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Umano, troppo umano
Friedrich Wilhelm Nietzsche

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Content
Prefazione
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
PARTE PRIMA. Delle prime e ultime cose
1.
2.
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4.
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33.
34.
PARTE SECONDA. Per la storia dei sentimenti morali
35.
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39.
40.
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PARTE TERZA. La vita religiosa
108.
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142.
143.
144.
PARTE QUARTA. Dall'anima degli artisti e degli scrittori
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PARTE QUINTA. Indizi di cultura superiore e inferiore
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292.
PARTE SESTA. L'uomo nel rapporto con gli altri
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PARTE SETTIMA. La donna e il bambino
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PARTE OTTAVA. Uno sguardo allo Stato
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PARTE NONA. L'uomo solo con se stesso
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637.
638.
Tra amici. Un epilogo
1.
2.
 
Prefazione

 
1.
Mi è stato detto abbastanza spesso, e sempre con gran meraviglia, che in tutti i miei scritti, dalla «Nascita della tragedia» sino al recente «Preludio di una filosofia del futuro», ci sarebbe qualcosa di comune e di caratteristico: essi conterrebbero tutti, mi si è detto, lacci e reti per uccelli imprudenti e quasi una costante, nascosta istigazione a sovvertire consueti apprezzamenti e apprezzate consuetudini. Come? Tutto sarebbe solo umano, troppo umano? Con un tal sospiro si uscirebbe dai miei scritti, non senza una sorta di orrore e di sfiducia persino contro la morale, anzi parecchio tentati e spronati a fare per una volta i patrocinatori delle cose peggiori, come se esse fossero forse solo le meglio calunniate. I miei scritti sono stati definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente anche del coraggio, anzi dell'audacia. In effetti, io stesso non credo che qualcuno abbia mai guardato nel mondo con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio: e chi indovini solo alcune delle conseguenze insite in ogni profondo sospetto, qualcosa dei brividi e delle paure dell'isolamento cui è condannato chiunque sia affetto da una assoluta diversità di sguardo, capirà anche quanto spesso io, per riposarmi di me stesso, quasi per dimenticare anche solo brevemente me stesso, abbia cercato un rifugio qualunque — in una qualche ammirazione, o ostilità, o scientificità o leggerezza o stupidità; e anche perché io, quando non trovavo ciò di cui avevo bisogno, dovessi per forza procurarmelo artificialmente, falsificandolo, inventandolo (e che altro hanno fatto mai i poeti? e a che scopo esisterebbe un'arte nel mondo?). Ma ciò che mi è sempre stato estremamente necessario, per curarmi e ristabilirmi, era credere di non essere solo a tal punto, di non vedere da solo — un incantevole sospetto di affinità e di uguaglianza nel vedere e nel desiderare, un acquietarmi nella fiducia di un'amicizia, una cecità a due senza sospetti e punti interrogativi, un godere dei primi piani, delle superfici, di quanto è vicino, vicinissimo, di tutto ciò che ha colore, pelle e appariscenza. Forse a tal riguardo si potrebbe accusarmi di «artificiosità», di raffinata abilità a batter moneta falsa: ad esempio, che io abbia scientemente e volutamente chiuso gli occhi di fronte alla cieca volontà di morale di Schopenhauer, in un tempo in cui avevo già una visione abbastanza chiara della morale; e ancora, che mi sia ingannato sull'incurabile romanticismo di Richard Wagner, come se esso fosse un principio e non una fine; e così pure per i greci, e così per i tedeschi e il loro futuro - e non ci sarebbe ancora un'intera lunga lista di questi «così pure?». Ma ammesso anche che tutto ciò sia vero e mi venga rinfacciato a buon motivo, che ne sapete voi, che cosa ne potete sapere, quanta astuzia dell'istinto di conservazione, quanta ragionevolezza e superiore precauzione siano contenuti in questo auto-inganno — e quanta falsità mi sia ancora necessaria per poter continuare a permettermi il lusso della veridicità? Basta, io sono ancora vivo, e la vita non è un'invenzione della morale: essa vuole inganno, essa vive di quello... ma, non è vero?, ecco che ricomincio da capo a fare quel che ho sempre fatto, io vecchio immoralista e uccellatore, e faccio discorsi immorali, extra-morali, «al di là del bene e del male».


 
2.
Così una volta, quando ne ebbi bisogno, mi inventai anche gli «spiriti liberi», ai quali è dedicato questo libro malinconico e coraggioso che si intitola «Umano, troppo umano»: simili «spiriti liberi» non esistono, non esistevano — ma allora avevo bisogno, come ho detto, della loro compagnia per restare di buon umore in mezzo a cose cattive (malattia, solitudine, estraneità, acedia, inattività), come buoni compagni e fantasmi, coi quali si parla e si ride quando si ha voglia di parlare e di ridere, ma che si mandano al diavolo quando diventano noiosi; come risarcimento per la mancanza di amici. Che, prima o poi, tali spiriti liberi possano esistere realmente, che la nostra Europa possa avere, tra i suoi figli di domani e dopo, tali compagni intrepidi e allegri, corporei e tangibili e non solo, come nel mio caso, schemi e giochi d'ombre da romiti, di questo vorrei essere l'ultimo a dubitare. Li vedo già venire, lentamente, lentamente; e potrò forse contribuire ad accelerarne l'avvento descrivendo in anticipo sotto quali destini li vedo nascere, per quali vie li vedo giungere?


 
3.
Si può presumere che uno spirito nel quale il tipo del «libero spirito» sia destinato a giungere a piena e dolcissima maturazione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione, e che esso prima apparisse uno spirito tanto più legato e costretto per sempre al suo cantuccio e alla sua colonna. Che cosa lega più saldamente? Quali vincoli è quasi impossibile infrangere? Per uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: il rispetto, che è proprio della gioventù, il timore e la sensibilità per tutto ciò che è da sempre venerato e ritenuto degno, la gratitudine per il terreno da cui sono cresciuti, per la mano che li ha guidati, per il santuario dove hanno imparato a pregare — i loro stessi momenti più alti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più duraturo. Per simili incatenati la grande liberazione giunge improvvisa, come una scossa di terremoto: a un tratto la giovane anima viene scossa, strappata via, divelta — né capisce essa stessa che cosa stia accadendo. Un impulso e un impeto la dominano e divengono per lei come l'ordine di un padrone; si destano una volontà, un desiderio di andar via, non importa dove, ad ogni costo; una prepotente, pericolosa avidità di conoscere un mondo mai scoperto arde e divampa in tutti i suoi sensi. «Piuttosto morire che vivere qui», dice una voce imperiosa e seducente: e questo «qui», questo «a casa» è tutto quello che sinora la giovane anima aveva amato! Una paura e una diffidenza improvvisa verso ciò che essa amava, un lampo di disprezzo verso quel che per essa significava «dovere», un desiderio ribelle, arbitrario, vulcanicamente irruente di partire, allontanarsi, straniarsi, raffreddarsi, rinsavire, gelarsi, un odio per l'amore, forse un gesto e uno sguardo sacrileghi indietro, verso ciò che essa sinora aveva venerato e amato, forse un rossore di vergogna per quel che ha appena fatto, e insieme un'esultanza per averlo fatto, un ebbro, esultante brivido interiore nel quale si rivela una vittoria — una vittoria? su che cosa? su chi? una vittoria enigmatica, ricca di domande, problematica, ma pur sempre la prima vittoria: simili cose brutte e dolorose appartengono alla storia della grande liberazione. Questa prima esplosione di forza e di volontà di autodeterminazione, di auto-posizione di valori, questo volere una volontà libera, è allo stesso tempo anche una malattia che può distruggere l'uomo: e questa malattia si esprime nei selvaggi tentativi e bizzarrie con cui l'affrancato, il liberato cerca ora di dimostrare a se stesso la propria signoria sulle cose! Si aggira intorno con animo crudele, con inappagata bramosia; ciò che egli rapina, deve scontare su di sé la pericolosa tensione del suo orgoglio; egli distrugge ciò che lo affascina. Con un riso cattivo egli rovescia ciò che scopre e trova protetto da un qualche pudore; vuol sperimentare come appaiono queste cose quando le si rovescia. C'è arbitrio, e gusto dell'arbitrio, quando talvolta egli volge il suo favore a ciò che sino allora godeva di cattiva fama — quando, curioso e tentatore, striscia attorno a quanto c'è di più proibito. Sullo sfondo dei suoi sforzi e del suo vagabondare—perché egli gira inquieto e senza meta come in un deserto — si erge il punto interrogativo di una curiosità sempre più rischiosa. «Non si possono sovvertire tutti i valori? e il bene, non è forse il male? e dio non è una raffinata invenzione del diavolo? In fondo, forse, non è tutto falso? E se noi siamo ingannati, non siamo forse, appunto per questo, anche ingannatori? non dobbiamo essere anche degli ingannatori?» — tali sono i pensieri che lo conducono e lo seducono, sempre più in là, sempre più lontano. Lo circonda e lo stringe la solitudine, sempre più minacciosa, soffocante, angosciosa, dea terribile e mater saeva cupidinum — ma oggi, chi sa cosa sia la solitudine?...


 
4.
Da questo morboso isolamento, dal deserto di tali anni di esperimenti, ancor lungo è il cammino per giungere a quella enorme e dirompente sicurezza e salute, che non può fare a meno della stessa malattia, come strumento ed esca della conoscenza; per giungere a quella matura libertà dello spirito che è dominio di sé e disciplina del cuore e insieme la via per molti e opposti modi di pensare — a quella interiore amplitudine e incontentabilità che deriva dall'eccessiva ricchezza ed esclude il pericolo che lo spirito si perda, invaghendosene, nei suoi propri sentieri e, inebriato, resti fermo in un qualche angolo; sino a quella sovrabbondanza di forze plasmatrici, risanatrici, ricostitutrici che è appunto il segno della grande salute, sovrabbondanza che conferisce allo spirito libero il pericoloso privilegio di poter vivere dell'esperimento e di potersi dare all'avventura: il privilegio dello spirito libero che si fa maestro! In mezzo vi saranno lunghi anni di convalescenza, anni pieni di variopinte trasformazioni, dall'incanto doloroso, dominati e guidati da una tenace volontà di guarigione che spesso già osa prender l'abito della salute. C'è in essi uno stato intermedio, che un uomo di tal destino ricorderà più tardi non senza commozione: gli sono propri una pallida delicata luce e una solare felicità, un sentimento di aver acquisito libertà e fierezza d'uccello, e anche una visione aerea delle cose; qualcosa di diverso, che nasce dalla combinazione di curiosità e di lieve disprezzo. Uno «spirito libero»: questa fredda parola fa bene a chi è in quello stato, quasi riscalda. Si vive, sciolti ormai dalle catene dell'amore e dell'odio, senza sì e senza no, liberamente avvicinandosi e allontanandosi, ma preferendo sgusciar via, sottrarsi, sfarfalleggiare, volando ancora via, ancora in alto; si è viziati, come chiunque abbia visto una volta sotto di sé una varietà immensa di cose — e ci si viene a contrapporre a chi si preoccupa di cose che non lo riguardano. In realtà, riguardano lo spirito libero ormai solo quelle cose — e quante! — che non lo preoccupano più...


 
5.
Un passo avanti nella guarigione: e lo spirito libero si accosta di nuovo alla vita, anche se lentamente, quasi a malincuore, con diffidenza. Intorno a lui tutto torna ad essere più caldo, più solare; il sentimento di sé e degli altri si acuisce, e brezze di ogni sorta spirano intorno a lui. Ha quasi la sensazione che solo ora i suoi occhi si aprano a ciò che è vicino. È stupito, e siede in silenzio: dov'era dunque? Queste cose vicine e vicinissime, come gli appaiono mutate! di quale lanugine e incanto si sono rivestite nel frattempo! Egli volge indietro lo sguardo con riconoscenza — riconoscenza per le sue peregrinazioni, per la sua durezza ed autoestraneamento, per il suo guardar lontano e i suoi voli d'uccello nelle fredde altezze. Quanto è bene che non sia rimasto sempre «a casa», sempre «presso di sé», come un timido e ottuso perdigiorno! Egli è stato fuori di sé: non v'è dubbio. Solo ora egli vede se stesso, e quali sorprese non vi scopre! quali brividi mai provati! Quale felicità, persino nella stanchezza della vecchia malattia, nelle ricadute del convalescente! Che piacere prova, a sedere in silenziosa sofferenza, a intessere una trama di pazienza, a giacere al sole! Chi può capire meglio di lui la gioia dell'inverno, di una macchia di sole sul muro? Sono gli animali più riconoscenti del mondo, e anche i più umili, questi convalescenti e lucertole già mezzo rivolti alla vita: — tra essi v'è chi non lascia passar giorno senza appendere alla sua scia un piccolo inno di sole. E, parlando seriamente: è una cura radicale contro ogni pessimismo (che, com'è noto, è il cancro dei vecchi idealisti e dei bugiardi) ammalarsi al modo di questi spiriti liberi, restar lungamente malati e poi, ancor più lentamente, più lentamente, ritornar sani, o meglio «più sani». V'è saggezza, saggezza di vita, nel prescriversi a lungo la salute stessa a piccole dosi.


 
6.
In quel periodo può infine accadere, tra i bagliori improvvisi di una salute ancora irruente e capricciosa, che allo spirito libero, sempre più libero, si cominci a svelare il mistero di quella grande liberazione, che sino a quel momento aveva atteso, oscuro, problematico e quasi intoccabile, nella sua memoria. Se a lungo egli quasi non aveva osato chiedersi: «Perché così isolato, così solo? rinunciando a tutto quanto veneravo, persino alla disperazione? perché questa durezza, questa diffidenza, questo odio per le mie stesse virtù?» — ora osa, e interroga a voce spiegata, e già ode qualcosa di simile a una risposta. «Dovevi diventare signore di te, signore anche delle tue virtù. Prima esse ti dominavano: ora possono solo essere uno strumento in mano tua, accanto ad altri strumenti. Dovevi acquistar potere sui tuoi pro e contro, e imparare a innestarli e disinnestarli a seconda del tuo scopo superiore. Dovevi imparare a capire quanto c'è di prospettico in ogni definizione di valore — lo spostamento, la distorsione, e l'apparente teleologia degli orizzonti e quanto altro fa parte del prospettico; e anche quel tanto di stupidità che si riferisce a ogni contrapposizione di valori, e tutto lo scapito intellettuale con cui si paga ogni pro e ogni contro. Dovevi imparare a capire la necessaria ingiustizia insita in ogni pro e contro, l'ingiustizia come elemento inscindibile della vita, e la vita stessa come condizionata dalla visione prospettica, e dalla sua ingiustizia. Dovevi soprattutto vedere con i tuoi occhi dove l'ingiustizia raggiunge il massimo grado: ossia là, dove la vita è meno sviluppata, più angusta, manchevole, rozza, e ciononostante non può fare a meno di porsi a scopo e misura delle cose e, per amore di sopravvivenza, di sbriciolare in segreto, minutamente e senza posa, mettendolo in questione, tutto quanto è più elevato, più grande e ricco; dovevi vedere con i tuoi occhi il problema della gerarchia, e come la forza, il diritto e l'ampiezza della prospettiva si sviluppino insieme. Dovevi...» basta, ormai lo spirito libero sa a quale «dovere» ha obbedito, e anche di che cosa ora è capace, e che cosa solo ora gli è consentito...


 
7.
In siffatto modo lo spirito libero dà risposta circa l'enigma di quella liberazione e, generalizzando il suo caso, finisce per dare di questa sua esperienza il seguente giudizio. «Come è successo a me, egli si dice, dovrà succedere a ogni uomo nel quale un compito voglia prender corpo e "venire al mondo".» La segreta forza e necessità di quel compito governerà sopra ed entro i suoi destini particolari, come una gravidanza insospettata — molto prima che egli ne abbia preso coscienza e ne conosca il nome. La nostra destinazione dispone di noi anche se ancora non la conosciamo; è il futuro che stabilisce la regola del nostro presente. Posto che sia quello della gerarchia, il problema di cui noi spiriti liberi possiamo dire: è il nostro problema, solo ora, giunti al mezzodì della vita, noi comprendiamo quanti preparativi, vie indirette, prove, tentazioni e travestimenti il problema abbia richiesto, prima di poter salire sino a noi, e come noi abbiamo dovuto sperimentare nell'anima e nel corpo i più molteplici e contraddittori stati di miseria e di felicità, come avventurieri e circumnavigatori di quel mondo interiore che si chiama «uomo», come misuratori di ogni essere «più in alto» e di ogni «sovrapporsi» reciproco che ugualmente caratterizza P«uomo», penetrando ovunque, quasi senza paura, nulla disdegnando, nulla perdendo, assaporando tutto, tutto purificando e per così dire filtrando dal casuale — prima di poter finalmente dire, noi spiriti liberi: «Ecco, un nuovo problema! Ecco una lunga scala sui cui pioli noi stessi siamo stati seduti e siamo saliti — che una volta noi stessi siamo stati ! Ecco un "più alto", un "più profondo", un "sotto di noi", un ordinamento lunghissimo, una gerarchia, che noi vediamo: ecco — il nostro problema!».


 
8.
A nessuno psicologo e indovino resterà celato nemmeno per un istante a qual punto dell'evoluzione qui sopra descritta questo libro appartenga (o sia collocato). Ma oggi, dove sono gli psicologi? In Francia, certo; forse in Russia; ma in Germania no davvero. Non mancano motivi per cui i tedeschi di oggi potrebbero ascriversi tale assenza ad onore: cosa abbastanza triste per uno che, a questo proposito, è non-tedesco per indole e per educazione! Questo libro tedesco, che ha saputo trovar lettori in una vasta cerchia di paesi e di popoli — è in giro da quasi dieci anni — e deve intendersi in qualche modo di musica e arte del flauto, se ha potuto sedurre all'ascolto anche il più scontroso orecchio straniero, ebbene, proprio in Germania questo libro è stato letto con maggior distrazione, e ascoltato nel modo peggiore: perché questo? «Esso esige troppo, mi è stato risposto, si rivolge a uomini non pungolati da pesanti doveri, vuole sensi sottili e raffinati, ha bisogno del sovrappiù, sovrappiù di tempo, di serenità di cielo e di cuore, di otium nel senso più audace: tutte belle cose che noi tedeschi di oggi non possediamo, e che quindi non possiamo neanche dare.» A una risposta del genere, la mia filosofia mi consiglia di tacere e non domandare oltre; giacché in certi casi, dice il proverbio, si rimane filosofi solo a patto di tacere.

Nizza, primavera del 1886


 
PARTE PRIMA. Delle prime e ultime cose

 
1.
Chimica dei concetti e dei sentimenti. — I problemi filosofici assumono, oggi, quasi sotto ogni aspetto, la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo contrario, ad esempio il razionale dall'irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall'illogicità, una contemplazione disinteressata da una volontà bramosa, un vivere altruistico dall'egoismo, la verità dall'errore? La filosofia metafìsica ha cercato finora di superare questa difficoltà negando che l'una cosa potesse nascere dall'altra e supponendo, per le cose considerate superiori, un'origine magica, direttamente dal nucleo essenziale della «cosa in sé». Di contro la filosofia storica, che ormai non si può più pensare separata dalla scienza naturale ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha stabilito in singoli casi (ed è da supporre che tale sarà la sua conclusione per tutti i casi) che non si tratta di opposti, se non nell'usuale esagerazione delle concezioni popolari o metafìsiche, e che questa contrapposizione si fonda su un errore della ragione: stando ad essa non esiste, a rigor di termini, né un agire non egoistico, né una contemplazione affatto disinteressala; l'uno e l'altra sono soltanto sublimazioni, nelle quali l'elemento di base appare quasi volatilizzato, e rivela la sua presenza solo ad una osservazione più sottile. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e che allo stadio attuale delle singole scienze può esserci concesso, è una chimica delle idee e dei sentimenti, morali, religiosi, estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi nel grande e piccolo commercio con la cultura e la società e persino nella solitudine: ma che accadrebbe, se questa chimica finisse per concludere che anche in questo campo i colori più belli sono quelli che si ricavano da una materia umile, e persino spregiata? Quanti avranno voglia di seguire tali indagini? L'umanità ama fugare dalla propria mente gli interrogativi sull'origine e sugli inizi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l'inclinazione contraria?


