunga a lui il sonno, il consolatore, col refrigerio della pioggia frusciante: lasciatelo giacere finché da solo si desterà, — finché da sé rinneghi ogni stanchezza e ciò che in lui insegnava stanchezza!

Voi, fratelli, basta che scacciate da lui i cani, questi quatti ipocriti e il furioso brulicame dei «dotti», che guazza — nel sudore di ogni eroe!


 
Capitolo 19
Io chiudo cerchi e sacri confini intorno a me; sempre più esigua è la schiera di coloro che salgono con me su montagne sempre più alte: io formo un massiccio unendo montagne sempre più sacre. — Ma ovunque vogliate salire con me, fratelli: fate in modo che non salga con voi nessun parassita!

Parassita: è un verme strisciante, insinuante, che si vuole ingrassare nutrendosi dei vostri angoli malati e piagati.

E questa è la sua arte, sorprendere anime in ascesa quando sono stanche: nella vostra afflizione e nel vostro scontento, nel vostro delicato pudore fabbrica il suo nauseabondo nido.

Dove il forte è debole, dove il nobile è troppo mite, — là fabbrica il suo nauseabondo nido: il parassita abita dove il forte ha piccoli angoli piagati.

Qual è la specie più alta dell’essere e qual è la più vile? Il parassita è la più vile; ma chi è della specie più alta nutre il maggior numero di parassiti.

Ovvero l’anima che ha la scala più lunga e che può scendere più in basso: come potrebbe non trovarsi adunato intorno ad essa il maggior numero di parassiti?

— l’anima più vasta che ha dentro di sé il massimo spazio per correre, errare, vagare; la più legata alla necessità, che per il piacere si precipita nel caso: — — l’anima che è, ma che s’immerge nel divenire; l’anima che ha, ma che vuole entrare nel volere e nel desiderio: —

— quella che fugge se stessa e si raggiunge solo nel cerchio più ampio; l’anima più saggia, quella che la follia lusinga più dolcemente: — — quella che più ama se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro fluire e rifluire e alta e bassa marea: — oh, come potrebbe l’anima più alta non avere i peggiori parassiti?


 
Capitolo 20
O fratelli, sono forse crudele? Ma io vi dico: a ciò che sta per cadere bisogna dare una spinta!

Tutto quello che è dell’oggi — cade e decade: e chi vorrebbe trattenerlo? Ma io voglio — dargli una spinta!

Conoscete la voluttà che fa rotolare le pietre giù per erti precipizi? — Questi uomini d’oggi: guardate come rovinano, nei miei precipizi!

Io sono preludio a migliori attori, fratelli miei! Un esempio! Fate secondo il mio esempio!

E a chi non insegnate a volare, insegnate a — cadere più in fretta! —


 
Capitolo 21
Io amo gli intrepidi: ma non basta essere schermidori, — bisogna anche sapere chi colpire!

E spesso c’è più intrepidezza nel trattenersi e nel passare oltre: così da risparmiarsi per un nemico più degno!

Dovete avere soltanto nemici da odiare, e non nemici da disprezzare: dovete essere orgogliosi del vostro nemico: così vi insegnai già in passato.

Per un nemico più degno dovete risparmiarvi, amici miei: perciò dovete passare oltre a molte cose, —

— soprattutto a molta plebe, che vi rintrona gli orecchi parlando di popolo e di popoli.

Tenete il vostro occhio sgombro dal suo pro e contro! Tra essa vi è molta giustizia e molto torto: chi sta a vedere si adira.

Guardare e menar colpi — è tutt’uno: perciò andatevene nei boschi e mettete a dormire la vostra spada!

Andate per la vostra strada! E lasciate popolo e popoli andare per la propria! — strade oscure in verità, su cui non lampeggia più neanche una speranza!

Regni pure il mercante là dove tutto ciò che risplende è oro di mercati! Non è più tempo di re: ciò che oggi si chiama popolo non merita re.

Guardate come questi popoli imitano essi stessi i mercanti: raccattano i minimi vantaggi da ogni mucchio di spazzatura!

Si tendono agguati, si strappano l’un l’altro sempre qualcosa — e lo chiamano «buon vicinato». O beato tempo remoto quando un popolo si diceva: «Voglio essere signore di altri popoli!»

Poiché, fratelli miei: il meglio deve dominare, il meglio vuole anche dominare! E dove risuona altra dottrina, là — manca il meglio.


 
Capitolo 22
Guai se costoro avessero il pane gratis! Che cosa avrebbero da richiedere a gran voce? Il proprio nutrimento — è il loro vero passatempo; e debbono avere un’esistenza difficile!

Sono animali da preda: il loro «lavorare» — somiglia ancora al predare, il loro «guadagnare» — somiglia ancora al raggirare! Perciò debbono avere un’esistenza difficile!

Devono diventare animali da preda migliori, più sagaci, più intelligenti, più simili agli uomini: l’uomo è infatti il miglior animale da preda.

A tutti gli animali l’uomo ha già predato le loro virtù: e ciò perché l’uomo ha avuto l’esistenza più difficile.

Soltanto gli uccelli gli stanno ancora al di sopra. E guai se l’uomo imparasse anche a volare! A quale altitudine — volerebbe la sua brama di preda!


 
Capitolo 23
Così voglio l’uomo e la donna: pronto l’uno nella guerra, pronta l’altra nel partorire, entrambi pronti nella danza con la testa e le gambe.

E sia perduto per noi il giorno in cui non si è danzato neanche una volta! E falsa chiamo ogni verità che non fu espressa con una risata!


 
Capitolo 24
Il vostro concludere matrimoni: badate che non sia un cattivo concludere! Troppo in fretta concludeste: così ne consegue — rottura del matrimonio!

Ed è pure sempre meglio rompere il matrimonio, che piegarlo, che mentirlo! — Così mi disse una donna: «Io ruppi sì il matrimonio, ma il matrimonio aveva già rotto — me!»

Nei malcongiunti trovai sempre il peggior spirito di vendetta: essi fanno pagare al mondo di non poter più andare per conto proprio.

Perciò io voglio che gli onesti dicano l’uno all’altro: «Ci amiamo: vediamo di conservarci l’affetto! O la nostra promessa dev’essere un errore?

— Dateci un termine e un matrimonio piccolo affinché vediamo se siamo adatti al grande matrimonio! È cosa grande essere per sempre indue!»

Questo consiglio a tutti gli onesti; e che sarebbe il mio amore per il superuomo e per tutto ciò che verrà, se consigliassi e discorressi altrimenti!

Non a riprodurvi, ma produrvi più in alto — a ciò vi aiuti, fratelli, il giardino del matrimonio!


 
Capitolo 25
Chi divenne sapiente sulle antiche origini, ecco, alla fine cercherà le sorgenti del futuro e nuove origini. —

O fratelli, non passerà molto che nasceranno nuovi popoli e nuove sorgenti si precipiteranno scrosciando in nuovi abissi.

Infatti il terremoto — seppellisce molte fontane e porta con sé una grande sete: ma ciò porta alla luce anche forze riposte e cose segrete.

Il terremoto scopre nuove sorgenti. Nel terremoto di popoli antichi erompono nuove sorgenti.

E chi allora grida: «Guardate, ecco una fontana per molti assetati, un cuore per molti bramosi, una volontà per molti strumenti»: — intorno a lui si aduna un popolo, cioè: molti che esperimentano.

Chi può comandare, chi deve obbedire — ecco che cosa esperimentano! Ah, con quanto cercare e proporre e fallire e imparare e ritentare!

La società umana: è un esperimento, così io insegno, — un lungo cercare: essa cerca uno che comandi! —

— un esperimento, fratelli! E non un contratto! Rompete, rompete questa parola dei cuori teneri e dei mezzo - e- mezzi!


 
Capitolo 26
O fratelli! Presso quali uomini si nasconde il più grande pericolo per tutto il futuro umano? Non è forse presso i buoni e i giusti? — — infatti sono quelli che parlano e dicono: «Sappiamo già cos’è buono e giusto, ce l’abbiamo anche noi; guai a quelli che cercano ancora!»

E quali danni possono arrecare anche i malvagi: ma il danno dei buoni è il più dannoso dei danni!

E quali danni possono arrecare i calunniatori del mondo: il danno dei buoni è il più dannoso dei danni.

O fratelli, una volta un uomo guardò i buoni e i giusti in fondo al cuore, e poi disse: «Sono i farisei». Ma non fu compreso.

I buoni e i giusti stessi non poterono comprendere: il loro spirito è prigioniero della loro buona coscienza. La stupidità dei buoni è infinitamente accorta.

Ma questa è la verità: i buoni devono essere farisei, — non hanno scelta!

I buoni devono crocifiggere colui che si inventa la propria virtù! Questa è la verità!

Ma il secondo che scoprì la loro terra, cuore e regno dei buoni e dei giusti fu colui che chiese: chi odiano sopra ogni cosa?

Colui che crea odiano sopra ogni cosa: colui che infrange tavole e antichi valori, colui che infrange, — lo chiamano delinquente.

I buoni infatti — non possono creare: essi sono sempre l’inizio della fine: —

— essi crocifiggono colui che scrive nuovi valori su nuove tavole, sacrificano a se stessi il futuro, — crocifiggono tutto il futuro dell’uomo!

I buoni — furono sempre l’inizio della fine. —


 
Capitolo 27
Fratelli miei, avete compreso anche questa parola? E ciò che dissi una volta dell’«ultimo uomo»?

Presso chi risiede il massimo pericolo per tutto il futuro dell’uomo? Non presso i buoni e i giusti?

Rompete, rompete i buoni e i giusti! — Fratelli miei, avete compreso anche questa parola?


 
Capitolo 28
Fuggite da me? Vi siete spaventati? Tremate di questa parola?

Fratelli miei, quando vi ordinai di rompere i buoni e le tavole dei buoni: solo allora imbarcai l’uomo per il suo alto mare.

E solo ora gli viene il grande spavento, il grande guardarsi attorno, la grande malattia, la grande nausea, il grande mal di mare.

Coste illusorie e sicurezze illusorie ci insegnarono i buoni; nella menzogna dei buoni nasceste e trovaste riparo. Tutto è stato falsato e fino in fondo distorto dai buoni.

Ma chi scoperse la terra — uomo, scoprì anche la terra «futuro dell’uomo». Siate ora naviganti, audaci, pazienti!

Camminate diritti per tempo, fratelli, imparate a camminare diritti! Il mare è in tempesta: molti vogliono rizzarsi aggrappandosi a voi. Il mare è in tempesta: tutto è in mare. Suvvia! Orsù! Vecchi cuori di marinai!

Che cos’è la terra dei padri! Il nostro timone punta laggiù, dov’è la terra dei nostri figli. Laggiù, più tempestoso del mare, tempesta il nostro grande desiderio! —


 
Capitolo 29
«Perché così duro!» disse una volta il carbone da cucina al diamante «non siamo forse parenti prossimi?»

Perché così teneri? Questo, fratelli miei, chiedo io a voi: non siete forse — i miei fratelli?

Perché così teneri, così cedevoli e remissivi? Perché tanto negare, tanto rinnegare nel vostro cuore? E così poco destino nel vostro sguardo?

E se non volete essere dei destini, se non volete essere inesorabili: come potete — vincere con me?

E se la vostra durezza non vuole lampeggiare e separare e tagliare a pezzi: come potrete poi — creare con me?

Chi crea è duro. E beatititudine deve apparirvi imprimere la vostra mano nei millenni come nella cera, —

— beatitudine di scrivere sulla volontà di millenni come sul bronzo, — più duri del bronzo, più nobili del bronzo.

Ma l’assoluta durezza è solo del più nobile.

Questa nuova tavola fratelli, pongo sopra di voi: diventate duri! —


 
Capitolo 30
O tu, mia volontà! Tu che pieghi ogni necessità, tu mia necessità! Preservami da tutte le piccole vittorie!

Tu provvidenza della mia anima, che io chiamo destino! Tu dentro-di-me! Tu sopra-di-me! Preservami e risparmiami per un grande destino!

E la tua ultima grandezza, o mia volontà, risparmiala per il momento estremo, — per essere inesorabile nella tua vittoria! Ah, chi non soggiacque alla propria vittoria!

Ah, a chi non s’oscurò l’occhio in quest’ebbro crepuscolo! Ah, a chi il piede non oscillò e non disimparò a stare saldo — nella vittoria!

— Che io sia pronto e maturo nel grande meriggio: pronto e maturo come metallo rovente, come nube gravida di folgori e come mammella satura di latte: — — pronto a me stesso e alla mia volontà più riposta: un arco che arde di brama per il suo dardo, un dardo che arde di brama per la sua stella: — — una stella, pronta e matura nel suo meriggio, rovente, squarciata, beata, annientata dai dardi del sole:

— un sole essa stessa e un’inesorabile volontà solare, pronta nella vittoria ad annientare!

O volontà, che pieghi ogni necessità, tu, mia necessità! Risparmiami per una sola grande vittoria!

Così parlò Zarathustra.


 
Il convalescente

 
Capitolo 1
Una mattina, poco dopo il suo ritorno alla spelonca, Zarathustra balzò dal suo giaciglio come un invasato, gridò con voce terribile e fece gesti come se sul giaciglio fosse coricato qualcun altro che non voleva alzarsi; e la voce di Zarathustra risuonò così alta che i suoi animali accorsero atterriti, e da tutte le spelonche e i ricoveri in prossimità della spelonca di Zarathustra sgusciò fuori ogni specie d’animali, — volando, svolazzando, strisciando, saltando, ognuno come permetteva la forma del suo piede e della sua ala. E Zarathustra disse queste parole:

Emergi, pensiero abissale, dalla mia profondità! Io sono il tuo gallo e la tua aurora, verme addormentato: alzati, alzati! Il mio canto del gallo deve pur svegliarti!

Sciogli i lacci delle tue orecchie: ascolta! Giacché io ti voglio udire! alzati, alzati! Qui c’è abbastanza tuono perché imparino ad ascoltare anche i sepolcri!

Detergi il sonno e quanto v’è di stolto e di cieco dai tuoi occhi! Ascoltami anche con gli occhi: la mia voce è medicamento anche per i ciechi nati.

E se ti sei finalmente svegliato, resta sveglio in eterno. Non è il mio solito destare dal sonno le bisnonne, per ordinare loro — di continuare a dormire!

Ti muovi, ti stiri, gorgogli? Alzati, alzati! Non gorgogliare — parlami invece! Zarathustra ti chiama, il senza dio!

Io, Zarathustra, il difensore della vita, il difensore della sofferenza, il difensore del circolo — te chiamo, il più abissale dei miei pensieri!

Salute a me! Tu vieni, — ti sento! Il mio abisso parla, ho ribaltato nella luce la mia ultima profondità!

Salute a me! Accostati! Dammi la mano ahi! Lasciala!

Ahi, ahi, Ribrezzo, ribrezzo, ribrezzo ahimè!


 
Capitolo 2
Ma Zarathustra non aveva finito di pronunciare queste parole che stramazzò come morto e a lungo giacque come morto. Quando ritornò in sé, era pallido e tremava; rimase sdraiato e per un pezzo non volle né mangiare né bere. Simile stato durò sette giorni; ma i suoi animali giorno e notte non si allontanavano da lui, tranne l’aquila, quando volava fuori a procurare cibo. E quel che essa procurava e raccoglieva predando lo deponeva sul giaciglio di Zarathustra: così che alla fine Zarathustra si trovò a giacere tra bacche gialle e rosse, grappoli d’uva, mele rosate, verdure aromatiche e pigne. E ai suoi piedi erano distesi due agnelli che l’aquila aveva con grandi sforzi sottratto ai loro pastori.

Infine, dopo sette giorni Zarathustra si rizzò sul suo giaciglio, prese in mano una mela rosata, la annusò e trovò quell’odore gradevole. Allora i suoi animali credettero giunto il momento di parlargli.

«O Zarathustra», dissero, «già da sette giorni giaci in codesto modo, con gli occhi pesanti: non vuoi finalmente rimetterti in piedi?

Esci dalla tua spelonca: il mondo ti aspetta come un giardino. Il vento gioca con olezzi densi, che vogliono venire a te; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti dietro.

Tutte le cose hanno nostalgia di te; poiché rimanesti solo per sette giorni, — esci dalla tua spelonca! Tutte le cose vogliono farti da medico!

Giunse a te una nuova conoscenza, acida, greve? Come una pasta lievitata, la tua anima si gonfiò e traboccò dai suoi orli».

«O miei animali», rispose Zarathustra «continuate a discorrere così e lasciate che io stia ad ascoltare! Mi ristora tanto che discorriate: dove si discorre, il mondo mi si spalanca davanti come un giardino.

Com’è bello che esistano parole e suoni: parole e suoni non sono forse arcobaleni e ponti apparenti tra cose eternamente disgiunte?

Ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima l’altra anima è un mondo dietro il mondo.

È tra le cose più simili fra loro che l’apparenza tesse gli inganni più belli; poiché la più piccola lacuna è anche la più difficile a varcarsi.

Per me — come potrebbe esserci un fuori-di-me? Non c’è nessun fuori! Ma ad ogni suono ce ne dimentichiamo; com’è dolce che dimentichiamo!

Non sono dati alle cose nomi e suoni perché l’uomo trovi ristoro nelle cose? È una bella follia il parlare: con essa l’uomo danza su tutte le cose.

Com’è dolce tutto il discorrere e tutto il mentire dei suoni! Con suoni il nostro amore danza su variopinti arcobaleni».

«O Zarathustra», dissero allora gli animali «per quelli che pensano come noi danzano già le cose stesse: vengono e tendono la mano e ridono e fuggono — e ritornano.

Tutto s’allontana, tutto ritorna; eterna gira la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto rifiorisce; eterno fluisce l’anno dell’essere.

Tutto si spezza, tutto viene riconnesso; eternamente si edifica la casa dell’essere, sempre la stessa. Tutto si separa, tutto s’incontra di nuovo e si saluta; eternamente fedele a se stesso è l’anello dell’essere.

In ogni istante ha principio l’essere; intorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Dappertutto è il centro. Curvo è il sentiero dell’eternità».

«O voi furbi pagliacci e organetti!» rispose Zarathustra e tornò a sorridere «Come sapete bene quel che si è dovuto compiere in sette giorni: — — e come quella bestiaccia mi scivolò in gola e mi soffocò! Ma io le staccai la testa con un morso e la sputai lontano da me.

E voi, — voi ne fate già una nenia? Ma io continuo a giacere, stanco di questo mordere e sputare, ammalato della mia stessa redenzione.

E voi state a vedere tutto questo! O miei animali, anche voi siete crudeli? Avete voluto stare a guardare il mio dolore, come fanno gli uomini? L’uomo è infatti il più crudele degli animali.

Finora fu sempre davanti a tragedie, corride e crocifissioni che egli provò il massimo del benessere su questa terra, e quando inventò l’inferno, ecco, ebbe il suo paradiso in terra.

Quando un grand’uomo grida —: il piccolo accorre immediatamente; e gli penzola la lingua fuori dalla bocca per la libidine. Ma lui la chiama “compassione”.

Il piccolo uomo, e specialmente il poeta — con quanto ardore accusa la vita a parole! Ascoltatelo, ma cercate di percepire anche il piacere nascosto in quell’accusare!

Simili accusatori della vita: la vita li supera ammiccando.

“Mi ami”! dice la sfacciata “Aspetta ancora un pochino, non ho ancora tempo per te”.

L’uomo è con se stesso il più crudele degli animali; davanti a quanti si chiamano “peccatori” e “portatori di croce” e “penitenti”, cercate di percepire la voluttà nascosta in questo lamentare e accusare!

E quanto a me — voglio essere con ciò l’accusatore degli uomini? Ah, animali miei, quest’unica cosa appresi fino ad oggi, che all’uomo è necessario il suo peggio per ottenere il suo meglio, — — che tutto il peggio è la sua energia migliore e la pietra più dura per il miglior creatore; e che l’uomo deve diventare migliore e insieme peggiore: —

Non fui inchiodato a questo legno del martirio per sapere: l’uomo è cattivo; — io gridai bensì, come nessuno ha mai gridato:

“Ah, che il suo peggio sia così piccolo! Ah, che il suo meglio sia così piccolo!”.

Il grande disgusto per l’uomo, - questo mi era scivolato in gola e mi soffocava: e quel che il profeta profetizzava: “Tutto è uguale. Nulla vale la pena, il sapere soffoca”.

Un lungo crepuscolo arrancava sulle mie orme, una tristezza carica di stanchezza mortale, ebbra di morte, che parlava e sbadigliava in una.

“Eternamente ritorna l’uomo di cui sei stanco, il piccolo uomo” — così sbadigliava la mia tristezza e strascicava i piedi e non riusciva a prender sonno.

In caverna mi si trasformò la terra degli uomini, il suo petto si fece concavo, tutto il vivente diventò per me putredine d’uomo e ossa e marcio passato.

Il mio sospirare stava seduto su tutti i sepolcri umani e non riusciva più a levarsi in piedi; il mio sospirare e interrogare gracidava e soffocava e rodeva e gemeva giorno e notte: — “Ah, l’uomo ritorna eternamente! Il piccolo uomo ritorna eternamente!”

Una volta avevo visto nudi entrambi, il più grande e il più piccolo: troppo simili tra loro — troppo umano anche il più grande! Troppo piccolo il più grande! — Questo era il mio disgusto per l’uomo! Ed eterno ritorno anche del piccolo! — Questo era il mio disgusto per l’esistenza tutta!

Ah, ribrezzo! Ribrezzo! Ribrezzo!» Così parlò Zarathustra e sospirò e rabbrividì; poiché si rammentò della sua malattia. Ma a questo punto i suoi animali gli impedirono di continuare.

«Cessa di parlare, convalescente!» Così gli risposero i suoi animali «Ma esci di qui, va dove il mondo ti attende come un giardino.

Va dalle rose e dalle api e dagli stormi di colombi! Ma soprattutto dagli uccelli canori: che tu impari da loro a cantare!

Cantare è infatti cosa da convalescenti; il sano può parlare. E quando anche il sano vuole canti, vuole tuttavia canti diversi dal convalescente».

«O voi, furbi pagliacci e organetti, tacete una buona volta!» rispose Zarathustra e sorrise dei suoi animali «Come sapete bene quale conforto mi inventai in sette giorni!

Dover di nuovo cantare, — questo conforto m’inventai e questa guarigione: volete farne subito di nuovo una nenia?»

«Non parlar più», risposero ancora una volta i suoi animali «è meglio, o convalescente, che tu ti faccia una lira, una nuova lira!

Perché vedi, Zarathustra! Per i tuoi nuovi canti ti occorrono nuove lire.

Trabocca nel tuo canto, o Zarathustra, guarisci la tua anima con nuovi canti: che tu porti su di te il tuo grande destino che non fu mai destino di altro uomo!

Poiché i tuoi animali sanno bene, o Zarathustra, chi sei e chi devi diventare: ecco, tu sei il maestro dell’eterno ritorno —, questo è il tuo destino!

Che tu debba insegnare per primo questo insegnamento, — come potrebbe tanto grande destino non essere anche il tuo più grande pericolo e la tua più grande malattia!

Ecco, sappiamo che cosa insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con loro, e che noi siamo già esistiti un numero eterno di volte, e tutte le cose con noi.

Tu insegni che c’è un grande anno del divenire, un mostro di grande anno: e questo, simile a una clessidra, deve sempre di nuovo ribaltarsi, per defluire e svuotarsi: — — cosicché tutti questi anni sono identici tra loro, nel grande come nel piccolo, cosicché anche noi in ogni grande anno siamo identici a noi stessi, nel grande come nel piccolo.

E se tu ora volessi morire, o Zarathustra: ecco, sappiamo anche come parleresti a te stesso in quell’istante: — ma i tuoi animali ti pregano di non morire!

Tu parleresti, e senza tremare anzi con un sospiro di beatitudine: poiché ti sarebbero tolti un gran peso e una grande pena, tu paziente fra tutti! — Ora muoio e dileguo, diresti, e in un attimo sarò un nulla. Le anime sono mortali come i corpi.

Ma il groviglio di cause in cui sono implicato ritornerà, — e mi riprodurrà! Io stesso sono una delle cause dell’eterno ritorno.

Io ritornerò con questo sole, con questa terra, con quest’aquila, con questo serpente — non a una nuova vita o a una vita migliore o simile:

— io ritornerò eternamente a questa stessa identica vita, nel grande come nel piccolo, a insegnare di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose, — — a predicare di nuovo la parola del grande meriggio della terra e dell’uomo, ad annunziare di nuovo agli uomini il superuomo.

Predicai la mia parola, nella mia parola m’infrango: così vuole la mia sorte eterna —, come annunziatore perisco!

È giunta l’ora che colui che sta per tramontare benedica se stesso. Così —finisce il tramonto di Zarathustra».

Quando gli animali ebbero detto queste parole, tacquero e attesero che Zarathustra dicesse loro qualcosa: ma Zarathustra non s’accorse che tacevano. Giaceva in silenzio, con gli occhi chiusi, simile a un dormiente, sebbene non dormisse: poiché stava appunto intrattenendosi con la sua anima. Ma il serpente e l’aquila, vistolo così taciturno, onorarono il grande silenzio e cauti si allontanarono.


 
Del grande anelito
O anima mia, io t’insegnai a dire «oggi» come «un tempo» e «una volta» e danzando in tondo a lasciarti dietro le spalle ogni qui e lì e là.

O anima mia, io ti redensi da tutti gli angeli, io spazzai da te polvere, ragni e penombre.

O anima mia, io detersi da te il piccolo pudore e la virtù rannicchiata negli angoli e ti indussi a presentarti nuda agli occhi del sole.

Con la tempesta che si chiama «spirito», soffiai sui marosi del tuo mare; ne soffiai via tutte le nubi, strangolai perfino lo strangolatore che si chiama «peccato».

O anima mia, io ti diedi il diritto di dire di no come la tempesta e dire di sì come dice di sì il cielo sgombro: muta e immobile stai come la luce e passi attraverso tempeste negatrici.

O anima mia, io ti restituii la libertà su creato e increato: e chi conosce come tu la conosci la voluttà del futuro?

O anima mia, io ti insegnai il disprezzo che non lavora come il tarlo, bensì il grande disprezzo, quello che tanto più ama quanto più disprezza.

O anima mia, io ti insegnai a persuaderti in modo tale che tu persuadesti a salire a te anche le tue cause: come il sole che persuade il mare a salire a lui, alla sua altezza.

O anima mia, io ti tolsi tutto l’obbedire, piegare il ginocchio e dire «signore»; io ti diedi il nome di «colei che piega la necessità» e di «destino».

O anima mia, io ti diedi nuovi nomi e variopinti trastulli, ti chiamai «destino» e «contorno dei contorni» e «cordone ombelicale del tempo» e «campana azzurra».

O anima mia, al tuo regno in terra io diedi da bere tutta la saggezza, tutti i nuovi vini e anche tutti i forti vini della saggezza, vecchi di data immemorabile.

O anima mia, con ogni sole io ti irrorai e con ogni notte e con ogni silenzio e con ogni anelito: e tu crescesti come una vite.

O anima mia, greve e opulenta mi stai ora davanti, una vite dalle gonfie mammelle e dai fitti acini bruno-dorati: — — fitta e schiacciata dalla tua felicità, in attesa perché traboccante e vergognosa del tuo attendere.

O anima mia, non c’è in nessun luogo un’anima più amante e più capace e più vasta! Dove futuro e passato potrebbero essere più vicini che in te?

O anima mia, tutto ora ti ho dato, e per te ho vuote le mani: — ed ora! Ora mi dici sorridente e piena di melanconia: Chi di noi deve ringraziare? — — non deve chi dà ringraziare che chi prende abbia preso? Donare non è una necessità? Prendere non è — impietosirsi? — O anima mia, io comprendo il sorriso della tua melanconia: la tua sovrabbondanza stessa tende le braccia anelanti!

La tua pienezza scruta mari ribollenti e cerca e attende; il desiderio della pienezza si affaccia al sorridente cielo dei tuoi occhi!

E in verità, anima mia! Chi vedendo il tuo sorriso non si scioglierebbe in lacrime? Perfino gli angeli si sciolgono in lacrime sulla fluente bontà del tuo sorriso.

La tua bontà, la tua fluente bontà è quella che non vuole lamentarsi e piangere: eppure il tuo sorriso, anima mia, anela alle lacrime e la tua bocca tremante anela a singhiozzare.

«Non è ogni pianto un lamentarsi? E ogni lamentarsi non è un accusare?» Così tu parli a te stessa, e perciò, anima mia, preferisci sorridere che sfogare il tuo dolore.

— sfogare in lacrime copiose tutto il tuo dolore sulla tua pienezza e sulla tensione della vite verso il vignaiolo e il suo coltello!

Ma se non vuoi piangere, non vuoi piangere tutte le lacrime della tua melanconia, dovrai cantare anima mia! — Ecco, io stesso rido predicendoti questo:

— cantare, con immenso canto, finché tutti i mari si facciano silenti, per ascoltare il tuo anelito, —

— finché su mari anelanti e silenziosi scivoli la barca, l’aureo prodigio, intorno al cui oro guizzano tutte le cose buone cattive strane: — — anche molti animali grandi e piccoli e tutto ciò che ha piedi leggeri e strani, da poter correre per sentieri color di viola, — — verso l’aureo prodigio, la libera barca e il suo signore: ma questi è il vignaiolo che attende con il coltello di diamante, — — il tuo grande liberatore, anima mia, il senza nome — cui troveranno un nome solo canti futuri! E in verità, il tuo alito olezza già di canti futuri, — — già ardi e sogni, già bevi assetato a tutte le profonde risonanti sorgenti del conforto, già la tua melanconia riposa nella beatitudine di futuri canti!

O anima mia, tutto ora ti ho dato, anche la mia ultima cosa, e vuote per causa tua sono ora le mie mani: — ordinarti di cantare, ecco, questa era la mia ultima cosa!

Ordinarti di cantare — ma ora parla, parla: chi di noi deve — ringraziare? — O meglio ancora: canta, canta, anima mia! E lascia che io ringrazi! —

Così parlò Zarathustra.


 
Il secondo canto di danza

 
Capitolo 1
«Ieri ti guardai negli occhi, o vita: oro vidi luccicare nel tuo occhio scuro come la notte, — e il cuore mi si fermò per la voluttà: — una barca d’oro vidi luccicare su acque notturne, un guscio d’oro, che affondava, beveva, chiamava, oscillava!

Al mio piede, alla sua follia della danza, gettasti uno sguardo, uno sguardo che ride, interroga, oscilla e consuma: Due volte soltanto sfiorasti con le piccole mani i tuoi sonagli — e già il mio piede fremeva folle di danzare: — I talloni si sollevarono, le dita si misero in ascolto, per afferrarti: il danzatore ha ben il suo orecchio nelle dita!

Balzai verso di te: e tu ti ritraesti fuggendo al mio balzo; e verso di me lingueggiò la lingua della tua chioma fuggente, svolazzante!

Balzai via da te e dai tuoi serpenti: e già tu stavi immobile, mezza voltata, l’occhio pieno di desiderio.

Con sguardi curvi — mi insegnasti curve piste; su curve piste il mio piede apprende — malizie!

Ti temo vicina, ti amo lontana; la tua fuga mi attrae, il tuo cercarmi mi arresta: soffro, ma che cosa non soffrirei con gioia per te!

Tu, il cui gelo accende, il cui odio seduce, la cui fuga incatena, il cui scherno — commuove:

— chi non ti odierebbe, grande incatenatrice, attorcigliatrice, tentatrice, cercatrice, trovatrice! Chi non ti amerebbe, impaziente peccatrice veloce come il vento, dall’occhio infantile!

Dove mi trascini ora, tu scatenata e sfrenata? E ora di nuovo mi fuggi tu dolce ribelle ingrata!

Danzando ti seguo, ti seguo anche su un’esigua traccia: Dove sei? Dammi la mano! O anche un dito solo!

Ecco caverne e folti boschi: ci perderemo! — Alt! Fermati! Non vedi svolazzare gufi e pipistrelli?

Tu gufo! Tu pipistrello! Vuoi farmi il verso? Dove siamo? Dai cani hai imparato a ululare e guaire a questo modo.

Tu mi mostri con grazia i dentini bianchi, i tuoi occhi cattivi mi si avventano contro attraverso la riccioluta criniera!

Questa è una danza che scavalca fossi e siepi: io sono il cacciatore, — vuoi essere il mio cane e il mio camoscio?

Subito accanto a me! Svelta, cattiva, coi tuoi salti! Ora lassù! Ora dall’altra parte! — Ahimè! Ora sono io che cado spiccando un salto!

Oh, guardami qui disteso, tu orgoglio, e supplicante grazia! Volentieri andrei con te — più amabili sentieri!

— Il sentiero dell’amore per muti, variopinti cespugli! Oppure là, lungo la riva del lago: là nuotano e danzano pesci d’oro!

Ora sei stanca? Laggiù sono pecore e tramonti: non è bello dormire mentre dei pastori suonano il flauto?

Sei così terribilmente stanca? Ti trasporterò laggiù, solo che tu lasci cadere le braccia! E se hai sete, — io avrei qualcosa, ma la tua bocca non vuole berlo! — — Oh, questo maledetto agile snodato serpente, strega che sguscia di mano! Dove sei dileguata? Ma sul viso sento due bolli e macchie rosse lasciati dalla tua mano!

Sono davvero stanco di essere sempre il tuo pastore timido come una pecorella! Strega, finora ho cantato io per te, ora sei tu che devi — gridare per me!

Al ritmo della mia frusta devi danzare e gridare! Non ho dimenticato la frusta? — No!» —


 
Capitolo 2
Allora così mi rispose la vita turandosi le graziose orecchie: «O Zarathustra! Non schioccare così orribilmente la frusta! Lo sai pure: il rumore uccide i pensieri, — e proprio ora mi stanno venendo pensieri così teneri.

Tu ed io siamo due veri buoni a nulla e cattivi a nulla. Al di là del bene e del male trovammo la nostra isola e il nostro prato verde — noi due soli! Già per questo dobbiamo volerci bene!

E anche se non ci amiamo di amore profondo —, bisogna aversela a male se non ci si ama d’amore profondo?

E che io ti voglio bene e spesso fin troppo, lo sai: e il motivo è che sono gelosa della tua saggezza. Ah, questa vecchia pazza della saggezza!

Se la tua saggezza sfuggisse una volta da te, ah! Subito fuggirebbe da te anche il mio amore». —

A questo punto la vita guardò dietro e intorno a sé e disse sommessa: «O Zarathustra, tu non mi sei abbastanza fedele!

Tu mi ami molto meno di quanto dici; lo so, tu pensi che presto mi lascerai.

Esiste una vecchia pesantissima campana dalla voce rombante: la notte il suo rombo sale fin quassù alla tua spelonca: — — quando senti la campana suonare mezzanotte, tra l’uno e il dodici pensi a questo —

— pensi a questo, o Zarathustra, lo so, pensi che presto mi lascerai!»

«Sì» risposi titubante «ma anche tu lo sai —» E le dissi qualcosa all’orecchio, fra le sue gialle, folli aggrovigliate ciocche di capelli. «Tu sai questo, o Zarathustra? Nessuno lo sa».

E ci contemplammo l’un l’altro e poi guardammo il prato verde, su cui trascorreva in quel mentre la fresca sera, e piangemmo insieme. — Allora la vita mi era più cara di tutta la mia saggezza. —

Così parlò Zarathustra.


 
Capitolo 3
Uno

O uomo! Ascolta!

Due

Che dice la mezzanotte fonda?

Tre

«Dormivo, dormivo —,

Quattro

Da un sogno profondo mi sono destata:

Cinque

Il mondo è profondo,

Sei

Più fondo di quel che il giorno credeva.

Sette

Profondo è il suo male —

Otto

Il piacere — più profondo del dolore:

Nove

Il male dice: Passa!

Dieci

Ma ogni piacere vuole eternità —,

Undici

— vuole profonda, profonda eternità!»

Dodici


 
I sette sigilli (Ovvero il canto del sì e dell’amen)

 
Capitolo 1
Se io sono un profeta e pieno di quello spirito profetico che cammina su un alto giogo fra due mari, — — che tra passato e futuro naviga come una nuvola greve, nemico di afosi bassopiani e di tutto ciò che è stanco e non sa né vivere né morire: pronto alla folgore nel suo buio seno e a sprigionare il raggio di luce che redime, gravido di folgori che dicono sì, che ridono sì, pronto a mandare lampi profetici: — — ma beato chi è gravido a questo modo! E in verità, deve rimanere sospeso a lungo sui monti come una minaccia di maltempo chi dovrà accendere la luce del futuro! — Oh come potrei non essere non preso dal desiderio dell’eternità e del nuziale anello degli anelli, — dell’anello del — ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!

Poiché io ti amo, o eternità!


 
Capitolo 2
Se il mio furore squarciò mai sepolcri, rimosse pietre di confine e rotolò giù per scoscese profondità tavole spezzate: se il mio scherno spazzò via col suo soffio parole ammuffite e io raggiunsi come una scopa i ragni crociati e come una folata di vento vecchie camere mortuarie intanfite: se mi sedetti esultando dove giacciono sepolti vecchi dei, benedicendo il mondo, amando il mondo, presso monumenti di antichi calunniatori del mondo: — — perché io amo anche chiese e sepolcri di dei, quando il cielo guarda col suo occhio puro attraverso i loro soffitti diroccati; mi piace starmene come l’erba e il papavero rosso tra chiese diroccate — oh, come potrei non essere non preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, — l’anello del ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!

Poiché io ti amo, o eternità!


 
Capitolo 3
Se mai giunse a me un soffio dell’alito creatore e di quella celeste necessità che costringe i casi a danzare la danza in tondo delle stelle: se mai risi del riso della folgore creatrice, cui tien dietro, minaccioso ma obbediente, il lungo tuono dell’azione: se mai giocai ai dadi con gli dei sul tavolo divino della terra così che la terra tremò e si spaccò e sbuffando eruttò fiumi di fuoco: — — poiché la terra è un tavolo divino, e tremante di nuove parole creatrici e per i divini lanci di dadi: —

oh, come potrei essere non preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, — dall’anello del ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità! Poiché io ti amo, o eternità!


 
Capitolo 4
Se mai bevetti a grandi sorsate in quella schiumeggiante brocca per aromi e misture, in cui sono ben mescolate tutte le cose: se mai la mia mano versò cose lontane su cose vicine, e fuoco su spirito e piacere sul dolore e malefico su benefico: se io stesso sono un grano di quel sale che redime e fa che tutte le cose si trovino ben mescolate dentro quella brocca per misture: — poiché esiste un sole che lega il buono al cattivo; e anche il peggio è degno di servire da aroma e buono a far traboccare la schiuma alla fine: — oh, come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, dell’anello del ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!

Poiché io ti amo, o eternità!


 
Capitolo 5
Se sono amico al mare e a tutto ciò che somiglia al mare, e più amico che mai quando esso furibondo mi contraddice: se c’è in me quel voglioso cercare che spinge le vele verso l’inesplorato, se in questa mia voglia è voglia di marinaio: se mai il mio giubilo proruppe: «La costa è scomparsa — ora è caduta la mia ultima catena — — lo sconfinato mugghia intorno a me, lontano risplendono spazio e tempo, avanti! Avanti, vecchio cuore!» —

oh, come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, — l’anello del ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!

Poiché io ti amo, o eternità!


 
Capitolo 6
Se la mia virtù è virtù di danzatore, e spesso io balzai con entrambi i piedi in un’estasi d’oro e di smeraldo:

se la mia cattiveria è una cattiveria ridente, che dimora dietro spalliere di rose e file di gigli:

— nel riso si raduna tutto il male, ma santificato e assolto dalla sua stessa beatitudine: —

e se questo è il mio alfa e il mio omega, che il greve si faccia lieve, ogni corpo danzatore, ogni spirito uccello: e questo è davvero il mio alfa e il mio omega! — oh, come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, — dall’anello del ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!

Poiché io ti amo, o eternità!


 
Capitolo 7
Se mai spalancai su di me cieli tranquilli e volai con le mie ali verso cieli miei:

se mai giocando nuotai in profonde lontananze di luce e se mai giunse a me l’uccello saggezza della mia libertà: —

— così parla l’uccello saggezza: «Ecco, non c’è né un sopra né un sotto! Gettati di qua e di là, fuori, indietro, tu lieve. Canta! Non parlare più!

— le parole non sono tutte fatte per i grevi? Non mentono al lieve tutte le parole? Canta! Non parlare più!» —

oh, come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, — dall’anello del ritorno?

Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!

Poiché io ti amo, o eternità!


 
Parte quarta e ultima
Ah, dove nel mondo accaddero stoltezze maggiori che presso i

compassionevoli? E che cosa nel mondo causò più sofferenza delle

stoltezze dei compassionevoli?

Guai a chi ama e non può collocarsi più in alto della propria

compassione!

Così mi disse una volta il diavolo: «Anche Dio ha il suo inferno:

è il suo amore per gli uomini».

E poco tempo fa sentii dire questa parola: «Dio è morto; Dio è

morto della sua compassione per gli uomini».

Zarathustra


 
Il sacrificio del miele
— E di nuovo passarono mesi ed anni sull’anima di Zarathustra, ed egli non ci badava; ma i suoi capelli incanutirono. Un giorno che stava seduto su una pietra davanti alla sua spelonca e guardava lontano in silenzio — da quel luogo si abbracciava la distesa del mare e si scorgevano gli abissi, — i suoi animali gli giravano intorno pensosi, finché gli si posero di fronte.

«O Zarathustra», dissero «stai spiando se mai giunga la tua felicità?» — «Che importa della felicità!» rispose egli «Da lungo tempo non aspiro più alla felicità, ma aspiro alla mia opera». — «O Zarathustra», ripresero gli animali «dici questo come uno che ha sovrabbondanza di bene. Non navighi in un celeste lago di felicità?» — «Voi furbi pagliacci», rispose Zarathustra e sorrise «come avete scelto bene la similitudine! Ma sapete pure che la mia felicità è pesante, e non come una fluida onda: mi opprime e non si distacca da me, fa come la pece fusa». —

Allora gli animali gli girarono di nuovo intorno pensosi, finché gli si posero di nuovo di fronte. «O Zarathustra», dissero «è dunque per questo che diventi sempre più giallo e sempre più scuro, sebbene i tuoi capelli vogliano apparire bianchi e linosi? Sei immerso nella tua pece!» — «Che dite mai, animali miei», disse Zarathustra e sorrise «in realtà bestemmiavo quando parlavo di pece. Mi accade ciò che accade a tutti i frutti quando sono maturi. Nelle mie vene c’è del miele che rende il mio sangue più denso e più placida la mia anima». — «Sarà così, o Zarathustra», risposero gli animali e si strinsero intorno a lui «ma oggi non vorresti salire su un alto monte? L’aria è pura, oggi si scorge più mondo del consueto». — «Sì, animali miei», rispose egli «è un consiglio eccellente e secondo il mio cuore: oggi voglio salire su un alto monte! Ma procurate che lassù abbia poi a portata di mano del miele, buono, giallo, bianco, freddo come ghiaccio, miele d’oro di favo. Poiché, sappiatelo, lassù compirò un sacrificio col miele». —

E quando Zarathustra si trovò sulla vetta del monte, rimandò a casa gli animali che lo avevano accompagnato e considerò che ormai era completamente solo: — allora rise di tutto cuore, si guardò intorno e così parlò:

Parlare di sacrifici e di sacrifici col miele è stata soltanto un’astuzia del mio discorso e, in verità, un’utile stoltezza! Quassù posso già parlare più liberamente che in presenza di spelonche di eremiti e di animali domestici di eremiti.

Macché sacrificare! Io sperpero ciò che mi è donato, io sperperatore con mille mani: come potrei chiamare ciò — sacrificio!

E quando desiderai del miele, desiderai soltanto esche e dolce vischio e mucillagine che fa venir l’acquolina anche a tetri orsi e cattivi e strani uccelli brontoloni:

— la miglior esca, quale occorre a cacciatori e a pescatori. Poiché se il mondo è un’oscura foresta piena di animali e il giardino di delizie di tutti i cacciatori selvaggi, a me appare piuttosto invece un mare opulento e profondo.

— un mare pieno di pesci e di variopinti crostacei, che farebbero venire voglia anche agli dei di farsi pescatori e gettarvi le reti: così ricco è il mondo, di cose strane, grandi e piccole!

Soprattutto il mondo umano, il mare umano: — e in esso getto ora il mio amo d’oro e dico: spalancati, abisso umano!

Spalancati e gettami i tuoi pesci e i tuoi scintillanti crostacei! Con la mia esca migliore voglio adescare oggi i più mirabolanti pesci umani!

— la mia felicità stessa: la getto lontano, ai quattro venti, fra l’aurora, il mezzodì e il tramonto, per vedere se molti pesci umani impareranno a dare strattoni e a dibattersi appesi alla mia felicità.

Fino a che, mordendo i miei aguzzi e ricurvi uncini, non dovranno salire alla mia altezza, le variopinte creature del fondo dell’abisso — al più malefico fra tutti i pescatori.

Questo io sono infatti fino alla radice e fin da principio, tirando, tirando a me, tirando in alto, elevando, uno che tira, un allevatore e un educatore che non invano disse una volta a se stesso: «Diventa ciò che sei!»

Dunque ormai salgano a me gli uomini, quassù: poiché io attendo ancora il segno che è l’ora della mia discesa; ancora non scendo fra gli uomini, come devo.

Ma aspetto quassù, astuto e schernevole, su alti monti, non impaziente, non paziente, piuttosto come uno che ha disimparato anche la pazienza, — perché non «patisce» più.

Il mio destino infatti mi lascia tempo: che mi abbia dimenticato? Che stia seduto dietro un masso, all’ombra, acchiappando le mosche?

E, in verità, gli sono riconoscente al mio eterno destino, che non m’incalzi e opprima e mi lasci invece il tempo per burle e cattiverie: così ho potuto salire oggi a pescare su questo alto monte.

Pescò mai un uomo pesci su alti monti?

E anche se è una follia ciò che io voglio e faccio quassù: meglio questo che restare laggiù e diventare rigido e solenne nell’attesa e verde e giallo —

— eccitato e sbuffante ira per il lungo attendere, una santa bufera ululante dai monti, un impaziente che grida giù nelle valli: «Ascoltate, o vi frusto col flagello di Dio!»

Non che io me la prenda con questi iracondi: perché servono a farmi ridere! Debbono essere ben impazienti questi grandi stambureggiatori, che oggi o mai possono prendere la parola!

Ma io e il mio destino — non parliamo all’oggi e non parliamo al mai: per parlare abbiamo pazienza e tempo e più che tempo. Poiché esso deve ancora venire e non può passare oltre.

Chi deve venire e non può passare oltre? Il nostro grande hazar, cioè il nostro grande e lontano regno umano, il regno millenario di Zarathustra.

Quanto lontano può essere questo «lontano»? Che m’importa! Non mi è per questo meno concreto —, con tutti e due i piedi sto su questo suolo,

— su un suolo eterno, su una dura roccia primigenia, su questo altissimo durissimo massiccio primigenio, cui convergono tutti i venti come allo spartivento, chiedendo dove e di dove e verso dove.

Qui rida, rida la mia limpida e integra cattiveria! Giù dagli alti monti precipita a valle il tuo luccicante riso di scherno! Adescami col tuo luccichio i più bei pesci umani!

E ciò che in tutti i mari appartiene a me, l’«in me e per me» in tutte le cose — questo devi pescarmi, questo portarmi quassù: è questo che io, il più malefico tra i pescatori, attendo.

Al largo, al largo, mio amo! Dentro, giù, esca dalla mia felicità! Stilla il tuo più dolce umore, mio cuore di miele! Addenta, mio amo, ogni mera mestizia nel ventre!

Fuori, fuori, mio occhio! Oh, quanti mari tutt’intorno a me, quanti futuri umani ai loro albori! E sopra di me — che rosea pace! Quale snebbiato silenzio!


 
Il grido d’aiuto
Il giorno dopo Zarathustra stava di nuovo seduto sulla pietra davanti alla spelonca, mentre gli animali erano in giro per il mondo, per portare a casa nuovo cibo, — e anche nuovo miele: poiché Zarathustra aveva consumato e sperperato il vecchio miele fino all’ultima briciola. Ma mentre così sedeva, con una verga in mano, e stampava sulla terra l’ombra della sua figura, immerso in meditazione, invero non su se stesso o la sua ombra — tutt’a un tratto si spaventò e sobbalzò: poiché accanto alla sua ombra aveva scorto un’altra ombra. E non si era guardato intorno e levato in piedi che gli stava già accanto il profeta, lo stesso ch’egli aveva un tempo nutrito e dissetato alla sua tavola, il predicatore della grande stanchezza, che insegnava: Tutto è uguale, nulla vale la pena, il mondo è senza senso, il sapere soffoca. Ma il suo volto era nel frattempo mutato; e quando Zarathustra lo guardò negli occhi, il suo cuore provò di nuovo spavento: tanti cattivi annunzi e cinerei lucori attraversavano quel volto.

Il profeta, che percepiva quel che avveniva nell’anima di Zarathustra, si passò la mano sul volto, come se volesse cancellarlo; lo stesso fece Zarathustra. E quando entrambi, senza far motto, si furono in tal modo riavuti e fatti forza, si diedero la mano a significare che si volevano riconoscere.

«Sii il benvenuto», disse Zarathustra «profeta della grande stanchezza, non invano devi essere stato un tempo mio ospite e commensale. Mangia e bevi anche oggi con me e permetti che sieda a tavola con te un vecchio lieto!» — «Un vecchio lieto?» rispose il profeta scuotendo il capo «Chiunque tu sia o voglia essere, o Zarathustra, lo sei stato troppo a lungo, quassù, — la tua barca presto non sarà più all’asciutto!» — «E io sono forse all’asciutto?» — chiese Zarathustra ridendo. — «I flutti intorno al tuo monte salgono e salgono, i flutti di un grande bisogno e di una grande mestizia: presto solleveranno anche la tua barca e ti porteranno via» —

Qui Zarathustra tacque e si meravigliò. — «Non odi ancora nulla?» continuò il profeta «Non sale dal profondo un gran sciacquio e brontolio?» — Di nuovo Zarathustra tacque e tese l’orecchio: allora udì un lungo, lungo grido che un abisso lanciava e trasmetteva all’altro abisso, perché nessuno voleva trattenerlo: tanto crudele risuonava il grido.