 
2.
Difetti ereditari dei filosofi. — Tutti i filosofi hanno in comune il difetto di partire dall'uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso la sua analisi. «L'uomo» si delinea automaticamente ai loro occhi come una aeterna veritas, come un essere sempre uguale a se stesso in ogni vortice, come una sicura misura delle cose. Ma tutto quello che il filosofo enuncia sull'uomo non è altro che una testimonianza sull'uomo di un periodo quanto mai limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi: alcuni di essi arrivano persino a prendere di punto in bianco la più recente configurazione dell'uomo, quale è venuta delineandosi sotto l'influsso di determinate religioni e di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si deve partire. Non vogliono imparare che l'uomo si è fatto, che anche la capacità di conoscere si è fatta: mentre alcuni di loro da questa capacità di conoscere si fanno addirittura inventare il mondo intero. Ora, tutto l'essenziale del progredire umano è avvenuto in tempi remoti, molto precedenti a quei quattromila anni che noi approssimativamente conosciamo e nei quali l'uomo non può essersi cambiato di molto. Ma il filosofo vede nell'uomo attuale «istinti», e presume che questi faccian parte dei fatti immutabili dell'uomo e possano pertanto fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale; l'intera teleologia si basa sul fatto che si parla dell'uomo degli ultimi quattromila anni come di un uomo eterno, verso il quale convergono naturalmente, sin dal loro inizio, tutte le cose del mondo. Ma tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute. Perciò, da ora in poi, è necessario il filosofare storico, e, con esso, la virtù della modestia.


 
3.
Valutazione delle verità non appariscenti. — È segno distintivo di una cultura superiore valutare le verità piccole, non appariscenti, scoperte con metodo rigoroso, più degli errori gratificanti e abbaglianti nati da epoche e uomini metafìsici e artistici. Sulle prime si ha per esse un moto di scherno, come se non stessero a fronte cose di ugual legittimità: quanto modeste, semplici, sobrie, anzi apparentemente avvilenti si pongono quelle, tanto belli, fastosi, esaltanti, forse persino beatificanti stanno questi. Ma ciò che è conquistato con fatica, ciò che è durevole, e perciò stesso anche ricco di conseguenze per ogni ulteriore conoscenza, è tuttavia superiore: attenersi ad esso è virile e indica coraggio, schiettezza, sobrietà. A poco a poco non solo il singolo, ma l'intera umanità sarà elevata a questa virilità, quando finalmente si sarà avvezza a considerare superiori le conoscenze solide, durevoli, e avrà perduto ogni fede nell'ispirazione e nelle prodigiose rivelazioni della verità. A tutta prima gli adoratori delle forme, con il loro criterio del bello e del sublime, avranno senz'altro buoni motivi di scherno, non appena la valutazione delle verità non appariscenti e lo spirito scientifico cominceranno a imporsi: ma solo perché i loro occhi non si sono ancora aperti all'incanto della forma più semplice, oppure perché gli uomini educati in quello spirito non ne saranno, ancora per lungo tempo, intimamente e pienamente compenetrati, così da continuare inconsciamente a imitare forme vecchie (e abbastanza male, come chi faccia una cosa di cui non gli importi più tanto). Una volta lo spirito non era preso da un pensiero rigoroso, e la sua serietà consisteva nell'escogitare simboli e forme. Ora è diverso: quella serietà del simbolico è divenuta il contrassegno della cultura inferiore. Come le nostre stesse arti vanno facendosi sempre più intellettuali, i nostri sensi più spirituali e come, ad esempio, oggi si giudica in modo affatto diverso da cent'anni fa che cosa suoni bene ai sensi: così anche le fonile della nostra vita diventano sempre più spirituali, per un occhio del tempo antico forse più brutte, ma solo perché questo non è in grado di vedere come il regno della bellezza interiore, spirituale, si faccia sempre più vasto e profondo, e sino a che punto lo sguardo intelligente oggi possa per tutti noi valere più della più bella struttura fìsica e della più sublime architettura.


 
4.
Astrologia e affini. — È verosimile che gli oggetti del sentire religioso, morale ed estetico appartengano tutti soltanto alla superficie delle cose, mentre l'uomo ama credere di toccare, con essi, quanto meno il cuore del mondo; s'inganna per il fatto che quelle cose lo rendono tanto beato o tanto infelice, e mostra dunque qui la stessa presunzione che nell'astrologia. Questa infatti sostiene che le costellazioni ruotino intorno al destino dell'uomo; ma l'uomo morale parte dal presupposto che ciò che gli sta più profondamente a cuore debba anche formare l'essenza e il cuore delle cose.


 
5.
Fraintendimento del sogno. — Ai tempi di una cultura rozza e primordiale l'uomo credeva di conoscere nel sogno un secondo mondo reale; qui sta l'origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe trovato alcun motivo per scindere il mondo. Anche la scomposizione in corpo e anima è connessa a questa antichissima concezione del sogno, e così pure l'ipotesi di un'apparente corporeità dell'anima, dunque l'origine di ogni credenza negli spiriti e verosimilmente anche della fede negli dèi. «Il morto continua a vivere, giacché appare in sogno al vivo»: così si concluse allora, per molti millenni.


 
6.
Lo spirito della scienza potente solo nella parte, non nel tutto. — I campi separati, più piccoli, della scienza vengono trattati in modo affatto oggettivo: le grandi scienze generali invece, considerate come un tutto, fan salire alle labbra una domanda, invero assai poco oggettiva: a che scopo? per quale utilità? Per questa preoccupazione dell'utilità esse, intese come un tutto, vengono trattate meno impersonalmente che non nelle loro singole parti. Nella filosofia addirittura, in quanto vertice dell'intera piramide del sapere, viene involontariamente posta la questione dell'utilità della conoscenza in generale, e ogni filosofia tende inconsciamente ad ascriverle la massima utilità. Per questo esistono in tutte le filosofie tanti voli metafisici e tanto orrore per i risultati apparentemente irrilevanti della fisica; infatti l'importanza della conoscenza per la vita deve apparire quanto più grande possibile. Qui sta l'antagonismo tra i singoli campi della scienza e la filosofia. Quest'ultima si prefigge lo stesso scopo dell'arte: dare alla vita e alle azioni la massima profondità e il massimo significato; per prima cosa si cerca nient'altro che la conoscenza, qualunque cosa possa derivarne. Non c'è stato ancora filosofo, nelle cui mani la filosofìa non sia diventata un'apologia della conoscenza; su questo punto almeno sono tutti ottimisti, che ad essa cioè debba venir attribuita la massima utilità. Tutti loro vengono tiranneggiati dalla logica: e questa è, per sua natura, ottimismo.


 
7.
I guastafeste nella scienza. — La filosofia si separò dalla scienza quando pose la domanda: qual è quella conoscenza del mondo e della vita nella quale l'uomo vive più felice? Questo accadeva nelle scuole socratiche: con il punto di vista della felicità si legarono le vene alla ricerca scientifica - e lo si fa ancor oggi.


 
8.
Spiegazione pneumatica della natura. — La metafisica spiega la scrittura della natura in modo per così dire pneumatico, come la chiesa e i suoi dottori facevano una volta con la Bibbia. Occorre molta intelligenza per applicare alla natura lo stesso genere di severa esegesi che oggi i filologi hanno creato per tutti i libri: con l'intento semplicemente di capire quel che il testo vuol dire, ma non di intuire o addirittura presupporre un doppio senso. Ma come, persino per i libri, la cattiva esegesi non è affatto superata del tutto e nella migliore società colta ci si continua a imbattere in residui di interpretazioni allegoriche o mistiche, così è anche nei riguardi della natura — anzi molto peggio.


 
9.
Mondo metafisico. — È vero, potrebbe esistere un mondo metafisico: l'assoluta possibilità di esso non può essere negata. Noi vediamo tutte le cose con la testa dell'uomo, né questa possiamo tagliarla; ma resta pur sempre la domanda: che cosa resterebbe del mondo, se tuttavia l'avessimo tagliata? Questo è un problema squisitamente scientifico e non molto atto a preoccupare gli uomini; ma tutto ciò che sinora ha reso loro preziose, terrificanti, piacevoli le ipotesi metafisiche, ciò che le ha generate, è passione, errore e autoinganno; i peggiori metodi di conoscenza, non i migliori, hanno insegnato a credere in esse. Una volta scoperti questi metodi come fondamento di tutte le metafisiche e le religioni esistenti, le si è anche confutate. Allora rimane pur sempre quella possibilità; ma con essa non si può far nulla, per non dire poi che dal filo sottilissimo di essa si dovrebbero far dipendere felicità, salute e vita. Non si potrebbe infatti dire del mondo metafisico, se non che esso è un essere-Altro, a noi inaccessibile, inafferrabile; sarebbe una cosa con proprietà negative. Anche se l'esistenza di un tale mondo fosse ben dimostrata, una cosa sarebbe pur sempre certa, che la conoscenza di esso sarebbe la più indifferente di tutte le conoscenze: ancor più indifferente di quanto non debba essere, per chi naviga in un mare tempestoso, la conoscenza dell'analisi chimica dell'acqua.


 
10.
Innocuità della metafisica nel futuro. — Una volta che religione, arte e morale saranno descritte nel loro sorgere in modo che le si possa perfettamente spiegare senza ricorrere, all'inizio e nel corso di questo processo, all'ipotesi di interventi metafisici, cesserà il fortissimo interesse per il problema puramente teoretico della «cosa in sé» e dell'«apparenza». Infatti, comunque stiano le cose, con religione, arte e morale non tocchiamo l'«essenza del mondo in sé»; noi siamo nell'ambito della rappresentazione, né alcuna «intuizione» può portarci oltre. In tutta tranquillità si rimetterà alla fisiologia e alla storia dell'evoluzione degli organismi e delle idee il problema di come la nostra immagine del mondo possa essere tanto diversa dalla dischiusa essenza del mondo.


 
11.
La lingua come presunta scienza. — Il significato della lingua per l'evoluzione della cultura consiste nel fatto che in essa l'uomo pose un proprio mondo accanto all'altro, un luogo che egli riteneva tanto solido da potere, appoggiandosi ad esso, scardinare il resto del mondo e farsene signore. In quanto l'uomo ha creduto, per lungo tempo, ai concetti e ai nomi delle cose come ad aeternae veritates, ha acquisito quell'orgoglio con il quale si è elevato al di sopra della bestia: nella lingua egli riteneva di possedere veramente la coscienza del mondo. Il plasmatore del linguaggio non era così modesto da credere di dare semplicemente designazioni alle cose, egli immaginava piuttosto di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose; in effetti la lingua è il primo gradino dello sforzo verso la scienza. Anche qui, è là fede nella verità trovata quella da cui sono sgorgate le più poderose sorgenti di energia. Molto più tardi — soltanto ora — agli uomini comincia a balenare l'idea di aver propagato, con la loro fede nel linguaggio, un errore mostruoso. Fortunatamente è troppo tardi perché ciò possa far regredire lo sviluppo della ragione, che si fonda appunto su quella fede. Anche la logica si basa su premesse che non trovano corrispondenza alcuna nel mondo reale, ad esempio sulla premessa dell'uguaglianza delle cose, dell'identità della stessa cosa in momenti diversi: ma tale scienza è nata dalla fede opposta (che cioè nel mondo reale esistano comunque cose simili). Lo stesso accade anche per la matematica, che certo non sarebbe nata se si fosse saputo sin dall'inizio che in natura non esiste una linea esattamente dritta, né un vero cerchio, né una assoluta misura di grandezza.


 
12.
Sogno e cultura. — La funzione cerebrale più compromessa dal sonno è la memoria: non già che essa si interrompa, ma è riportata a quello stato di incompletezza nel quale, in tempi remotissimi dell'umanità, ciascun uomo doveva trovarsi di giorno e da sveglio. Capricciosa e confusa qual è, essa scambia continuamente le cose in base alle più fuggevoli analogie: ma è lo stesso capriccio e la stessa confusione con i quali i popoli antichi inventarono le loro mitologie, e ancor oggi i viaggiatori non mancano di osservare quanto il selvaggio sia incline alla dimenticanza e come il suo spirito, dopo un breve sforzo della memoria, cominci a vacillare e, per mera stanchezza, pronunci menzogne e assurdità. Ma, nel sogno, siamo tutti come quel selvaggio; il cattivo riconoscere e l'erroneo indentificare sono la causa del cattivo dedurre di cui ci rendiamo colpevoli nel sogno: sicché, se ci richiamiamo alla mente un sogno con chiarezza, ci spaventiamo di noi stessi, tanta è la pazzia che si nasconde in noi. La perfetta chiarezza di tutte le rappresentazioni oniriche, la quale ha come presupposto la fede incondizionata nella loro realtà, ci riporta ad antichi stati dell'umanità, quando l'allucinazione era oltremodo frequente e prendeva intere comunità, interi popoli. Dunque, nel sonno e nel sogno, noi eseguiamo ancora una volta il compito dell'umanità primitiva.


 
13.
Logica del sogno. — Nel sonno il nostro sistema nervoso è continuamente stimolato da molteplici cause interne, quasi tutti gli organi secernono e sono in attività, il sangue percorre impetuoso il suo circolo, la posizione del dormiente preme su singole membra, le coperte influenzano in vari modi la sensazione, lo stomaco digerisce e con i suoi movimenti agita altri organi, gli intestini si torcono, la posizione del capo produce insolite situazioni muscolari, i piedi che, scalzi, non premono il suolo, provocano il sentimento dell'insolito come il diverso abbigliamento del corpo: tutto ciò, secondo gradi e mutamenti quotidiani, eccita con la sua eccezionalità l'intero sistema, sino alla funzione cerebrale; lo spirito ha così cento occasioni di stupirsi e di cercare le cause di questa eccitazione: ma il sogno è ricerca e rappresentazione delle cause di quelle sensazioni eccitate, ossia delle cause presunte. Chi ad esempio si cinge i piedi con due strisce di cuoio, può benissimo sognare che attorno ai suoi piedi siano avvolti due serpenti: ciò sarà dapprima una ipotesi, ma subito dopo una fede, accompagnata da una rappresentazione fantastica: «Questi serpenti debbono essere la causa delle sensazioni che io, dormiente, provo», così giudica lo spirito del dormiente. Il passato prossimo, così dedotto, tramite la fantasia eccitata gli diventa presente. Così ognuno sa per esperienza con quanta rapidità colui che sogna intrecci nel suo sogno un suono penetrante che giunga sino a lui, ad esempio un rintocco di campane, il rombo di un cannone, ossia lo spiega a posteriori, cosicché crede di vivere prima le circostanze che producono quel suono, e poi il suono stesso. Ma come accade che lo spirito di chi sogna s'inganna sempre, quello stesso spirito che, durante la veglia, è così freddo, prudente e così scettico circa le ipotesi? al punto che gli basta una prima ipotesi qualsiasi capace di spiegare una sensazione, per credere subito alla sua verità? (Infatti quando sogniamo noi crediamo al sogno come fosse realtà, consideriamo cioè la nostra ipotesi come pienamente dimostrata). — Come, ancora oggi, l'uomo deduce nel sogno, così l'umanità, molti millenni or sono, deduceva anche durante la veglia: la prima causa che si presentava allo spirito per spiegare un qualcosa, che richiedeva una spiegazione, gli bastava e aveva per esso valore di verità. (In modo simile si comportano ancor oggi, a detta dei viaggiatori, i selvaggi). Nel sogno continua ad agire in noi questo antichissimo frammento di umanità, poiché esso è la base sulla quale si è sviluppata, e ancora si sviluppa in ogni uomo, la ragione: il sogno ci riporta a lontani stati della cultura umana e ci fornisce un mezzo per comprenderla meglio. Il pensiero onirico ci è ora così facile per il fatto che noi, durante tratti immensi dello sviluppo umano, siamo stati così bene addestrati a questa forma, fantastica e facile, di trovare una spiegazione nella prima idea che ci venisse in mente. In questo senso il sogno è un riposo per il cervello, il quale durante il giorno deve far fronte alle più severe esigenze di pensiero che una cultura più elevata pone. Anche durante la veglia possiamo osservare un processo affine addirittura come porta e atrio del sogno. Se chiudiamo gli occhi, il nostro cervello produce una quantità di impressioni luminose e di colori, probabilmente come strascico ed eco di tutti quegli effetti di luce che di giorno vi penetrano. Ora, però, l'intelletto (in lega con la fantasia) si affretta ad elaborare quei giochi cromatici, di per sé informi, in determinate figure, forme, paesaggi, gruppi animati. Il vero processo è qui, ancora una volta, una sorta di deduzione dall'effetto alla causa; nel momento in cui lo spirito chiede donde provengano quelle impressioni luminose e quei colori, suppone come cause quelle figure e quelle forme; queste sono per esso il motivo di quei colori e di quelle luci dal momento che, di giorno, ad occhi aperti, è avvezzo a trovare la causa determinante di ogni colore, di ogni impressione luminosa. In questo caso dunque la fantasia gli propone senza sosta delle immagini, appoggiandosi, nel produrle, alle impressioni visive del giorno, e la stessa cosa fa la fantasia onirica: ossia la causa presunta viene dedotta dall'effetto e immaginata dopo l'effetto: tutto ciò con eccezionale rapidità, cosicché in questa circostanza, come in un gioco di prestigio, può generarsi una confusione del giudizio e la successione presentarsi come contemporaneità, anzi come una contemporaneità rovesciata. Da questi processi possiamo rilevare quanto tardi si siano sviluppati un pensiero logico di maggiore acutezza e la rigorosa deduzione di causa ed effetto, se ancor oggi le nostre capacità intellettive e raziocinanti attingono involontariamente a quelle forme primitive di deduzione, e se in questo stato noi trascorriamo quasi la metà della nostra vita. Anche il poeta, l'artista, immagina, alla base dei suoi stati d'animo e dei suoi umori, cause che non sono affatto quelle vere; in questo egli ci ricorda un'umanità più antica, e può aiutarci a capirla meglio.


 
14.
Consonanza. — Ogni stato d'animo più intenso porta con sé una consonanza di sensazioni e stati d'animo affini; essi per così dire frugano dentro la memoria. Con essi, questa si ricorda di qualcosa dentro di noi e prende coscienza di situazioni analoghe e della loro origine. Si formulano così usuali, rapidi collegamenti di sentimenti e di pensieri i quali, se si susseguono con la rapidità del lampo, finiscono per essere percepiti non più come complessi, ma come unità. In questo senso si parla di sentimento morale, di sentimento religioso, come se fossero pure unità: in realtà sono fiumi dalle cento sorgenti e dai cento affluenti. Anche in questo caso, come accade tanto spesso, l'unità della parola non garantisce in nulla l'unità della cosa.


 
15.
Nessun dentro e nessun fuori nei mondo. — Come Democrito trasferì i concetti «sopra» e «sotto» allo spazio infinito, dove essi non hanno alcun senso, così i filosofi in generale trasferiscono il concetto «dentro e fuori» all'essenza e all'apparenza del mondo; pensano che con sentimenti profondi si giunga profondamente nell'intimo, ci si avvicini al cuore della natura. Ma questi sentimenti sono profondi solo in quanto, con essi, si ridestano regolarmente, appena percepibili, complicati gruppi di pensieri che noi chiamiamo profondi; un sentimento è profondo in quanto noi riteniamo profondo il pensiero che vi si accompagna. Ma il pensiero «profondo» può essere tuttavia molto lontano dalla verità, come ad esempio quello metafisico; se dal sentimento profondo si sottraggono gli elementi di pensiero che vi sono mescolati, resta solo il sentimento forte, che a garanzia della conoscenza non offre altro che se stesso, allo stesso modo che una forte fede dimostra solo la propria forza, non la verità del suo oggetto.