«Tu, ambasciatore funesto», disse infine Zarathustra «questo è un grido di aiuto e il grido di un uomo che pare giungere da un buio mare. Ma che m’importa della miseria umana! Il mio ultimo peccato, che mi è stato finora risparmiato, — sai che si chiama?»

«Compassione» rispose il profeta dalla pienezza del suo cuore e levando le braccia al cielo — «o Zarathustra, io vengo per sedurti al tuo ultimo peccato!» —

Ed erano appena state pronunciate queste parole che il grido riecheggiò un’altra volta, ma più lungo e più angoscioso di prima, e molto più vicino. «Senti? Senti, o Zarathustra?» gridò il profeta «è per te il grido, è te che invoca: vieni, vieni, vieni, è tempo, è ormai tempo!» —

Zarathustra allora tacque, confuso e sconvolto; infine chiese, come uno che dentro di sé è pieno di titubanza: «E chi è che di laggiù mi chiama?»

«Ma lo sai bene, rispose impetuoso il profeta, perché ti nascondi? È l’uomo superiore che t’invoca!»

«L’uomo superiore?» gridò Zarathustra pieno di raccapriccio «Che cosa vuole quello? Che cosa vuole quello? L’uomo superiore? Che cosa vuole quassù?» — e la sua pelle si coprì di sudore.

Ma il profeta non rispose all’angoscia di Zarathustra, bensì tese l’orecchio all’abisso. Ma poiché esso rimase a lungo muto, egli ne stornò lo sguardo e vide Zarathustra fermo davanti a lui e tremante.

«O Zarathustra, prese a dire con voce piena di mestizia, non mi stai davanti come uno che la felicità fa girare su se stesso: dovrai danzare per non cadermi per terra!

Ma anche se tu volessi danzare davanti a me e balzare tutti i tuoi balzi: nessuno deve potermi dire: “Ecco, sta danzando l’ultimo uomo contento!”.

Invano, si sarebbe spinto fino a questa altezza chi qui cercasse quell’uomo: troverebbe caverne e caverne dietro caverne, nascondigli e nascondigli, e non miniere di felicità e tesori e nuove falde aurifere di felicità.

Felicità — come trovare la felicità presso questi sepolti vivi ed eremiti! Devo cercare l’ultima felicità su isole beate e lontano, su obliati mari?

Ma tutto è uguale, nulla vale la pena, non giova cercare, non esistono più neanche le isole beate!» —

Così sospirava il profeta; ma al suo ultimo sospiro Zarathustra tornò sereno e sicuro, come uno che da una profonda gola riemerge alla luce. «No! No! No! Tre volte no!» gridò a gran voce e si ravviò la barba «questo io lo so meglio di te! Esistono ancora isole beate! Non fiatare su questo, sospiroso sacco di mestizia!

Smetti di sciaguattare di questo, nube di pioggia al mattino! Non sono già tutto bagnato della tua mestizia e grondante come un cane?

Adesso mi scrollo e fuggo da te, per potermi asciugare, e non te ne devi meravigliare! Ti appaio scortese? Ma qui siamo alla mia corte.

E per quanto riguarda il tuo uomo superiore: avanti! Volo a cercarlo in quei boschi: di là proveniva il suo grido. Forse lo incalza una bestia feroce.

Egli si trova sul mio territorio: perciò non deve patir danno! E, in verità, da me ci sono molte bestie feroci».

Con queste parole Zarathustra fece per avviarsi. Allora il profeta disse: «O Zarathustra, tu sei un briccone!

Lo so già: vuoi sbarazzarti di me! Preferisci correre nei boschi e tendere agguati alle bestie feroci!

Ma che ti serve? Stasera mi riavrai; rimarrò seduto nella tua spelonca, paziente, pesante come un ceppo — ad aspettarti!»

«E sia!» replicò Zarathustra allontanandosi «E quel che nella spelonca c’è di mio appartiene anche a te, mio ospite!

Se tu dovessi trovarvi ancora del miele, orsù, leccatelo tutto, orso brontolone, e dolcifica la tua anima! Stasera infatti voglio che siamo tutti e due di buon umore.

— di buon umore e lieti che questo giorno sia finito? E tu danzerai ai miei canti come un orso che io faccio danzare.

Non ci credi? Scuoti il capo? Orsù! Avanti! Vecchio orso! Anch’io — sono un profeta».

Così parlò Zarathustra.


 
Colloquio coi re

 
Capitolo 1
Zarathustra andava da meno di un’ora per i suoi monti e i suoi boschi quando, all’improvviso, vide uno strano corteo. Proprio sul sentiero per cui voleva discendere, venivano due re, corona in capo e cinture di porpora, e variopinti come fenicotteri: essi spingevano davanti a sé un asino carico. «Che cercano questi re nel mio regno?» disse stupito Zarathustra al proprio cuore e svelto si nascose dietro un cespuglio. Ma quando i re furono giunti vicino a lui, disse, a mezza voce come uno che parla fra sé: «Strano, strano! Qual è il nesso fra queste cose? Vedo due re — e solo un asino!»

Allora i due re si arrestarono, sorrisero, guardarono nel punto donde usciva la voce, poi si guardarono in faccia. «Simili cose si pensano anche fra noi», disse il re di destra «ma non si manifestano».

Il re di sinistra alzò le spalle e rispose: «Sarà un capraro. O un eremita che ha vissuto troppo a lungo fra rocce ed alberi. La mancanza di compagnia corrompe infatti anche i buoni costumi».

«I buoni costumi?» rispose amaro e svogliato l’altro re «Da chi stiamo fuggendo? Non dai “buoni costumi”? Dalla nostra “buona società”?

Meglio vivere, in verità, fra eremiti e caprari che in mezzo alla nostra plebe falsa, indorata e truccata, anche se si chiama “buona società”,

— anche se si chiama “nobiltà”. In questa tutto è falso e marcio, e principalmente il sangue, grazie ad antiche cattive malattie e a medico ni ancora più cattivi delle malattie.

L’uomo migliore e a me più caro è oggi un sano contadino, grossolano, scaltro, cocciuto, tenace: questo è oggi il ceppo più nobile.

Il contadino è oggi il migliore; e il ceppo contadino dovrebbe dominare! Invece abbiamo il regno della plebe, — da nulla mi lascio ingannare. Ma plebe significa: intruglio.

Intruglio plebeo: in esso tutto è in tutto e con tutto mescolato, santo e assassino, nobile ed ebreo e ogni bestia uscita dall’arca di Noè.

Buoni costumi! Tutto da noi è falso e marcio. Nessuno è più capace di venerazione: è da questo che appunto rifuggiamo. Non vi sono che cani invadenti e sdolcinati, che indorano foglie di palma.

Ed ecco il disgusto mi soffoca che anche noi re siamo diventati falsi, ci siamo addobbati e travestiti con la vecchia pompa ingiallita dei padri, siamo monete per i più stupidi e i più scaltri e per tutti quelli che mercanteggiano col potere!

Noi non siamo i primi — e dobbiamo mostrare di esserlo: ma alla fine questo inganno ci ha saziati e nauseati.

Fuggiamo dalla plebaglia, da tutti questi urloni e mosche che scrivono e lordano carte, dal puzzo dei trafficanti, dallo sgambettare dell’ambizione, dell’alito cattivo —; che onta vivere tra la plebaglia,

— che onta mostrare di essere i primi tra la plebaglia! Ah! Nausea! Nausea! Nausea! Che importa ormai di noi re!» —

«La tua vecchia malattia ti assale», disse allora il re di sinistra «la nausea ti assale, mio povero fratello. Ma sai pure che qualcuno ci ascolta».

Subito Zarathustra, che aveva tenuto occhi e orecchi spalancati a questi discorsi, uscì dal suo nascondiglio, si avvicinò ai re e prese a dire:

«Chi vi sta ad ascoltare, chi vi sta volentieri ad ascoltare, o re, si chiama Zarathustra.

Sono quello Zarathustra che una volta disse: “Che importa ormai dei re!”. Perdonatemi, ma mi sono rallegrato quando vi siete detti: “Che importa di noi re!”

Questo è il mio regno e il mio dominio: che andate mai cercando nel mio regno? Ma forse trovaste voi strada facendo quel che io cerco: e cioè l’uomo superiore».

Quando i re ebbero udito questo, si percossero il petto e dissero ad una voce: «Siamo stati riconosciuti!

Con la spada di questa parola tu squarci la fittissima tenebra del nostro cuore. Tu scopristi la nostra miseria, poiché, guarda, noi stessi siamo in cammino per trovare l’uomo superiore —

— l’uomo che sta più in alto di noi: sebbene noi siamo re. A lui conduciamo questo asino. L’uomo che sulla terra sta più in alto deve essere anche il supremo dominatore sulla terra.

Non v’è nella sorte umana sciagura più grande di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Allora diventa tutto falso, storto e deforme.

E quando i potenti sono addirittura gli ultimi e più bestie che uomini: allora la plebe sale di prezzo e alla fine parla anche la virtù plebea: “Ecco, io sola sono la virtù!”» —

Che udii or ora! rispose Zarathustra: quanta saggezza presso dei re! Sono commosso e, davvero, sento già il desiderio di farci sopra una rima: —

— ne venga pure una rima non adatta agli orecchi di ognuno. Da lungo tempo ho disimparato il rispetto per gli orecchi lunghi. Avanti! Su!

(Ma qui accadde che anche l’asino prese la parola: disse distintamente e con male intenzioni: I-A.)

Un tempo — credo nell’anno uno della redenzione —

Disse la Sibilla, senza vino ebbra:

«Ahi, ora va male!

Rovina! Rovina! Mai il mondo cadde così in basso!

Roma decadde a prostituta e postribolo,

Il Cesare di Roma decadde ad una bestia,

Dio stesso — si fece ebreo!»


 
Capitolo 2
I re si compiacquero di queste rime di Zarathustra; ma il re di destra disse: «O Zarathustra, come abbiamo fatto bene a metterci in cammino per vederti!

I tuoi nemici ci mostrarono la tua effigie nel loro specchio: di là tu guardavi con un ceffo di demonio e sogghignante: tanto che avemmo paura di te.

Ma a che pro? Tu continuavi a trafiggerci cuore ed orecchio con le tue massime. Alla fine dicemmo: che importa il suo aspetto!

Non possiamo non ascoltarlo lui che insegna: “Dovete amare la pace come tramite di nuove guerre, e una pace corta più di una lunga!”

Nessuno pronunciò mai parole così bellicose: “Che cos’è bene? Essere coraggiosi è bene. È la buona guerra che santifica ogni cosa”.

O Zarathustra, a queste parole il sangue dei nostri padri si rimescolava nel nostro corpo: era come quando la primavera parla a delle vecchie botti.

Quando le spade si incrociavano come serpenti macchiati di rosso, i nostri padri provavano un subito amore alla vita; ogni sole di pace appariva loro tiepido e scialbo, e una pace lunga faceva vergogna.

Come sospiravano i nostri padri quando vedevano alle pareti spade ben asciutte e lucenti! Similmente a quelle avevano sete di guerra. Una spada infatti vuole bere sangue e scintilla di brama».

— Mentre i re parlavano e ciarlavano con tanto ardore della felicità dei loro padri, Zarathustra fu colto da non poca voglia di burlarsi del loro ardore: poiché quelli che aveva davanti erano re visibilmente pacifici, con vecchi volti dai tratti raffinati. Ma si contenne. «Ebbene», disse «il sentiero va da quella parte, là è la spelonca di Zarathustra; e questo giorno deve avere una lunga sera! Ma un grido d’aiuto mi chiama d’urgenza lontano da voi.

Onora la mia spelonca che dei re si degnino di sedervi ad attendere: e in verità avrete da attendere un pezzo.

Ebbene! Che fa! Dove oggi s’impara meglio ad attendere che alle corti? E tutta la virtù regale rimasta ai re, — non si chiama oggi: saper attendere?»

Così parlò Zarathustra.


 
La sanguisuga
E Zarathustra proseguì, pensieroso, addentrandosi nei boschi e costeggiando terreni paludosi; ma, come accade a chiunque vada rimuginando cose gravi, senz’avvedersene calpestò un uomo. Ed ecco che tutt’in una volta gli schizzarono sul viso un grido di dolore e due bestemmie e venti furiosi insulti: tanto che dallo spavento levò il bastone e percosse il calpestato. Ma subito dopo ritornò in sé; e il suo cuore rise della sciocchezza che aveva appena commesso.

«Perdona» disse al calpestato, che si era intanto drizzato a sedere «perdona e per prima cosa porgi orecchio a una parabola.

Come un viandante che sogna cose lontane, andando per una strada solitaria, urta inavvertitamente un cane addormentato, un cane sdraiato al sole:

— come entrambi sobbalzano, si aggrediscono, quali nemici mortali, tutti e due spaventati a morte: così è accaduto a noi.

Eppure! Eppure — c’è mancato così poco che l’uno accarezzasse l’altro, questo cane e questo solitario! Non sono entrambi — solitari?!»

— «Chiunque tu sia», disse, tuttora adirato il calpestato, «anche con la tua parola mi fai torto, e non solo col tuo piede!

Guarda, forse che io sono un cane?» — e così dicendo si levò a sedere e tirò fuori dalla palude il braccio nudo. Al primo momento infatti era stato disteso per terra, semicelato e irriconoscibile come quelli che appostano la selvaggina palustre.

«Ma che stai facendo?» esclamò Zarathustra spaventato, quando vide che per il braccio nudo gli scendeva copioso sangue «che ti è occorso? Ti addentò, infelice, una bestia feroce?»

Il sanguinante rise, ma sempre pieno d’ira. «Che t’importa!» disse e fece per avviarsi. «Qui sono a casa mia, sul mio territorio. Mi interroghi chi vuole: a uno zotico sarà difficile che risponda».

«Ti sbagli», disse Zarathustra con compassione e trattenendolo «ti sbagli: qui non sei a casa tua, bensì nel mio regno, e nessuno deve subirvi danno.

Chiamami pure come vuoi, — io sono quello che devo essere. Io do a me stesso il nome di Zarathustra.

Ebbene! Da quella parte sale il sentiero che porta alla spelonca di Zarathustra: non è lontana, — non vuoi curarti le ferite in casa mia?

Ti è andata male, sventurato, in questa vita: prima ti morse la bestia, e poi — ti calpestò l’uomo!» —

Ma quando il calpestato udì il nome di Zarathustra, si trasfigurò. «Che mi accade!» esclamò «Chi mi sta più a cuore in questa vita di quest’unico uomo, Zarathustra, e di quell’unico animale che vive di sangue, la sanguisuga?

A causa della sanguisuga giacevo sull’orlo di questa palude come un pescatore e già dieci volte era stato morso il mio braccio sospeso, quand’ecco mi morde, per suggermi il sangue, una sanguisuga, ancora più bella, lo stesso Zarathustra!

O fortuna! O miracolo! Lodato sia questo giorno che mi attirò in questa palude! Lodata sia la ventosa più forte e più viva che oggi esista, lodata sia la grande sanguisuga della coscienza, Zarathustra!» —

Così parlò il calpestato; e Zarathustra si rallegrò delle sue parole e del suo tono delicato e reverente. «Chi sei?» chiese e gli porse la mano «Tra noi resta molto da chiarire e da rischiarare: ma mi pare che stia venendo giorno, giorno puro e limpido».

«Io sono il coscienzioso dello spirito», rispose l’interrogato «e le cose dello spirito è difficile che qualcuno le prenda con più rigore, rigidezza e durezza di me, ad eccezione di colui dal quale imparai a essere così, Zarathustra stesso.

Meglio non sapere nulla che sapere molte cose a metà! Meglio essere uno stolto di propria volontà che un saggio secondo il giudizio altrui! Io — vado fino in fondo:

— che importa se è grande o piccolo? Se si chiama palude o cielo? Un palmo di fondo mi basta: purché sia davvero fondo e suolo stabile!

— un palmo di fondo: si può starci sopra. Nella vera scienza della coscienza non v’è nulla di grande e nulla di piccolo».

«Allora saresti forse il conoscitore della sanguisuga?» chiese Zarathustra «E insegui la sanguisuga fino agli estremi fondi, tu coscienzioso?»

«O Zarathustra», rispose il calpestato «sarebbe mostruoso, come potrei cimentarmi in una cosa simile!

Ma ciò di cui sono conoscitore e maestro è il cervello della sanguisuga: — quello è il mio mondo!

Ed è un mondo! Ma perdona se qui prende la parola il mio orgoglio, poiché in questo non ho chi mi eguagli. Perciò dissi: “qui sono a casa mia”.

Da quanto tempo seguo questa sola cosa, il cervello della sanguisuga, perché la scivolosa verità qui non mi scivola più via. Qui è il mio regno!

— per essa gettai tutto il resto, per essa mi diventò indifferente tutto il resto; e a ridosso della mia sapienza dimora la mia nera ignoranza.

La mia coscienza dello spirito esige da me che io sappia una cosa sola e fuori di questa non sappia nulla: mi ripugnano tutti i mezzi spiriti, tutti i brumosi, i fluttuanti, gli ispirati.

Dove cessa la mia lealtà, sono cieco e voglio anche essere cieco. Ma dove voglio sapere, voglio anche essere onesto, e cioè duro, rigido, rigoroso, spietato, inesorabile.

Quel che tu una volta dicesti, o Zarathustra: “Lo spirito è la vita che affonda il coltello nella vita”, mi condusse e sedusse alla tua dottrina. E, in verità, è col mio sangue che accrebbi il mio sapere!»

— «Come l’evidente insegna» balenò a Zarathustra: poiché il sangue continuava a colare per il braccio nudo del coscienzioso. Vi stavano infatti attaccate dieci sanguisughe.

«O tu, strano compagno, com’è istruttivo per me l’evidente, cioè tu stesso! Non tutto potrei infatti versare nei tuoi severi orecchi!

Orsù! Separiamoci! Ma amerei ritrovarti. Da quella parte sale il sentiero che porta alla mia spelonca: stanotte devi essere mio gradito ospite!

Sarei lieto di giovare al tuo corpo per rimediare d’averti calpestato: ci voglio pensare. Ma un grido d’aiuto mi chiama d’urgenza lontano da te».

Così parlò Zarathustra.


 
Il mago

 
Capitolo 1
Ma quando Zarathustra ebbe fatto il giro di una rupe, ecco che vide, non lontano, sotto di sé, sulla stessa strada, un uomo che scuoteva le membra come un pazzo furioso e che poi cadde bocconi. «Alt!» disse allora Zarathustra al proprio cuore «quello dovrebbe essere l’uomo superiore, da lui proveniva quel funesto grido d’aiuto, — voglio vedere se si può soccorrerlo». Ma quando giunse sul luogo dove l’uomo giaceva per terra, trovò che era un vecchio tremante, che teneva gli occhi fissi; e per quanti sforzi Zarathustra facesse per sollevarlo e rimetterlo in piedi, tutto fu invano. Né lo sventurato sembrava accorgersi che vicino a lui c’era un altro; non faceva che guardarsi intorno, con gesti pietosi, come chi è abbandonato e isolato dal mondo intero. Ma alla fine, dopo molto tremare, rabbrividire e contorcersi, cominciò a lamentarsi così:

Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?

Datemi mani calde!

Datemi bracieri per il cuore!

Disteso, pieno d’orrore,

A un moribondo simile, cui si riscaldano i piedi —

Scosso, ahimè, dai brividi di ignote febbri,

Tremante, trafitto da acute frecce di ghiaccio,

Da te sospinto, pensiero!

Innominabile! Velato! Terrificante!

Tu, cacciatore dietro le nubi!

Scagliato quaggiù dal tuo fulmine,

Tu occhio schernevole che dalla tenebra mi contempla:

— così giaccio,

Piegami, attorcigliami, torturato

Da tutti gli eterni martiri,

Colpito

Da te, cacciatore efferato,

Tu — dio ignoto!

Colpisci più a fondo!

Colpisci ancora!

Trafiggi, spezza questo cuore!

Perché questo martirio

Con frecce spuntate?

Che guardi ancora,

Mai sazio d’umano tormento,

Col lampo maligno di occhi divini?

Non vuoi la morte,

Solo il martirio, il martirio?

A che — martirizzarmi,

Maligno, dio ignoto? —

Ah! In segreto ti accosti?

In questa mezzanotte

Che vuoi? Parla!

Mi spingi, mi premi —

Ah! Ormai troppo vicino!

Via! Via!

Mi senti respirare,

Ascolti il mio cuore,

Tu, geloso —

Ma geloso di che?

Via! Via! Perché la scala?

Se vuoi entrare,

Nel cuore,

Salire, nei più riposti

Pensieri salire?

Impudico! Ignoto — Ladro!

Che vuoi rubare?

Che vuoi strappare al silenzio?

Che vuoi strappare con la tortura,

Torturatore!

Tu — dio-carnefice!

O, come il cane, debbo

Rotolarmi per terra davanti a te?

Subito vinto, subito in estasi e fuori di me,

Scodinzolarti amore?

Invano! Trafiggi ancora,

Perfido aculeo! No,

Non cane — selvaggina sono per te,

Cacciatore efferato!

Il tuo prigioniero più superbo,

Tu predone dietro le nubi!

Parla, infine!

Che vuoi, rapinatore, da me?

Tu che ti celi con le folgori! Ignoto! Parla,

Che vuoi, ignoto — dio?

Come? Denaro di riscatto?

Che vuoi di riscatto?

Pretendi molto — lo consiglia il mio orgoglio!

E parla conciso — lo consiglia il mio secondo orgoglio!

Ah!

Me — vuoi? Me?

Me — intero? …

Ah!

E mi martirizzi, folle che sei,

Strazi il mio orgoglio?

Dammi invece amore — chi mi riscalda ancora?

Chi mi ama ancora? — dammi mani calde,

Dammi bracieri per il cuore,

Da a me, il più solo,

Cui il ghiaccio, ah! settuplice ghiaccio

Insegna ad anelare nemici,

Sì, nemici,

Dà, sì, concedi,

Efferato nemico,

A me — te stessol —

Via!

Ecco, fuggi

Anche il mio ultimo, unico compagno,

Il mio grande nemico,

Il mio ignoto,

Il mio dio — carnefice! —

— No! ritorna,

Con tutti i tuoi martiri!

Dall’ultimo di tutti i solitari

Oh, ritorna!

Tutti i miei fiumi di lacrime corrono

Il loro corso verso di te!

E l’ultima vampa del mio cuore —

Guizza verso di te!

Oh, ritorna

Mio dio ignoto! Mio dolore! Mia ultima — felicità!


 
Capitolo 2
— Ma a questo punto Zarathustra non potè resistere oltre, prese il suo bastone e percosse con tutte le forze colui che si lamentava. «Smettila!» gli gridò con furia ridente «Fermati, commediante! Falsario! Mentitore sin nel profondo! Ti conosco bene!

Te le riscalderò io le gambe, perfido, sono bravissimo coi tuoi pari — a riscaldarli!»

— «Fermati», disse il vecchio balzando in piedi «non colpire più, o Zarathustra! È stato soltanto un gioco!

Cose del genere fanno parte della mia arte; volevo metterti alla prova, quando ti ho offerto questo saggio! E, in verità, mi hai scoperto!

Ma anche tu — mi desti di te non piccola prova: tu sei duro, saggio Zarathustra! Percuoti duramente con le tue “verità”, il tuo bastone mi strappa — questa verità!»

— «Non adulare», rispose Zarathustra ancora eccitato e tetro, «tu commediante sin nel profondo! Tu sei falso: che cosa parli — di verità!

Tu, pavone dei pavoni, tu mare di vanità, che cosa recitasti davanti a me, perfido mago, a chi dovetti credere mentre ti lamentavi a quel modo?»

«Il penitente dello spirito», disse il vecchio «quello recitavo: tu stesso inventasti questa parola —

— il poeta e il mago che alla fine volge contro se stesso il suo spirito, il trasfigurato, che soffre il freddo della sua cattiva scienza e co scienza.

E confessa almeno: c’è voluto del tempo, o Zarathustra, prima che tu scoprissi la mia arte e la mia menzogna! Tu credevi alla mia miseria, mentre mi tenevi la testa fra le tue mani, —

— ti udii lamentare: “lo hanno amato troppo poco, troppo poco”. E la mia cattiveria giubilava tra sé che io fino a quel momento fossi riuscito a ingannarti».

«Puoi avere ingannato persone più perspicaci di me» disse Zarathustra. «Io non sto in guardia contro gli ingannatori, io devo essere imprudente: così vuole la mia sorte.

Ma tu — devi ingannare: fin qui ti conosco! Devi sempre avere due, tre, quattro, cinque sensi alla volta! Ma ciò che or ora confessasti è ben lungi dall’essere per me abbastanza vero o abbastanza falso!

Tu, pessimo falsario, come potresti fare altrimenti! Truccheresti anche la tua malattia, dovendoti mostrare nudo al tuo medico.

Così truccasti davanti a me la tua menzogna, quando dicesti: “È stato soltanto un gioco!” Poiché c’era anche del serio, tu hai qualcosa del penitente dello spirito!

Io t’indovino: tu trovasti incantesimi per tutti, ma contro te stesso non ti è rimasta più una sola menzogna e astuzia, — tu hai disincantato te stesso!

Accumulasti disgusto come la tua unica verità. Più nessuna parola in te è sincera; soltanto la tua bocca: cioè il disgusto che porti sulla bocca».

— «Chi sei tu!» gridò allora il vecchio mago con tono caparbio «Chi si permette di parlare così a me, il più grande dei viventi oggi?» — e il suo occhio scoccò una verde folgore verso Zarathustra. Ma subito egli si trasfigurò e disse mesto:

«O Zarathustra, sono stanco, le mie arti mi disgustano, io non sono grande, a che scopo mi camuffo! Ma, lo sai bene — io ho cercato grandezza!

Volevo incarnare un grande uomo e persuasi molti uomini: ma questa menzogna era superiore alle mie forze. E contro di essa mi spezzo.

O Zarathustra, tutto è menzogna in me; ma che mi spezzo — questo mio spezzarmi è autentico!» —

«Ti onora», rispose tetro Zarathustra guardando da una parte «ti onora che tu abbia cercato grandezza, ma al tempo stesso ti tradisce. Tu non sei grande.

Tu, vecchio perfido mago, questo è il meglio di te e la tua onestà, ciò che io onoro in te, che ti sia stancato di te stesso e lo abbia espresso: “io non sono grande?”

In questo onoro un penitente dello spirito: e anche se fu solo per un fugace istante, per un soffio, in quell’attimo fosti — autentico.

Ma dimmi, che cerchi qui per i miei boschi e dirupi? E quando ti mettesti sulla mia strada, quale prova volevi da me?

— a che cosa mi tentavi?» —

Così parlò Zarathustra e i suoi occhi scintillavano. Il vecchio mago tacque per un poco, poi disse: «Tentare io te! Io — cerco soltanto.

O Zarathustra, io cerco un autentico, un vero, un semplice, un univoco, un uomo che abbia tutte le onestà, un vaso di saggezza, un santo della conoscenza, un grande uomo!

Non lo sai dunque, o Zarathustra! Io cerco Zarathustra».

— E qui subentrò fra i due un grande silenzio; e Zarathustra s’immerse così profondamente in se stesso che chiuse gli occhi. Ma poi, ritornando al suo interlocutore, afferrò la mano del mago e disse, pieno di gentilezza e di malizia:

«Ebbene! Da quella parte sale il sentiero, lassù è la spelonca di Zarathustra. Là dentro puoi cercare chi vorresti trovare.

E chiedi consiglio ai miei animali, la mia aquila e il mio serpente ti aiuteranno a cercare. La mia spelonca è grande.

Neanch’io in verità vidi mai un grand’uomo. Oggi anche l’occhio dei più perspicaci è troppo grossolano per scorgere ciò che è grande. Oggi è il regno della plebe.

Più d’uno incontrai che si stirava e gonfiava, e il popolo gridava: “Guardate, ecco un grand’uomo!”. Ma a che servono tutti i mantici! Alla fine il vento ne esce fuori.

Scoppia alla fine una rana che si è troppo a lungo gonfiata: allora il vento ne esce fuori. Bucare il ventre a un uomo gonfiato lo chiamo un sano divertimento? Avete sentito, fanciulli?

Questo oggi è della plebe: chi sa ancora che cos’è grande, che cos’è piccolo! Chi mai cerca con fortuna la grandezza! Soltanto un pazzo: i pazzi hanno fortuna.

Tu cerchi grandi uomini, tu pazzo singolare? Chi te l’ha insegnato? È forse oggi l’epoca adatta? O perfido cercatore, perché — mi tenti?»

Così parlò Zarathustra, col cuore consolato, e ridendo tirò avanti per la sua strada.


 
Fuori servizio
Ma non molto dopo essersi liberato del mago, Zarathustra vide di nuovo qualcuno seduto sul sentiero, e cioè un uomo alto, nero, dal volto pallido e scarno: costui lo indispettì fortemente. «Ahimè» disse al suo cuore «ecco là seduta la mestizia imbacuccata; mi pare della razza dei preti: che cosa vogliono quelli nel mio regno?

Come! Sono appena sfuggito a quel mago: e subito deve capitare sulla mia strada un altro negromante, —

— uno stregone che impone le mani, un oscuro taumaturgo per grazia di Dio, un unto e consacrato calunniatore del mondo, il diavolo se lo porti!

Ma il diavolo non è mai nel posto dove sarebbe a proposito: arriva sempre troppo tardi questo maledetto nano piè-storpio!»

Così imprecava Zarathustra in cuor suo, pieno d’impazienza, e pensava come sgusciare oltre l’uomo nero con lo sguardo rivolto altrove. Ma le cose andarono diversamente. In quel preciso istante l’uomo seduto lo vide; e non diversamente da uno cui tocca una fortuna imprevista, balzò in piedi e si diresse verso Zarathustra.

«Chiunque tu sia, viandante», disse «aiuta uno smarrito, uno che cerca, un vecchio che qui potrebbe facilmente patire danno!

Questo mondo mi è straniero e lontano, ho udito anche grida di animali selvaggi, e chi avrebbe potuto offrirmi riparo non è più.

Io cercavo l’ultimo uomo pio, santo ed eremita, che, solo nel suo bosco, non aveva udito ancora nulla di ciò che tutto il mondo oggi sa».

«Che cosa sa oggi tutto il mondo?» chiese Zarathustra «Forse questo, che il vecchio dio a cui tutto il mondo un tempo ha creduto non vive più?»

«Tu lo dici» rispose il vecchio turbato. «E io servii questo vecchio dio fino alla sua ultima ora.

Ora però sono fuori servizio, senza padrone, e ciò nonostante non sono libero, e non ho più un’ora di allegria, tranne che nelle mie memorie.

Per questo sono salito su questi monti, per celebrarmi alfine una festa come si conviene a un vecchio papa e padre della chiesa: poiché, sappilo, io sono l’ultimo papa! — una festa di pie memorie e servizi divini.

Ma ora è morto anche lui, l’uomo più pio, quel santo nel bosco, che lodava il suo dio in continuazione con canti e borbottìi.

Trovai la sua capanna, ma lui non lo trovai più, — c’erano dentro due lupi che ululavano per la sua morte — poiché tutti gli animali lo amavano. Allora fuggii di là.

Sarei dunque venuto invano in questi boschi e in questi monti? Il mio cuore decise allora che avrei cercato un altro, il più pio tra quelli che non credono in Dio —, che avrei cercato Zarathustra!»

Così parlò il vecchio e guardò con occhio penetrante colui che gli stava di fronte: e Zarathustra afferrò la mano del vecchio papa e la considerò a lungo con ammirazione.

«Guarda, o venerabile», disse poi «che bella mano affilata! È la mano di uno che ha sempre sparso benedizioni. Ma ora essa tiene stretto colui che tu cerchi, me, Zarathustra.

Sono io, Zarathustra senza dio, che ti parlo: chi è più senza dio di me, affinché io goda del suo insegnamento?» —

Così parlò Zarathustra e coi suoi sguardi trapassava anche i pensieri più riposti del vecchio papa. Alla fine questi prese a dire:

«Chi più degli altri lo amava e lo possedeva, più degli altri l’ha perduto: —

— ecco, ora tra noi due sarei io il più senza dio? Ma chi potrebbe rallegrarsene!»

«Tu lo servisti sino alla fine», disse Zarathustra pensieroso, dopo un lungo silenzio «tu sai come è morto? È vero quel che si dice, che lo soffocò la compassione,

— che egli vide l’uomo pendere dalla croce e non sopportò che l’amore per l’uomo diventasse il suo inferno e alla fine la sua morte?» —

Il vecchio papa non rispose nulla ma, timoroso e con una espressione dolorosa e tetra, distolse lo sguardo.

«Lascia andare», disse Zarathustra dopo una lunga riflessione, durante la quale aveva continuato a guardare il vecchio dritto negli occhi.

«Lascia andare, egli è perduto. Anche se ti onora che tu dica solo del bene di questo morto, tu sai come me chi era; e che andava per strade insolite».

«Detto a tre occhi», disse rasserenato il vecchio papa (poiché era cieco da un occhio) «nelle cose divine sono più addottrinato dello stesso Zarathustra — ed è giusto che sia così.

Il mio amore lo servì lunghi anni, la mia volontà seguiva ogni sua volontà. Un buon servo sa tutto, anche cose che il padrone cela a se stesso.

Era un dio nascosto, pieno di segretezza. Anche ad avere un figlio pervenne solo per vie traverse. Alla porta della sua fede sta l’adulterio.

Chi lo celebra come un dio dell’amore non ha un concetto abbastanza alto dell’amore. Non volle questo dio essere anche un giudice? Ma chi ama, ama al di là di ogni mercede e ricompensa.

Quando ero giovane, questo dio dell’Oriente era duro e vendicativo e si edificò un inferno per la delizia dei suoi beniamini.

Ma poi diventò vecchio e tenero e fragile, più simile a un nonno che a un padre, ma simile soprattutto a una vecchia nonna vacillante.

Stava seduto, appassito, nel suo angolo presso la stufa, si crucciava per la debolezza delle sue gambe, stanco del mondo, stanco di volere; e un giorno soffocò per eccesso di compassione». —

«Tu, vecchio papa», interruppe allora Zarathustra, «hai visto ciò coi tuoi occhi? Può essere avvenuto così: così e anche altrimenti. Quando gli dei muoiono, muoiono sempre di svariate morti.

Ma suvvia! Così o così, così o così — egli è perduto! Era sgradito alle mie orecchie e ai miei occhi. Peggio non potrei parlare di lui.

Io amo tutto ciò che ha sguardi chiari e parole aperte. Ma lui — tu lo sai, vecchio prete, c’era qualcosa di te in lui, della razza del prete — lui era equivoco.

Era anche poco chiaro. Quanto si è adirato con noi, questa furia sbuffante, perché non lo comprendevamo! Ma perché non parlava in modo più limpido?

E se dipendeva dai nostri orecchi, perché ci diede orecchi che lo udivano male? Se nei nostri orecchi c’era del fango, ebbene! Chi ve lo mise?

Troppe cose non gli riuscirono, a questo vasaio che non aveva imparato a fondo il mestiere! Ma che si vendicasse sui suoi vasi e sulle sue creature perché non gli riuscivano bene, — questo fu un peccato contro il buongusto.

Anche nella religiosità c’è il buongusto: e questo alla fine disse: “Basta con un simile dio! Meglio nessun dio, meglio crearsi un destino per conto proprio, meglio essere pazzi, meglio essere noi stessi dio!”».

— «Che sento!» disse a questo punto il vecchio papa con le orecchie tese «o Zarathustra, tu sei più religioso di quanto tu creda, con una simile incredulità! Qualche dio dentro di te ti convertì alla tua negazione di dio.

Non è la tua stessa religiosità che non ti fa più credere in dio? E la tua sproporzionata onestà ti condurrà al di là del bene e del male!

Guarda, che cosa ti fu risparmiato? Hai occhi, mani e bocca predestinati dall’eternità a benedire. Non si benedice con la sola mano.

Accanto a te, sebbene tu voglia essere il più senza dio di tutti, respiro un misterioso incenso e profumo di lunghe benedizioni: mi fa sentire bene e male insieme.

Lascia che io sia tuo ospite, o Zarathustra, per una sola notte! In nessun luogo della terra ora mi troverei meglio che vicino a te!» —

«Amen! E sia!» disse Zarathustra con grande meraviglia «Da quella parte sale il sentiero, lassù è la spelonca di Zarathustra.

Volentieri, in verità, ti ci condurrei io stesso, venerabile, perché amo gli uomini pii. Ma un grido d’aiuto mi chiama d’urgenza lontano da te.

Nel mio territorio nessuno deve patir danno; la mia spelonca è un sicuro porto. E più di tutto amerei riportare ogni afflitto sulla terraferma e rimetterlo sulle sue gambe.

Ma chi potrebbe toglierti dalle spalle la tua malinconia? Io sono troppo debole. A lungo aspetteremmo, in verità, che qualcuno ti ridestasse il tuo dio.

Quel vecchio dio, infatti, non vive più: è radicalmente morto». —

Così parlò Zarathustra.


 
L’uomo più brutto
— E i piedi di Zarathustra andarono di nuovo per monti e boschi e i suoi occhi cercavano e cercavano, ma in nessun luogo scorgevano colui che volevano scorgere, il grande sofferente invocante aiuto. Ma per tutto il cammino egli esultò nel suo cuore provando riconoscenza. «Che buone cose», diceva «mi recò in dono questo giorno, a ricompensa del suo cattivo principio! Che strani interlocutori trovai!

Voglio masticare a lungo le loro parole come dei buoni semi; il mio dente deve triturarle e ridurle in poltiglia, finché esse mi fluiscano nell’anima come un latte!» —

Ma ad una svolta del sentiero attorno a una rupe, il paesaggio si mutò completamente e Zarathustra entrò come nel regno della morte. Qui si ergevano soltanto spunzoni di roccia neri e rossi: niente erba, nessun albero, nessuna voce d’uccello. Era infatti una valle evitata anche dagli animali, anche dagli animali da preda; soltanto una specie di serpenti verdi, brutti, rozzi, in vecchiaia venivano qui a morirvi. Perciò i pastori chiamavano questa valle: Morte del Serpente.

E Zarathustra sprofondò in un nero ricordo, poiché gli sembrava di essersi trovato già un’altra volta, in quella valle. E un grande peso scese sulla sua mente: sicché egli prese a camminare sempre più adagio, finché si arrestò. Ma quando aprì bene gli occhi vide sul margine della strada qualcosa che aveva la forma di un uomo, ma uomo non era: qualcosa d’inesprimibile. E d’un colpo assalì Zarathustra la grande vergogna di aver veduto con gli occhi una cosa simile: arrossendo fino alla radice dei capelli bianchi, distolse lo sguardo e levò il piede per abbandonare questo brutto luogo. Ma il morto deserto si fece sonoro: dal suolo prese a bollire con rantoli e gorgoglii qualcosa, così come gorgoglia e rantola di notte l’acqua dentro le condutture intasate; e alla fine ne uscì voce umana e discorso umano: — che così suonava:

Zarathustra! Zarathustra! Risolvi il mio enigma! Parla, parla! che cos’è la vendetta sul testimonio?

Io t’invito a tornare indietro, qui c’è ghiaccio liscio! Bada, bada che il tuo orgoglio non si rompa le gambe!

Tu ti presumi saggio, superbo Zarathustra! Allora risolvi l’enigma, tu duro schiaccianoci, — l’enigma che io sono! Dì dunque: chi sono io!

— Ma quando Zarathustra ebbe udito queste parole, — che cosa credete che avvenisse nella sua anima? La compassione lo assalì; ed egli stramazzò, come una quercia che ha resistito a lungo a molti taglialegna, — con un tonfo improvviso, con spavento di quegli stessi che volevano abbatterla. Ma già si era rialzato, e il suo volto si era fatto duro.

«Ti riconosco bene», disse con voce di bronzo «tu sei l’assassino di Dio! Lasciami andare.

Tu non sopportasti chi ti vedeva, — chi ti vedeva in ogni istante da parte a parte, o più brutto fra gli uomini! Ti vendicasti di questo testimonio!»

Così parlò Zarathustra e voleva allontanarsi; ma l’inesprimibile afferrò una falda della sua veste e ricominciò a gorgogliare e a cercare parole. «Resta!» disse infine —

«— resta! Non passare oltre! Io ho indovinato quale ascia ti ha abbattuto: salute a te, Zarathustra, che sei di nuovo in piedi!

Tu indovinasti, lo so bene, come si sente chi lo uccise, — l’assassino di Dio. Resta! Siediti qui accanto a me, non sarà invano.

Da chi volevo andare, se non da te? Resta, siedi! Ma non mi guardare! Rispetta — la mia bruttezza!

Mi perseguitano: tu sei ora il mio estremo rifugio. Non col loro odio, non con i loro sgherri: — oh, di simile persecuzione riderei e ne sarei lieto e orgoglioso!

Ogni successo non arrise sino ad oggi ai ben-perseguitati? E chi ben perseguita, impara facilmente a seguire: — egli è infatti già — di dietro! Ma è la loro compassione —

— è la loro compassione da cui io fuggo e mi rifugio presso di te. O Zarathustra, proteggimi, mio ultimo rifugio, tu unico che mi abbia indovinato:

— tu indovinasti come si sente chi lo uccise. Resta! E se vuoi andare, o impaziente: non andare per la strada per cui io sono venuto. Quella! strada è cattiva.

Sei adirato con me perché ho farneticato troppo a lungo? Perché ti do consigli? Ma sappi, sono io, il più brutto fra gli uomini,

— che ha anche i piedi più grandi e più pesanti. Dove sono passato io la strada è cattiva. Io calpesto a morte e sconcio tutte le strade.

Ma che tu mi passavi accanto silenzioso, che arrossivi, lo vidi bene: da ciò ti riconobbi come Zarathustra.

Chiunque altro mi avrebbe gettato la sua elemosina, la sua compassione, con sguardo e parola. Ma per questo — non sono abbastanza mendicante, tu lo indovinasti —

— per questo sono troppo ricco, ricco di cose grandi, terribili, di quanto v’è di più brutto di quanto v’è d’inesprimibile! La tua vergogna, o Zarathustra, mi onorò!

A stento mi sottrassi alla folla di compassionevoli, — per trovare l’unico che oggi insegni “la compassione è invadente” — te, o Zarathustra!

— sia la compassione di un dio sia la compassione degli uomini: la compassione va contro il pudore. E non voler aiutare può essere più nobile della virtù che si slancia.

Ma questa si chiama oggi virtù persino presso la gente piccina: l’aver compassione: — essi non hanno alcun rispetto di una grande infelicità, di una grande bruttezza, di un grande fallimento.

Io spingo lo sguardo oltre tutti costoro, come un cane che spinge lo sguardo oltre i dorsi delle greggi brulicanti. Sono piccola gente grigia di buona volontà, di buona lana.

Come un airone spinge lo sguardo sprezzante oltre stagni dall’acqua bassa, rovesciando indietro la testa: così io spingo lo sguardo oltre il brulichio di piccole grigie onde e volontà e anime.

Troppo a lungo si è dato loro ragione, a questa piccola gente: così alla fine si diede loro anche il potere — ora essa insegna: “Buono è soltanto ciò che la piccola gente chiama buono”.

E “verità” si chiama oggi ciò che disse il predicatore nato da loro, quello strano santo e difensore della piccola gente, che di sé testimoniò “io sono la verità”.

Questo immodesto è un pezzo che fa rizzare la cresta a questa piccola gente — lui che non insegnò piccolo errore quando insegnò “io — sono la verità”.

Fu mai risposto più cortesemente a un immodesto? — Ma tu, o Zarathustra, gli passasti davanti e dicesti: “No! No! Tre volte no!”.

Tu ammonisti contro il suo errore, tu fosti il primo ad ammonire contro la compassione — non tutti o nessuno, bensì te stesso e quelli della tua specie.

Tu ti vergogni della vergogna del grande sofferente; e in verità, quando dici “dalla compassione viene una grande nube, state in guardia, uomini!”

— quando insegni “tutti coloro che creano sono duri, ogni grande amore è al di sopra della sua compassione”: o Zarathustra, come mi appari esperto di segni del tempo!

Ma tu — ammonisci te stesso contro la tua compassione! Poiché molti sono in cammino alla tua volta, sofferenti, dubbiosi, disperati, gente che annega, gente che muore di freddo.

Ti ammonisco anche contro di me. Sciogliesti il mio migliore, il mio perfido enigma, me stesso e ciò che ho fatto. Io conosco l’ascia che ti abbatte.

Ma lui — doveva morire: mi guardava con occhi che vedevano tutto, — vedeva le profondità e il fondo dell’uomo, tutta la sua onta e bruttezza nascosta.

La sua compassione non conosceva pudore: egli si spinse nel mio più lurido angolo. Questo curioso, superinvadente, supercompassionevole doveva morire.

Egli guardava sempre me: di un simile testimone volevo vendicarmi — o non vivere più.

Il dio che tutto vedeva, anche l’uomo: questo dio doveva morire! L’uomo non sopporta che un simile testimonio viva».

Così parlò il più brutto fra gli uomini. Ma Zarathustra si levò e si accinse a partire: poiché si sentiva gelare fin nelle viscere.

«Tu, inesprimibile», disse egli «mi ammonisti contro il tuo cammino. In ringraziamento ti farò le lodi del mio. Guarda, lassù è la spelonca di Zarathustra.

La mia spelonca è grande e profonda e ha molti angoli; là anche il più desideroso di nascondersi trova il suo nascondiglio.

E tutt’intorno sono cento ricettacoli e fenditure per ogni animale che strisci, voli e salti.

Tu, scacciato, che ti scacciasti da te stesso, tu non vuoi dimorare tra gli uomini e tra la compassione degli uomini? Ebbene, fa’ come me! Così impara anche da me; solo chi agisce impara.

E parla prima di tutto con i miei animali! L’animale più orgoglioso e l’animale più intelligente — potrebbero essere per te e per me i consiglieri giusti!»

Così parlò Zarathustra e andò per la sua strada più pensieroso e lento di prima: poiché si chiedeva molte cose e non sapeva rispondersi facilmente.

«Com’è povero l’uomo!» pensò nel suo cuore «Com’è brutto, rantolante, com’è pieno di vergogna nascosta!

Mi dicono che l’uomo ama se stesso: ah, come dev’essere grande questo amore di se stesso! Quanto disprezzo ha contro di sé!

Anche costui amava se stesso, così come si disprezzava, — egli è per me un grande amatore e un grande dispregiatore.

Non trovai ancora alcuno che si disprezzasse così profondamente: anche questa è altezza. Ahimè, era forse questo l’uomo superiore di cui avevo udito il grido?

Io amo i grandi dispregiatori. Ma l’uomo è qualcosa che deve essere superato».


 
Il mendicante volontario
Quando Zarathustra ebbe lasciato il più brutto degli uomini, gli venne freddo e si sentì solo: infatti gli passavano per la mente molti pensieri freddi e solitari, tali che gli gelavano anche le membra. Ma mentre continuava a salire e a salire, su, giù, ora costeggiando verdi pascoli, ora anche selvaggi e petrosi fondali, dove in tempi remoti qualche precipitoso torrente aveva avuto il suo letto: tutt’a un tratto si sentì riscaldato e riconfortato nell’animo.

«Che m’è accaduto?» si chiese «Qualcosa di caldo e di vivo mi ristora: dev’essere qui nei pressi.

Sono già meno solo; ignoti compagni di strada e fratelli si muovono intorno a me, il loro alito caldo sfiora la mia anima».

Ma quando egli spiò intorno a sé e cercò i consolatori della sua solitudine: ecco, erano vacche che stavano una accanto all’altra sopra un’altura; la loro vicinanza e il loro odore avevano riscaldato il suo cuore. Ma queste vacche sembravano ascoltare scrupolosamente qualcuno che parlava e non badavano a chi si stava avvicinando. Ma quando Zarathustra si trovò loro accosto, udì distintamente che in mezzo al gruppo si levava una voce umana; ed esse tenevano le teste rivolte verso quello che parlava.

Allora Zarathustra balzò avanti con impeto e si fece largo tra le bestie poiché temeva che fosse accaduta a qualcuno una disgrazia, cui la compassione delle vacche difficilmente poteva porre rimedio. Ma si era sbagliato; infatti ecco là seduto per terra un uomo, che pareva voler persuadere le bestie a non avere alcuna paura di lui, un uomo pacifico e predicatore della montagna, dai cui occhi parlava la bontà stessa. «Che cerchi tu qui?» gridò Zarathustra con meraviglia.

«Che cosa cerco?» rispose quello «Quello che cerchi tu, guastafeste! E cioè la felicità sulla terra.

E a tale scopo vorrei imparare da queste vacche. Giacché, sappilo, è già mezza mattina che sto cercando di smuoverle, e proprio adesso volevano darmi un responso. Perché le disturbi?

Se non ci tramutiamo e non diventiamo come le vacche, non entreremo nel regno dei cieli. Dovremmo infatti imparare da loro una cosa: a ruminare.

E in verità, se l’uomo avesse conquistato tutto il mondo e non avesse imparato quest’unica cosa, a ruminare: a che gioverebbe? Non si libererebbe della sua mestizia.

— La sua grande mestizia: ma oggi è chiamata disgusto. Chi oggi non ha cuore, bocca e occhi pieni di disgusto? Anche tu! Anche tu! Ma guarda queste vacche!»

Così disse il predicatore della montagna, e poi volse lo sguardo su Zarathustra, — poiché finora l’aveva tenuto fisso con amore sulle vacche —: ma subito si trasfigurò. «Chi è colui col quale parlo?» proruppe spaventato, balzando in piedi.

«È l’uomo senza disgusto, è Zarathustra in persona, il superatore del grande disgusto, è l’occhio, è la bocca, è il cuore di Zarathustra in persona».

E così dicendo baciò le mani a colui col quale parlava versando fiumi di lacrime e atteggiandosi come uno a cui è piovuto inaspettato dal cielo un prezioso dono e gioiello. Le vacche stavano a guardare e si meravigliavano.