 
16.
Fenomeno e cosa in sé. — I filosofi son soliti porsi davanti alla vita e all'esperienza — davanti a ciò che essi chiamano il mondo dei fenomeni — come davanti a un quadro, che sia svolto una volta per tutte e indichi, in modo invariabile e fìsso, lo stesso procedimento: questo procedimento, pensano, bisogna interpretarlo rettamente, per trarne una deduzione sull'essere che ha prodotto il quadro: dunque sulla cosa in sé, che è sempre vista come la ragion sufficiente del mondo dei fenomeni. Di contro, logici più rigorosi, dopo aver acutamente definito il concetto del metafisico come quello del non condizionato, e di conseguenza anche del non condizionante, hanno negato ogni rapporto tra il non condizionato (il mondo metafisico) e il mondo che noi conosciamo: cosicché appunto nel fenomeno non comparirebbe affatto la cosa in sé, e ogni deduzione da quello a questa sarebbe da respingere. Ma sia gli uni che gli altri hanno trascurato la possibilità che quel quadro — ciò che ora per noi uomini si chiama vita ed esperienza — sia divenuto a poco a poco, anzi sia ancora in divenire, e non debba pertanto esser considerato come una grandezza fìssa, dalla quale si possa trarre, o anche solo respingere, una conclusione sul suo autore (la ragion sufficiente). Proprio per il fatto che noi, da millenni, abbiamo guardato nel mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca attrazione, passione o timore, e ci siamo lasciati andare agli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così stupendamente variopinto, terribile, profondo di significato e pieno di anima, ha insomma acquistato colore — ma a colorarlo siamo stati noi: l'intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasposto nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali. Tardi, molto tardi, esso riflette: e ora il mondo dell'esperienza e la cosa in sé gli appaiono così eccezionalmente diversi e separati, che respinge la deduzione da quello a questa — oppure esorta, in maniera tremendamente misteriosa, a rinunciare al nostro intelletto, alla nostra volontà personale: per giungere all'essenziale attraverso il farsi essenziali. Altri dal canto loro hanno raccolto insieme tutti i tratti caratteristici del nostro mondo dei fenomeni — ossia della rappresentazione del mondo da noi ereditata, nata dai deliri di errori intellettuali — e, anziché dichiarare colpevole l'intelletto, hanno accusato l'essenza delle cose come causa di questo carattere effettivo, molto inquietante, del mondo e hanno predicato la redenzione dall'essere. Di tutte queste concezioni si sbarazzerà definitivamente il costante e faticoso processo della scienza, che celebrerà finalmente il suo massimo trionfo in una storia genetica del pensiero, e il cui risultato potrebbe forse giungere fino a questo principio: ciò che noi ora chiamiamo mondo è il risultato di una quantità di errori e di fantasie che, sorti a poco a poco durante tutto lo sviluppo degli esseri organici, sono cresciuti, e sono stati ereditati da noi come tesoro accumulato dell'intero passato: come un tesoro, in quanto su di esso si basa il valore della nostra umanità. In realtà, la scienza rigorosa può liberarci da questo mondo della rappresentazione solo in misura minima — e una cosa diversa non sarebbe affatto augurabile — in quanto non può essenzialmente infrangere la forza di antichissime abitudini del modo di sentire: ma può lentamente e per gradi rischiarare la storia della nascita di quel mondo come rappresentazione, e innalzarci, almeno per qualche istante, al di sopra dell'intero processo. Forse allora ci renderemo conto che la cosa in sé è degna di una omerica risata: che essa sembrava tanto, anzi tutto, mentre in effetti è vuota, ossia vuota di significato.


 
17.
Spiegazioni metafisiche. — Il giovane apprezza le spiegazioni metafisiche perché esse gli indicano, in cose che trovava sgradevoli o spregevoli, qualcosa di altamente significativo; e, se è scontento di sé, questo sentimento si allevia se egli riconosce, in ciò che in sé tanto sprezza, il profondo mistero o la miseria del mondo. Sentirsi irresponsabile, e allo stesso tempo trovare le cose più interessanti: questo è per lui il duplice benefìcio di cui esser grato alla metafisica. Più tardi, invero, diffiderà di ogni sorta di spiegazione metafisica; allora forse si renderà conto che quegli effetti si possono raggiungere, altrettanto bene e più scientificamente, per altra via: che spiegazioni fisiche e storiche producono per lo meno il medesimo sentimento di irresponsabilità, e che quell'interesse alla vita e ai suoi problemi ne risulta forse ancor più ravvivato.


 
18.
Problemi fondamentali della metafisica. — Se mai verrà scritta la storia genetica del pensiero, essa conterrà anche, illuminata di nuova luce, il seguente principio di un eccellente logico: «La legge originaria, generale del soggetto conoscente consiste nell'intima necessità di conoscere ogni oggetto in sé, nella sua essenza, come un oggetto identico a se stesso, dunque esistente di per sé e in fondo sempre uguale e immutabile, in breve come una sostanza». Anche questa legge, che qui è detta «originaria», è divenuta: un giorno si mostrerà come questa tendenza nasca a poco a poco, negli organismi inferiori: come i ciechi occhi di talpa di questi organismi vedano dapprima sempre la stessa cosa; come poi, quando si fanno più marcate le diverse eccitazioni di piacere e dolore, vengano via via distinte varie sostanze, ciascuna però con un solo attributo, ossia con un unico rapporto con un tale organismo. — Il primo gradino del pensiero logico è il giudizio: la sua essenza consiste, secondo quanto hanno stabilito i migliori logici, nella fede. Alla base di ogni fede c'è la sensazione del piacevole o del doloroso in rapporto al soggetto senziente. Una terza, nuova sensazione, risultato delle due singole sensazioni precedenti, è il giudizio nella sua forma più bassa. — A noi esseri organici, in origine, di una cosa non interessa altro se non il suo rapporto con noi in relazione al piacere o al dolore. Tra i momenti in cui diveniamo consapevoli di questo rapporto, gli stati del sentire, stanno quelli della quiete, del non sentire: allora il mondo e tutte le cose ci sono indifferenti, in essi non notiamo cambiamento alcuno (come, ancor oggi, un uomo fortemente interessato a qualcosa non si accorge che qualcuno gli passa accanto). Per la pianta, di norma tutte le cose sono quiete, eterne, uguali a se stesse. Dall'epoca degli organismi inferiori l'uomo ha ereditato la credenza che esistano cose uguali (solo l'esperienza derivata dalla scienza più alta contraddice questa tesi). La credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato, privo di nesso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo. Abbiamo fame, ma da principio non pensiamo che il nostro organismo voglia essere sostentato: quella sensazione sembra manifestarsi senza motivo e senza scopo, si isola e si ritiene arbitraria. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell'uomo — come se fossero però verità fondamentali.


 
19.
Il numero. — L'invenzione delle leggi dei numeri fu fatta in base all'errore, che dominava sin dall'inizio, che esistessero più cose uguali (ma in effetti non c'è nulla di uguale), o almeno che esistessero cose (ma non c'è alcuna «cosa»). L'ipotesi della molteplicità presuppone sempre che ci sia qualcosa che si presenta come molteplice: ma proprio qui già regna l'errore, già qui noi ci fingiamo esseri, unità che non esistono. Le nostre sensazioni di spazio e tempo sono false, perché conducono, se esaminate coerentemente, a contraddizioni logiche. In ogni definizione scientifica noi calcoliamo sempre, inevitabilmente, con alcune grandezze false: ma, essendo queste grandezze per lo meno costanti, come ad esempio la nostra sensazione di tempo e spazio, i risultati della scienza acquistano pur sempre rigore e sicurezza perfetti nel loro nesso reciproco; su di essi si può continuare a costruire, sino a quel termine ultimo in cui l'errata ipotesi di base, quegli errori costanti, entrano in contraddizione con i risultati, come ad esempio nella dottrina degli atomi. Allora ci sentiamo ancor sempre costretti a supporre una «cosa» o un «substrato» materiale che viene mosso, mentre l'intero metodo scientifico ha perseguito appunto il compito di risolvere in movimenti tutto ciò che ha qualità di cosa (che è materiale): anche qui, con la nostra sensazione noi continuiamo a scindere ciò che muove da ciò che è mosso e non usciamo da questo circolo, perché la fede nelle cose è legata sin dall'antichità al nostro essere. Quando Kant dice: «la ragione non crea le sue leggi dalla natura, bensì le impone ad essa», ciò è perfettamente vero riguardo al concetto di natura che noi siamo costretti a collegare ad essa (natura = mondo come rappresentazione, cioè come errore), che è, però, la somma di una quantità di errori dell'intelletto. A un mondo che non sia una nostra rappresentazione, le leggi dei numeri sono affatto inapplicabili: esse valgono solo nel mondo degli uomini.


 
20.
Alcuni gradini all'indietro. — Un livello, certo molto alto, di cultura è raggiunto quando l'uomo supera le idee e le paure superstiziose e religiose e, ad esempio, non crede più ai cari angioletti o al peccato originale, e ha disimparato anche a parlare di salvezza delle anime: giunto a questo grado di liberazione, egli deve ancora superare, con grandissimo sforzo della sua riflessione, la metafisica. Poi però è necessario un movimento all'indietro: egli deve arrivare a una giustificazione storica, come pure psicologica, di tali rappresentazioni, deve riconoscere come di lì sia venuto il massimo incentivo per l'umanità e come, senza questo movimento all'indietro, ci si priverebbe dei migliori risultati sinora raggiunti dall'umanità. Riguardo alla metafisica filosofica, vedo ora che sempre più numerosi sono coloro che han raggiunto la meta negativa (che cioè ogni metafisica positiva sia un errore), ma pochi sono ancora quelli che scendono altri gradini in giù: si deve infatti guardare oltre l'ultimo gradino della scala, non voler restare fermi su di esso. I più illuminati arrivano solo a liberarsi dalla metafisica e a guardare ad essa con superiorità: mentre anche qui, come all'ippodromo, è pur necessario girare al termine della pista.


 
21.
Presumibile vittoria della scepsi. — Facciamo per una volta valere il punto di vista scettico: posto che non esista un altro mondo metafisico, e che tutte le interpretazioni, derivate dalla metafisica, dell'unico mondo che conosciamo siano per noi inservibili, con quali occhi guarderemmo agli uomini e alle cose? È utile meditare su questo, anche se un giorno la questione se Kant o Schopenhauer abbiano dimostrato scientificamente qualcosa di metafisico dovesse venire ricusata. Infatti, per storica probabilità, è possibilissimo che un giorno gli uomini diventino a tale riguardo generalmente scettici; allora la questione sarà: come si configurerà la società umana sotto l'influsso di un tale modo di pensare? Forse, la dimostrazione scientifica di un qualche mondo metafisico è già così difficile, che l'umanità non si libererà più dalla diffidenza nei suoi confronti. E se si diffida della metafisica, in complesso le conseguenze saranno le stesse che se la si fosse direttamente confutata e non fosse più lecito credere in essa. In ambedue i casi, la questione storica circa una mentalità non metafisica dell'umanità rimane la stessa.


 
22.
Mancanza di fede nel «monumentum aere perennius». — Uno svantaggio essenziale insito nella caduta in disuso dei punti di vista metafisici consiste nel fatto che l'individuo prende troppo strettamente in considerazione il breve periodo della sua vita e non riceve spinte più forti a edificare istituzioni durature, fondate per i secoli; vuol cogliere lui stesso il frutto dell'albero che ha piantato e perciò non vuole più piantare quegli alberi che richiedono una cura costante e secolare e sono destinati a dar ombra a una lunga serie di generazioni. Infatti le opinioni metafisiche infondono la fede che in esse stia l'ultimo, definitivo fondamento sul quale si debba di necessità basare e costruire ogni futuro dell'umanità; il singolo opera per la propria salvezza quando, ad esempio, fonda una chiesa o un monastero: di ciò gli verrà tenuto conto, così pensa, nell'eterno sopravvivere dell'anima, è un lavorare alla eterna salvezza dell'anima. Può la scienza suscitare anch'essa una fede simile nei suoi risultati? In realtà essa richiede come suoi alleati fedelissimi il dubbio e la diffidenza; tuttavia, col tempo, la somma delle verità intangibili, di quelle verità cioè che sopravvivono a ogni distruzione e a ogni tempesta della scepsi, può diventare tanto grande (ad esempio nella dietetica della salute), che ci si decide quindi a fondare opere «eterne». Per il momento, il contrasto tra la nostra inquieta, effimera esistenza e la quiete a lungo respiro di epoche metafisiche agisce ancora troppo fortemente, giacché le due epoche sono ancora troppo vicine; l'uomo singolo sperimenta oggi troppe evoluzioni interiori ed esteriori per osare sistemarsi, anche solo per l'arco di tempo della sua vita, in modo durevole e definitivo. Un uomo del tutto moderno che, ad esempio, voglia costruirsi una casa, prova in ciò la sensazione quasi di volersi murare ancor vivo in un mausoleo.


 
23.
Epoca del paragone. — Quanto meno gli uomini sono vincolati dalla tradizione, tanto maggiore diventa la spinta interiore delle motivazioni, e tanto più grande a sua volta, corrispondentemente, l'irrequietezza esteriore, il rimescolarsi degli uomini, la polifonia delle aspirazioni. Oggi per chi esiste ancora una costrizione severa a legare a un sol luogo sé e i propri discendenti? Per chi esiste ancora, in generale, qualcosa di rigidamente vincolante? Come si imitano, l'uno accosto all'altro, tutti gli stili artistici, così accade anche per tutti i gradi e le specie della moralità, dei costumi, delle culture. Un'epoca come questa acquista la sua importanza per il fatto che in essa possono venir paragonate e vissute tutte insieme le diverse visioni del mondo, i diversi costumi e le diverse culture; il che prima era impossibile, dato il dominio sempre localizzato di ogni cultura e il legame che intercorreva tra stili artistici, luogo e tempo. Oggi l'accresciuto senso estetico sceglierà tra le tante forme che si offrono al paragone: esso ne lascerà estinguere la maggior parte, quelle cioè che esso avrà respinte. Allo stesso modo, oggi è in atto una cernita tra le forme e abitudini della superiore moralità, il cui esito non sarà altro che il tramonto delle moralità inferiori. È l'epoca della comparazione! Questo è il suo orgoglio ma anche, giustamente, la sua pena. Non temiamo questa pena! Anzi cerchiamo di capire quanto meglio possiamo il compito che l'epoca ci assegna: il mondo dei posteri ci benedirà — il mondo che si saprà al di sopra sia delle culture originali e ormai concluse dei popoli, sia della cultura del paragone, ma che guarderà indietro riconoscente ad ambedue come a venerande antichità.


 
24.
Possibilità di progresso. — Se uno studioso della cultura antica giura di non voler più frequentare uomini che credono al progresso, ha ragione. Infatti la cultura antica ha ormai dietro di sé la sua grandezza e la sua bontà; e la formazione storica ci costringe ad ammettere che essa non potrà più rinverdire; occorre un'ottusità insopportabile, o un altrettanto insopportabile entusiasmo, per negare questo. Ma gli uomini possono decidere coscientemente di svilupparsi in una nuova cultura, mentre prima si sviluppavano inconsapevolmente e fortuitamente; oggi possono creare condizioni migliori per la nascita degli uomini, per la loro alimentazione, educazione, istruzione, possono amministrare economicamente la terra come un tutto, commisurare le forze degli uomini in genere e impiegarle l'una contro l'altra. Questa nuova, consapevole cultura uccide quella vecchia che, considerata nel suo insieme, ha condotto un'esistenza inconsapevole, da animale e da pianta; uccide altresì la diffidenza verso il progresso: esso è possibile. Voglio dire: è prematuro, quasi pazzesco credere che il progresso debba conseguire necessariamente; ma come si potrebbe negare che esso sia possibile? Invece un progresso nel senso e sulla falsariga della cultura antica non è neppure pensabile. Se la fantasia romantica usa tuttavia anch'essa la parola «progresso» riferendosi ai suoi obbiettivi (ad esempio, le culture originali e ormai concluse dei popoli), essa ad ogni modo ne deriva l'immagine dal passato; in questo campo il suo pensiero e le sue idee mancano di qualsiasi originalità.


 
25.
Morale privata e morale universale. — Da quando è venuta meno la fede che un dio governi in generale i destini del mondo e, nonostante le apparenti tortuosità del cammino umano, li conduca magnificamente al loro fine, gli uomini debbono prefiggersi da soli fini ecumenici, che abbraccino tutta la terra. La morale più antica, soprattutto quella kantiana, esige dal singolo quelle azioni che si desiderano da tutti gli uomini: il che era una cosa bella e ingenua, quasi che ognuno sapesse con certezza quale modo di agire fosse salutare per l'umanità intera, e dunque quali azioni fossero più delle altre desiderabili; è come la teoria del libero scambio, la quale presuppone che l'armonia universale debba prodursi da sola, secondo leggi innate di miglioramento. Forse, in futuro, uno sguardo ai bisogni dell'umanità farà sembrare nient'affatto desiderabile che gli uomini agiscano tutti allo stesso modo; nell'interesse di fini ecumenici potrebbero piuttosto essere imposti all'umanità, per interi periodi, compiti speciali, forse talvolta addirittura malvagi. In ogni caso, se non si vuole che l'umanità sia portata alla rovina da simile consapevole governo generale, bisogna prima trovare una conoscenza delle condizioni della cultura che superi ogni livello sinora raggiunto, come criterio scientifico per fini ecumenici. Questo è l'immenso compito dei grandi spiriti del prossimo secolo.


 
26.
La reazione come progresso. — A volte compaiono spiriti rudi, violenti e trascinatori, ma ciononostante rimasti indietro, che evocano ancora una fase trascorsa dell'umanità: sono la prova che le nuove tendenze alle quali si oppongono non sono ancora forti abbastanza, che ad esse manca qualcosa, altrimenti offrirebbero a tali evocatori una migliore resistenza. Così, ad esempio, la riforma di Lutero dimostra che in quel secolo ogni moto di libertà dello spirito era ancora incerto, gracile, adolescente, e la scienza non poteva ancora sollevare il capo. L'intera Renaissance anzi appare come una primavera precoce, quasi subito ricancellata dalla neve. Ma, anche nel nostro secolo, la metafisica di Schopenhauer ha dimostrato che neppur oggi lo spirito scientifico è vigoroso abbastanza: così nella dottrina di questo filosofo l'intera visione medievale e cristiana del mondo e dell'uomo, nonostante l'ormai da tempo avvenuta distruzione di tutti i dogmi cristiani, ha potuto ancora una volta celebrare la propria resurrezione. In tale dottrina risuona molta scienza, ma non è questa a predominare, bensì il vecchio e ben noto «bisogno metafisico». Senza dubbio uno dei maggiori e inestimabili vantaggi che ricaviamo da Schopenhauer è che egli costringe il nostro modo di sentire a tornare momentaneamente a più antiche e potenti concezioni dei mondo e dell'uomo, alle quali altrimenti nessun sentiero ci condurrebbe tanto facilmente. Il guadagno per la storia e la giustizia è grandissimo: credo che oggi, senza l'aiuto di Schopenhauer, a nessuno riuscirebbe così facile render giustizia al cristianesimo e ai suoi affini asiatici — il che sarebbe impossibile soprattutto se lo si volesse fare partendo da! terreno del cristianesimo ancora esistente. Solo dopo questa grande vittoria della giustizia, quando noi avremo corretto in un punto tanto essenziale la concezione storica trasmessaci dall'epoca dei lumi, potremo portar nuovamente avanti la bandiera dell'illuminismo — la bandiera con questi tre nomi: Petrarca, Erasmo, Voltaire. Della reazione, avremo fatto un progresso.


 
27.
Surrogato della religione. — Di una filosofia si crede di parlar bene quando la si presenta come un surrogato di quel che la religione è per il popolo. In effetti, nell'economia dello spirito c'è talvolta bisogno di giri di pensiero di transizione; il passaggio dalla religione all'osservazione scientifica è un salto enorme e pericoloso, qualcosa di sconsigliabile. In questo senso, tale raccomandazione è giusta. Ma si dovrebbe finalmente anche imparare che i bisogni che la religione soddisfaceva, e che ora sta alla filosofia di soddisfare, non sono immutabili: si può indebolire ed estirpare persino questi. Si pensi ad esempio all'angoscia dei cristiani, al loro affliggersi sulla propria depravazione interiore, alla loro preoccupazione di salvezza — tutte idee che nascono solo da errori della religione, e che meritano non di essere soddisfatte, bensì distrutte. Una filosofia può giovare in quanto anch'essa soddisfa tali necessità, oppure in quanto le elimina; sono infatti necessità acquisite, limitate nel tempo, che poggiano su premesse contrarie a quelle della scienza. Qui, per operare un passaggio, è il caso piuttosto di servirsi dell'arie onde alleggerire l'animo troppo oberato dai sentimenti; essa infatti alimenta quelle rappresentazioni molto meno di quanto non faccia una filosofia metafisica. Dall'arte si potrà poi passare più facilmente a una scienza filosofica veramente liberatrice.


 
28.
Parole in discredito. — Basta con le parole «ottimismo» e «pessimismo», usate sino alla nausea! Infatti il motivo di usarle diventa ogni giorno più raro, e solo ai parolai esse sono ancora tanto indispensabili. Perché mai, infatti, in tutto il mondo uno dovrebbe voler essere ottimista, se non ha da difendere un dio che deve aver creato il migliore dei mondi, quando egli stesso è la bontà e la perfezione? Ma a quale essere pensante è ancora necessaria l'ipotesi di un dio? Manca peraltro anche ogni ragione di una professione pessimistica di fede, a meno che non si abbia interesse a fare stizzire gli avvocati di Dio, i teologi o i filosofi teologizzanti, e ad enunciare con forza l'affermazione contraria, che cioè il male governa il mondo, il dolore è maggiore del piacere, e che il mondo è una abborracciatura, la manifestazione di una malvagia volontà di vita. Ma oggi, chi si preoccupa più dei teologi, se non i teologi stessi? A prescindere da ogni teologia e da ogni confutazione di essa, è evidente che il mondo non è né buono né cattivo, e tanto meno il migliore o il peggiore, e che questi concetti di «buono» e «cattivo» hanno senso solo in rapporto agli uomini, e forse neanche qui, nel modo in cui vengono usati, essi hanno una giustificazione: della visione del mondo denigratoria o esaltatrice dobbiamo in ogni caso sbarazzarci.


 
29.
Inebriati dal profumo dei fiori. — La nave dell'umanità, si pensa, s'immerge tanto più profondamente quanto più viene caricata; si crede che l'uomo, quanto più profondo è il suo pensiero, più delicato il suo sentire, più alta la stima che nutre di sé, quanto più lontano si fa dagli altri animali — quanto più compare tra gli animali come il genio — tanto più vicino diventa alla vera essenza del mondo e alla sua conoscenza: e, in verità, egli fa ciò con la scienza, ma crede di farlo molto di più con le sue religioni e le sue arti. Queste sono, invero, i fiori del mondo, in nulla però più vicini alla radice del mondo di quanto non lo sia stato lo stelo: con esse non si può affatto comprendere meglio l'essenza delle cose, benché tale sia la credenza pressoché generale. L'errore ha reso l'uomo così profondo, delicato e inventivo da produrre una fioritura come quella delle religioni e delle arti. La pura conoscenza non ne sarebbe stata capace. Chi ci svelasse l'essenza del mondo, preparerebbe a noi tutti la più sgradevole delle delusioni. Non il mondo come cosa in sé, ma il mondo come rappresentazione (come errore) è così ricco di significato, così profondo e meraviglioso, racchiudendo nel suo grembo tanta felicità e infelicità. Questo risultato porta a una filosofìa di negazione logica del mondo: la quale del resto si può armonizzare altrettanto bene sia con un'affermazione pratica del mondo sia col suo contrario.


 
30.
Cattive abitudini nel dedurre. — Le deduzioni erronee più diffuse tra gli uomini sono queste: una cosa esiste, quindi ha un suo diritto. Qui la deduzione vien fatta dalla capacità di vivere alla conformità ad uno scopo, e da questa alla legittimità. E ancora: un'opinione rende felici, dunque è vera: il suo effetto è buono, quindi essa stessa è buona e vera. Qui si conferisce all'effetto il predicato di allietante, di buono in senso di utile, e si investe la causa dello stesso predicato di buono, ma qui nel senso di logicamente valido. Rovesciando tali proposizioni si ha: una cosa non può affermarsi, mantenersi, quindi non è giusta; un'opinione arreca dolore, eccitazione, dunque è falsa. Lo spirito libero, che anche troppo spesso si trova a far la conoscenza con l'errore insito in questo modo di dedurre e a soffrirne le conseguenze, soggiace di frequente alla tentazione di trarre deduzioni opposte, che naturalmente sono in generale altrettanto erronee: una cosa non può affermarsi, quindi è buona; un'opinione provoca angoscia, rende inquieti, dunque è vera.


 
31.
Necessità dell'illogicità. — Tra le cose che possono portare un pensatore alla disperazione, c'è la constatazione che all'uomo l'illogicità è necessaria, e che da essa può derivare molto bene. Essa è insita così saldamente nelle passioni, nella lingua, nell'arte, nella religione e, in generale, in tutto quanto dà valore alla vita, che non la si può estirpare senza danneggiare irreparabilmente queste belle cose. Solo uomini troppo ingenui possono credere che si possa trasformare la natura umana in natura puramente logica; ma se dovessero esistere gradi di accostamento a questa meta, quante cose mai non andrebbero perdute per questa via! Anche l'uomo più ragionevole ha bisogno, di tempo in tempo, di un ritorno alla natura, cioè alla sua illogica posizione fondamentale verso tutte le cose.


 
32.
È necessario essere ingiusti. — Tutti i giudizi sul valore della vita sono sviluppati senza logica, e pertanto sono ingiusti. L'impurità del giudizio dipende innanzitutto dal modo in cui il materiale si presenta, ossia molto incompleto, in secondo luogo dal modo in cui se ne traggono le somme, e in terzo luogo dal fatto che ogni singolo frammento di tale materiale è a sua volta il risultato — invero pienamente necessario — di una conoscenza impura. Ad esempio, nessuna conoscenza di un uomo, per quanto vicino egli ci sia, può esser così completa da darci un logico diritto a una valutazione complessiva su di lui; tutte le valutazioni sono affrettate, e debbono esserlo. Infine il metro di cui ci serviamo, il nostro essere, non è una misura invariabile: abbiamo stati d'animo e oscillazioni, eppure, per valutare rettamente il rapporto tra una determinata cosa e noi, dovremmo conoscere noi stessi come una misura fissa. Forse da tutto questo discenderà che non si dovrebbe affatto giudicare; se però fosse possibile vivere senza valutare, senza provare repulsioni o inclinazioni! — Infatti il senso di attrazione, come pure quello di repulsione, sono connessi a un apprezzamento. L'impulso che spinge verso qualcosa o lontano da qualcosa, privo del sentimento di volere quanto è giovevole e di evitare quanto è dannoso, un impulso senza una sorta di apprezzamento conoscitivo sul valore dello scopo, nell'uomo non esiste. Noi siamo sin dall'inizio esseri illogici e pertanto ingiusti, e possiamo riconoscerlo: questa è una delle più grandi e irresolubili disarmonie dell'esistenza.


 
33.
L'errore sulla vita necessario alla vita. — Ogni fede nel valore e nella dignità della vita si basa su un pensiero non puro; essa è possibile unicamente per il fatto che nell'individuo il comune sentimento per la vita universale e per le sofferenze dell'umanità è sviluppato molto debolmente. Anche quegli uomini, piuttosto rari, che pensano in genere al di là di se stessi, prendono in considerazione non quella vita universale, bensì delimitate parti di essa. Se si è capaci di guardare soprattutto alle eccezioni, voglio dire ai grandi talenti e alle anime ricche, e si considera il sorgere di questi come scopo dell'intero sviluppo universale e si gioisce del loro operato, si può credere al valore della vita in quanto, in tal modo, si trascurano gli altri uomini: dunque si pensa in modo impuro. E ugualmente, se si prendono in considerazione tutti gli uomini, ma in essi si ammette solo un unico genere di impulsi, i meno egoistici, e li si giustifica rispetto agli altri impulsi, anche in questo caso si può sperare qualcosa dall'umanità nel suo complesso e credere pertanto al valore della vita: dunque, anche qui, per adulterazione del pensiero. Ma, che ci si comporti in un modo o nell'altro, così facendo si è un'eccezione tra gli uomini. Ora, proprio la maggior parte degli uomini sopporta la vita senza troppo brontolare, e crede dunque al valore dell'esistenza, ma appunto per il fatto che ciascuno di loro si considera e vuole esser solo, e non esce da se stesso come quelle eccezioni: egli non percepisce affatto, o tutt'al più solo come una vaga ombra, tutto quanto è extra-personale. Dunque per l'uomo comune, ordinario, il valore della vita si fonda unicamente sul fatto che egli si considera più importante del resto del mondo. La grande mancanza di fantasia da cui è affetto fa sì che egli non possa sentirsi compenetrato in altri esseri, e partecipi dunque il meno possibile al loro destino e alla loro sofferenza. Chi invece potesse veramente prendervi parte, dovrebbe disperare del valore della vita; se riuscisse ad accogliere in sé e a sentire l'intera coscienza dell'umanità, proromperebbe in una bestemmia contro l'esistenza — perché nel complesso l'umanità non ha mete e di conseguenza l'uomo, considerando il suo intero decorso, non può trarne consolazione o appiglio, ma disperazione. Se, in tutto quel che fa, guarda alla estrema mancanza di scopo dell'umanità, il suo operare assume ai suoi occhi il carattere dello spreco. Ma sentirsi — come umanità, e non solo come individuo — sprecati, come vediamo sprecati dalla natura i singoli fiori, è un sentimento al di sopra di ogni sentimento. Ma chi ne è capace? Certamente solo un poeta: e i poeti sanno sempre consolarsi.


 
34.
Per tranquillizzare. — Ma allora la nostra filosofia non diventa tragedia? La verità non diventa nemica della vita, di ciò che è migliore? Una domanda sembra premere sulla nostra lingua, senza volersi tuttavia tradurre in parole: si può rimanere consapevolmente nella menzogna? oppure, se lo si deve, non è meglio morire? Infatti un Dovere non esiste più; la morale, in quanto era dovere, è stata distrutta dalla nostra visione delle cose, e così pure la religione. La conoscenza può lasciar sussistere come motivi solo il piacere e il dolore, l'utilità o il danno: ma questi come si spiegheranno con il senso per la verità? Infatti anch'essi confinano con l'errore (in quanto, come già detto, inclinazione, avversione e le loro ingiuste misurazioni determinano in modo essenziale il nostro piacere e il nostro dolore). Tutta la vita umana è profondamente immersa nella menzogna: il singolo non può estrarla da questo pozzo senza adirarsi per le più fondate ragioni con il suo passato, senza trovare insensati i suoi motivi attuali, come quello dell'onore, e contrapporre scherno e disdegno alle passioni che spingono verso il futuro e verso una felicità in esso. È vero allora che resterebbe ancora un solo modo di pensare, il quale si porterebbe appresso, come risultato personale la disperazione, e come risultato teoretico una filosofia della distruzione? Credo che il giudizio sugli effetti della conoscenza sia dato dal temperamento di un uomo: altrettanto bene che quell'effetto descritto e possibile in singole nature, io potrei pensarne un altro, in grazia del quale nascesse una vita molto più semplice e più libera da passioni di quella attuale: sicché da principio i vecchi motivi del più intenso desiderio conservassero ancora, per inveterata consuetudine, la loro forza, ma si facessero via via più deboli sotto l'influsso purificatore della conoscenza. Alla fine si vivrebbe con gli uomini e con se stessi come nella natura, senza lodi, rimproveri, collere, gioendo come di uno spettacolo di molte cose, delle quali sino allora bisognava aver paura. Si sarebbe liberi dell'enfasi e non si sentirebbe più il pungolo del pensiero di essere non solo natura o più che natura. Certamente occorrerebbe avere, come già detto, un buon temperamento, un'anima ferma, mite e in fondo allegra, un carattere che non debba guardarsi da perfidie e improvvise esplosioni, e che nelle sue manifestazioni nulla abbia del tono ringhioso e della rabbiosità — quelle note, moleste qualità dei vecchi cani e degli uomini che a lungo sono stati incatenati. Anzi, un uomo che si sia scrollato di dosso le catene della vita al punto da continuare a vivere soltanto per sempre meglio conoscere, deve poter rinunciare, senza rimpianto e fastidio, a molto, anzi quasi a tutto ciò che presso gli altri uomini ha valore; a lui deve bastare, come lo stato più desiderabile, quel sollevarsi libero e senza paura al di sopra di uomini, costumi, leggi e tradizionali valutazioni delle cose. Egli comunica volentieri la gioia che questo stato gli procura, e forse non ha altro da comunicare — il che implica certamente una privazione, una rinuncia. Se ciononostante gli si chiederà di più, egli additerà, scuotendo benevolmente il capo, il suo fratello, il libero uomo d'azione, e forse non nasconderà una certa qual derisione: poiché la «libertà» di quello è di un genere affatto particolare.


 
PARTE SECONDA. Per la storia dei sentimenti morali

 
35.
Vantaggi dell'osservazione psicologica. — Che la riflessione sull'umano, il troppo umano — o, come si direbbe con un'espressione più dotta: l'osservazione psicologica — faccia parte dei mezzi grazie ai quali ci si può alleviare il peso della vita; che l'esercizio di quest'arte conferisca presenza di spirito in situazioni difficili e offra distrazione in mezzo a gente noiosa; che, anzi, dai momenti più spinosi e tristi della vita si possano trarre sentenze e così rasserenarsi un po', tutto questo, nei secoli passati, si credeva, si sapeva. Perché lo ha dimenticato questo secolo, in cui almeno in Germania, ma anche in Europa, da molti segni si può riconoscere la povertà di osservazione psicologica? Non proprio nel romanzo, nella novella o nella considerazione filosofica, che sono opera di uomini d'eccezione; già di più nella valutazione di uomini e avvenimenti pubblici; ma soprattutto, l'arte della scomposizione e ricomposizione psicologica manca nelle riunioni sociali, in cui si parla molto di uomini, ma niente affatto dell'uomo. Perché mai ci si lascia sfuggire la più ricca e innocua materia di conversazione? Perché non si leggono più neppure i grandi maestri di sentenze psicologiche? Infatti, sia detto senza esagerazione, in Europa è raro trovare un uomo di cultura che abbia letto La Rochefoucauld e i suoi fratelli d'arte e di spirito; e ancor più raro è colui che, conoscendoli, non li disdegni. Probabilmente però anche questo non abituale lettore non proverà, leggendoli, la gioia che la forma di questi artisti potrebbe procurargli; poiché neanche la testa più fine è in grado di apprezzar degnamente l'arte di affilar sentenze, se non vi è stata essa stessa educata e non vi si è cimentata. Senza tale tirocinio pratico, si considera questa forma di creazione più facile di quanto non sia, e non si gusta appieno quanto v'è in essa di riuscito e affascinante. Perciò i lettori moderni ne ricavano un godimento relativamente modesto, anzi appena un certo qual buon sapore in bocca, cosicché si comportano come le persone comuni che si trovino a osservare dei cammei: li lodano, non potendoli amare, e son pronte ad ammirare, ma molto più a scapparsene via.


 
36.
Obiezione. — Oppure si dovrebbe opporre una contropartita a quel principio secondo cui l'osservazione psicologica fa parte dei mezzi che rendono seducente, risanano e rasserenano l'esistenza? Si dovrebbe essere già abbastanza convinti delle spiacevoli conseguenze di quest'arte, per distogliere ora di proposito da essa l'attenzione di coloro che vengono formandosi? In effetti, una certa fede cieca nella bontà della natura umana, una radicata avversione all'analisi delle azioni umane, una sorta di pudore nei confronti della nudità dell'anima possono veramente essere, per la felicità complessiva di un uomo, molto più desiderabili che non la capacità, utilissima in singoli casi, di acutezza psicologica; e forse la fede nel bene, in uomini e azioni virtuose, nell'abbondanza di benvolere disinteressato ha reso nel mondo gli uomini migliori, in quanto li ha resi meno diffidenti. Quando si imitano con entusiasmo gli eroi di Plutarco e si prova ripugnanza a indagare dubbiosi sui motivi del loro agire, a trarne vantaggio non sarà la verità, ma il benessere della società umana: l'errore psicologico e in genere l'oscurità delle idee in questo campo aiutano l'umanità a progredire, mentre la conoscenza della verità guadagna forse più dalla forza stimolante di un'ipotesi, come l'ha descritta La Rochefoucauld nella premessa alla prima edizione delle sue «Sentences et maximes morales»: «Ce que le monde nomme vertu n'est d'ordinaire qu'un fantòme forme par nos passions, à qui on donne un nom honnète pour faire impunèment ce qu'on veut». La Rochefoucauld e gli altri francesi maestri nello scrutare le anime (ai quali di recente si è aggiunto anche un tedesco, l'autore delle «Osservazioni psicologiche») somigliano a tiratori dalla mira infallibile che colpiscono sempre il centro nero del bersaglio, e in questo caso nel centro nero della natura umana. La loro abilità desta meraviglia, ma forse, alla fine, uno spettatore guidato non dallo spirito scientifico, ma da quello dell'umana benevolenza, maledirà un'arte che apparentemente semina nell'animo umano il gusto del ridimensionamento e del sospetto.


 
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Tuttavia. — Comunque si voglia considerare questa partita e questa contropartita, nello stato attuale di una determinata scienza particolare è necessario disseppellire l'osservazione morale, e all'umanità non potrà esser risparmiato l'orrido spettacolo di un tavolo di dissezione psicologica, con i suoi bisturi e le sue pinze. Qui infatti è il regno di quella scienza che indaga sull'origine e la storia dei cosiddetti sentimenti morali e che nel suo progredire dovrà porre e risolvere i complessi problemi sociologici: — la filosofia più antica non li conosceva, e si è sempre dispensata con magre scuse dall'indagare sull'origine e la storia dei sentimenti morali. Le conseguenze le vediamo molto chiaramente oggi, dopo che numerosi esempi hanno dimostrato come gli errori dei maggiori filosofi scaturiscano normalmente da un'erronea spiegazione di determinate azioni "e sentimenti umani: come, sulla base di un'analisi erronea, per esempio delle cosiddette azioni altruistiche, si costruisca una falsa etica, a favore della quale vengono a loro volta chiamati in causa religione e garbugli mitologici, e come infine le ombre di questi spiriti cupi si allunghino anche sulla fisica e sulla visione complessiva del mondo. Ma, una volta stabilito che la superficialità dell'osservazione psicologica ha teso e continua a tendere le più pericolose insidie all'umana capacità di giudizio e di deduzione, è necessaria quella perseveranza di lavoro che non si stanca di ammucchiare pietra su pietra, pietruzza su pietruzza; occorre il sobrio coraggio di non vergognarsi di un lavoro così umile e di sfidare qualunque disprezzo di esso. È vero: innumerevoli osservazioni particolari sull'umano e troppo umano sono state trovate ed espresse per la prima volta in ambienti sociali avvezzi a offrire ogni sorta di sacrifici non alla conoscenza scientifica, ma a un'arguta civetteria; e il profumo di quell'antica patria della sentenza moralistica — profumo molto seducente — ha impregnato tutto questo genere con tenacia quasi irrimediabile: sicché, a causa sua, l'uomo di scienza manifesta involontariamente una certa diffidenza contro questo genere e la sua serietà. Ma basta additare le conseguenze: poiché già ora si comincia a vedere quali serissimi risultati crescano sul terreno dell'osservazione psicologica. Qual è la proposizione principale cui perviene uno dei più arditi e freddi pensatori, l'autore del libro «Sull'origine dei sentimenti morali», grazie alle sue analisi incisive e taglienti sull'agire umano? «L'uomo morale, egli dice, non è più vicino al mondo intelligibile (metafisico) di quanto non lo sia l'uomo fisico.» Questa proposizione, indurita e affilata sotto i colpi di martello della conoscenza storica, potrà forse, in un futuro, fungere da ascia che reciderà alle radici il «bisogno metafìsico» degli uomini — se più a benedizione che a maledizione del benessere umano, chi potrebbe dirlo? —, ma in ogni caso sarà la proposizione che avrà le conseguenze più rilevanti, terribile e fertile allo stesso tempo, e che guarderà nel mondo con quel duplice sguardo che tutte le grandi conoscenze possiedono.