«Non parlare di me, uomo strano! Amabile!» disse Zarathustra, e respinse le sue tenerezze «Parlami prima di te! Non sei il mendicante volontario, che un tempo gettò via da sé una grande ricchezza, —

— che si vergognò della sua ricchezza e dei ricchi, e fuggì dai più poveri, per donare loro la sua pienezza e il suo cuore? Ma essi non lo accolsero».

«Ma essi non mi accolsero», disse il mendicante volontario «lo sai bene. Così finii tra le bestie tra queste vacche».

«Allora imparasti», interruppe Zarathustra l’interlocutore «quanto più difficile è dare bene che prendere bene, che donare bene è un’arte ed è la suprema e più raffinata delle arti, l’arte magistrale della bontà».

«Soprattutto al giorno d’oggi», rispose il mendicante volontario «oggi che tutto quel che è in basso è in rivolta e si è fatto ombroso e vanaglorioso a suo modo: cioè in modo plebeo.

Poiché è giunta l’ora, tu lo sai, della grande lunga lenta malefica rivolta della plebe e degli schiavi: essa cresce e cresce!

Ora che è in basso s’indigna di ogni beneficenza e di ogni piccolo dono; i ricconi stiano in guardia!

Chi oggi come le bottiglie panciute gocciola da un collo troppo stretto: — a simili bottiglie oggi si rompe il collo.

Lasciva cupidigia, invidia biliosa, trista sete di vendetta, orgoglio di plebe: tutto questo mi saltò sul viso. Non è più vero che i poveri sono beati. Il regno dei cieli è presso le vacche».

«E perché non è presso i ricchi?» chiese Zarathustra per tentarlo mentre respingeva le vacche, che, presa confidenza, annusavano soffiando l’uomo pacifico.

«Perché mi tenti?» rispose questi «Lo sai meglio di me. Chi mi spinse verso i più poveri, o Zarathustra? Non fu il disgusto per i più ricchi fra noi?

— per i forzati della ricchezza, che raccattano il proprio vantaggio da ogni mucchio di spazzatura, con occhi freddi, libidinosi pensieri, per questa plebaglia il cui puzzo sale al cielo,

— per questa plebe dorata e falsificata, i cui padri avevano le mani lunghe o erano divoratori di cadaveri o straccivendoli, e le donne condiscendenti, lussuriose, lascive, volubili: — tra loro tutte e le prostitute il cammino infatti non è lungo. —

Plebe in alto, plebe in basso! Che cos’è, oggi “povero” e “ricco”! Disimparai questa differenza, — e fuggii, lontano, sempre più lontano, finché giunsi a queste vacche».

Così parlò l’uomo pacifico, e sbuffava per le sue stesse parole: cosicché le vacche si meravigliarono. Ma Zarathustra, mentre parlava con tanta durezza, continuava a guardarlo in faccia sorridendo e scuoteva il capo in silenzio.

«Tu ti fai violenza, predicatore della montagna, quando usi parole così dure. Non ti furono dati bocca e occhio adatti a tanta durezza.

E, mi sembra, neanche lo stomaco: al tuo stomaco ripugna tutto questo infuriarsi e odiare e rigurgitare. Esso vuole cose più leggere: non sei un carnivoro.

Mi sembri piuttosto un vegetariano o un consumatore di radici. Forse mastichi grani. Ma sicuramente sei alieno dai piaceri della carne e ami invece il miele».

«Hai indovinato bene come sono» rispose il mendicante volontario col cuore alleggerito. «Amo il miele, mastico anche grani, poiché cerco ciò che ha sapore blando e fa l’alito puro:

— e anche ciò che richiede molto tempo, un lavoro quotidiano, un lavoro per la bocca di placidi fannulloni e ladruncoli.

In verità, le più progredite sono queste vacche: esse inventarono il ruminare e il giacere al sole. E si astengono da tutti i pensieri grevi che gonfiano il cuore».

«Orsù», disse Zarathustra, «dovresti vedere anche i miei animali, la mia aquila e il mio serpente, — oggi non hanno eguali sulla terra.

Da quella parte è il sentiero che conduce alla mia spelonca: siine ospite per questa notte. E parla con i miei animali della felicità degli animali, —

— finché io farò ritorno a casa. Poiché ora un grido d’aiuto mi chiama d’urgenza lontano da te. Troverai da me miele nuovo, fresco come ghiaccio, miele d’oro di favo: mangia quello!

Ma prendi immediatamente congedo dalle tue vacche, tu, uomo strano! Amabile! Anche se ti pesa: non per nulla sono i tuoi più caldi amici e maestri!»

«Ad eccezione di uno, che mi è ancora più caro» rispose il mendicante volontario. «Tu stesso sei buono e ancor migliore di una vacca, o Zarathustra!»

«Vattene, vattene! Perfido adulatore!» gridò Zarathustra con cattiveria «Perché mi corrompi con queste lodi e col miele dell’adulazione?»

«Lungi, lungi da me!» gridò ancora e levò il bastone sul tenero mendicante: ma quello se l’era già svignata.


 
L’ombra
Ma il mendicante volontario se l’era appena svignata e Zarathustra si era appena ritrovato solo con se stesso che dietro di sé udì un’altra voce, che gridava: «Alt! Zarathustra! Aspetta un momento! Sono io, Zarathustra, io, la tua ombra!» Ma Zarathustra non si fermò ad aspettare, perché lo colse un improvviso fastidio per quell’afflusso e quella calca sui suoi monti. «Dov’è la mia solitudine?» disse.

«Ne ho davvero abbastanza: questa montagna brulica; il mio regno non è di questo mondo, ho bisogno di nuovi monti.

La mia ombra mi chiama? Che importa la mia ombra! Mi corra pur dietro! Io — le sfuggirò».

Così parlò Zarathustra al suo cuore e fuggì. Ma chi era dietro di lui lo seguì: tanto che poco dopo correvano in tre uno dietro l’altro, in testa il mendicante volontario, poi Zarathustra e terza, in coda, la sua ombra. Non correvano così da molto, che Zarathustra rifletté sulla propria stoltezza e con un solo moto scosse da sé ogni fastidio e disgusto.

«Come!» disse «Da che mondo è mondo non accaddero tra noi, vecchi eremiti e santi le cose più ridicole?

In verità, la mia stoltezza è cresciuta in altezza a stare sui monti! Ora sento sei vecchie gambe di stolti inseguirsi con gran fracasso!

Ma è lecito a Zarathustra avere paura di un’ombra? Fra l’altro mi pare anche che abbia le gambe più lunghe delle mie».

Così parlò Zarathustra, ridendo con gli occhi e con le viscere, e si fermò e si voltò indietro di scatto — ed ecco, poco ci mancò che non gettasse a terra il suo inseguitore ed ombra: tanto debole era e tanto vicino da esserglisi ormai attaccato ai calcagni. Quando lo esaminò con gli occhi, ebbe infatti a spaventarsi come per l’improvvisa apparizione di uno spettro: tanto esile, nerastro, scavato e sopravvissuto appariva questo suo inseguitore.

«Chi sei tu?» chiese Zarathustra con impeto «Che fai tu qui? E perché ti chiami la mia ombra? Non mi piaci».

«Perdonami», rispose l’ombra «se lo sono; e se non ti piaccio, ebbene, o Zarathustra! lodo te e il tuo buon gusto.

Sono un viandante che ha camminato già molto alle tue calcagna: sempre in viaggio, ma senza meta e senza dimora: poco ci manca che io sia l’Ebreo errante, senonché non sono eterno e non sono ebreo.

Come? Debbo essere di continuo in viaggio? Risucchiato in ogni vortice di vento, mai fermo, qua e là sospinto? O terra, troppo rotonda mi diventasti!

In tutte le superfici posai, come polvere stanca mi addormentai su specchi e vetri di finestre: tutto prende da me, nulla mi dà, divento magro — somiglio sempre di più a un’ombra.

Ma dietro a te, o Zarathustra, camminai e volai più a lungo che a chiunque altro, e, se mi celavo alla tua vista, ero pur sempre la tua migliore ombra: ovunque tu sedessi, là sedevo anch’io.

Con te ho girato per i mondi più remoti e più gelidi, simile a uno spettro che corre di sua spontanea volontà sui tetti invernali e sulla neve.

Con te mi spinsi a quanto v’era di più proibito, malvagio, remoto: e se v’è in me qualche virtù, è quella di non temere i divieti.

Con te spezzai quello che il mio cuore venerava, rovesciai tutte le pietre di confine e tutti i simulacri, inseguii i desideri più pericolosi, — in verità, passai sopra a qualsiasi delitto.

Con te disimparai a credere a parole e valori e grandi nomi. Quando il diavolo cambia la pelle, si spoglia anche del suo nome? Anche questo è pelle. Forse il diavolo stesso è — pelle.

“Nulla è vero, tutto è permesso”: così dicevo a me stesso. Nelle acque più gelide mi precipitai, con la testa e col cuore. Ah, quante volte ne uscii nudo come un gambero rosso!

Ah, dove sono finiti tutto il bene e tutto il pudore e tutta la fede nei buoni! Ah, dov’è l’innocenza mentita che possedevo una volta, l’innocenza dei buoni e delle loro nobili menzogne!

Spesso, in verità, seguii da vicino la verità: ed essa mi colpiva sulla testa. Talvolta pensava di mentire e invece! giusto allora afferravo — la verità.

Troppe cose mi si sono svelate: ora nulla mi tocca più. Nulla vive più che io ami, — come potrei ancora amare me stesso?

“Vivere come ne ho voglia o non vivere affatto”: così voglio io, così vuole anche il più santo. Ma, ahimè! posso io avere ancora — voglio?

Ho io — ancora una meta? Un posto cui la mia vela tenda?

Un buon vento? soltanto chi sa dove sta andando sa anche qual vento è buono e qual è il suo vento di rotta.

Che mi resta? Un cuore stanco ed arrogante; una volontà incostante; ali tarpate; una spina dorsale spezzata.

Questo cercare la mia dimora: o Zarathustra, tu lo sai bene, questo cercare la mia croce, e mi divora.

“Dov’è — la mia dimora?” Questo domando e cerco e l’ho cercato, e non ho trovato. O eterno ovunque, o eterno in nessun luogo, o eterno — invano!»

Così parlò l’ombra, e a queste parole il viso di Zarathustra si era allungato. «Tu sei la mia ombra! disse alla fine con tristezza.

Il tuo pericolo non è piccolo, tu spirito libero e viandante! Hai avuto una cattiva giornata: bada che non ti tocchi anche una cattiva sera!

A essere instabili come te finisce per apparire luogo beato anche una prigione. Vedesti mai come dormono i delinquenti in prigione? Dormono tranquilli, godono la loro nuova sicurezza.

Sta in guardia perché alla fine tu non rimanga imprigionato in un’angusta fede, in una dura, severa illusione! Ormai infatti ti seduce e tenta qualsiasi cosa purché angusta e solida.

Hai perso la meta: ahimè, come potrai dimenticare questa perdita, come potrai consolartene? Poiché con essa — hai perduto anche la strada.

Tu, povero errabondo, sognatore, tu, stanca farfalla! vuoi avere per questa sera sosta e dimora? Allora sali alla mia spelonca!

Da quella parte è il sentiero che conduce alla mia spelonca! Ed ora mi allontanerò prestamente da te. Su di me si è già stesa come un’ombra.

Voglio andarmene e camminare da solo finché si sia rifatto chiaro intorno a me. Per questo bisogna che rimanga ancora per un pezzo sveglio e saldo sulle gambe. Stasera da me si danzerà»

Così parlò Zarathustra.


 
Meriggio
— E Zarathustra camminava e camminava e non trovava più nessuno ed era solo, ma ritrovava sempre se stesso e godeva e assaporava la sua solitudine e pensava a cose buone, — per ore e ore. Ma nell’ora del meriggio, quando il sole era a picco sul capo di Zarathustra, egli passò accanto a un vecchio, contorto e nodoso albero, che era abbracciato tutto intorno dall’opulento amore di una vite e da lei nascosto a se stesso: ne pendevano gialli grappoli, in abbondanza, e a portata di mano del viandante. Allora anche a lui venne voglia di spegnere la sua modesta sete e di cogliere un grappolo; ma aveva già steso il braccio che gli venne ancor più voglia di un’altra cosa: e cioè di sdraiarsi accanto all’albero, nell’ora del pieno meriggio, e di dormire.

Questo fece Zarathustra; e non appena giacque sul suolo, nel silenzio e nella segretezza dell’erba variopinta, dimenticò anche la sua modesta sete e si addormentò. Poiché, come dice il proverbio di Zarathustra: una cosa è più necessaria dell’altra. Soltanto che i suoi occhi rimasero aperti: — non si stancavano infatti mai di lodare l’albero e l’amore della vite. Ma addormentandosi Zarathustra così parlò al proprio cuore:

Silenzio! Silenzio! Non divenne or ora perfetto il mondo? Che mi succede?

Come un leggiadro soffio di vento, non veduto, danza sul mare liscio, spianato, lieve come una piuma: così danza il sonno su di me.

Non mi chiude gli occhi, mi lascia l’anima desta. È leggero, in verità! Lieve come una piuma.

Mi persuade, non so come, mi tocca dentro, qua e là, con mano carezzevole, mi costringe. Sì, mi costringe a distendere la mia anima: —

— come mi diventa lunga e stanca, la mia anima strana! Forse la sorprese la sera di un settimo giorno proprio nel meriggio? Errò già troppo a lungo beata fra cose buone e mature?

Si distende per lungo, lungo, — più lungo! Giace silenziosa la mia anima strana. Troppe cose buone ha già gustato, questa è la dorata tristezza che la opprime, ed essa storce la bocca.

— Come una nave rientrata nella sua placida baia: — così essa si abbandona per terra, stanca dei lunghi viaggi e dei mari malsicuri. La terra non è più fedele?

Come si accosta alla terra, come si stringe ad essa una simile nave: — basta che un ragno dalla terra tessa un filo sino a lei. Non le occorrono più robusti cavi.

Come una nave stanca nella più placida baia: così io mi riposo, vicino alla terra, fedele, fiducioso, in attesa, legato a lei dai più sottili fili.

O felicità! O felicità! Vuoi cantare forse, o anima mia? Sei sdraiata nell’erba. Ma questa è l’ora segreta, solenne, in cui nessun pastore tocca il suo flauto.

Guardatene! L’ardente meriggio dorme nella campagna. Non cantare! Taci! Il mondo è perfetto.

Non cantare, uccello di prato, anima mia! Non bisbigliare! Guarda silenziosa! Il vecchio meriggio dorme, muove la bocca: sta bevendo una goccia di felicità —

— una vecchia goccia bruna di felicità d’oro, di vino d’oro? Qualcosa fruscia sopra di lui, la sua felicità ride. Così — ride un dio. Silenzio! —

— «Alla felicità, basta così poco alla felicità!» Così dicevo una volta e mi credevo accorto. Ma era una bestemmia: l’ho imparato ora. Accorti pazzi parlano meglio.

Proprio la cosa più piccola, più sommessa, più lieve, il fruscio di una lucertola, un soffio, un guizzo, uno sbatter di occhi. — Di poco è fatta la miglior felicità. Silenzio!

— Che mi è accaduto: ascolta! È volato via il tempo? Non cado? Non sono caduto — ascolta! Nella fontana dell’eternità?

— Che mi accade? Silenzio! Mi trafigge — ahi — il cuore? Il cuore! Oh, spezzati, spezzati, cuore, dopo tale felicità, dopo tale trafittura.

— Come? Non divenne or ora perfetto il mondo? Rotondo e maturo? Oh, il rotondo anello d’oro — dove sta volando? Gli corro dietro! Svelto!

Silenzio (e qui Zarathustra si stirò e sentì che dormiva).

Su! disse a se stesso, tu dormiglione! Tu che dormi nel meriggio! Suvvia, suvvia, vecchie gambe! È che dormi nel tempo, vi rimane ancora un bel pezzo di strada. —

Avete dormito a sazietà, e per quanto? Una mezza eternità! Suvvia, suvvia, vecchio cuore! Quanto ti è dato dopo un simile sonno, per svegliarti del tutto?

(Ma di nuovo si addormentò e la sua anima parlò contro di lui e si oppose e tornò a sdraiarsi). «Lasciami stare! Zitto! Non divenne or ora perfetto il mondo? Oh, la rotonda palla d’oro!» —

«Alzati», disse Zarathustra «tu piccola ladra, tu perdigiorno! Come? Continui a stirarti, sbadigliare, sospirare, cadere in fontane profonde?

Chi sei dunque! O anima mia!» (e qui egli si spaventò perché dal cielo cadde sul suo volto un raggio di sole).

«O cielo sopra di me», disse sospirando, e si pose a sedere «mi stai a guardare? Tendi l’orecchio alla mia anima strana?

Quando berrai questa goccia di rugiada che cadde su tutte le cose terrene, — quando berrai quest’anima strana —

— quando, fontana dell’eternità! Tu sereno, terrificante abisso del meriggio! Quando libererai la mia anima risucchiandola in te?»

Così parlò Zarathustra e si levò dal suo giaciglio sotto l’albero, smarrito, come dopo un’ubriacatura: e il sole si trovava sempre a picco sul suo capo. Qualcuno potrebbe a ragione dedurre che Zarathustra non avesse allora dormito a lungo.


 
Il saluto
Fu solo nel tardo pomeriggio che Zarathustra dopo lungo e vano cercare e girovagare, ritornò alla sua spelonca. Ma quando fu davanti ad essa, distante non più di venti passi, accadde ciò che ora meno di tutto si sarebbe aspettato: di nuovo udì il grande grido d’aiuto. E, stupefacente!, questa volta proveniva dalla sua spelonca. Era un grido strano, prolungato, multiforme, e Zarathustra distinse chiaramente che si componeva di molte voci: anche se, udito a distanza, poteva risuonare come il grido di una sola bocca.

Allora Zarathustra balzò verso la sua spelonca, ed ecco quale spettacolo lo attendeva dopo questo concerto! Poiché là dentro sedevano uno accanto all’altro quelli che durante la giornata gli era capitato d’incontrare: il re di destra e il re di sinistra, il vecchio mago, il papa, il mendicante volontario, l’ombra, il coscienzioso dello spirito, il profeta e l’asino; e il più brutto degli uomini si era messo in capo una corona e cinto con due fasce di porpora, — poiché, come tutti i brutti, amava travestirsi e farsi bello. Ma al centro di questa afflitta compagnia stava l’aquila di Zarathustra, le penne arruffate, inquieta, poiché doveva rispondere a troppe cose per cui il suo orgoglio non aveva risposta; ma l’accorto serpente le stava attorcigliato intorno al collo.

Zarathustra guardò tutto ciò con grande meraviglia: poi esaminò i suoi ospiti uno per uno con affabile curiosità, lesse nelle loro anime e di nuovo si meravigliò. Intanto i radunati si erano levati da sedere e attendevano con reverente timore che Zarathustra parlasse. E Zarathustra parlò così:

Voi disperati! Voi esseri strani! Quel che udii era dunque il vostro grido? E ora so anche dove bisogna cercare colui che io oggi invano cercai: l’uomo superiore —:

— nella mia spelonca è l’uomo superiore! Ma perché mi meraviglio! Non l’ho attirato io stesso a me con sacrifici di miele e gli astuti richiami della mia felicità?

Ma, a quanto mi sembra, siete poco adatti alla società, uno rende più arcigno l’altro, o voi che gridate aiuto, standovene così, tutti vicini? Deve per forza venire uno,

— uno che vi faccia di nuovo ridere, un bravo e allegro arlecchino, un danzatore, una folata di vento, uno scatenato, qualche vecchio pazzo; — che ve ne sembra?

Perdonatemi, voi, disperati, se vi parlo con così umili parole, indegne, in verità, di ospiti come voi! Ma voi non indovinate che cosa dia coraggio al mio cuore: —

— voi stessi, e la vostra vista, perdonatemi! Chiunque sia a guardare un disperato diventa coraggioso. Per parlare a un disperato — chiunque si sente abbastanza forte.

Anche a me deste questa forza, — un bel dono, miei venerandi ospiti! Un eccellente dono l’ospitalità! Orsù, non adiratevi se ora io vi offrirò del mio.

Questi sono il mio regno e i miei domini: ma quel che è mio questa sera e questa notte dev’essere vostro. I miei animali debbono servirvi: la mia spelonca sia il vostro luogo di riposo!

Da me, in casa mia, nel mio rifugio nessuno deve disperare, nel mio territorio io difendo ognuno dalle sue belve. E questa è la prima cosa che vi offro: sicurezza!

Ma la seconda è: il mio mignolo. E quando avrete questo, suvvia, prendetevi tutta la mano, e poi il cuore! Benvenuti, benvenuti, ospiti miei!

Così parlò Zarathustra e rise d’amore e di cattiveria. Dopo questo saluto i suoi ospiti s’inchinarono un’altra volta e tacquero reverenti; ma il re di destra rispose a nome di tutti:

«Dal modo, o Zarathustra, con cui ci porgesti la mano e il saluto, ti riconosciamo come Zarathustra. Ti umiliasti davanti a noi: facesti quasi male alla nostra reverenza —:

— ma chi fuori di te sarebbe capace di umiliarsi con tanto orgoglio? Questo ci risolleva, è un ristoro per i nostri occhi e i nostri cuori.

Per vedere anche soltanto questo, salimmo su monti anche più alti di questo monte. Venimmo infatti con occhi avidi, volevamo vedere ciò che rischiara gli occhi offuscati.

Ed ecco, il nostro grido d’aiuto è dimenticato. Mente e cuore sono più aperti ed estasiati. Manca poco: e il nostro coraggio si farà baldanza.

Nulla, o Zarathustra, cresce su questa terra che sia più rallegrante di una volontà alta e forte: essa è la pianta più bella della terra. Tutto un paesaggio si delizia di un simile albero.

Al pino io confronto chi, o Zarathustra, cresce e si innalza come te: lungo, silenzioso, duro, solitario, del legno migliore e più flessibile, splendido, —

— per protendere alla fine i robusti rami verdi verso il suo dominio, interrogando con forti domande i venti e le bufere e tutto quanto dimora a simili altezze,

— ancora forte nel rispondere, uno che comanda, un vittorioso: oh, come avrei potuto non salire su alti monti per vedere simili piante?

Al tuo albero, o Zarathustra, si ristora anche il tetro, il fallito, alla tua vista anche l’incostante diventa sicuro e guarisce il suo cuore.

E in verità, al tuo monte e al tuo albero oggi si volgono molti occhi; un grande anelito si è sollevato e molti impararono a domandare: chi è Zarathustra?

E se tu mai stillasti il tuo canto e il tuo miele nell’orecchio a qualcuno: tutti i rintanati, gli eremiti, coloro che sono in due nella solitudine dissero all’unisono al proprio cuore:

“Vive ancora Zarathustra? Non vale più la pena di vivere, tutto è uguale, tutto è invano: oppure — dobbiamo vivere con Zarathustra!”

“Perché non viene chi da così lungo tempo si è annunziato? — Così molti domandano — Lo inghiottì la solitudine? O siamo noi che dobbiamo andare a lui?”

Ora accade che anche la solitudine si sgretoli e vada in pezzi, come una tomba che va in pezzi e non può più contenere i suoi morti. E per ogni dove si vedono risorti.

Ora montano sempre più alte le onde intorno al tuo monte, o Zarathustra. E per quanto alta sia la tua solitudine, molti devono salire fino a te: la tua barca non rimarrà ancora a lungo all’asciutto.

E che noi disperati siamo ora venuti nella tua spelonca e che non disperiamo più: è soltanto indizio e segno premonitore che migliori di noi sono in cammino alla tua volta,

— poiché anche quello è in cammino alla tua volta, l’ultimo resto di Dio tra gli uomini, cioè: tutti gli uomini del grande anelito, del grande disgusto, del grande malessere,

— tutti quelli che non vogliono vivere, a meno d’imparare di nuovo a sperare — a meno che non imparino da te, o Zarathustra, la grande speranza!»

Così parlò il re di destra e afferrò la mano di Zarathustra per baciarla; ma Zarathustra si sottrasse al suo atto di reverenza e si ritrasse spaventato, tacendo e come fuggendo all’improvviso in remote lontananze. Ma di lì a poco era di nuovo tra i suoi ospiti, li guardava con occhi limpidi e scrutatori e diceva:

«Ospiti miei, uomini superiori, ora voglio parlarvi tedesco e chiaro. Non aspettavo voi su queste montagne».

(«Tedesco e chiaro? Dio ne guardi!» disse il re di sinistra fra sé «Si vede che non conosce i nostri cari tedeschi, questo saggio dell’Oriente!

Ma se intende “tedesco e crudo” — va bene! Oggigiorno questo non è certo il gusto peggiore!»)

«In complesso può darsi che siate invero uomini superiori», continuò Zarathustra «ma per me — non siete né alti né forti abbastanza.

Per me, vuol dire: per l’inesorabile che in me tace ma non tacerà per sempre: E se siete parte di me, non siete però il mio braccio destro.

Chi si regge su gambe malate e malferme, come voi, vuole soprattutto, che lo sappia o che se lo nasconda: essere risparmiato.

Ma le mie braccia e le mie gambe io non le risparmio, io non risparmio i miei guerrieri: come potreste dunque essere adatti alla mia guerra?