 
38.
Utile in che senso. — Dunque: se l'osservazione psicologica arrechi agli uomini più utilità o più svantaggio, lasciamolo irrisolto; ma certo è che essa è necessaria, perché la scienza non può farne a meno. La scienza però non ha alcun riguardo per gli scopi ultimi, così come non ne ha la natura: ma, come questa produce talvolta cose della più alta finalità senza averle volute, così anche la vera scienza, come imitazione della natura nei concetti, promuoverà talvolta, anzi ripetutamente, l'utilità e il benessere degli uomini e perverrà a ciò che è conveniente, ma, del pari, senza averlo voluto. Chi però, al solo sospetto di un simile modo di vedere, si sente calar addosso l'inverno, forse ha soltanto troppo poco fuoco dentro di sé: si guardi allora attorno, e scorgerà malattie che richiedono impacchi di ghiaccio, e uomini così «impastati» di spirito e di ardore da riuscire a mala pena a trovare da qualche parte aria abbastanza fredda e tagliente. Inoltre: come individui e popoli troppo seri hanno bisogno di leggerezza e come altri, troppo irrequieti ed eccitabili, necessitano talvolta, per restar sani, di fardelli gravi e opprimenti, non dovremmo noi, i più spirituali di un'epoca che manifestamente s'incendia sempre più, afferrare ogni mezzo che valga a spegnere e a raffreddare, onde restare almeno noi così fermi, tranquilli e moderati come ancora siamo, e servire forse un giorno a questa epoca come specchio e motivo di autoriflessione?


 
39.
La favola della libertà intelligibile. — La storia dei sentimenti in base ai quali noi chiamiamo qualcuno responsabile, la storia dunque dei sentimenti morali, si svolge secondo le seguenti fasi principali. Dapprima si definiscono buone o cattive determinate azioni senza considerarne i motivi, ma unicamente in base alla bontà o al danno dei loro effetti. Presto però si dimentica l'origine di tali definizioni e ci si illude che la qualità di «buono» o di «cattivo» sia inerente alle azioni in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze: con lo stesso errore per cui la lingua definisce la pietra come dura, e l'albero come verde — quindi considerando come causa ciò che invece è effetto. Poi si ripone l'esser buono o cattivo nei motivi, e si considerano le azioni in sé come moralmente ambigue. Andando avanti, si attribuisce il predicato di buono o di cattivo non più al motivo singolo, bensì all'intero essere di un uomo, dal quale il motivo sorge come la pianta dal terreno. Così si considera l'uomo responsabile, nell'ordine, per i suoi effetti, poi per le sue azioni, poi per i suoi motivi e infine per il suo essere. Da ultimo si scopre che nemmeno questo essere può dirsi responsabile, in quanto è in tutto e per tutto una conseguenza necessaria, e concresce dagli elementi e influssi di cose passate e presenti: quindi l'uomo non può essere considerato responsabile per nulla, né per il suo essere né per i suoi motivi né per le sue azioni né per i suoi effetti. Si è con ciò arrivati a riconoscere che la storia dei sentimenti morali è la storia di un errore, dell'errore della responsabilità — che, come tale, poggia su quello della libertà del volere. Schopenhauer invece ragionava così: poiché da determinate azioni segue un disagio («coscienza della colpa»), deve esistere una responsabilità; infatti non ci sarebbe alcun motivo per questo disagio, se non solo ogni azione umana avvenisse di necessità — come effettivamente avviene, anche secondo l'opinione di questo filosofo — ma se con la medesima necessità l'uomo stesso conseguisse tutto il suo essere — cosa che Schopenhauer nega. Dalla effettività di questo disagio Schopenhauer crede di poter dimostrare una libertà che l'uomo avrebbe in qualche modo avuta, non in rapporto alle azioni ma in rapporto all'essere: libertà dunque di essere in questo o in quel modo, ma non di agire in questo o in quel modo. Dall'esse, sfera della libertà e responsabilità, discende a suo avviso l'operari, sfera della stretta causalità, necessità e irresponsabilità. Dunque quel disagio si riferirebbe apparentemente all'operari — in quanto questo sarebbe errato —, in realtà invece all'esse, che sarebbe l'azione di una volontà libera, la causa prima dell'esistenza di un individuo: l'uomo diventerebbe ciò che vuol diventare, la sua volontà sarebbe anteriore alla sua esistenza. Qui dal fatto del disagio si fa erroneamente discendere la giustificazione, l'ammissibilità razionale di esso; e da questa erronea deduzione Schopenhauer perviene alla sua fantastica conseguenza della cosiddetta libertà intelligibile. Ma il disagio che segue all'azione non ha affatto bisogno di essere razionale: anzi non lo è di certo, poiché riposa sull'erroneo presupposto che proprio l'azione non debba necessariamente conseguire. Dunque: l'uomo prova rimpianto e rimorso perché si considera libero, non perché lo sia. Inoltre questo disagio è qualcosa da cui ci si può disabituare, e in molti uomini non si manifesta per niente in rapporto ad azioni per le quali molti altri lo provano. È qualcosa di assai mutevole, legato all'evoluzione dei costumi e della cultura, e forse si manifesta solo in un periodo relativamente breve della storia del mondo. Nessuno è responsabile delle proprie azioni, né del proprio essere; giudicare equivale ad essere ingiusti. Ciò vale anche quando l'individuo giudica se stesso. La proposizione è chiara come la luce del sole, eppure qui tutti tornano più volentieri nell'ombra e nella menzogna: per paura delle conseguenze.


 
40.
Il super-animale. — La bestia che è in noi vuol essere ingannata; la morale è la menzogna necessaria perché essa non ci sbrani. Senza gli errori insiti nelle ipotesi della morale, l'uomo sarebbe rimasto animale. In tal modo però si è considerato superiore, e si è imposto leggi più severe. Per questo egli prova odio per i livelli rimasti più vicini all'animalità: di qui si può spiegare l'antico disprezzo per lo schiavo, come non uomo, cosa.


 
41.
Immutabilità del carattere. — Che il carattere sia immutabile non è vero in senso stretto; questa frase corrente significa piuttosto unicamente che, durante la breve vita di un uomo, i motivi che agiscono su di lui non possono incidere abbastanza in profondità da cancellare i caratteri impressi da molti millenni. Se però ci si immaginasse un uomo di ottantamila anni, in lui si avrebbe addirittura un carattere assolutamente mutevole, sicché da lui verrebbero via via a svilupparsi una quantità di individui diversi. La brevità della vita umana conduce a parecchie affermazioni erronee sulle qualità dell'uomo.


 
42.
L'ordinamento dei beni e la morale. — La gerarchia dei beni accettata in passato, a seconda che un egoismo inferiore, superiore o supremo voglia l'una oppure l'altra cosa, decide ora sull'essere morale o sull'essere immorale. Preferire un bene inferiore (per esempio il godimento sensuale) a un bene stimato superiore (la salute, per esempio) è considerato immorale, e così pure preferire una vita comoda alla libertà. La gerarchia dei beni non è però sempre la stessa in ogni tempo; un uomo che preferisca la vendetta alla giustizia è morale secondo il criterio di una cultura più antica, e immorale secondo la cultura di oggi. «Immorale» significa dunque che uno non è ancora sensibile, o non lo è abbastanza, ai motivi superiori, più sottili e spirituali, che ogni nuova cultura porta di volta in volta con sé: indica chi è rimasto indietro, ma sempre solo in base a una differenza di grado. La stessa gerarchia dei beni non viene istituita, e riorganizzata, secondo punti di vista morali; tuttavia, dal modo in cui essa è di volta in volta determinata, si stabilisce se un'azione sia morale o no.


 
43.
Gli uomini crudeli sono arretrati. — Dobbiamo considerare gli uomini che oggi sono crudeli come gradi residui di culture precedenti: la montagna dell'umanità mostra qui apertamente le sue più profonde stratificazioni, quelle che altrimenti rimangono nascoste. Sono uomini arretrati il cui cervello, per ogni possibile incidente nel corso del processo ereditario, non ha continuato a svilupparsi in modo tanto delicato e multilaterale. Essi ci mostrano quel che noi tutti eravamo, e ci fanno spaventare: ma sono tanto poco responsabili quanto lo è un pezzo di granito per il fatto di essere granito. Nel nostro cervello debbono trovarsi anche canali e volute che corrispondono a quel modo di sentire, allo stesso modo che nella forma di determinati organi umani si trovano ricordi del nostro stato di pesci. Ma tali canali e volute non sono più l'alveo in cui oggi scorre il flusso del nostro sentimento.


 
44.
Riconoscenza e vendetta. — Il motivo per cui il potente manifesta riconoscenza è il seguente. Il suo benefattore ha, con il suo atto di bene, per così dire violato la sfera del potente e vi è penetrato: ora, in contraccambio, con l'atto di riconoscenza il potente viola la sfera del benefattore. È una forma edulcorata di vendetta. Se non avesse compiuto l'atto di riconoscenza, il potente si sarebbe dimostrato debole, e tale sarebbe stato considerato in avvenire. Per questo motivo ogni società di buoni, vale a dire originariamente di potenti, pone la gratitudine tra i primi doveri. Swift ha buttato là la frase secondo cui gli uomini sono riconoscenti nella stessa misura in cui covano la vendetta.


 
45.
Duplice preistoria del bene e del male. — Il concetto di bene e di male ha una duplice preistoria: da un lato, nell'animo delle stirpi e caste dominanti. Chi ha il potere di contraccambiare, bene con bene, male con male, ed esercita anche realmente questo contraccambio, o werossia la vendetta e la riconoscenza, viene detto buono; chi non è potente e non può ricambiare, passa per cattivo. Come buono si appartiene ai «buoni», a una comunità che possiede il sentimento di essere tale in quanto gli individui sono reciprocamente collegati dal senso del contraccambio. Come cattivi si appartiene ai «cattivi», una massa di uomini subordinati, impotenti, che non possiedono alcun sentimento di essere una comunità. I buoni sono una casta, i cattivi una massa, come polvere. Per un certo periodo buono e cattivo equivalgono a nobile e umile, a signore e schiavo. Di contro, il nemico non è considerato cattivo in quanto può rivalersi. In Omero, il troiano e il greco sono entrambi buoni. Non chi ci fa del male, ma chi è spregevole è considerato cattivo. Nella comunità dei buoni, il bene è ereditario; è impossibile che da un terreno così buono possa nascere un cattivo. Se tuttavia uno dei buoni compie qualcosa di indegno, si ricorre a delle scappatoie: per esempio se ne attribuisce la colpa a un dio, dicendo che avrebbe colpito il buono rendendolo cieco e folle. — D'altro lato, nell'animo degli oppressi, degli impotenti. Qui ogni altro uomo, sia esso nobile o umile, è considerato ostile, spietato, predatore, crudele, subdolo. Cattivo è parola che definisce l'uomo, anzi qualsiasi essere vivente che si possa supporre, ad esempio un dio; umano, divino equivale pertanto a diabolico, malvagio. I segni della bontà, della misericordia, della compassione vengono angosciosamente recepiti come un'insidia, come un preludio a una tremenda conclusione, come stordimento e raggiri, insomma come raffinata malvagità. Tale essendo lo stato d'animo dell'individuo, difficilmente può sorgere una comunità, ma tutt'al più la forma più primitiva di essa: cosicché ovunque predomini questa concezione del bene e del male, è vicino il tramonto degli individui, delle loro stirpi e razze. La nostra moralità odierna è sorta sul terreno delle stirpi e caste dominanti.


 
46.
Il compatire, più forte del patire. — Ci sono casi in cui la compassione è più forte del dolore vero e proprio. Ad esempio, se un nostro amico si è reso colpevole di un'azione vergognosa, noi soffriamo più che se l'avessimo compiuta noi stessi. In primo luogo, infatti, noi crediamo più di lui nella purezza del suo carattere; in secondo luogo il nostro amore per lui, forse proprio a causa di questa fiducia, è più forte del suo amore per se stesso. Anche se in realtà il suo egoismo avrà da soffrire più del nostro, in quanto sarà lui a dover pagare più duramente le conseguenze della sua azione, l'altruismo che è in noi — questa parola non va mai intesa in senso stretto, ma solo come comodità di espressione — sarà tuttavia più toccato dalla sua colpa dell'altruismo che è in lui.


 
47.
Ipocondria. — Ci sono uomini che, per partecipazione e preoccupazione nei confronti di un'altra persona, diventano ipocondriaci; il tipo di compassione che ne nasce non è altro che una malattia. Così esiste anche un'ipocondria cristiana, che colpisce le persone solitarie, d'animo religioso, che si pongono sempre davanti agli occhi la passione e la morte di Cristo.


 
48.
Economia della bontà. — La bontà e l'amore, come le erbe e le forze più salutari nei rapporti umani, sono rinvenimenti così preziosi da far desiderare che di questi mezzi balsamici si usi con la maggior economia possibile: ciò tuttavia è impossibile. L'economia della bontà è il sogno dei più audaci utopisti.


 
49.
Benevolenza. — Tra le cose piccole, ma infinitamente frequenti e perciò stesso molto efficaci, alle quali la scienza dovrebbe prestare attenzione più che alle cose grandi e rare, bisogna annoverare anche la benevolenza: intendo quelle manifestazioni di sentimenti gentili nei contatti umani, quel sorriso degli occhi, quelle strette di mano, quella piacevolezza di cui normalmente si riveste ogni atto umano. Ogni maestro, ogni funzionario aggiunge questo ingrediente a ciò che è il suo dovere; è l'esercizio costante di umanità, e per così dire le onde della sua luce, nelle quali tutto si sviluppa; soprattutto nella cerchia più ristretta, in seno alla famiglia, la vita prospera e fiorisce solo grazie a quella benevolenza. L'indulgenza, la benignità, la gentilezza di cuore sono efflussi inesauribili dell'istinto altruistico, e hanno edificato la cultura molto più attivamente delle manifestazioni più note di esso, cui si dà il nome di compassione, caritatevolezza e dedizione. Invece si è soliti disdegnarle e, in effetti, in esse non c'è proprio molto di altruistico. La somma di queste piccole dosi è tuttavia imponente, e la loro forza complessiva è delle più vigorose. Allo stesso modo, nel mondo si trova molto più felicità di quanto occhi offuscati non ne vedano: se solo si calcola rettamente e non si dimenticano tutti i momenti piacevoli di cui è ricco ogni giorno di ogni vita umana, anche della più tormentata.


 
50.
Voler suscitare compassione. — Nel passo più notevole del suo autoritratto (stampato per la prima volta nel 1658) La Rochefoucauld colpisce certamente nel giusto quando mette in guardia dalla compassione tutti gli uomini dotati di raziocinio, e raccomanda di lasciar questo sentimento alla gente del popolo che (non essendo determinata dalla ragione) ha bisogno delle passioni per sentirsi indotta a soccorrere chi soffre e ad intervenire attivamente in una sventura; mentre la compassione, a suo giudizio (e anche secondo Platone), indebolirebbe l'anima. Certo si deve manifestare compassione, ma guardarsi bene dal provarla: gli infelici sono infatti così stolti, che per essi la manifestazione di compassione costituisce il più grande bene del mondo. Forse si può metter ancor meglio in guardia dall'aver compassione, se si considera quel bisogno degli infelici non come stoltezza o carenza intellettuale, una specie di disturbo dello spirito provocato dalla sventura (come sembra considerarlo La Rochefoucauld), bensì come qualcosa di affatto diverso e più inquietante. Si osservino piuttosto i bambini, che piangono e gridano allo scopo di essere compatiti, e aspettano perciò il momento in cui il loro stato attiri l'attenzione; si viva con malati e con persone spiritualmente oppresse e ci si domandi se il loro eloquente lamentarsi e piagnucolare, il loro ostentare la propria infelicità non persegua in fondo lo scopo di far male ai presenti: la compassione che allora questi dimostrano è una consolazione per i deboli e i sofferenti, che in tal modo riconoscono di possedere ancora, nonostante la loro debolezza, una forza: la forza di far male. Nel sentimento di superiorità che la manifestazione di compassione reca alla sua coscienza, l'infelice prova una sorta di piacere; la sua presunzione si esalta, egli è sempre abbastanza importante da recar dolore al mondo. Perciò la sete di compassione è una sete di autogodimento, e precisamente a spese del prossimo; mostra l'uomo in tutta la spietatezza del suo caro Io, ma non proprio nella sua «stoltezza», come ritiene La Rochefoucauld. Nella conversazione in società, tre quarti delle domande e tre quarti delle risposte si fanno e si danno per fare un po' male all'interlocutore; per questo tanti uomini sono così assetati di società: essa dà loro il senso della propria forza. In tali innumerevoli e minuscole dosi in cui la cattiveria si manifesta, essa costituisce un forte «stimolante» della vita: così come la benevolenza, diffusa in ugual forma tra gli umani, è il rimedio sempre pronto. Ma ci saranno molti uomini onesti i quali ammetteranno che il far male fa piacere? che non di rado ci si diverte — e ci si diverte bene — a offendere, almeno nel pensiero, altri uomini e a sparar loro i pallini della piccola cattiveria? I più sono troppo insinceri, e un paio sono troppo buoni, per saper qualcosa di questo pudendum; quindi potranno sempre negare che Prosper Mériméé abbia ragione quando dice: «Sachez aussi qu'il n'y a rien de plus commun que de faire le mal pour le plaisir de le faire».


 
51.
Come l'apparenza diventa essere. — Anche nel più profondo dolore, l'attore non può fare a meno di pensare all'impressione prodotta dalla sua persona e all'effetto scenico complessivo, persino, ad esempio, ai funerali del suo bambino; egli piangerà sul proprio dolore e sulle manifestazioni di esso, come spettatore di se stesso. L'ipocrita, che recita sempre e solo la stessa parte, alla fine cessa di essere ipocrita — ad esempio i preti, che da giovani di solito sono, coscientemente o no, ipocriti, finiscono per diventare naturali, e sono allora effettivamente, senza affettazione, proprio preti; oppure, se il padre non ci arriva, ci arriverà forse il figlio, che si avvarrà del vantaggio del padre, ne erediterà l'abito. Se uno vuole a lungo e con perseveranza sembrare qualcosa, alla fine difficilmente potrà essere qualcosa d'altro. La professione di quasi ogni uomo, persino dell'artista, comincia con l'ipocrisia, con un imitare dall'esterno, un copiare quanto è d'effetto. Colui che indossa sempre la maschera di espressioni amichevoli, deve alla fine acquisire un potere sulle disposizioni benevole, senza le quali non ci si può costringere ad esprimere cordialità — e alla fine saranno queste a dominarlo, egli sarà benevolo.


 
52.
Il punto dell'onestà nell'inganno. — In tutti i grandi ingannatori è degno di nota un processo al quale essi debbono il loro potere. All'atto vero e proprio dell'inganno, fra tutti i preparativi, l'orrendo nella voce, nell'espressione, nei gesti, in mezzo all'efficace messa in scena, sopraggiunge in loro la fede in se stessi: è questa che allora parla in tono così prodigioso e suadente agli astanti. I fondatori di religioni si differenziano da questi grandi ingannatori per il fatto che non escono da questo stato di autosuggestione, oppure hanno molto raramente quei momenti di maggior lucidità in cui li soggioga il dubbio; ma di solito si consolano attribuendo quei momenti più lucidi alla malvagità dell'avversario. Deve esserci inganno di se stessi, perché questi e quelli producano un effetto imponente. Gli uomini infatti credono alla verità di tutto quanto venga chiaramente creduto con forza.


 
53.
Presunti gradi di verità. — Una deduzione errata molto frequente è questa: poiché uno è vero e sincero nei nostri confronti, egli deve dire la verità. Così il bambino crede ai giudizi dei suoi genitori, e il cristiano alle affermazioni del fondatore della chiesa. Così pure, non si vuole ammettere che tutto quello che gli uomini nei secoli passati hanno difeso sacrificando felicità e vita, non era altro che errore: forse si dice che si è trattato di gradi della verità. Ma in fondo si pensa che, se qualcuno ha sinceramente creduto in qualcosa e per questa sua fede ha combattuto e perso la vita, sarebbe veramente troppo iniquo che egli fosse stato animato soltanto da un errore. Un processo del genere sembra contraddire l'eterna giustizia; per questo il cuore degli uomini sensibili decreta sempre, contro il proprio cervello, il seguente principio: tra azioni morali e visioni intellettuali deve assolutamente esistere un legame necessario. Purtroppo le cose non stanno così; infatti non esiste alcuna giustizia eterna.


 
54.
La menzogna. — Perché gli uomini nella vita di tutti i giorni dicono per lo più la verità? Certo non perché un dio abbia proibito di mentire. Bensì, in primo luogo: perché è più comodo; infatti la bugia richiede inventiva, dissimulazione e memoria (per questo Swift dice: chi racconta una bugia non sa quale grave peso si tiri addosso; infatti, per sostenere una sola menzogna, dovrà inventarne altre venti). In secondo luogo: perché nei rapporti semplici è vantaggioso dire direttamente: voglio questo, ho fatto questo e cose simili; quindi perché la via della costrizione e dell'autorità è più sicura di quella dell'astuzia. Ma se un bambino è cresciuto in una complessa situazione familiare, userà con altrettanta naturalezza la menzogna e senza volerlo dirà ciò che conviene al suo interesse; il senso della verità, la ripugnanza per la bugia gli sono affatto estranei e inaccessibili, e pertanto egli mentirà in piena innocenza.


 
55.
Render sospetta la morale per amore della fede. — Nessuna potenza può sussistere se a rappresentarla sono solo degli ipocriti; per quanti elementi «secolari» la chiesa cattolica possieda, la sua forza riposa su quelle nature sacerdotali, frequenti ancor oggi, che si rendono la vita dura e profonda di significato, e il cui sguardo, il cui corpo emaciato parlano di veglie notturne, di digiuni, di preghiere ardenti, forse persino di flagellazioni; costoro scuotono gli uomini e incutono loro paura: se fosse necessario, come vivere così? — questa è l'agghiacciante domanda che la loro vista fa salire alle labbra. Essi, diffondendo questo dubbio, fondano sempre nuovi pilastri della loro potenza; persino uomini di liberi sentimenti non osano opporsi con duro senso della verità a chi è a tal punto dimentico di sé e dirgli: «O ingannato tu stesso, non ingannare!». Da questi li separa solo la diversità di idee, non una diversa bontà o malvagità; ma si è soliti trattare ingiustamente ciò che non piace. Così si parla dell'astuzia e dell'arte iniqua dei gesuiti, ma non si considera quale superamento di sé ognuno di essi si imponga, e come la facilitata pratica di vita predicata dai manuali gesuitici intenda favorire non questi, ma i laici. È lecito anzi domandarsi se noi illuminati saremmo, con una tattica e un'organizzazione in tutto simili, strumenti altrettanto buoni, e altrettanto ammirevoli per vittoria su noi stessi, infaticabilità e spirito di sacrificio.


 
56.
Vittoria della conoscenza sul male radicale. — A chi vuol diventare saggio, arreca un notevole guadagno l'aver contemplato una volta, per un certo periodo, l'idea dell'uomo radicalmente malvagio e corrotto: tale idea è falsa, come pure il suo contrario; ma per interi periodi è stata l'idea dominante, e le sue radici si sono diramate fin dentro di noi e il nostro mondo. Per comprendere noi stessi, dobbiamo comprendere quella; ma poi, per salire più in alto, dobbiamo superarla. Allora riconosceremo che non esistono peccati in senso metafisico, ma nemmeno virtù; che tutta questa sfera di rappresentazioni morali oscilla di continuo, e che esistono idee più elevate e profonde di bene e male, di morale e immorale. Chi alle cose non chiede molto di più se non di conoscerle, raggiunge facilmente la tranquillità d'animo e sbaglierà (o, come dice il mondo, peccherà) tutt'al più per ignoranza, ma difficilmente per avidità. Egli non vorrà più condannare ed estirpare i desideri; ma la sua unica meta, quella che lo domina completamente: conoscere in ogni tempo nel miglior modo possibile, lo renderà freddo e addolcirà quanto c'è di selvaggio nella sua costituzione. Inoltre si sarà liberato da una quantità di idee tormentose, e non proverà più nulla alle parole: pene infernali, peccaminosità, incapacità di fare il bene, nelle quali riconoscerà solo le ombre evanescenti di errate concezioni del mondo e della vita.


 
57.
Morale come autoscissione dell'uomo. — Un buon autore cui stia veramente a cuore la sua causa, desidera che arrivi qualcuno che lo annulli, rappresentando in modo più chiaro la medesima causa e rispondendo completamente alle questioni in essa contenute. La fanciulla innamorata desidera poter confermare nell'infedeltà dell'amato la devota fedeltà del suo amore. Il soldato desidera morire sul campo di battaglia per la sua patria vittoriosa, in quanto, nella vittoria della patria, trionfa anche il suo più alto desiderio. La madre dà al figlio ciò di cui priva se stessa, il sonno, il cibo migliore, a volte la salute, gli averi. Sono questi, però, stati privi di egoismo? sono, questi atti di moralità, miracoli, poiché secondo l'espressione di Schopenhauer sono «impossibili e tuttavia reali»? non è evidente che in tutti questi casi l'uomo ama qualcosa di sé, un pensiero, un desiderio, un risultato, più di qualche altra cosa di sé; che dunque egli scinde il suo essere e sacrifica una parte di esso all'altra? Accade qualcosa di essenzialmente diverso, quando un ostinato dice: «Voglio piuttosto andare in malora, che spostarmi d'un solo passo dalla mia strada per quest'uomo»? — In tutti i casi descritti è presente l'inclinazione verso qualcosa (desiderio, istinto, aspirazione); abbandonarsi ad essa, con tutte le conseguenze, non è comunque «non-egoistico». In fatto di morale l'uomo tratta se stesso non come Individuum, ma come dividuum.


 
58.
Quel che si può promettere. — Si possono promettere azioni ma non sentimenti: questi infatti sono involontari. Chi promette a qualcuno amore eterno, odio eterno o eterna fedeltà, promette qualcosa che non è in suo potere; può invece ben promettere quelle azioni che normalmente sono la conseguenza dell'amore, dell'odio, della fedeltà, ma che possono derivare anche da altri motivi: poiché molte sono le vie e i motivi che conducono a un'azione. Promettere di amar sempre qualcuno significa dunque: finché ti amerò, compirò nei tuoi confronti le azioni dell'amore; se cesserò di amarti, tu continuerai a ricevere da me le stesse azioni, anche se per motivi diversi; cosicché agli occhi degli altri rimane l'apparenza che l'amore sia sempre lo stesso, che non sia cambiato. Si promette dunque la durata della parvenza dell'amore, quando senza accecarsi da soli si giura a qualcuno amore eterno.


 
59.
Intelletto e morale. — Si deve possedere una buona memoria per poter mantenere le promesse fatte. Si deve avere una forte immaginazione per poter provare compassione. Tanto stretto è il legame tra morale e bontà dell'intelletto.


 
60.
Volersi vendicare e vendicarsi. — Coltivare e tradurre in atto un pensiero di vendetta significa subire un attacco di febbre violento ma passeggero; nutrire invece un pensiero di vendetta senza avere la forza né il coraggio di tradurlo in atto significa portarsi appresso una malattia cronica, un'intossicazione del corpo e dell'anima. La morale, che soppesa solo le intenzioni, giudica con pari metro i due casi; normalmente si considera peggiore il primo di essi (per le cattive conseguenze che forse l'atto di vendetta tira dietro). Ma entrambe le valutazioni sono miopi.


 
61.
Saper aspettare. — Il saper aspettare è così difficile, che i maggiori poeti non hanno disdegnato di prendere a motivo della loro poesia il non saper aspettare. Così Shakespeare nell'Otello, Sofocle nell'Aiace: se questi avesse lasciato sbollire ancora per un giorno il suo sentimento, il suicidio non gli sarebbe più apparso necessario, come accenna l'oracolo; avrebbe probabilmente giocato un brutto scherzo ai terribili suggerimenti della vanità offesa e si sarebbe detto: chi non ha già, in un caso come il mio, scambiato una pecora per un eroe? è poi una cosa tanto mostruosa? al contrario, è soltanto qualcosa di generalmente umano: — in tal modo Aiace avrebbe potuto consolarsi. La passione non vuole attendere; nella vita dei grandi uomini, l'elemento tragico spesso non sta nel loro conflitto con i tempi o con la bassezza del prossimo, ma nella loro incapacità di rinviare la propria opera di uno, due anni; non sanno aspettare. In tutti i duelli, gli amici chiamati come consiglieri debbono stabilire unicamente se le persone interessate possono aspettare ancora: se ciò non è possibile, allora un duello è ragionevole, in quanto ciascuno degli avversari dice a se stesso: «O continuo a vivere io, e allora l'altro deve morire all'istante, o viceversa». In un caso del genere, aspettare significherebbe soffrire ancora a lungo l'orrendo supplizio dell'onore ferito in presenza del suo feritore: e ciò può significare appunto soffrire più di quanto la vita non meriti.


 
62.
Intemperanza nella vendetta. — Uomini grossolani che si ritengono offesi sono soliti sopravvalutare il più possibile l'entità dell'offesa, e ne raccontano la causa in termini di forte esagerazione, solo per potersi meglio avvoltolare nel sentimento di odio e di vendetta una volta destato.

63

Valore della denigrazione. — Non pochi uomini, anzi forse la maggior parte di essi, per tener viva ai propri occhi la considerazione di sé e una certa destrezza nell'agire, sentono l'assoluta necessità di svalutare e sminuire nella propria immaginazione tutti gli uomini che conoscono. Poiché tuttavia le nature piccine sono la maggioranza, ed è molto importante che esse abbiano o perdano quella destrezza, allora —.


 
64.
L'infuriato. — Da uno che s'infuria contro di noi dobbiamo guardarci come da chi abbia una volta attentato alla nostra vita: infatti, che noi viviamo ancora dipende dall'assenza del potere di uccidere; se bastassero gli sguardi, ciò sarebbe accaduto già da molto tempo. È un frammento di cultura primitiva, il ridurre qualcuno al silenzio lasciando che si manifesti visibilmente il fisico furore e incutendo paura. Così pure, quello sguardo freddo che gli aristocratici rivolgono ai servitori, è un residuo della distinzione di casta tra uomo e uomo, un frammento di rozza antichità; le donne, custodi dell'antico, hanno conservato più fedelmente anche questo survival.


 
65.
Dove può condurre l'onestà. — Un uomo aveva la cattiva abitudine di esprimersi talvolta in tutta sincerità sui motivi per i quali agiva, e che erano buoni e cattivi né più né meno di quelli degli altri uomini. Dapprima suscitò scandalo, poi sospetto, poi a poco a poco fu addirittura messo al bando e denunciato al disprezzo della società, sinché alla fine la giustizia si ricordò di un essere così depravato in occasioni in cui di solito non aveva occhi, o li chiudeva. La mancanza di discrezione sul segreto comune e la irresponsabile tendenza a vedere quel che nessuno vuol vedere — se stesso — lo portarono in prigione e a morte prematura.


 
66.
Passibile di punizione, mai punito. — Il nostro delitto nei confronti dei delinquenti consiste nel fatto che li trattiamo da mascalzoni.


 
67.
Sancta simplicitas della virtù. — Ogni virtù ha i suoi privilegi: ad esempio questo, di portare al rogo di un condannato il proprio fascetto di legna.


 
68.
Moralità e successo. — Non solo gli spettatori di un'azione sogliono misurare quanto in essa c'è di morale o di immorale dalla sua riuscita; no, è colui stesso che la compie a far ciò. Infatti i motivi e le intenzioni raramente sono chiari e semplici a sufficienza, e a volte la memoria stessa sembra turbata dalla riuscita dell'azione, sicché spontaneamente si sottendono alla propria azione falsi motivi, o si trattano come essenziali quelli che invece non lo sono. Spesso il successo conferisce a un'azione l'onesto e pieno splendore della buona coscienza, mentre un fallimento getta l'ombra del rimorso sull'azione più rispettabile. Nasce di qui la nota prassi del politico, il quale pensa: «datemi solo il successo, e avrò tutte le anime oneste dalla mia parte, mi sarò reso onesto di fronte a me stesso». Così pure, il successo sostituirà la migliore motivazione. Ancor oggi molte persone colte pensano che la vittoria del cristianesimo sulla filosofia greca comprovi la maggior verità del primo — benché, in questo caso, sia stato ciò che era più rozzo e violento a vincerla su ciò che era più spirituale e delicato. In che cosa poi consistesse quella maggiore verità, lo si può vedere dal fatto che il risveglio della scienza si è collegato punto per punto alla filosofia di Epicuro, mentre ha respinto punto per punto la dottrina cristiana.


 
69.
Amore e giustizia. — Perché si sopravvaluta l'amore a scapito della giustizia e se ne dicono le cose più belle, come se fosse qualcosa di molto più elevato di quella? Non è invece chiaramente più stupido di quella? — Senza dubbio, ma proprio perciò tanto più piacevole per tutti. L'amore è stupido e possiede una ricca cornucopia: distribuisce i suoi doni a tutti, anche a chi non li merita e anzi neppure lo ringrazia. È imparziale come la pioggia che, secondo la Bibbia e l'esperienza, bagna sino al midollo non solo gli ingiusti, ma talvolta anche i giusti.


 
70.
Esecuzione. — Come avviene che ogni esecuzione ci offenda più di un assassinio? È per la freddezza dei giudici, per i penosi preparativi, per l'idea che in essa un uomo venga usato per incuter paura agli altri. Infatti la colpa, seppure ve ne fosse una, non viene punita: essa è negli educatori, nei genitori, nell'ambiente, in noi, non nell'assassino — intendo le circostanze che lo hanno portato a uccidere.


 
71.
La speranza. — Pandora portò il vaso che conteneva i mali e lo aprì. Era il dono degli dèi agli uomini, un dono dall'aspetto bello e seducente, detto anche «vaso della felicità«. Allora ne sfuggirono tutti i mali, esseri vivi e alati: da allora si aggirano per il mondo e notte e giorno arrecano danno agli uomini. Un solo male non si era ancora sprigionato da quel vaso: allora Pandora, secondo il volere di Zeus, abbassò il coperchio e il male vi restò dentro. Ora l'uomo ha per sempre il vaso della felicità nella sua casa, e crede meraviglie del tesoro che in esso possiede; il vaso è a sua disposizione, ed egli lo prende quando ne ha voglia; perché non sa che quel vaso portato da Pandora era il vaso dei mali, e pensa che il male rimasto lì dentro sia dunque il più gran bene di felicità — esso — è la speranza. Zeus infatti volle che l'uomo, benché già tanto angariato dagli altri mali, non gettasse via la vita, ma continuasse a farsi ancora e sempre angariare. Perciò egli dà all'uomo la speranza: in verità essa è il peggiore dei mali, perché prolunga il tormento degli uomini.


 
72.
Grado di fusione morale sconosciuto. — Dal fatto che si siano avute o no visioni e impressioni sconvolgenti, ad esempio di un padre giustiziato, ucciso o martirizzato ingiustamente, di una donna infedele, di una crudele aggressione nemica, dipende che le nostre passioni giungano a divenire incandescenti e guidino o no l'intera nostra vita. Nessuno sa dove possano condurlo le circostanze, la compassione, l'indignazione; egli non conosce il suo punto di fusione. Piccole circostanze miserevoli rendono miserevoli; di solito non è dalla qualità delle esperienze vissute, ma dalla loro quantità, che dipende la maggiore o minore statura di un uomo, nel bene e nel male.


 
73.
Il martire suo malgrado. — In un partito c'era un uomo troppo timoroso e vile per osar mai contraddire i suoi camerati: lo si adibiva a ogni servizio, da lui si otteneva tutto perché temeva la cattiva opinione dei suoi compagni più della morte; era un'anima debole e miseranda. I suoi compagni se ne accorsero e, per le qualità di cui abbiamo parlato, fecero di lui un eroe e alla fine anche un martire. Benché quell'uomo pavido entro di sé dicesse sempre no, con le labbra diceva sempre sì, perfino sul patibolo, quando morì per le idee del suo partito: gli stava infatti accanto uno dei suoi vecchi compagni, che con lo sguardo e la parola lo tiranneggiò tanto, che egli affrontò realmente la morte con la massima dignità, e da allora viene esaltato come martire e grande carattere.


 
74.
Criterio quotidiano. — Ci si sbaglierà raramente, attribuendo le azioni estreme alla vanità, quelle mediocri all'abitudine e quelle meschine alla paura.


 
75.
Malinteso sulla virtù. — Chi ha conosciuto il vizio in relazione al piacere — come chi ha alle sue spalle una gioventù avida di godimenti — si immagina che la virtù debba correlarsi alla sofferenza. Chi invece è stato molto travagliato da vizi e passioni, brama nella virtù la tranquillità e felicità dell'animo. Pertanto è possibile che due virtuosi non si capiscano l'un l'altro.


 
76.
L'asceta. — L'asceta fa di virtù necessità.


 
77.
L'onore trasferito dalla persona alia cosa. — Si onorano generalmente gli atti d'amore e di dedizione al prossimo, dove e quando si manifestino. In tal modo si accresce la stima delle cose che così vengono amate e per le quali ci si sacrifica: benché forse esse non siano in sé molto preziose. Un esercito valoroso convince della bontà della causa per la quale combatte.


 
78.
L'ambizione come surrogato del senso morale. — Il senso morale non deve assolutamente mancare in quelle nature che son prive di ambizioni. Gli ambiziosi se la cavano anche senza di esso, e con successo quasi uguale. Per questo i figli di famiglie modeste e aliene da ambizione, una volta perso il senso morale è facile che diventino rapidamente dei perfetti mascalzoni.


 
79.
La vanità rende ricchi. — Come sarebbe povero lo spirito umano senza la vanità! Cosi invece assomiglia a un magazzino ben fornito, che continua a rifornirsi e attira compratori di ogni sorta: essi possono trovarvi quasi tutto, tutto avere, purché abbiano con sé il tipo di moneta adatta (l'ammirazione).