Con voi mi rovinerei ogni vittoria. E qualcuno di voi cadrebbe a terra se soltanto udisse il rullare dei miei tamburi.

Né siete per me abbastanza belli e bennati. Ho bisogno di specchi limpidi e lisci per le mie dottrine; sulla vostra superficie si deforma la mia stessa immagine.

Sulle vostre spalle grava più d’una soma, più d’un ricordo; e nei vostri angoli sta celato più d’un malefico nano e anche in voi c’è della plebe nascosta.

E per quanto alti siate e di specie elevata: molto in voi è curvo e deforme. E non v’è fabbro al mondo che potrebbe riplasmarvi e raddrizzarvi per me.

Siete soltanto dei ponti: possano uomini più alti attraversarvi e raggiungere l’altra sponda! Avete il significato di gradini: perciò non adiratevi con chi vi attraversa per ascendere alla sua altezza!

Dal vostro seme forse un giorno spunterà per me un vero figlio e perfetto erede: ma ciò è ancora lontano. Voi non siete coloro cui appartiene la mia eredità e il mio nome.

Non voi attendo quassù, su questi monti, non con voi dovrò discendere per l’ultima volta. Veniste a me come segni premonitori che esseri più alti sono in cammino alla mia volta, —

— non gli uomini del grande anelito, del grande disgusto, del grande malessere e quello che voi chiamaste l’ultimo resto di Dio.

— No! No! Tre volte no! altri io attendo su questi monti e senza di loro non voglio staccare il mio piede da questo suolo.

— attendo esseri più alti, più forti, più vittoriosi, più gai, che siano squadrati nel corpo e nell’anima: leoni ridenti devono venire!

O miei ospiti, voi strani esseri, — non aveste ancora notizia dei miei figli? Che sono in cammino alla mia volta?

Parlatemi dei miei giardini, delle mie isole beate, della mia nuova bella stirpe, — perché non me ne parlate?

Come dono ospitale del vostro amore vi chiedo di parlarmi dei miei figli. Per questo sono ricco, per questo sono diventato povero: che cosa non diedi,

— che cosa non Tlarei per avere un’unica cosa: questi figli, questa piantagione vivente, questi alberi della vita della mia volontà e della mia suprema speranza!»

Così parlò Zarathustra e di colpo smise di parlare: poiché lo aveva colto la sua nostalgia e chiuse gli occhi e la bocca per l’emozione del suo cuore. E anche tutti i suoi ospiti tacquero rimanendo immobili ed esterrefatti: solo il vecchio profeta significava qualcosa con le mani e coi gesti.


 
La cena
A questo punto infatti il profeta interruppe il saluto di Zarathustra e dei suoi ospiti: si spinse avanti come uno che non ha tempo da perdere, afferrò la mano di Zarathustra e gridò: «Ma Zarathustra!

Una cosa è più necessaria dell’altra, lo dicesti tu stesso: ebbene, una cosa ora è più necessaria dell’altra.

Una parola al momento giusto: non mi hai invitato a banchetto! E qui sono molti che hanno fatto una lunga strada. Non vorrai mica nutrirci di discorsi?

Già troppo a lungo per i miei gusti mi ricordaste tutti il gelare, annegare, soffocare e altri pericoli del corpo: nessuno invece ricordò il mio pericolo, quello di morire di fame».

(Così parlò il profeta; e come gli animali di Zarathustra ebbero udito queste parole, si diedero per lo spavento alla fuga. Perché s’avvidero che tutto quello che avevano portato a casa durante il giorno non sarebbe bastato a saziare il solo profeta).

«Compreso anche il morire di sete» continuò il profeta. «E sebbene io abbia già sentito scrosciare l’acqua qui nei pressi, simile ai discorsi della saggezza, e cioè abbondante e instancabile: io — voglio vino!

Non tutti sono come Zarathustra bevitori d’acqua nati: né l’acqua giova agli stanchi e agli appassiti: per noi ci vuole il vino, — solo quello porta immediata guarigione e sa improvvisare salute!»

Intanto che il profeta pretendeva il vino, accadde che anche il re di sinistra, il taciturno, prese la parola. «Al vino», disse «pensammo noi, io e mio fratello, il re di destra, e abbiamo vino abbastanza, — un asino carico. Così manca soltanto il pane».

«Pane?» rispose Zarathustra e rise. «Giusto il pane gli eremiti non ce l’hanno. Tuttavia l’uomo non vive di solo pane, ma anche della carne di buoni agnelli, e ne ho due:

— subito bisogna macellarli e prepararli con spezie e salvia: così mi piace. Non mancano nemmeno radici e frutti, abbastanza buoni anche per ghiottoni e buongustai; e nemmeno noci e altri enigmi da schiacciare.

Tutti vogliamo avere subito un buon pranzo. Ma chi vuol mangiare deve mettersi all’opera, anche i re. Da Zarathustra, infatti, può fare il cuoco anche un re.»

Questo proposito andava a genio a tutti: solo il mendicante volontario si opponeva alla carne, al vino e alle radici.

«Sentite un po’ questo crapulone di Zarathustra!» disse scherzoso «Forse che ci si ritira in spelonche e in alta montagna per fare simili pranzi?

Ora sì capisco quello che un giorno insegnò: “Sia lodata la piccola povertà!” e perché egli vuole eliminare i mendicanti».

«Sta di buon animo», gli rispose Zarathustra «come faccio io. Mantieni il tuo costume, tu, eccellente, mastica i tuoi grani, bevi la tua acqua, loda la tua cucina: se essa ti fa contento!

Io sono legge soltanto per i miei, non sono legge per tutti. Ma chi mi appartiene dev’essere di ossatura robusta e di piedi leggeri, —

— voglioso di guerre e di feste, e non un ipocondriaco, non uno svanito sognatore, pronto alle cose più ardue come a una festa per lui, sano ed integro.

Il meglio appartiene ai miei e a me; e se non ce lo danno, ce lo prendiamo: il miglior nutrimento, il cielo più puro, i pensieri più forti, le donne più belle!»

Così parlò Zarathustra; ma il re di destra rispose: «Strano! Udii mai così accorti detti dalla bocca di un saggio?

E in verità, la cosa più strana in un saggio è che parli di tutto con accortezza e non sia un asino».

Così parlò il re di destra e si meravigliò: e l’asino commentò il suo dire con un malintenzionato I-A. E questo fu l’inizio di quel lungo banchetto che nei libri di storia è chiamato «la cena». Durante la quale non si parlò d’altro che dell’uomo superiore.


 
Dell’uomo superiore

 
Capitolo 1
Quando io mi trovai per la prima volta tra gli uomini, commisi la stoltezza dell’eremita, la grande stoltezza: mi misi sul mercato.

E quando parlavo a tutti, non parlavo a nessuno. E la sera erano miei compagni funamboli e cadaveri; e io stesso ero quasi un cadavere.

Ma la mattina seguente venne a me una nuova verità: allora imparai a dire: «Che m’importano il mercato e la plebe e il chiasso della plebe e gli orecchi lunghi della plebe!»

Voi, uomini superiori, imparate questo da me: al mercato nessuno crede agli uomini superiori. E se volete parlare lì, parlate! Ma la plebe ammicca: «Siamo tutti uguali».

«Uomini superiori» così ammicca la plebe «non esistono uomini superiori, siamo tutti uguali, l’uomo è uomo, davanti a Dio — siamo tutti uguali!»

Davanti a Dio! — Ma ora questo dio è morto. E davanti alla plebe non vogliamo essere tutti uguali. Uomini superiori, state lontani dal mercato!


 
Capitolo 2
Davanti a Dio! — Ma ora questo dio è morto! Uomini superiori, questo era il massimo pericolo per voi.

Dacché è nella tomba, siete risorti. Solo ora viene il grande meriggio, solo ora l’uomo superiore diventerà — padrone!

Comprendete queste parole, o fratelli? Siete spaventati: il vostro cuore si sente mancare? Vi si spalanca davanti l’abisso? Davanti a voi spalanca le fauci il cane infernale?

Orsù! Orsù! Uomini superiori! La montagna del futuro umano ha già le doglie. Dio è morto — ora noi vogliamo — che viva il superuomo.


 
Capitolo 3
I più preoccupati oggi domandano: «Come sopravviverà l’uomo?» Ma Zarathustra è il primo e l’unico a chiedere: «Come sarà l’uomo superato!»

II superuomo mi sta a cuore, egli è la prima ed unica cosa che io abbia, — e non l’uomo: non il prossimo, non il più povero, non il più sofferente, non il migliore. —

O fratelli, ciò che mi riesce d’amare nell’uomo è il suo essere transizione e tramonto. E anche in voi molto mi fa amare e sperare.

Che voi abbiate disprezzato, uomini superiori, mi fa sperare. I grandi dispregiatori sono infatti i grandi veneratori.

Che abbiate disperato è segno di molto onore. Poiché non imparaste come arrendervi, non imparaste le piccole accortezze.

Oggi infatti la gente piccina è diventata padrona: essa predica rassegnazione e limitazione e accortezza e diligenza e riguardo e il lungo eccetera delle piccole virtù.

Tutto quello che è femmineo e di origine servile e soprattutto l’intruglio plebeo: questo oggi vuole diventare padrone di ogni destino umano — o disgusto! Disgusto! Disgusto!

Questo domanda e domanda e non si stanca di domandare: «Come fa l’uomo a mantenersi nel modo migliore, più piacevole e il più a lungo possibile?» Così — costoro sono i padroni di oggi.

Superate i padroni di oggi, fratelli, — questa gente piccina: essa è il massimo pericolo per il superuomo!

Superate, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole accortezze, i riguardi da granelli di sabbia, il brulicare come formiche, i piaceri meschini, la «felicità dei più»!

E preferite disperare che arrendervi. E, in verità, io vi amo perché non sapete vivere oggi, uomini superiori! È così infatti che voi vivete — nel modo migliore!


 
Capitolo 4
Avete coraggio, fratelli? Siete risoluti? Non il coraggio davanti a testimoni, bensì il coraggio degli eremiti e delle aquile, cui non assiste nemmeno un dio?

Anime fredde, muli, ciechi, ebbri io non li chiamo risoluti. Risoluto è chi ha paura e dalla paura è sospinto; chi vede l’abisso, ma con orgoglio.

Chi vede l’abisso, ma con occhi d’aquila, — chi afferra l’abisso con artigli d’aquila: quegli ha coraggio. —


 
Capitolo 5
«L’uomo è cattivo» così mi dicevano per confortarmi tutti i più saggi. Ah, se fosse ancora vero oggi! Poiché la cattiveria è l’energia migliore dell’uomo.

«L’uomo deve diventare migliore e più cattivo» — così insegno io. La massima cattiveria è necessaria al meglio del superuomo.

Poteva andar bene per quel predicatore della gente piccina soffrire e scontare il peccato dell’uomo. Ma io mi rallegro del grande peccato come di una mia grande consolazione. —

Ma non sono queste cose dette per gli orecchi lunghi. Non si conviene ogni parola ad ogni bocca. Sono cose sottili e remote: e verso di esse non devono spingersi zampe di pecora!


 
Capitolo 6
Voi uomini superiori, pensate che io sia qui per rimediare a quel che riuscì malfatto da voi?

O che io voglia coricare voi sofferenti su un letto più comodo? O mostrare a voi instabili, smarriti, sperduti per mille salite, nuovi più agevoli sentieri?

No! No! Tre volte no! In numero sempre maggiore, di qualità sempre migliore devono perire quelli della vostra specie — poiché dovete avere la vita sempre più cattiva e più dura. Solo così —

— solo così l’uomo cresce fino ad altezze dove la folgore lo colpisce e schianta: abbastanza alto per la folgore!

All’esile, lungo, lontano va il mio pensiero e la mia nostalgia: che m’importa della vostra piccola, corta, abbondante miseria!

Voi non soffrite abbastanza per me! Poiché voi soffrite di voi stessi e mai finora soffriste dell’uomo. Mentireste se affermaste un’altra co sa! Voi tutti non soffriste di ciò di cui io soffersi.


 
Capitolo 7
Non basta che la folgore non arrechi più danno. Non voglio deviarla: essa deve imparare a — lavorare per me. —

La mia saggezza si va da tempo adunando come una nube, si fa più silenziosa e più cupa. Così fa ogni saggezza che dovrà generare folgori. —

A questi uomini di oggi non voglio essere luce, non voglio significare luce. Questi — li voglio accecare: folgore della mia saggezza! Cava loro gli occhi!


 
Capitolo 8
Non vogliate nulla al di là della vostra capacità: hanno una falsità odiosa quelli che vogliono al di là delle proprie capacità.

Soprattutto quando vogliono cose grandi! Poiché suscitano diffidenza verso le cose grandi, questi raffinati falsari e commedianti: —

— finché diventano falsi con se stessi, strabici, pieni di vermi e riverniciati, ammantati di parole forti, di virtù da esposizione, di opere splendenti e false.

Siate prudenti con loro, uomini superiori! Nulla infatti io stimo oggi più prezioso e raro della sincerità.

Questo oggi non è della plebe? Ma la plebe non sa che cosa sia grande, che cosa piccolo, che cosa diritto e sincero: essa è gobba in piena innocenza, essa mente sempre.


 
Capitolo 9
Abbiate oggi molta diffidenza, uomini superiori, voi risoluti! Voi aperti di cuore! E tenete segreti i vostri motivi. Questo oggi è infatti della plebe.

Ciò che la plebe un giorno imparò senza motivi a credere, chi potrebbe con dei motivi — rovesciarglielo?

E sul mercato si persuadono gli altri solo coi gesti. I motivi rendono la plebe diffidente.

E se mai la verità conseguì la vittoria, domandatevi con molta diffidenza: «Qual grande errore ha combattuto per lei?»

Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: poiché sono sterili. Essi hanno freddi occhi prosciugati, davanti ad essi ogni uccello si presenta spennato.

Essi si vantano di non mentire: ma l’impotenza a mentire è ben lungi dall’amore per la verità. Guardatevi da loro!

L’assenza di febbre è ben lungi dalla conoscenza! A spiriti raffreddati io non credo. Chi non sa mentire non sa che cos’è la verità.


 
Capitolo 10
Se volete arrivare in alto, usate le vostre gambe! Non lasciatevi trasportare in alto, non sedetevi su dorsi e teste altrui!

Tu salisti a cavallo? Cavalchi veloce verso la tua meta? Bene, amico! Ma il tuo piede storpio è con te sul cavallo!

Quando sarai alla meta, quando salterai da cavallo: proprio al vertice della tua altezza, o uomo superiore, — inciamperai!


 
Capitolo 11
Voi creatori, voi uomini superiori! Si è gravidi solo del proprio figlio.

Non lasciatevi mettere nel sacco, persuadere! Chi è alla fine il vostro prossimo! E anche se agite «per il prossimo», — non create certo per lui!

Disimparate questo «per», creatori: la vostra virtù vuole che non facciate alcuna cosa «per» e «a motivo» e «perché». A queste false parolette dovete sigillare il vostro orecchio.

Il «per il prossimo» è soltanto la virtù della gente piccina: tra loro si parla di «uguale e uguale» e «una mano lava l’altra»: — essi non hanno né il diritto né la forza bastevole al vostro egoismo!

Nel vostro egoismo, voi creatori, è la prudenza e la provvidenza della gravida! Ciò che nessun occhio ha mai veduto, il frutto: questo proteggete e risparmiate e preservate e nutrite con tutto il vostro amore.

Dov’è tutto il vostro amore, presso vostro figlio, là è anche tutta la vostra virtù! Solo la vostra opera, la vostra volontà è il vostro «prossimo»: non lasciatevi persuadere a credere a falsi valori!


 
Capitolo 12
Voi creatori, voi uomini superiori! Chi deve partorire è malato; ma chi ha partorito è impuro.

Chiedetelo alle donne; non si partorisce perché fa piacere. Il dolore fa starnazzare polli e poeti.

Voi creatori, in voi è molta impurità. E ciò perché avete dovuto essere madri.

Un nuovo figlio: oh, quanta nuova sozzura è venuta al mondo! Tiratevi da parte! E chi ha partorito deve lavare e purificare la sua anima!


 
Capitolo 13
Non siate virtuosi al di là delle vostre forze! E non vogliate da voi stessi nulla contro la verosimiglianza!

Andate sulle orme lasciate dalla virtù dei vostri padri. Come vorreste salire in alto, se non sale con voi la volontà dei vostri padri?

Ma chi vuol essere il primo badi di non essere poi anche l’ultimo! E là dove sono i vizi dei vostri padri, non dovete voler presentarvi come santi!

Colui i cui padri amavano le donne e i vini forti e i cinghiali: che sarebbe se esigesse da sé la castità?

Sarebbe una stoltezza! In verità, mi sembra per lui già molto se è marito di una sola o di due o di tre donne.

E se fondasse conventi e scrivesse sulla porta: «Via della santità», — io direi: a che scopo? È una nuova stoltezza!

Egli ha fondato per sé un carcere e un eremo: buon pro gli faccia! Ma io non ci credo.

Nella solitudine cresce ciò che uno porta con sé in essa, anche la bestia nascosta. Ragion per cui a molti si sconsiglia la solitudine.

Ci fu sulla terra fino ad oggi qualcosa di più lurido dei santi del deserto? Intorno a quelli non imperversava soltanto il diavolo, — ma anche il maiale.


 
Capitolo 14
Timidi, vergognosi, goffi, simili a una tigre cui non sia riuscito un salto: così, uomini superiori, vi vidi spesso sgusciare in disparte. Una mano di dadi non vi riuscì.

Ma, o giocatori, che importa! Non imparaste a giocare e a scherzare come si deve giocare e scherzare! Non siamo sempre seduti a un tavolo da scherzo e da gioco?

E se vi riuscì male qualcosa di grande, siete per questo voi stessi — riusciti male? E se riusciste male voi stessi, è per questo riuscito male — l’uomo? Ma se riuscì male l’uomo: suvvia! Suvvia!


 
Capitolo 15
Più alta è la sua specie, più raramente una cosa riesce. Voi uomini superiori non siete forse tutti — malriusciti?

Fatevi coraggio, che importa! Quante cose sono ancora possibili! Imparate a ridere di voi stessi, come si deve ridere!

Che v’è di strano se riusciste male o riusciste a metà, voi mezzo-infranti! Non urge e preme in voi — il futuro dell’uomo?

Quel che v’è di più lontano, profondo, supremo come gli astri, la sua smisurata forza: tutto questo non schiuma e non lotta dentro la vostra pentola?

Che v’è di strano se qualche pentola scoppia! Imparate a ridere di voi come si deve ridere! Uomini superiori, oh, quante cose sono ancora possibili!

E in verità, molto è già riuscito! Com’è ricca questa terra di piccole cose perfette, di cose ben riuscite!

Circondatevi di tante piccole buone cose perfette, uomini superiori! Il loro volto dorato, maturo risana il cuore. Ciò che è perfetto insegna a sperare.


 
Capitolo 16
Quale fu sino ad ora sulla terra il più grande peccato? Non fu la parola di colui che disse: «Guai a quelli che ridono!»

Non trovò egli stesso su questa terra motivi di riso? Vuol dire che non seppe cercare. Anche un bambino li trova.

Egli — non amava abbastanza: altrimenti avrebbe amato anche noi, noi che ridiamo! Ma egli ci odiava e ci scherniva e ci promise pianto e stridore di denti.

Si deve proprio maledire dove non si ama? Questo — mi sembra cattivo gusto. Ma così faceva lui, l’incondizionato. Egli veniva dalla plebe.

E non amava abbastanza: altrimenti si sarebbe meno adirato perché non lo amavano. Ogni grande amore non vuole amore: — vuole di più.

Evitate tutti questi incondizionati! Sono una povera genia malata, una genia plebea: osservano la vita con cattiveria, hanno lo sguardo bieco per questa terra.

Scansate tutti questi incondizionati! Hanno i piedi pesanti e il cuore afoso: — non sanno danzare. Come potrebbe per costoro la terra essere leggera!


 
Capitolo 17
Per curvi sentieri giungono tutte le cose buone alla meta. Come i gatti, fanno la gobba e le fusa nel profondo alla vista della felicità vicina: — tutte le cose buone ridono.

Il passo tradisce se uno procede sulla sua rotta: guardatemi camminare! Ma chi si sta avvicinando alla meta, danza.

E in verità, non sono diventato una statua, né me ne sto immobile, rigido, ottuso, di pietra, come una colonna; io amo la corsa veloce.

E anche se sulla terra ci sono paludi e fitta mestizia: chi ha piedi leggeri passa anche sul fango e vi danza come sul ghiaccio terso.

Levate i vostri cuori, fratelli, in alto! Più in alto! Ma non dimenticate le vostre gambe! Levate anche le gambe, o bravi danzatori, o meglio ancora: mettetevi a capo all’ingiù.


 
Capitolo 18
Questa corona del ridente, questa corona tutta di rose: io mi posi sul capo questa corona, io santificai la mia risata. Nessun altro trovai oggi abbastanza forte per questo.

Zarathustra il danzatore, Zarathustra il leggero, che fa cenni con le ali, pronto al volo, uno che fa cenni a tutti gli uccelli, disposto e pronto, beato di essere così leggero: —

Zarathustra che predice il vero, Zarathustra che ride il vero, non un impaziente, non un incondizionato, ma uno che ama salti e scarti; io mi posi sul capo questa corona.


 
Capitolo 19
Levate i vostri cuori, fratelli, in alto! Più in alto! E non dimenticate le vostre gambe, bravi danzatori, o meglio ancora: mettetevi a capo all’ingiù.

Anche nella felicità ci sono animali pesanti, ci sono esseri dai piedi informi sin dall’inizio. Si danno stranamente un gran da fare, come un elefante che si adoprasse per stare a capo all’ingiù.

Ma è meglio essere pazzi di felicità che pazzi d’infelicità, è meglio danzare goffamente che andare zoppi. Imparate dunque la mia saggezza: anche la cosa peggiore ha due buoni rovesci, —

— anche la cosa peggiore ha due gambe per danzare: imparate dunque, uomini superiori, ad appoggiarvi sulle vostre gambe giuste!

E disimparate a dar fiato alla mestizia e ogni tristezza plebea! Oh, come mi appaiono tristi oggi gli arlecchini della plebe! Ma questo oggi è della plebe.


 
Capitolo 20
Fate come il vento, quando si precipita fuori dalle sue caverne montane: al suono del suo piffero vuol danzare, i mari tremano e guizzano sotto le sue orme.

Colui che dà ali agli asini, munge leonesse, sia lodato questo spirito benefico e irrefrenabile, che si abbatte su ogni oggi e su ogni plebe come una burrasca, —

— che è nemico di teste di cardo e di teste cavillose e di tutte le foglie e le erbacce appassite: lodato sia questo benefico e libero spirito selvaggio e burrascoso, che danza su paludi e tristezze come fossero prati!

Che odia i cani intisichiti della plebe e ogni tetra malriuscita genia: lodato sia questo spirito di tutti i liberi spiriti, la bufera ridente, che soffia polvere negli occhi di quelli che vedono nero, che soffrono di ulcere!

Voi uomini superiori, il peggio per voi è: che non impariate tutti a danzare, come si deve danzare — al di sopra di voi stessi! Che importa se riusciste male!

Oh, quante cose sono ancora possibili! Imparate dunque a ridere al di sopra di voi stessi! Levate i vostri cuori, o bravi danzatori, in alto! Più in alto! E non dimenticate la buona risata!

Questa corona del ridente, questa corona tutta di rose: a voi, fratelli

miei, getto questa corona! Ho santificato il riso; voi uomini superiori, imparate — a ridere.


 
Il canto della melanconia

 
Capitolo 1
Quando Zarathustra tenne questo discorso si trovava vicino all’ingresso della sua spelonca; ma alle ultime parole si staccò dai suoi ospiti e fuggì per un poco all’aperto.

«O puri odori intorno a me», esclamò «o beato silenzio qui intorno! Ma dove sono i miei animali? Qua, qua, mia aquila e mio serpente!

Ditemi, miei animali: tutti questi uomini superiori forse non hanno — un buon odore”? O puri odori intorno a me! Ora soltanto so e sento come vi amo, animali miei».

E Zarathustra ripetè: «Io vi amo, animali miei!» E l’aquila e il serpente, mentre pronunciava queste parole, si strinsero a lui e levarono gli occhi a guardarlo. In tal modo si trovarono vicini, in silenzio, tutti e tre, annusando e assaporando insieme l’aria buona. Poiché l’aria là fuori era migliore che dentro, tra gli uomini superiori.


 
Capitolo 2
Ma Zarathustra aveva appena abbandonato la sua caverna, che il vecchio mago si levò, si guardò malizioso intorno e disse: «È uscito!

E già, uomini superiori — per solleticarvi anch’io con questo appellativo di lode e di lusinga, come fa lui — già mi assale il mio spirito malefico dell’inganno e della magia, il mio diavolo melanconico.

— che è un radicale oppositore di questo Zarathustra: perdonate glielo! Ora egli vuole produrre davanti a voi un incantesimo, poiché è venuta la sua ora; invano combatto con questo spirito malefico.

A voi tutti, quali siano gli onori che attribuite a voi stessi con le parole, che vi chiamiate “gli spiriti liberi” o “i veritieri” o “i penitenti dello spirito” o “gli scatenati” o “i grandi anelanti”,

— a voi tutti che come me soffrite del grande disgusto, cui, come a me, è morto il vecchio dio e nessun nuovo dio giace in culla o in fasce, — a voi tutti è benigno il mio spirito malefico e il mio diavolo stregone.

Io conosco voi, uomini superiori, io conosco lui, — e conosco anche questo snaturato che amo contro il mio volere, questo Zarathustra: spesso egli mi appare simile a una bella maschera di santo.

— simile a una nuova stravagante mascherata di cui il mio spirito malefico, il diavolo melanconico, si compiace: — io amo Zarathustra, così mi avviene spesso di credere a causa del mio spirito malefico.

Ma esso già mi assale e mi sottomette, questo spirito della melanconia, questo diavolo del crepuscolo serale: e, in verità, uomini superiori, esso ha voglia — spalancate bene gli occhi! — esso ha voglia, di comparire nudo, se maschio, se femmina non so ancora: ma compare, mi sottomette, ahimè! Aprite bene i vostri sensi!

Il giorno si spegne, per tutte le cose giunge ora la sera, anche per le migliori; udite e guardate,

Così parlò il vecchio mago, si guardò malizioso intorno e poi prese la sua arpa.


 
Capitolo 3
Rischiarata l’aria

Quando già della rugiada il conforto

Sulla terra piove,

Invisibile, inaudito —

Poiché fragili calzari porta

La consolatrice rugiada, come ogni mite consolatore:

Allora ricordi, allora ricordi, cuore caldo,

Come un giorno patisti sete,

Di celesti lacrime e piogge di rugiada,

Bruciato e affranto, patisti sete,

Mentre per gialli tratturi

Maligne occhiate del sole serale

Fra neri alberi correvano a te,

Abbaglianti ardenti occhiate solari di gioia maligna?

«Tu un pretendente della verità! Tu? schernivano —

No! Soltanto un poeta!

Una bestia, astuta, rapace, insinuante,

Che deve mentire,

Cosciente, volente mentire:

Di preda avido,

Maschera multicolore,

A se stesso maschera,

A se stesso preda —

Questo — un pretendente della verità?

No! Solo folle! Solo poeta!

Solo un variopinto discorrere,

Un variopinto gridare sotto maschere folli,

Varcando mendaci ponti di parole,

Arcobaleni dipinti,

Tra falsi cieli

E false terre,

Errabondo, fluttuante, —

Solo folle! Solo poeta!

Questo — un pretendente della verità?

Non muto, rigido, freddo, liscio,

Diventato una statua,

Colonna di Dio,

Non collocato davanti a templi,

Guardiano di un dio:

No! nemico di simili statue di verità,

Felice in luoghi selvaggi, più che davanti a templi,

Pieno di felina baldanza,

Salta da ogni finestra,

Agile, dentro ogni caso ed evento,

Aperte le nari ad ogni foresta vergine,

Da avido anelito aperte,

Poiché in foreste vergini

Tra colorate e maculate belve

Correvi bello e variopinto a salubri peccati

Con labbra vogliose,

Beato — schernevole, beato — infernale, beato — sanguinario

Predando, strisciando, spiando correvi: —

O simile all’aquila, che lungamente,

Lungamente guarda fissa gli abissi,

I suoi abissi:

Oh, come si contorcono, dentro,

Sotto, sopra

In sempre più fonde profondità! —

Poi,

A un tratto, con un volo a picco,

Con volo vibrato,

Abbattersi su agnelli,

Precipitare, famelico,

Goloso di agnelli,

Avverso a tutte le anime d’agnello,

Irato — avverso a quanto

Ha fare di pecora, occhi d’agnello e lana ricciuta,

Grigio, una pecora — agnello di benignità!


 
Dunque
D’aquila, di pantera

Sono del poeta le nostalgie,

Sono le tue nostalgie sotto mille maschere,

Tu folle! Tu poeta!

Tu che vedesti nell’uomo

Dio e la pecora —:

Dilaniare il dio nell’uomo,

Come nell’uomo la pecora

E dilaniando ridere —

Questa, questa è la tua beatitudine!

Di pantera ed aquila beatitudine!

Di poeta e folle beatitudine!»

Rischiarata l’aria,

Quando già la falce lunare

Verde fra rossori di porpora

E gelosa discende:

— Del giorno nemica,

Ad ogni passo segreta

Amache di rose

Falciando, finché sprofondano

Dentro la notte, pallide, sprofondano: —

Così sprofondai un giorno

Dalla mia illusione di verità,

Dalle mie nostalgie diurne,

Stanco del giorno, malato di luce,

— sprofondai giù, dentro la sera, dentro l’ombra:

Da una sola verità

bruciato e assetato:

— Ricordi ancora, ricordi, cuore caldo,

Come patisti la sete? —

Ch ‘io sia bandito

Da ogni verità,

Solo folle!

Solo poeta!


 
Della scienza
Così cantò il mago; e quanti erano colà radunati caddero come uccelli, senz’avvedersene, dentro la rete della sua scaltra e melanconica voluttà. Solo il coscienzioso dello spirito non fu catturato: egli strappò l’arpa al mago e gridò: «Aria! Fate entrare aria! Fate entrare Zarathustra! tu rendi questa spelonca afosa e venefica, tu perfido vecchio mago!

Tu seduci, falso, sottile a voglie ignote e a luoghi selvaggi. E guai se quelli come te fanno un gran discorrere e un gran rumore intorno alla verità.

Guai a tutti gli spiriti liberi, che non stanno in guardia contro simili maghi! È perduta la loro libertà: coi tuoi insegnamenti tu attiri gli altri dentro le prigioni donde erano usciti, —

— tu vecchio diavolo melanconico, nel tuo lamento risuona un dolce richiamo, tu somigli a quelli che col lodare la castità invitano segretamente alla voluttà!»

Così parlò il coscienzioso; ma il vecchio mago si guardava intorno, godendosi la vittoria e ingoiando il disagio che il coscienzioso gli procurava. «Sta zitto» gli disse con tono modesto «un buon canto vuol avere una buona eco; dopo un buon canto si deve tacere a lungo.

E così fanno tutti costoro, gli uomini superiori. Ma forse tu hai capito poco del mio canto? Tu hai ben poco spirito magico».

«Tu mi lodi» rispose il coscienzioso «col distaccarmi da te, e sia! Ma voialtri, che cosa vedo? Ve ne state ancora tutti seduti con occhi pieni di brama —:

Voi anime libere, dov’è la vostra libertà? Mi sembrate quasi assomigliare a persone che siano state a lungo a vedere delle perverse fanciulle danzare nude: anche le vostre anime danzano!

In voi, uomini superiori, deve dimorare in maggior misura che in me quello che il mago chiama il suo malefico spirito di magia e d’inganno: — dobbiamo essere ben diversi.

E in verità, parlammo e pensammo insieme abbastanza a lungo prima che Zarathustra tornasse a casa, alla sua spelonca, perché io potessi sapere: noi siamo diversi.

Noi cerchiamo cose diverse anche quassù, voi ed io. Io infatti cerco più sicurezza e per questo venni da Zarathustra. Egli è ancora la torre e la volontà più salda —

— oggi che tutto vacilla, che ogni terra trema. Voi, invece, se vedo gli occhi che fate, cercate più insicurezza,

— più brivido, più pericolo, più terremoto. Voi avete voglia, quasi presumo, e perdonate la mia presunzione, uomini superiori, —

— voi avete voglia della vita peggiore e più pericolosa che più d’ogni altra spaventa, la vita delle bestie feroci, di boschi, caverne, scoscese montagne e labirintiche gole.

E non sono coloro che guidano fuori dal pericolo che voi soprattutto amate, bensì quelli che vi sviano da qualunque via, i seduttori. Ma anche se una simile voglia in voi è reale, mi sembra ciò nonostante impossibile.

La paura infatti — è il sentimento ereditario e fondamentale dell’uomo; con la paura si spiega ogni cosa, il peccato originale e la virtù ereditata. Dalla paura nacque anche la mia virtù, cioè: la scienza.

Infatti la paura delle bestie feroci — è quella che più lungamente fu inculcata all’uomo, e comprende anche la paura della bestia che egli cela e teme dentro di sé: — Zarathustra la chiama “la bestia interiore”.

Questa lunga e antica paura, fattasi infine sottile, spirituale, intellettuale — oggi, mi sembra, si chiama: scienza».

Così parlò il coscienzioso, ma Zarathustra, che era appena rientrato nella sua spelonca e aveva udito e indovinato l’ultimo discorso, gettò al coscienzioso una manciata di rose e rise della sua «verità». «Come!» esclamò «che ho udito or ora? Uno dei due, o tu o io, è, a quanto pare, folle: e la tua “verità” la metto prontamente a capo all’ingiù.

Paura infatti — è la nostra eccezione. Coraggio e avventura e gioia dell’incerto, dell’inosato, — coraggio, mi sembra essere l’intera preistoria dell’uomo.

Egli ha invidiato e predato ai più selvaggi e coraggiosi fra gli animali tutte le loro virtù: solo così diventò — uomo.

Questo coraggio, fattosi sottile, spirituale, intellettuale, questo coraggio d’uomo con ali d’aquila e scaltrezza di serpente: questo, mi sembra, oggi si chiama —»

«Zarathustra!» gridarono i radunati come ad una voce e scoppiarono poi in una grande risata; e sembrò che si fosse allontanata da loro una pesante nuvola. Anche il mago rise e parlò con saggezza: «Ebbene! Se n’è andato il mio spirito malefico!

E non vi ho messi in guardia io stesso contro di lui quando ho detto che è un traditore, un tessitore di menzogne e inganni?

Specialmente quando si mostra nudo. Ma che posso io contro le sue insidie? Sono stato io a creare lui e il mondo?

Orsù! Dimentichiamo, stiamo di buon umore! Anche se Zarathustra ha lo sguardo cupo — guardatelo! È adirato con me —:

— prima che venga la notte, avrà imparato di nuovo ad amarmi e a lodarmi, egli non può stare un pezzo senza fare simili sciocchezze.

Lui — ama i suoi nemici: ed esercita quest’arte meglio di quanti io vidi mai. Ma di ciò si vendica — sui suoi amici!»

Così parlò il vecchio mago e gli uomini superiori gli tributarono un applauso: tanto che Zarathustra fece il giro e con cattiveria e amore insieme strinse la mano a tutti i suoi amici, — come uno che ha da rimediare a qualcosa e da chiedere perdono a tutti. Ma quando, così facendo, giunse sulla soglia della spelonca ecco che di nuovo sentì bisogno dell’aria buona all’aperto e dei suoi animali e già voleva scivolar fuori.


 
Tra figlie del deserto

 
Capitolo 1
«Non te ne andare!» disse il viandante, che si chiamava l’ombra di Zarathustra «Resta con noi, — altrimenti potrebbe di nuovo assalirci la nostra vecchia cupa mestizia.

Già il vecchio mago ci ha offerto quanto aveva di peggio ed ecco che il buon papa, il pio uomo, ha le lacrime agli occhi e si sta di nuovo imbarcando sul mare della melanconia.

Questi due re fanno ancora buon viso, ma alla nostra presenza: è quello che oggi essi hanno in modo eccellente imparato da noi! Ma se non ci fossero testimoni, ci scommetto, anche in loro ricomincerebbe quale brutto gioco —

— il brutto gioco delle nuvole in viaggio dell’umida melanconia, del cielo coperto, dei soli rubati, degli ululanti venti autunnali,

— il brutto gioco del nostro ululare e gridare aiuto: resta con noi, Zarathustra. Qui c’è molta miseria nascosta che vuol parlare, molta sera, molte nubi, molta aria pesante!

Tu ci nutristi con robusto cibo virile e con robusti detti: non permettere che alla fine del pranzo ci assalgano i teneri spiriti femminei!

Tu solo rendi l’aria intorno a te robusta e limpida! Ho mai trovato sulla terra aria così buona come nella tua spelonca?

Molti paesi vidi, il mio naso imparò a saggiare e valutare diverse specie di aria: ma vicino a te le mie narici gustano il loro massimo piacere!

Se non forse, — se non forse — oh, perdona un vecchio ricordo! Perdonami un vecchio canto di fine pranzo, che io composi tra figlie del deserto: —

tra loro infatti spirava una buona limpida aria orientale; là ero più lontano che mai dalla nuvolosa, umida, melanconica vecchia Europa!

Allora amavo quelle fanciulle d’Oriente e un altro azzurro regno dei cieli, sul quale non appare mai nuvola né pensiero.

Non potete credere com’erano quiete e graziose quando non danzavano, assorte, ma senza pensieri, come tanti piccoli misteri, come tanti enigmi ornati di nastri, come tante noci alla fine del pranzo — senza nubi: enigmi che si lasciano sciogliere: per amore di queste fanciulle inventai allora un salmo di fine pranzo».

Così parlò il viandante e ombra; e prima che alcuno gli rispondesse, aveva già afferrato l’arpa del vecchio mago e incrociato le gambe e guardava intorno saggio e pacato: — ma con le nari aspirava l’aria lento e interrogativo come uno che in paesi a lui nuovi assaggi la nuova aria straniera. Poi incominciò, con una specie di ruggito, a cantare.


 
Capitolo 2
Il deserto cresce: guai a chi cela deserti!

— Ah! Solenne!

Davvero solenne!

Un degno principio!

Africanamente solenne!

Di un leone degno

O di una morale scimmia urlatrice —

— ma nulla per voi,

Voi dilettissime amiche,

Ai cui piedi a me

Per la prima volta,

A un europeo sotto le palme

È concesso di sedere. Sela.

Meraviglioso, davvero!

Eccomi seduto,

Vicino al deserto, eppure

Così lontano dal deserto,

E in nulla reso ancora deserto:

Cioè inghiottito

Da tanto minuscola oasi —:

— sbadigliando essa spalancò

La leggiadra bocca,

La più profumata delle bocchine:

E io vi caddi dentro,

Giù, attraverso — fino a voi,

Dilettissime amiche! Sela.

Salute, salute a quella balena,

Se al suo ospite tanto benessere

Procurò! — voi capite

La mia dotta allusione?

Salute al suo ventre,

Se dunque fu

Un così amabile ventre — oasi

Come questo: io però ne dubito,

— non per nulla vengo dall’Europa,

Che è la più dubitosa di tutte

Le consorti vecchiotte.

Dio le migliori!

Amen!

Eccomi ora seduto

In tanto minuscola oasi,

Simile a un dattero,

Bruno, dolcissimo, sudante oro, cupido,

Di una rotonda bocca di fanciulla

Ma ancora più

Di ghiacciai nivei taglienti

Canini di fanciulla: per quelli infatti

Langue il cuore di ogni caldo dattero. Sela.

Ai nominati frutti del sud

Simile, troppo simile,

Giaccio qui, e piccoli

Insetti alati

Mi odorano e scherzano intorno,

Come pure ancora più piccoli

Più folli e peccaminosi

Desideri e improvvisi pensieri, —

Assediato da voi, —

Voi mute, voi presaghe

feline fanciulle,

Dudu e Suleika,

— sfingocinto 1 per fondere in una parola

Molti sentimenti:

(Dio mi perdoni

Questo peccato di lingua!)

— me ne sto qui, respirando l’aria migliore,

Aria di paradiso, invero,

Aria lieve lucente, screziata d’oro,

L’aria più buona che mai

Piovve dalla luna —

Fu per caso,

O fu per la mia tracotanza?

Come i vecchi poeti raccontano.

Ma io dubitoso

Ne dubito, non per nulla vengo

dall’Europa,

Che è la più dubitosa di tutte

Le consorti vecchiotte.

Dio la migliori!

Amen!

Questa splendida aria bevendo,

Le nari gonfie come coppe,

Senza futuro, senza ricordi,

Me ne sto qui,

Dilettissime amiche,

E guardo la palma,

Che, come una danzatrice

Si curva sinuosa e ancheggia,

— ti muovi con lei, se troppo a lungo la miri!

Come una danzatrice che, così mi sembra,

Troppo a lungo, pericolosamente a lungo

Sia stata sempre su una gamba sola?

— e dimenticò, cosi mi sembra,

L’altra gamba?

Invano almeno

Cercai lo smarrito

Gioiello gemello

— ossia l’altra gamba —

Nelle sacre vicinanze

Della sua amabile, leggiadra

Gonnella di ventagli d’ali di lustrini.

Sì, belle amiche,

Se del tutto voleste credermi:

L’ha perduta!

Scomparsa!

Per sempre scomparsa!

L’altra gamba!

Oh, peccato per l’altra gamba leggiadra!

Dove — può essere, dove geme abbandonata?

La gamba rimasta sola?

Spaventata forse

Da un tremendo leone

biondo e ricciuto? Oppure già

Rosicata, consunta —

Ahi, ahi, che sciagura! Rosicata! Sela.

Oh, non piangete,

Cuori teneri!

Non piagente, voi

Cuori di dattero! Seni di latte!

Voi cuori — sacchettini

Di dolce liquirizia!

Cessa di piangere,

Pallida Dudu!

Sii un uomo, Suleika! Coraggio! Coraggio!

— O forse sarebbe

Qui opportuno

Un corroborante, corroborante del cuore?

Una sentenza sacra?

Un conforto solenne? —

Ah! Sorgi, sorgi, dignità!

Dignità della virtù! Dignità di europeo!

Soffia, soffia di nuovo,

Mantice della virtù!

Ah!

Ruggire ancora una volta,

Ruggire moralmente!

Come leone morale

Davanti alle figlie del deserto ruggire!

— Poiché l’ululato virtuoso,

Mie dilette fanciulle,

È, più che tutto,

Passione, tremenda fame europea.

Ed eccomi: di nuovo in piedi,

Come europeo,

Non posso altrimenti, Dio mi aiuti!

Amen!

Il deserto cresce: guai a chi cela deserti!


 
Il risveglio

 
Capitolo 1
Dopo il canto del viandante e ombra la spelonca si riempì a un tratto di rumore e di risa: e poiché gli ospiti radunati parlavano tutti insieme e anche l’asino, a un simile incoraggiamento, non stava più zitto, Zarathustra fu colto da una certa ripugnanza per i suoi visitatori e gli venne voglia di schernirli: sebbene si rallegrasse della loro allegria. Poiché gli sembrava un segno di guarigione. Così sgusciò fuori all’aperto e parlò ai suoi animali.

«Dov’è finita la loro miseria?» disse, e già sentiva alleviato il suo leggero fastidio «da me disimpararono, a quanto pare, a gridare aiuto!

— anche se, purtroppo, non ancora a gridare». E Zarathustra si turò le orecchie, poiché proprio in quel momento l’I-A dell’asino si mescolava stranamente al rumoroso giubilo di quegli uomini superiori.

«Sono allegri, riprese, e chi sa? Forse a spese del loro ospite; e se impararono da me a ridere, non è però il mio ridere che impararono.

Ma che importa! Sono vecchi: guariscono a modo loro, ridono a modo loro; i miei orecchi hanno già sopportato di peggio e non sono diventati irascibili.

Questo giorno è una vittoria: già si ritira, fugge, lo spirito di gravità, il mio vecchio nemico mortale! Come vuole concludersi bene questo giorno che iniziò così cattivo e grave.

E vuole concludersi. Già viene la sera: essa cavalca sul mare, come un bravo cavaliere! Come si dondola, la beata, rincasando, sulla sua sella purpurea.

Il cielo sta limpido a guardare, il mondo è laggiù in basso: o voi strani esseri che veniste a me, vale là pena di vivere con me!»

Così parlò Zarathustra. E di nuovo giungevano dalla spelonca le grida e le risate degli uomini superiori: allora egli riprese.

«Abboccano, la mia esca ha effetto, s’allontana da essi il loro nemico, lo spirito di gravità. Già imparano a ridere di sé: sento bene?

Il mio cibo virile ha effetto, la mia parola succosa ed energetica: e in verità, io non li nutrii di verdure che provocano flatulenze! Bensì di cibo di guerrieri, di cibo da conquistatori: nuove brame ho suscitato.

Nuove speranze sono nelle loro braccia e gambe, il loro cuore si stira. Essi trovano parole nuove, presto il loro spirito spirerà baldanza.

Simile cibo non si addice a bambini e nemmeno a giovani e vecchie donnine languorose. A quelle persuade le viscere ben altro; né io sono il loro medico e maestro.

Il disgusto abbandona questi uomini superiori: bene! È la mia vittoria. Nel mio regno diventano sicuri di sé, ogni stupido pudore scompare, essi si sfogano.

Sfogano il loro cuore, tornano ore liete per loro, essi fanno festa e ruminano — diventano riconoscenti.

Questo io prendo come il segno migliore: diventano riconoscenti. Ancora un poco ed essi architetteranno feste ed erigeranno monumenti alle loro antiche gioie.

Sono convalescenti!» Così parlò Zarathustra al suo cuore, lieto e guardando lontano; e i suoi animali si strinsero a lui ed onoravano la sua felicità e il suo silenzio.


 
Capitolo 2
Ma d’improvviso l’orecchio di Zarathustra fu colto dallo spavento: infatti nella spelonca, che finora era stata piena di rumore e di risa, si era fatto d’un colpo un mortale silenzio; — e il suo naso fu raggiunto da un fumo aromatico, da un odore d’incenso, come di pigne bruciate.

«Che accade? Che fanno?» si chiese e si accostò all’ingresso in modo da poter osservare non visto i suoi ospiti. Ma, meraviglia delle meraviglie! Che cosa gli toccò di vedere con i propri occhi!

«Sono ritornati tutti pii,pregano, sono pazzi!» disse e si stupì oltremodo. E, in verità! Tutti questi uomini superiori, i due re, il papa fuori servizio, il perfido mago, il mendicante volontario, il viandante e ombra, il vecchio profeta, il coscienzioso dello spirito e il più brutto fra gli uomini: erano tutti in ginocchio come bambini e credule vecchiette e adoravano l’asino. E il più brutto degli uomini cominciava appunto a gorgogliare e a soffiare, come se da lui volesse uscire qualcosa d’inesprimibile; ma quando riuscì davvero ad articolare delle parole, ecco che era una pia e strana litania in lode dell’adorato e incensato asino. E questa litania suonava così:

Amen! Sia gloria e onore e saggezza e grazie e lode e forza al nostro dio, nei secoli dei secoli!

— L’asino ragliò: I-A.

Egli porta il nostro carico, egli assunse figura di servo, egli è paziente nel suo cuore e non dice mai di no: e chi ama il suo dio, lo castiga.

— L’asino ragliò: I-A.

Egli non parla: se non per dire sempre di sì al mondo che ha creato: così egli loda il suo mondo. È la sua furberia a non farlo parlare: così si trova difficilmente ad avere torto.

— L’asino ragliò: I-A.

Egli va per il mondo senza dare nell’occhio. Grigio è il colore del suo corpo sotto cui egli cela la sua virtù. Se ha spirito, lo nasconde; ma ognuno crede alle sue lunghe orecchie.

— L’asino ragliò: I-A.

Qual saggezza nascosta è avere le orecchie lunghe e dire sempre soltanto sì e mai no! Non ha creato il mondo a sua immagine, e cioè nel modo più stupido possibile?

— L’asino ragliò: I-A.

Tu cammini su sentieri diritti e tortuosi; poco ti preoccupa quel che a noi uomini appare diritto e tortuoso. Al di là del bene e del male è il tuo regno. La tua innocenza è ignorare che cos’è l’innocenza.

— L’asino ragliò: I-A.

Fa di non respingere nessuno da te, né i mendicanti né i re. Lasci che i fanciulli vengano a te, e quando i ragazzacci ti danno la baia, tu dici candido: I-A.

— L’asino ragliò: I-A.

Tu ami le asine e i fichi freschi, col cibo non fai il difficile, Un cardo ti solletica il cuore il momento che hai fame. E in questo è la saggezza di un dio.

— L’asino ragliò: I-A.


 
La festa dell’asino

 
Capitolo 1
A questo punto della litania Zarathustra non potè più dominarsi, gridò anche lui I-A, ancora più forte dell’asino, e balzò in mezzo ai suoi ospiti impazziti. «Ma che state facendo, o uomini?» gridò, mentre strappava gli oranti da terra «Guai se vi vedesse qualcun altro fuorché Zarathustra:

Chiunque giudicherebbe che con la vostra nuova fede siete i peggiori bestemmiatori di Dio o più stolti di tutte le vecchiette!

Anche tu, vecchio papa, come s’accorda ciò col tuo essere, che tu adori a questa maniera un asino come Dio?» —

«O Zarathustra», rispose il papa, «perdonami, ma nelle cose di Dio io sono più illuminato di te. Ed è giusto che sia così.

È meglio adorare Dio così, in questa figura, che non adorare alcuna figura! Medita su questa massima, mio sublime amico: presto scoprirai che in questa massima si cela la verità.

Colui che disse “Dio è uno spirito” — compì il più grande passo e salto verso l’incredulità che mai si vide in terra: a queste parole non si rimedierà facilmente in terra!

Il mio vecchio cuore salta e balla dalla gioia che sulla terra vi sia ancora qualcosa da adorare. Perdona ciò, o Zarathustra, a un vecchio pio cuore di papa!»