 
80.
Il vecchio e la morte. — A parte ciò che la religione esige, ci si può ben chiedere: perché per un uomo invecchiato, che si sente venir meno le forze, dovrebbe esser più lodevole attendere di esaurirsi e dissolversi lentamente anziché por fine, in piena consapevolezza, a questo processo? In questo caso il suicidio è un atto perfettamente ovvio e naturale, che dovrebbe suscitare il dovuto rispetto, in quanto vittoria della ragione: e lo ha anche suscitato, nei tempi in cui i capi della filosofia greca e i più ardenti patrioti romani solevano morire suicidi. Il desiderio invece di prolungare giorno per giorno la propria esistenza, consultando angosciosamente i medici e conducendo una vita penosissima, l'ansia di giungere, senza forza, ancor più vicini al termine vero e proprio della vita, è molto meno rispettabile. Di fronte alla sfida del suicidio le religioni offrono una quantità di scappatoie: per questo ottengono il favore di coloro che sono innamorati della vita.


 
81.
Errori di chi subisce e di chi agisce. — Quando un ricco toglie un bene al povero (ad esempio, un principe porta via al plebeo la donna amata), nel povero si produce un errore: egli pensa che l'altro debba essere affatto scellerato, per prendergli quel poco che lui possiede. Ma l'altro non è tanto sensibile al valore di un singolo avere, essendo avvezzo a possederne molti: non può quindi immedesimarsi nel povero, e non commette un'ingiustizia così grave come quello ritiene. Ambedue nutrono una falsa idea l'uno dell'altro. L'ingiustizia del potente, che più fa indignare nella storia, è molto meno grande di quanto sembri. Già il sentimento ereditato di essere superiori e di avere esigenze più elevate rende piuttosto freddi e non turba la coscienza: persino tutti noi, quando la differenza che ci separa da un altro essere è molto grande, non proviamo più alcun senso di ingiustizia, e ad esempio uccidiamo una zanzara senza alcun rimorso. Così, in Serse (che persino i greci descrivono senza eccezione come straordinariamente nobile) non è affatto indice di malvagità strappare il figlio al padre e farlo dilaniare perché il padre aveva manifestato una sfiducia codarda e di cattivo augurio nei confronti della spedizione: in questo caso il singolo viene eliminato come un insetto molesto: egli sta troppo in basso perché gli sia consentito di suscitare più a lungo, in un dominatore del mondo, sentimenti che lo turbino. Anzi, ciascun uomo crudele non lo è mai tanto quanto il maltrattato ritiene; l'idea del dolore non è la stessa cosa che il patirlo. Così avviene pure per il giudice iniquo, per il giornalista che con piccole disonestà trae in inganno il pubblico. In tutti questi casi, causa ed effetto sono attorniati da gruppi di sentimenti e di pensieri affatto diversi; mentre involontariamente si presuppone che chi agisce e chi subisce pensino e sentano allo stesso modo, e in rapporto a questa supposizione si misura la colpa dell'uno dal dolore dell'altro.


 
82.
Pelle dell'anima. — Come le ossa, le carni, gli intestini e i vasi sanguigni sono avvolti in una pelle, che rende sopportabile la vista dell'uomo, così i moti e le passioni dell'anima sono avvolti dalla vanità; questa è la pelle dell'anima.


 
83.
Sonno della virtù. — Quando la virtù ha dormito, si alza più fresca.


 
84.
Finezza della vergogna. — Gli uomini non si vergognano quando pensano qualcosa di sporco, ma quando immaginano che li si pensi capaci di questi pensieri sporchi.


 
85.
La cattiveria è rara. — La maggior parte degli uomini è troppo occupata di sé per essere cattiva.


 
86.
L'ago della bilancia. — Si loda o si biasima a seconda che l'una o l'altra cosa offra maggior occasione di render brillante il nostro giudizio.


 
87.
Luca 18,14 corretto. — Chi si umilia, vuol essere innalzato.


 
88.
Impedire il suicidio. — Esiste un diritto per il quale noi togliamo la vita a un uomo, ma non ne esiste nessuno per il quale gli togliamo la morte: è pura crudeltà.


 
89.
Vanità. — Noi teniamo alla buona opinione degli uomini, intanto perché essa ci è utile, e poi perché vogliamo far loro piacere (i figli ai genitori, i discepoli ai maestri e in generale gli uomini benevoli a tutti gli altri uomini). Solo se qualcuno ritiene importante la buona opinione degli uomini a prescindere da un qualche vantaggio o dal desiderio di far piacere, noi parliamo di vanità. In questo caso l'uomo vuol far piacere a se stesso, ma a spese del prossimo, inducendolo a nutrire una falsa opinione di lui oppure mirando a un grado di «buona opinione» in cui essa è destinata a diventar penosa per tutti gli altri (suscitando l'invidia). Di solito l'individuo vuole confermare e rafforzare ai propri occhi l'opinione che ha di sé servendosi dell'opinione degli altri; ma la forza dell'abitudine all'autorità — abitudine antica quanto l'uomo — induce anche molti a fondare sull'autorità la loro fede in sé, dunque ad accettarla solo dalla mano altrui: si fidano più del giudizio altrui che del proprio. L'interesse verso se stesso, il desiderio di far piacere a se stesso raggiunge nel vanitoso un livello tale, che egli induce gli altri a una falsa e troppo elevata stima di sé, e tuttavia si attiene poi all'autorità degli altri: dunque provoca l'errore e poi gli presta fede. — Si deve quindi ammettere che i vanitosi non vogliono tanto piacere agli altri quanto a se stessi, e in ciò arrivano persino a trascurare il proprio vantaggio: spesso infatti tengono a rendere i propri simili sfavorevoli, ostili, invidiosi, dunque dannosi, nei propri confronti, solo per aver il piacere di se stessi, il godimento di sé.


 
90.
Limiti dell'amore per gli uomini. — Chiunque abbia dichiarato che l'altro è uno stupido, un cattivo compagno, si irrita poi se quello dimostra di non esserlo.


 
91.
Moralità larmoyante. — Quanto piacere fa la moralità! Si pensi solo che mare di gradevoli lacrime è stato versato al racconto di gesta nobili e coraggiose! Questa attrattiva della vita sparirebbe, se si affermasse la fede nella totale irresponsabilità.


 
92.
Origine della giustizia. — La giustizia (equità) prende origine tra uomini di potenza pressoché pari, come bene ha compreso Tucidide (nel terribile dialogo tra i messi ateniesi e melii): dove non esista una superiorità di forze chiaramente riconoscibile e una lotta porterebbe a un inutile danno per ambedue le parti, nasce il pensiero di mettersi d'accordo e di patteggiare sulle reciproche pretese: il carattere iniziale della giustizia è quello dello scambio. Ciascuno accontenta l'altro, in quanto ciascuno riceve ciò che egli apprezza più dell'altro. Si dà a ciascuno quel che egli vuole avere, come cosa ormai sua, e in cambio si riceve ciò che si desidera. Giustizia è dunque compensazione e scambio, con il presupposto di una posizione di forza quasi pari: così la vendetta rientra originariamente nell'ambito della giustizia, essa è uno scambio. Lo stesso vale per la gratitudine. La giustizia si riallaccia naturalmente al punto di vista di una intelligente conservazione di sé, dunque all'egoismo di questa riflessione: «Perché dovrei danneggiarmi inutilmente, senza peraltro raggiungere il mio scopo?». — Questo, sull'origine della giustizia. Poiché gli uomini, secondo l'abitudine del loro intelletto, hanno dimenticato lo scopo originario delle azioni cosiddette giuste, eque, e soprattutto poiché i fanciulli sono stati educati da migliaia di anni ad ammirare e imitare quelle azioni, è sorta via via l'illusione che un'azione giusta sia un'azione altruistica: e su questa illusione riposa l'alta stima che se ne ha e che per giunta, come tutte le stime, cresce in continuazione: ciò che è stimato molto viene infatti perseguito con sacrificio, imitato, riprodotto, e cresce perché al valore della cosa stimata viene ad aggiungersi quello della fatica e dello zelo impiegati da ciascuno. — Quanto poco morale sembrerebbe il mondo se non esistesse la dimenticanza! Un poeta potrebbe dire che Dio ha posto la dimenticanza come guardiana sulla soglia del tempio della dignità umana.


 
93.
Sul diritto del più debole. — Quando qualcuno si sottomette dietro condizioni a uno più potente, per esempio una città assediata, la condizione opposta è che ci si può annientare, si può bruciare la città e causare così una grave perdita al potente. Sorge qui perciò una sorta di equiparazione, in base alla quale si possono stabilire dei diritti. Il nemico trova il suo vantaggio nella conservazione. — In questo senso esistono diritti anche tra schiavi e padroni, cioè esattamente nella misura in cui possedere lo schiavo è per il padrone una cosa utile e importante. Il diritto originariamente si estende sin dove uno appare all'altro prezioso, essenziale, insostituibile, invincibile e cose del genere. Sotto questo riguardo anche il più debole ha ancora dei diritti, ma inferiori. Di qui il famoso unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet (o, più esattamente, quantum potentia valere credi tur).


 
94.
Le tre fasi sinora attraversate dalla moralità. — Il primo segno che la bestia è diventata uomo si ha quando il suo agire non si indirizza più al benessere momentaneo ma a quello durevole, quando dunque l'uomo persegue un utile, uno scopo: allora prorompe per la prima volta il libero dominio della ragione. Un livello ancora più alto si raggiunge quando l'uomo agisce secondo il principio dell'onore, grazie al quale egli si inserisce in un ordine, si sottomette a sentimenti comuni, il che lo innalza molto sulla fase in cui ancora lo guidava l'utile inteso in senso puramente personale: egli rispetta e vuol essere rispettato, intende cioè l'utile come dipendente da ciò che egli pensa degli altri, e gli altri di lui. Infine egli agisce, al più alto livello di moralità sinora raggiunto, secondo il proprio criterio degli uomini e delle cose, e decide egli stesso per sé e per gli altri ciò che è utile e onorevole; è diventato il legislatore delle opinioni, in base al concetto sempre più elevato dell'utile e dell'onorevole. La conoscenza lo mette in grado di anteporre il massimamente utile, cioè l'utile comune e duraturo, al personalmente utile, e l'onesto riconoscimento di una validità comune e durevole alla validità momentanea; egli vive e agisce da individuo collettivo.


 
95.
Morale dell'individuo maturo. — Sino ad ora si è considerato come vero segno distintivo dell'azione morale l'impersonalità; ed è dimostrato che all'inizio fu la considerazione dell'utile generale quella in base alla quale si lodavano e onoravano tutte le azioni impersonali. Non dovrebbe forse essere imminente un'importante trasformazione di queste opinioni, ora che sempre meglio si comprende come proprio nella considerazione più personale possibile sia anche la massima utilità collettiva, sicché proprio l'agire strettamente personale corrisponde all'attuale concetto di moralità (come utilità generale)? Far di sé una persona completa e, in tutto quanto si fa, tener presente il massimo bene di essa: questo porta molto più in là che non i compassionevoli moti e azioni in favore degli altri. Noi tutti siamo ancora affetti da una troppo scarsa considerazione di quanto in noi è personale, esso è malamente sviluppato — confessiamocelo: il nostro spirito ne è stato distolto con la forza, e offerto in sacrificio allo Stato, alla scienza, a quanto abbisognava di aiuto, come se fosse il male che doveva venir sacrificato. Anche adesso noi vogliamo lavorare per il nostro prossimo, ma solo per quanto in questo lavoro troviamo il nostro vantaggio più alto, né più né meno. Dipende solo da quel che si intende per proprio vantaggio; sarà l'individuo immaturo, primitivo, rozzo, a intenderlo anche nella maniera più rozza.


 
96.
Costume e costumato. — Essere morale, costumato, etico, significa portare obbedienza a una legge o a una tradizione di antica data. Che ci si sottometta a fatica o volentieri, non importa, basta che lo si faccia. «Buono» è detto chi, come per sua natura, dopo lunga ereditaria tradizione, dunque facilmente e volentieri, fa ciò che è conforme al costume quale esso di volta in volta è (ad esempio come vendette, se il compier vendetta fa parte del costume, come era presso i greci antichi). Vien detto buono perché è buono «a qualche cosa»; ma dato che, pur nel mutamento dei costumi, la benevolenza, la compassione e cose simili sono sempre state considerate come «buone a qualcosa», oggi si definisce specialmente «buono» chi è benevolo e caritatevole. Cattivo significa essere «non costumato» (immorale), esercitare il malcostume, ribellarsi alla tradizione, sia essa ragionevole o insensata; ma in ogni legge morale di ogni tempo recar danno al prossimo è stato considerato come particolarmente dannoso, cosicché oggi, alla parola «cattivo», noi pensiamo soprattutto al volontario nocumento del prossimo. L'«egoistico» e l'«altruistico» non sono la contrapposizione fondamentale che ha portato l'uomo a distinguere tra morale e immorale, tra bene e male, bensì l'esser legati a una tradizione, a una legge, e il liberarsene. Come la tradizione sia nata, qui è indifferente; essa ad ogni modo è nata indipendentemente da bene e male o da qualsiasi altro immanente imperativo categorico, soprattutto bensì allo scopo di conservare una comunità, un popolo; ogni usanza superstiziosa nata in base alla falsa interpretazione di un avvenimento genera una tradizione, seguire la quale è morale; liberarsi di essa è quindi pericoloso e dannoso per la collettività ancor più che per l'individuo (in quanto la divinità si vendica dell'empietà, e di ogni violazione ai suoi privilegi, sulla collettività, e solo in tal senso anche sull'individuo). Ora, ogni tradizione diventa vieppiù rispettabile quanto più lontana è la sua origine, quanto più questa viene dimenticata; il rispetto tributatole si accresce di generazione in generazione, e alla fine la tradizione diventa sacra e suscita venerazione; e così in ogni caso, la morale della pietà religiosa è una morale molto più antica di quella che esige azioni altruistiche.


 
97.
Il piacere nel costume. — Un tipo importante di piacere, e di conseguenza di fonte di moralità, nasce dall'abitudine. Si fa quanto è abituale più facilmente, meglio, dunque più volentieri; vi si prova piacere, e si sa per esperienza che l'abituale è collaudato, dunque è utile; un costume con il quale è possibile vivere è considerato salutare, in contrapposizione a ogni esperimento nuovo e non ancora messo alla prova. Il costume è perciò l'unione del piacevole e dell'utile, e per giunta non esige riflessione. Non appena l'uomo può esercitare la costrizione, l'adopera per introdurre e imporre i suoi costumi, che per lui sono una collaudata saggezza di vita. Così pure, una comunità di individui costringe ogni singolo componente allo stesso costume. Qui sta l'errore del sillogismo: per il fatto di trovarsi bene in un determinato costume, o almeno perché grazie ad esso si fa valere la propria esistenza, questo costume è necessario, in quanto considerato l'unica possibilità di trovarsi bene; unicamente da esso sembra scaturire il benessere della vita. Questa concezione dell'abituale come condizione dell'esistenza viene applicata sin nei più piccoli particolari del costume: poiché, nei popoli e nelle culture inferiori, la coscienza della reale causalità è molto scarsa, si guarda con paura superstiziosa a che tutto segua sempre lo stesso corso; persino laddove il costume è difficile, duro, pesante, esso viene conservato a causa della sua apparentemente altissima utilità. Si ignora che anche in costumi diversi può sussistere lo stesso grado di benessere, e che anzi se ne possono ricavare persino gradi superiori. Invece ben si nota come tutti i costumi, anche i più rigidi, col tempo diventano più gradevoli e miti, e come anche il costume di vita più severo può diventare un'abitudine, e di conseguenza un piacere.


 
98.
Piacere e istinto sociale. — Dai suoi rapporti con gli altri, l'uomo ricava un nuovo tipo di piacere, in aggiunta ai sentimenti di piacere che egli ricava da se stesso; in tal modo allarga notevolmente la sfera del sentimento di piacere in genere. Forse, una parte di quanto attiene a questa sfera egli l'ha ereditata già dagli animali, che provano un evidente piacere a giocare insieme, soprattutto le madri coi piccoli. Si pensi inoltre ai rapporti sessuali, che in vista del piacere rendono interessante a ogni maschio pressoché ogni femmina, e viceversa. Il sentimento di piacere che scaturisce dai rapporti umani rende in genere l'uomo migliore; la gioia comune, il piacere goduto insieme diventano maggiori e danno sicurezza all'individuo, lo rendono più buono, dissolvono la diffidenza, l'invidia: perché ci si sente bene e si vede che l'altro si sente bene allo stesso modo. Le uguali manifestazioni di piacere risvegliano la fantasia della simpatia, il sentimento di essere uguali: lo stesso provocano anche i dolori sofferti in comune, le tempeste, i pericoli, i nemici. Su questa base si costruisce poi la più antica alleanza, il cui senso sta nell'eliminare insieme e nel respingere la minaccia di un dolore per il bene di ogni singolo. Così dal piacere nasce l'istinto sociale.


 
99.
L'innocenza nelle cosiddette cattive azioni. — Tutte le azioni «cattive» sono motivate dall'istinto di conservazione o, ancor più esattamente, dal desiderio dell'individuo di cercare il piacere e fuggire il dolore: così motivate, però, esse non sono cattive. Il «procurar dolore in sé» non esiste, tranne che nel cervello dei filosofi, e così pure il «procurar piacere in sé» (compassione nel senso di Schopenhauer). Nella fase precedente alla nascita dello Stato noi uccidiamo l'essere, sia esso scimmia o uomo, che vuol prenderci il frutto dell'albero nel momento in cui noi abbiamo fame e corriamo verso l'albero: cosa che faremmo ancor oggi, con un animale, se ci trovassimo a percorrere una plaga inospitale. Le cattive azioni che oggi più ci indignano, si fondano sull'errore che colui che ce le infligge possieda una libera volontà, e dunque che sia a sua discrezione non farci questo male. Credere in questa possibilità di arbitrio suscita l'odio, il desiderio di vendetta, la ferocia, tutto l'incattivirsi della fantasia, mentre ci adiriamo molto meno con un animale, in quanto lo consideriamo irresponsabile. Far del male non per istinto di conservazione, ma per rivalsa, è la conseguenza di un giudizio errato ed è perciò altrettanto incolpevole. Nella fase che precede lo Stato, il singolo può esser duro e feroce verso altri esseri solo per spaventarli, per assicurare la propria esistenza mediante tali prove di potenza. Così agisce il violento, il potente, l'originario fondatore di uno stato, che sottomette a sé i più deboli. Egli ha diritto a far ciò, quel diritto che ancor oggi lo Stato si arroga; o piuttosto: non esiste alcun diritto che lo possa impedire. Il terreno per ogni moralità può esser preparato solo quando un individuo più grande o un individuo collettivo, come la società o lo Stato, sottomette i singoli, quindi li estrae dal loro isolamento e li ordina in una associazione. La moralità è preceduta dalla costrizione, anzi essa stessa è per un certo periodo costrizione, alla quale ci si rimette per evitare il dolore. Più tardi essa diventa costume, poi libera obbedienza, e infine quasi istinto: allora essa è legata al piacere, come ogni cosa che sia da tempo abituale e naturale — e si chiama virtù.