— «E tu», disse Zarathustra al viandante e ombra, «tu ti chiami e ti credi uno spirito libero? E ti dai a una simile idolatria da prete?

In verità, ti stai comportando peggio qui che presso le tue perfide fanciulle brune, tu perfido nuovo credente!»

«Abbastanza male», rispose il viandante e ombra «hai ragione: ma che ci posso fare! Il vecchio dio vive di nuovo, o Zarathustra, dì quello che vuoi.

È tutta colpa del più brutto fra gli uomini: è lui che l’ha ridestato. E anche se dice di averlo un giorno ucciso: la morte negli dei è sempre soltanto un pregiudizio».

— «E tu» disse Zarathustra «tu perfido vecchio mago, che hai fatto? Chi in questa epoca libera crederà più in te, se tu credi in queste asinerie di dei?

È stata una sciocchezza quel che hai fatto; come potesti, tu, accorto, fare una simile sciocchezza!»

«O Zarathustra», rispose l’accorto mago «hai ragione, è stata una sciocchezza, — e mi hai pesato anche troppo».

— «E tu», disse Zarathustra al coscienzioso dello spirito «medita col dito accostato al naso! Nulla di tutto ciò va contro la tua coscienza? Il tuo spirito non è troppo puro per questo pregare e per il fumo di questi bigotti?»

«C’è qualcosa», rispose il coscienzioso e si accostò il dito al naso «c’è qualcosa in questo spettacolo che alla mia coscienza fa addirittura bene.

Forse, non mi è dato di credere in Dio: ma è certo che in questa figura Dio mi appare ancora più credibile che in ogni altra.

Dio è eterno, secondo la testimonianza dei più pii: chi ha tanto tempo, si dà tempo. Il più lentamente e il più stupidamente possibile: così uno come lui può certo arrivare molto lontano.

E chi ha troppo spirito, amerebbe annegare anche lui nella stupidità e nella follia. Pensa a te stesso, o Zarathustra!

Tu stesso — in verità! anche tu potresti per eccesso di saggezza diventare un asino.

Un saggio perfetto non va forse volentieri per le vie più tortuose? L’evidenza lo insegna, o Zarathustra, — la tua evidenza!»

— «E infine tu» disse Zarathustra e si volse al più brutto fra gli uomini, che stava ancora inginocchiato, tenendo un braccio levato verso l’asino (lo stava infatti abbeverando col vino). «Parla o inesprimibile: che hai fatto?

Mi sembri trasfigurato, il tuo occhio arde, il manto della sublimità ricopre la tua bruttezza: che hai fatto?

È vero ciò che questi dicono, che tu lo facesti risorgere? E perché poi? Non era stato totalmente ucciso e tolto di mezzo?

Tu stesso mi sembri come risvegliato: che facesti? Che capovolgesti? Perché ti convertisti? Parla, o inesprimibile!»

«O Zarathustra», rispose il più brutto fra gli uomini «sei un briccone!

Se egli viva ancora o viva di nuovo o sia totalmente morto, — chi tra noi due lo sa meglio? Lo domando a te.

Ma una cosa so, — e la imparai un giorno da te: chi vuole uccidere più totalmente, ride.

“Non con l’ira ma col riso si uccide” — così dicesti un giorno. O Zarathustra, tu misterioso, tu annientatore senz’ira, tu pericoloso santo, — tu sei un briccone!»


 
Capitolo 2
Ma allora accadde che Zarathustra, meravigliato di tante risposte da bricconi, balzò indietro, sulla soglia della sua spelonca, e rivolto a tutti i suoi ospiti, gridò con forte voce:

«O voi furbi pagliacci, voi buffoni! A che vi dissimulate e vi nascondete davanti a me!

Come sgambettava a ognuno di voi il cuore pieno di gioia e perfidia perché potevate finalmente tornare ad essere come i bambini, cioè pii, —

— perché finalmente facevate come fanno i bambini, cioè pregavate, giungevate le mani e dicevate “buon Dio” !

Ma ora uscite da questa stanza dei bambini, dalla mia spelonca dove ogni bambinata oggi si trova come a casa sua. Rinfrescate all’aperto la vostra accaldata petulanza infantile e placate il rumore del cuore!

Davvero: se non diverrete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. (E Zarathustra accennò con le mani al cielo).

Ma noi non vogliamo andare nel regno dei cieli: uomini siamo diventati, — quindi vogliamo il regno della terra».


 
Capitolo 3
E ancora una volta prese a parlare Zarathustra. «O miei nove amici», disse «— voi strani esseri, uomini superiori, come mi piacete ora, —

— dacché siete ritornati allegri! Siete tutti sbocciati: a fiori come voi mi sembra che occorrano nuove feste,

— una piccola spericolata dissennatezza, qualche culto divino e una festa dell’asino, qualche vecchio e allegro folle Zarathustra, un turbine che soffi nelle vostre anime e le rischiari.

Non dimenticate questa notte e questa festa dell’asino, o uomini superiori! Questo inventaste presso di me, e io lo prendo come un buon segno, — cose simili le inventano soltanto dei convalescenti!

E se la celebrerete un’altra volta, questa festa dell’asino, fatelo per amor vostro, fatelo per amor mio! E in memoria di me!»

Così parlò Zarathustra.


 
Il canto d’ebbrezza

 
Capitolo 1
Intanto uno dopo l’altro erano usciti tutti all’aperto e nella fresca notte meditabonda; e Zarathustra teneva per mano il più brutto degli uomini, per mostrargli il suo mondo notturno e la grande luna rotonda e le cascate argentee presso la sua spelonca. Poi si fermarono, e si trovarono tutti vicini, in silenzio, tutti vecchi, con un cuore consolato e ardimentoso, e stupiti nell’intimo di sentirsi così bene sulla terra; ma il mistero della notte si faceva sempre più accosto ai loro cuori. Zarathustra pensò di nuovo fra sé: «Oh come mi piacciono questi uomini superiori!» — ma non lo manifestò, poiché onorava la loro felicità e il loro silenzio. —

Ma accadde in quel momento la cosa più stupefacente di quella lunga stupefacente giornata: il più brutto fra gli uomini prese ancora una volta e per l’ultima volta a gorgogliare e a sbuffare, e quando riuscì ad articolare parole, ecco che dalla sua bocca balzò chiara e tonda una domanda, una buona profonda chiara domanda che a tutti quelli che lo ascoltavano commosse il cuore nel petto.

«Amici miei», disse il più brutto fra gli uomini «che vi sembra? Per questo solo giorno — io sono per la prima volta contento di aver vissuto la vita intera.

Ma tanta testimonianza ancora non mi basta. Vale la pena di vivere sulla terra: un giorno, una festa con Zarathustra mi insegnò ad amare la terra.

“Era questa — la vita?” voglio dire alla morte. “Ebbene! Ancora una volta!”

Amici miei, che vi sembra? Non volete dire anche voi subito alla morte: Era questa — la vita? Per Zarathustra ebbene! Ancora una volta!»

Così parlò il più brutto fra gli uomini, e non mancava molto alla mezzanotte. E che cosa credete che accadesse allora? Non appena gli uomini superiori udirono le sue domande, divennero coscienti della loro trasformazione e guarigione e di chi l’aveva loro procurata: allora si slanciarono su Zarathustra, con ringraziamenti, atti di adorazione, carezze, baciandogli le mani, ognuno secondo la propria natura: così che alcuni ridevano e altri piangevano. Il vecchio profeta danzava di piacere; e anche se, come molti cronisti ritengono, era ubriaco di vino dolce, era però di certo anche ubriaco della dolcezza della vita e aveva respinto ogni stanchezza. E c’è qualcuno che racconta che anche l’asino in quell’occasione abbia danzato: non per nulla infatti il più brutto fra gli uomini l’aveva poco prima abbeverato col vino. Può essere così o diversamente; e anche se quella sera l’asino in verità non danzò, accaddero prodigi più grandi e straordinari di quel che sarebbe la danza di un asino. Insomma, come suona il proverbio di Zarathustra: «Che importa!»


 
Capitolo 2
E Zarathustra, mentre al più brutto fra gli uomini accadeva di parlare così, era come ebbro: il suo sguardo si spense, la lingua balbettò, i suoi piedi vacillarono. E chi potrebbe indovinare quali pensieri passarono per l’anima di Zarathustra? Visibile era che il suo spirito si ritraeva e fuggiva e lo precedeva in remote lontananze, per così dire «sull’altro giogo, come sta scritto, tra due mari,

— tra passato e futuro come greve nuvola errando». Ma a poco a poco, mentre gli uomini superiori lo stringevano tra le braccia, ritornò un poco in sé e respinse con le mani da quel loro affollarsi, pieno di venerazione e di preoccupazione; ma non parlava. E a un certo punto voltò di scatto il capo, perché gli sembrava di udire qualcosa: allora si pose un dito sulla bocca e disse: « Venite!»

E subito tutt’intorno si fece silenzio e mistero; ma dal profondo saliva il suono di una campana. Zarathustra tese l’orecchio, come pure gli uomini superiori; poi si pose nuovamente il dito sulla bocca e disse di nuovo: «Venite! Venite! Si avvicina la mezzanotte!» — e la sua voce si era trasformata. Ma ancora non si muoveva da quel luogo: intanto silenzio e mistero si facevano ancora più fitti: e tutti tendevano l’orecchio, anche l’asino e gli animali d’onore di Zarathustra, l’aquila e il serpente, e così la spelonca di Zarathustra e la grande e fredda luna e la notte stessa. E Zarathustra si pose poi la terza volta il dito sulla bocca e disse:

«Venite! Venite! Venite! Adesso andiamo! È l’ora: andiamo nella notte! »


 
Capitolo 3
O uomini superiori, si avvicina la mezzanotte: voglio dunque dirvi qualcosa all’orecchio, come lo dice a me all’orecchio quella vecchia campana, —

— così segretamente, terribilmente, amorosamente come parla a me quella campana di mezzanotte che ha vissuto più cose di un uomo:

— che contava i battiti di dolore nel cuore dei vostri padri — ah! ah! Come sospira! Come ride in sogno! La vecchia profonda profonda mezzanotte!

Silenzio! Silenzio! In essa si odono cose cui di giorno non è dato farsi udire; ma ora, nell’aria fresca, ora che anche tutto il clamore dei vostri cuori ha taciuto, —

— ora parla, ora si ode, ora s’insinua in anime notturne che non chiudono occhio: ah, ah, come sospira! Come ride in sogno!

— non odi come ti parla segretamente, terribilmente, amorosamente la profonda profonda mezzanotte!

O uomo, ascolta!


 
Capitolo 4
Me sciagurato! Dove dileguò il tempo? Non sprofondai in fontane profonde? Il mondo dorme —

Ah, ah! Il cane ulula, splende la luna. Preferirei morire, morire che dirvi che cosa pensa ora il mio cuore di mezzanotte.

Sono già morto. È finita. Ragno, che tessi intorno a me? Vuoi sangue? Ah, ah! Cade la rugiada, viene l’ora —

— l’ora che mi gela e agghiaccia, che chiede e chiede: «Chi ha cuore abbastanza per questo?

— chi deve essere il signore della terra? Chi vuol dire: così dovete scorrere, grandi e piccoli fiumi!»

— l’ora si appressa: o uomo, o uomo superiore, ascolta! Questo discorso è per orecchi fini, per i tuoi orecchi — che dice la mezzanotte fonda?


 
Capitolo 5
Mi sento trasportato, la mia anima danza. Opera giornaliera! Opera giornaliera! Chi dev’essere il signore della terra?

La luna è fredda, il vento tace. Ah! Ah! Volaste già abbastanza in alto? Danzaste: ma una gamba non è un’ala.

O bravi danzatori, ora tutto il piacere è finito: il vino diventò lievito, le coppe si rammollirono, i sepolcri balbettano.

Non volaste abbastanza in alto: ora i sepolcri balbettano: «Liberate i morti! Perché è così a lungo notte? La luna non ci fa ebbri?»

Voi uomini superiori, liberate i sepolcri, destate i cadaveri! Ah, che scava il verme ancora? S’appressa l’ora, —

— cupa brontola la campana, scricchiola ancora il cuore, il tarlo rode ancora, il tarlo del cuore. Ah! Ah! Il mondo è profondo!


 
Capitolo 6
Dolce lira! Dolce lira! Io amo il tuo suono, la tua ebbra voce di rospo! — da qual remoto passato, da quali lontananze tu sali, di dove mai, dagli stagni dell’amore!

Tu vecchia campana, tu dolce lira! Ogni dolore ti squarciò il cuore, dolore di padre, dolore di padri, dolore di avi; la tua parola si fece matura, —

— matura come un autunno d’oro e un meriggio, come il mio cuore di eremita — e ora discorri: il mondo stesso si fece maturo, il grappolo d’uva si scurisce,

— e ora vuole morire, morire di felicità. Uomini superiori, non ne sentite l’odore? Ne sgorga fin quassù misterioso odore,

— un aroma e un odore d’eternità, un odore rosso-bruno del vino d’oro di un’antica felicità;

— di ebbra moribonda felicità di mezzanotte, che canta; il mondo è profondo, più profondo di quel che il giorno credeva.


 
Capitolo 7
Lasciami! Lasciami! Sono troppo puro per te. Non mi toccare! Non era or ora il mio mondo perfetto?

La mia pelle è troppo dura per le tue mani. Lasciami, stupido balordo ottuso giorno! Non è più chiara la mezzanotte?

I più puri dovrebbero essere signori della terra, i più sconosciuti, i più forti, le anime di mezzanotte, che sono più chiare e più profonde di ogni giorno.

O giorno, tu brancoli per afferrarmi? Vai a tentoni in cerca della mia felicità? Io sono per te ricco, solitario, un tesoro, una miniera d’oro?

O mondo, mi vuoi? Sono mondano per te? Sono spirituale? Sono divino? Ma, giorno e mondo, siete troppo goffi, —

— abbiate mani più accorte, tendete le mani a una felicità più profonda, a un’infelicità più profonda, tendete le mani verso qualche dio, non tendete le mani verso di me:

— la mia infelicità, la mia felicità è profonda, o strano giorno, ma io non sono un dio e neanche un inferno di un dio: profondo è il suo male.


 
Capitolo 8
Il male di Dio è più profondo, o strano mondo! Tendi le mani al male di Dio, non a me! Che sono io? Un’ebbra dolce lira, —

— una lira di mezzanotte, un rospo-campana, che nessuno comprende, ma che deve parlare ai sordi, o uomini superiori! Poiché voi non mi comprendete!

Finita! Finita! O giovinezza! O meriggio! O pomeriggio! Ora vennero sera e notte e mezzanotte, — il cane ulula, il vento:

— il vento non è un cane? Uggiola, abbaia, ulula. Ah! Ah! Come sospira! Come ride, come rantola e ansima, la mezzanotte!

Come parla da sobria, questa ebbra poetessa! Ha smaltito la sua ebbrezza bevendo? Ha spalancato vigile gli occhi? Rumina?

— rumina il suo male, in sogno, la vecchia profonda mezzanotte e ancor più il suo piacere. Poiché, anche se il male è già profondo, più profondo è il piacere: il piacere più profondo del dolore.


 
Capitolo 9
O vite! Perché mi lodi! Io ti ho tagliata! Io sono crudele, tu sanguini —: che significa la lode della mia ebbra crudeltà?

«Ciò che giunse a perfezione, tutto ciò che è maturo — vuole morire!» così parli tu. Benedetto, benedetto sia il coltello del vignaiolo! Ma tutto ciò che non è maturo vuol vivere: ahimè!

Il male dice: «Passa! Basta, o male!» Ma tutto ciò che soffre vuol vivere per farsi maturo e colmo di piacere e di nostalgia,

— di nostalgia del più lontano, più alto, più chiaro. «Io voglio eredi, dice tutto ciò che soffre, io voglio figli, io non voglio me», —

ma il piacere non vuole eredi, non figli, — il piacere vuole se stesso, vuole eternità, vuole ritorno, vuole tutto — eternamente-uguale-a-sé.

Il male dice: «Spezzati, sanguina, o cuore! Cammina gamba! Ala, vola! Avanti! In alto! Dolore!» Avanti! In alto! O mio vecchio cuore: il male dice: «Passa!»


 
Capitolo 10
Voi uomini superiori, che vi sembra? Sono un profeta? Un sognatore? Un ebbro? Uno che interpreta i sogni? Una campana di mezzanotte?

Una goccia di rugiada? Un fumo e un aroma di eternità? Non lo udite? Non lo odorate? Or ora il mio mondo divenne perfetto, mezzanotte è anche mezzogiorno, —

Dolore è anche piacere, maledizione è anche benedizione, notte è anche sole, — andatevene o imparate: un saggio è anche un pazzo.

Diceste mai sì a un piacere? O, amici miei, allora diceste sì anche a tutto il male. Tutte le cose sono incatenate, infilate, innamorate, —

— se mai voleste una volta due volte, se diceste mai «mi piaci, felicità! Soffio! Attimo!», allora volete indietro tutto!

— tutto di nuovo, tutto eterno, tutto incatenato, infilato, innamorato, oh, così amaste il mondo, —

— voi eterni, amatelo in eterno e ognora: e anche al mondo dite: passa, ma ritorna! Poiché ogni piacere vuole — eternità!


 
Capitolo 11
Ogni piacere vuole l’eternità di tutte le cose, vuole miele, vuole lievito, vuole ebbra mezzanotte, vuole sepolcri, vuole conforto di lacrime sui sepolcri, vuole tramonti dorati —

— che cosa non vuole il piacere! Esso è più assetato, più amoroso, più affamato, più terribile, più segreto di tutto il male, esso vuole se stesso, morde se stesso, in esso lotta la volontà dell’anello, —

— vuole amore, vuole odio, è ricco e opulento, dona, getta via, mendica che uno lo prenda, ringrazia chi lo prende, vorrebbe essere odiato, —

— così ricco è il piacere che ha sapore di male, d’inferno, di odio, di onta, di storpiatura, di mondo, — poiché questo mondo, oh, voi lo conoscete!

Voi uomini superiori, a voi anela, il piacere, irrefrenabile, beato, — al vostro male, voi malriusciti! Al malriuscito anela ogni eterno piacere.

Poiché ogni piacere vuole se stesso, e perciò vuole anche sofferenza! O felicità, o dolore! Oh, spezzati, cuore! Voi uomini superiori, imparatelo, il piacere vuole eternità!

— il piacere vuole l’eternità di tutte le cose, vuole profonda, profonda eternità!


 
Capitolo 12
Imparaste dunque il mio canto? Indovinaste che cosa vuole? Orsù! Orsù! Voi uomini superiori, cantate dunque il mio canto circolare!

Cantate voi ora il canto il cui nome è «ancora una volta», il cui senso è «per tutta l’eternità» — cantate, uomini superiori, il canto circolare di Zarathustra!

O uomo! Ascolta!

Che dice la mezzanotte fonda?

«Dormivo, dormivo —,

Da un sogno profondo mi sono destata: —

Il mondo è profondo

Più profondo di quel che il giorno credeva.

Profondo è il suo male —,

Il piacere — più profondo del dolore:

Il male dice: Passa!

Ma ogni piacere vuole eternità —

— vuole profonda, profonda eternità!»


 
Il segno
La mattina dopo questa notte Zarathustra balzò dal suo giaciglio, si cinse i lombi e uscì dalla sua spelonca, ardente e forte come un sole mattutino che esce da scure montagne.

«Tu grande astro», disse egli, come aveva detto un giorno, tu profondo occhio di felicità, che sarebbe tutta la tua felicità se tu non avessi quelli cui risplendi!

E se essi rimanessero nelle loro stanze, mentre tu sei già desto e vieni a noi e doni e dispensi: come se ne adirerebbe il tuo superbo pudore!

Ebbene! Essi dormono ancora, questi uomini superiori, mentre io sono desto: questi non sono i compagni di strada che mi ci vogliono! Non loro attendo quassù sui miei monti.

Alla mia opera mi avvio, al mio giorno: ma essi non intendono quali sono i segni del mio mattino, il mio passo — non è per loro il grido del risveglio.

Essi dormono ancora, nella mia spelonca, il loro sogno beve ancora ai miei ebbri canti. Ma l’orecchio teso ai miei passi, — l’orecchio teso a obbedire è un membro che a loro manca.

— Questo aveva detto Zarathustra al proprio cuore, quando il sole sorgeva: ed ecco egli guardò in alto, interrogativo, poiché udiva sopra di sé l’acuto strido della sua aquila. Bene! esclamò, così mi piace e mi conviene. I miei animali sono desti perché io sono desto.

La mia aquila è desta e come me onora il sole. Con artigli l’aquila afferra la nuova luce. Voi siete i miei veri animali; io vi amo. Ma ancora mi mancano i miei veri uomini!» —

Così parlò Zarathustra; ma accadde in quel momento che egli si trovò all’improvviso come circondato e avvolto da uno stormo d’uccelli svolazzanti, — il fruscio d’ali e l’affollarsi intorno al suo capo era tale che egli chiuse gli occhi. E, in verità, era scesa su di lui come una nube, come una nube di saette che si rovesci sopra un nuovo nemico. Ma ecco che era invece una nube d’amore, e su di un nuovo amico.

«Che mi sta succedendo?» pensò Zarathustra nel suo cuore stupefatto e si abbandonò lentamente a sedere sulla grande pietra che si trovava accanto all’ingresso della sua spelonca. Ma mentre egli agitava le mani intorno a sé, sopra e sotto di sé, per respingere la tenerezza degli uccelli, ecco che gli accadde una cosa ancor più strana: senz’avvedersene immerse la mano in una folta, calda criniera; e subito risuonò davanti a lui un ruggito, — un mite lungo ruggito di leone —

«Il segno viene» disse Zarathustra, e il suo cuore si trasformò. E in verità, quando davanti a lui si fece di nuovo chiaro, ai suoi piedi giaceva una possente fiera gialla che gli premeva il capo contro le ginocchia, e tanto era l’amore che non sapeva staccarsi da lui e faceva come un cane che abbia ritrovato il suo vecchio padrone.

Ma i colombi non erano nel loro amore meno fervidi del leone; e ogni volta che un colombo volando sfiorava il muso del leone, il leone scuoteva il capo e si meravigliava e rideva.

Di fronte a tutto ciò Zarathustra disse soltanto una parola: I miei figli sono vicini, i miei figli! — quindi ammutolì. Ma il suo cuore si era sciolto e dai suoi occhi sgorgavano lacrime che gli cadevano sulle mani. Ed egli non badò più a nulla e rimase seduto, immobile e senza più respingere gli animali. I colombi volavano avanti e indietro e gli si posavano sulla spalla e gli carezzavano i capelli bianchi e non si stancavano di manifestare la loro tenerezza e il loro giubilo. E il forte leone leccava tutte le lacrime che cadevano sulle mani di Zarathustra con un timido brontolio. Così facevano questi animali.

Tutto ciò durò lungo tempo o anche breve tempo: poiché a dire il vero, per simili cose su questa terra il tempo non esiste. — Ma intanto nella grotta di Zarathustra si erano destati gli uomini superiori ed avevano formato un corteo per andare incontro a Zarathustra e porgergli il saluto del mattino: poiché al loro risveglio avevano scoperto ch’egli non era più tra loro. Ma quando giunsero sulla soglia della spelonca e il rumore dei loro passi li precedette, il leone s’adombrò terribilmente, si staccò d’un balzo da Zarathustra e si slanciò, con selvaggi ruggiti verso la spelonca: e gli uomini superiori, quando l’udirono ruggire, cacciarono un grido come da una bocca sola e fuggirono indietro e in un attimo erano scomparsi.

Ma Zarathustra, stranito e scosso, si levò da sedere, si guardò intorno, interrogò il suo cuore, rifletté e si trovò solo. «Che ho udito?» disse alla fine, lentamente «che mi è accaduto?»

E già raffiorava il ricordo, ed egli afferrò con un solo sguardo tutto quello che era accaduto fra ieri e oggi. «Questa è ben la pietra», disse ravviandosi la barba «sulla quale ero seduto ieri mattina; e qui si accostò a me il profeta, e qui udii per la prima volta il grido che or ora ho udito, il grande grido d’aiuto.

O voi, uomini superiori, era della vostra miseria che quel vecchio profeta ieri mattina mi profetava, —

— alla vostra miseria voleva sedurmi e tentarmi: o Zarathustra, mi disse, vengo a sedurti al tuo ultimo peccato.

Al mio ultimo peccato? esclamò Zarathustra e rise irato della sua stessa parola che cosa mi fu riservato come mio ultimo peccato?»

— E ancora una volta Zarathustra sprofondò in se stesso e si sedette sulla grande pietra e si mise a riflettere. All’improvviso balzò in piedi, —

«Compassione! La compassione per l’uomo superiore!» gridò, e il suo volto si fece di bronzo. «Ebbene! Ciò — ha avuto il suo tempo!

Il mio dolore e la mia compassione — che importano!

Aspiro forse alla felicità? Io aspiro alla mia opera!

Orsù! Il leone è venuto, i miei figli sono vicini, Zarathustra è maturato, la mia ora è venuta: —

Questo è il mio mattino, il mio giorno incomincia: alzati, alzati, grande meriggio!»

Così parlò Zarathustra e abbandonò la sua spelonca, ardente e forte come un sole mattutino che esce da scure montagne.


 

Please, log in and verify your email.