 
100.
Pudore. — Il pudore esiste ovunque esista un «mistero»: ma questo è un concetto religioso che ebbe vasta diffusione nei tempi più antichi della cultura umana. Dappertutto c'erano zone ben definite, alle quali il diritto divino vietava l'accesso, se non a determinate condizioni: zone intese dapprima in senso puramente spaziale, in quanto certi luoghi non potevano venir calcati dal piede dei non iniziati, che in vicinanza di questi provavano orrore e paura. Questo sentimento fu poi variamente trasferito ad altri rapporti, ad esempio ai rapporti sessuali che, in quanto prerogativa e sacrario dell'età adulta, dovevano esser sottratti allo sguardo della gioventù, per il suo bene: rapporti, per salvaguardare e santificare i quali furono pensati molti dèi attivi e posti a custodia del talamo nuziale. (Per questo in turco questa camera si chiama harem, «santuario», e viene quindi definita con lo stesso nome che si usa per gli atrii delle moschee). Così la regalità è come un centro da cui irradiano potenza e splendore, per il suddito un mistero pieno di segretezza e pudore: cosa di cui si sentono ancor oggi molti effetti in popoli che per altro verso non sono affatto tra quelli pudibondi. Così pure, per i non filosofi è tuttora un mistero quel mondo di stati interiori,.la cosiddetta «anima», che per tempi immemorabili fu ritenuta di origine divina e degna di rapporti con gli dèi: essa è perciò un sacrario e suscita pudore.


 
101.
Non giudicate. — Nel considerare epoche passate, bisogna guardarsi dal biasimarle ingiustamente. L'ingiustizia della schiavitù, la ferocia con la quale si assoggettavano uomini e popoli, non si debbono misurare con il nostro metro. Infatti a quei tempi l'istinto della giustizia non era ancora sviluppato come oggi. Chi potrebbe rimproverare al Calvino di Ginevra il rogo del medico Serveto? Fu un'azione conseguente, che scaturiva dalle sue convinzioni, e così anche l'Inquisizione aveva le sue buone ragioni: le idee dominanti erano sbagliate e producevano conseguenze che oggi ci appaiono dure, solo perché ci sono divenute estranee quelle idee. Del resto, che cos'è il rogo di un individuo in confronto alle eterne pene infernali per quasi tutti? Eppure allora quell'idea dominava tutto il mondo, senza pregiudicare sostanzialmente, con la sua molto maggiore terribilità, l'idea di un dio. Anche presso di noi i fanatici politici vengono trattati con durezza e crudeltà ma noi, per aver imparato a credere nella necessità dello Stato, in questo non sentiamo la crudeltà come là dove riproviamo certe idee. La crudeltà verso gli animali, propria dei bambini e degli italiani, si riconnette a una incomprensione: l'animale, soprattutto per gli interessi della dottrina ecclesiastica, è stato posto troppo indietro rispetto all'uomo. — Anche molte cose terribili e disumane della storia, alle quali non si vorrebbe credere, si attenuano se si considera che chi comanda e chi esegue sono due persone diverse: il primo non ha la visione diretta delle cose e quindi la sua fantasia non subisce alcuna forte impressione, il secondo ubbidisce a un superiore e si sente non responsabile. Gran parte dei prìncipi e dei capi militari facilmente sembrano, per mancanza di fantasia, duri e crudeli senza esserlo. L'egoismo non è malvagio giacché in noi l'immagine del «prossimo» — la parola è di origine cristiana e non corrisponde alla verità — è molto debole, e verso di esso noi ci sentiamo liberi e irresponsabili quasi come verso una pianta o una pietra. Che l'altro soffra, bisogna impararlo: e non lo si potrà mai imparare del tutto.


 
102.
«L'uomo agisce sempre bene.» — Noi non accusiamo la natura di immoralità quando ci manda un temporale e ci fa bagnare: perché chiamiamo immorale l'uomo che fa il male? Perché in questo caso supponiamo una volontà libera, dominatrice nel suo arbitrio, e nell'altro, invece, una necessità. Ma questa distinzione è un errore. Inoltre: neppur il far del male volontariamente, noi lo chiamiamo sempre immorale; ad esempio, si uccide una zanzara intenzionalmente e senza esitazione, perché il suo ronzio ci infastidisce, si punisce il delinquente intenzionalmente e gli si fa del male per proteggere noi e la società. Nel primo caso è l'individuo che, per conservarsi o anche per non procurarsi un dolore, fa intenzionalmente del male; nel secondo caso è lo Stato. Ogni morale ammette che si arrechi danno volontariamente in caso di legittima difesa: cioè quando si tratta della propria conservazione. Ma questi due punti di vista bastano a spiegare tutte le cattive azioni che l'uomo commette contro l'uomo: si vuole il nostro piacere o si vuole allontanare il dolore; in certo qual modo si tratta pur sempre della nostra conservazione. Socrate e Platone hanno ragione: qualunque cosa faccia, l'uomo fa sempre il bene, ossia: ciò che gli sembra buono (utile), a seconda del livello del suo intelletto e del grado di volta in volta raggiunto dalla sua razionalità.


 
103.
L'innocenza nella cattiveria. — Scopo della cattiveria non è il dolore degli altri in sé, ma il nostro godimento, ad esempio come sentimento di vendetta o come più forte eccitamento dei nervi. Già ogni provocazione mostra quanto piacere faccia sfogare su un altro la nostra potenza e giungere a un delizioso senso di superiorità. L'immoralità consiste dunque allora nel provar piacere al dolore altrui? Il piacere del male altrui è diabolico, come afferma Schopenhauer? Ora, nella natura noi ci procuriamo piacere spezzando rami, staccando pietre, lottando con animali feroci, e lo facciamo per prender coscienza della nostra forza. Sapere che un altro soffre a causa nostra, renderebbe dunque immorale questa stessa cosa, riguardo alla quale altrimenti ci sentiamo irresponsabili? Ma, se non lo si sapesse, non si proverebbe nemmeno il piacere della propria superiorità, che appunto può darsi a conoscere solo nel dolore altrui, ad esempio nella provocazione. Ogni piacere di per se stesso non è né buono né cattivo; da dove dovrebbe venire la norma secondo cui, per aver piacere di sé, non sarebbe lecito procurare dolore ad altri? Solo da un punto di vista utilitario, cioè dalla considerazione delle conseguenze, di un possibile dolore, nel caso in cui il danneggiato o, al posto suo, lo Stato faccia prevedere punizione e vendetta: solo questo può avere in origine dato il motivo per rinunziare a tali azioni. — La compassione si propone tanto poco il piacere altrui, quanto poco, come abbiamo detto, la cattiveria si propone il dolore altrui in sé. Infatti essa nasconde in sé almeno due (ma forse molti di più) elementi di piacere personale, e in questo senso è godimento di sé: in primo luogo come piacere dell'emozione, come lo è la compassione nella tragedia greca; in secondo luogo, quando spinge all'azione, come piacere di appagamento nell'esercitare la propria potenza. Se per giunta la persona che soffre ci è molto vicina, compiendo atti di compassione solleviamo noi stessi da un dolore. — Gli uomini, ad eccezione di alcuni filosofi, nella scala dei sentimenti morali hanno sempre collocato la compassione piuttosto in basso: con ragione.


 
104.
Legittima difesa. — Se in generale si ammette come morale la legittima difesa, si debbono anche ammettere quasi tutte le manifestazioni del cosiddetto egoismo immorale: si procura dolore, si ruba o si uccide per conservare se stessi o per difendersi, per prevenire la sventura personale; si mente quando astuzia e simulazione siano il giusto mezzo per la propria conservazione. Nuocere intenzionalmente, se si tratta della nostra esistenza o della nostra sicurezza (conservazione del nostro benessere) viene concesso come morale; da questo punto di vista anche lo Stato fa del male, quando infligge delle pene. Nel danno involontario non può naturalmente esservi immoralità, qui governa il caso. Esiste allora un tipo di danno volontario, in cui non si tratti della nostra esistenza, della conservazione del nostro benessere? Esiste un nuocere per pura malvagità, ad esempio nella crudeltà? Se si ignora quanto male faccia un'azione, allora non v'è alcuna azione malvagia; così, il fanciullo non è malvagio, non è cattivo verso l'animale: lo esplora e lo distrugge come un suo giocattolo. Ma si sa mai completamente quanto un'azione faccia male a un altro? Sin dove giunge il nostro sistema nervoso, noi ci proteggiamo dal dolore: se esso arrivasse più in là, sin dentro il nostro prossimo, noi non faremmo del male a nessuno (salvo nei casi in cui lo facciamo a noi stessi, vale a dire quando ci tagliamo per guarire, e ci adoperiamo e ci diamo pena per la nostra salute). Noi deduciamo per analogia che qualcosa faccia male a qualcuno, e tramite la memoria e la forza della fantasia può accadere che ci sentiamo male noi stessi. Ma quale differenza resta sempre tra il mal di denti e il dolore (compassione) che la vista del mal di denti suscita? Dunque: nel far male per cosiddetta cattiveria, il grado del dolore provocato ci è in ogni caso sconosciuto; ma, in quanto in questa azione è insito un piacere (sentimento della propria potenza, della propria forte eccitazione), l'azione viene compiuta per conservare il benessere dell'individuo e cade perciò sotto un punto di vista simile a quello della legittima difesa, della legittima menzogna. Senza piacere non c'è vita; la lotta per il piacere è la lotta per la vita. Se il singolo combatte questa lotta in modo che gli uomini lo dicano buono, o la combatte in modo che lo dicano cattivo, questo lo decide la misura e la qualità del suo intelletto.


 
105.
La giustizia che premia. — Chi ha compreso in pieno la dottrina della totale irresponsabilità, non può più ricondurre la cosiddetta giustizia che premia e che punisce al concetto di giustizia: se essa consiste nel dare a ciascuno il suo. Infatti colui che viene punito non merita la pena: viene solo usato come mezzo onde distogliere in futuro gli uomini da determinate azioni; così pure, chi viene premiato non merita la ricompensa: infatti non poteva agire altrimenti da come ha agito. La ricompensa ha dunque soltanto il senso di un incoraggiamento per lui e per gli altri, per fornire quindi un motivo per azioni successive; la lode vien gridata a chi sta correndo sulla pista, non a chi è giunto al traguardo. Né la punizione né la ricompensa sono qualcosa che competa a uno come il suo; gli vengono date solo per ragioni di utilità, senza che egli possa pretendervi con giustizia. Si deve dunque dire: «Il saggio non premia per il fatto che si è agito bene», allo stesso modo che si è detto: «Il saggio non punisce per il fatto che si è agito male, ma affinché non si agisca male». Se premio e punizione venissero a mancare, verrebbero a mancare i motivi più forti che distolgono da determinate azioni e spingono ad altre; il bene degli uomini esige il loro sussistere; e nella misura in cui premio e punizione, lode e biasimo agiscono nel modo più sensibile sulla vanità, la stessa utilità esige anche che continui a esistere la vanità.


 
106.
Presso la cascata. — Guardando una cascata, nel vario incurvarsi, serpeggiare e rifrangersi delle onde noi crediamo di vedere libertà del volere e libera scelta; ma tutto è necessario, e ogni movimento matematicamente calcolabile. Così è anche per le azioni umane; si dovrebbe poter calcolare in anticipo ogni singola azione, se si fosse onniscienti, come pure ogni progresso della conoscenza, ogni errore, ogni malvagità. Anche colui che compie l'azione vive nell'illusione del libero arbitrio; se all'improvviso la ruota del mondo si arrestasse e un'intelligenza onnisciente e calcolatrice fosse là per utilizzare questa pausa, essa potrebbe raccontare il futuro di ogni essere sin nei tempi più lontani e indicare ogni traccia su cui quella ruota dovrà ancora passare. L'illusione che colui che agisce nutre su di sé, l'ipotesi della libera volontà, appartiene anch'essa a questo calcolabile meccanismo.


 
107.
Irresponsabilità e innocenza. — La totale irresponsabilità dell'uomo rispetto alle sue azioni e al suo essere è la goccia più amara che chi vuole conoscere deve inghiottire, se nella responsabilità e nel dovere era avvezzo a vedere la patente di nobiltà della propria umanità. Tutte le sue valutazioni, le sue preferenze e avversioni perdono in tal modo ogni valore e son divenute false: il suo più profondo sentimento che egli tributava a chi soffriva, all'eroe, si rivolgeva a un errore; egli non può più lodare né biasimare, in quanto non ha senso lodare o biasimare la natura e la necessità. Come egli ama, ma non loda, la buona opera d'arte in quanto essa non può nulla per se stessa, come si pone davanti a una pianta, così deve porsi davanti alle azioni degli uomini e alle sue proprie. In esse può ammirare la forza, la bellezza, la pienezza, ma non può trovarvi dei meriti: il processo chimico e la lotta degli elementi, lo strazio del malato che anela di guarire, sono tanto poco dei meriti quanto poco lo sono quelle lotte dello spirito e quegli stati di emergenza in cui si vien trascinati qua e là da motivi diversi, sino a che finalmente ci si decide per il più potente di essi — si fa per dire (ma, in verità, sino a che il motivo più potente decide di noi). Ma tutti questi motivi, con qualsiasi nome altisonante vogliamo chiamarli, sono cresciuti dalle stesse radici nelle quali crediamo si annidino i cattivi veleni; tra azioni buone e azioni cattive non c'è differenza di genere, ma tutt'al più di grado. Azioni buone sono cattive azioni sublimate; azioni cattive sono buone azioni inasprite e corrotte. L'unico desiderio dell'individuo, quello del godimento di sé (e insieme la paura di restarne privo), si soddisfa in tutte le circostanze, l'uomo può agire come vuole, cioè come deve: sia in atti di vanità, vendetta, piacere, utilità, malvagità, astuzia, sia in atti di dedizione, compassione, conoscenza. La maggiore o minore capacità di giudizio stabilisce in quale direzione ciascuno si farà trasportare da questo desiderio; ogni società, ogni individuo ha sempre presente una gerarchia dei beni, in base alla quale determina le sue azioni e giudica quelle altrui. Ma questo criterio cambia continuamente, molte azioni vengon dette cattive mentre sono solo stupide, in quanto il grado di intelligenza che le ha scelte era molto basso. Anzi, in un certo senso, ancor oggi tutte le azioni sono stupide, perché il grado di intelligenza attualmente raggiungibile verrà sicuramente superato: e allora, a guardare indietro, tutto il nostro agire e giudicare apparirà così limitato e avventato, come limitato e avventato appare oggi a noi l'agire e il giudicare di popolazioni arretrate e selvagge. Rendersi conto di tutto ciò può esser molto doloroso, ma poi c'è una consolazione: questi dolori sono le doglie del parto. La farfalla vuol rompere il suo involucro, vi dà strappi, lo lacera: allora l'abbaglia e la turba la luce sconosciuta, il regno della libertà. In uomini capaci di quella tristezza — quanto pochi saranno! — viene fatto questo primo esperimento: se l'umanità possa trasformarsi da morale in saggia. Il sole di un nuovo evangelo getta il suo primo raggio sulla più alta vetta dell'anima di quei singoli: là le nebbie si addensano più fitte che mai, e l'uno accanto all'altro stanno il più chiaro splendore e il più cupo crepuscolo. Tutto è necessità — questo dice la nuova conoscenza; ed essa stessa è necessità. Tutto è innocenza: e la conoscenza è la via per comprendere questa innocenza. Se piacere, egoismo, vanità sono necessari per produrre i fenomeni morali e la loro massima fioritura, il senso della verità e della giustizia della conoscenza, l'errore e lo smarrimento della fantasia erano l'unico mezzo con cui l'umanità poteva lentamente sollevarsi a questo grado di illuminazione e liberazione di sé: chi potrebbe disprezzare questi mezzi? Chi potrebbe esser triste, se scorge la meta cui conducono quelle vie? Nel regno della morale tutto è divenuto, mutevole, fluttuante, tutto è nel fiume, è vero: ma tutto è anche nella corrente, verso una meta. In noi può ben continuare a operare l'abitudine ereditaria a valutare, ad amare, a odiare erroneamente, ma sotto l'influsso di una sempre maggiore conoscenza essa si indebolirà: un'abitudine nuova, a comprendere, a non amare, non odiare, a guardare dall'alto si radica a poco a poco in noi sullo stesso terreno, e tra qualche millennio sarà forse tanto potente da dare all'umanità la forza di produrre l'uomo saggio e innocente (consapevole della sua innocenza) con la stessa regolarità con cui oggi produce l'uomo non saggio, non giusto, consapevole della propria colpa — ovvero il necessario preludio di quello, non il suo contrario.


 
PARTE TERZA. La vita religiosa

 
108.
Duplice lotta contro il male. — Quando un male ci colpisce, lo si può superare o eliminandone la causa, o modificando l'effetto che esso produce sul nostro sentimento: cioè invertendo il senso di quel male in un bene, il cui vantaggio si vedrà forse solo in seguito. Religione e arte (e anche la filosofia metafisica) si sforzano di operare sulla trasformazione del sentimento, sia trasformando il nostro giudizio sulle esperienze vissute (ad esempio con l'aiuto del detto: «Dio punisce quelli che ama»), sia risvegliando un piacere nel dolore, e in generale nell'emozione (da cui prende avvio l'arte del tragico). Quanto più uno è incline a dare al male interpretazione e funzione diverse, tanto meno considererà le cause di esso e le eliminerà; la momentanea mitigazione e narcotizzazione, quale è usata ad esempio per il dolor di denti, gli sarà sufficiente anche per i dolori più forti. Quanto più si indebolisce la forza delle religioni e di ogni arte della narcosi, tanto più rigorosamente gli uomini si preoccupano della effettiva eliminazione dei mali: il che è senz'altro grave per i poeti tragici — in quanto si trova sempre meno materiale per la tragedia, perché sempre più angusto diventa il regno del destino implacabile e inesorabile — ma è ancor più grave per i preti; infatti questi sinora hanno vissuto della narcotizzazione dei mali umani.


 
109.
Afflizione è conoscenza. — Quanto volentieri si vorrebbero cambiare le menzognere affermazioni dei preti, che esiste un dio il quale esige da noi il bene, guardiano e testimone di ogni azione, di ogni istante, di ogni pensiero; che ci ama, che in ogni sventura vuole il nostro meglio: quanto volentieri le si vorrebbe cambiare con delle verità altrettanto salutari, tranquillizzanti e benefiche di quegli errori! Ma tali verità non esistono; la filosofia a sua volta può loro opporre al massimo delle parvenze metafisiche (in fondo, parimenti non verità). Ma ora la tragedia è questa, che a quei dogmi della religione e della metafìsica non si può credere se nel cuore e nella mente si possiede il metodo severo della verità; d'altra parte si è divenuti, per l'evoluzione dell'umanità, così delicati, eccitabili e tormentati, da aver bisogno di mezzi di salute e consolazione della specie più elevata; di qui nasce dunque il pericolo che l'uomo muoia dissanguato per le ferite infertegli dalla verità che ha conosciuto. Questo esprime Byron in versi immortali:

Sorrow is knowledge: they who know the most

Must mourn the deepest o'er the fatai truth,

The Tree of Knowledge is not that of Life.

Il mezzo migliore per fugare questi pensieri è quello di evocare, almeno nelle ore più tristi e buie per l'anima, la solenne frivolezza di Orazio e dire a se stessi, con lui:

quid aeternis minorem

consiliis animum fatigas?

cur non sub alta vel platano vel hac

pinu jacentes...

Certamente la frivolezza o la malinconia di ogni grado son meglio di un arretramento e di una diserzione romantica, di un accostamento al cristianesimo in qualsiasi forma: con esso infatti, allo stato attuale della conoscenza, non ci si può più compromettere senza macchiare irrimediabilmente e sacrificare di fronte a sé e agli altri la propria coscienza intellettuale. Quei dolori possono essere abbastanza penosi: ma senza dolori non si può diventare guide ed educatori dell'umanità — e guai a chi vi si provasse e non avesse più quella coscienza pura!


 
110.
La verità nella religione. — Al tempo dell'Illuminismo non si era resa giustizia al significato della religione, su questo non v'è dubbio: ma è altrettanto certo che, nella reazione che seguì a quel periodo, si andò parimenti ben oltre la giustizia, trattando le religioni con amore, anzi invaghendosene, e riconoscendo loro ad esempio una comprensione più profonda, anzi la più profonda, del mondo; comprensione che la scienza avrebbe solo dovuto spogliare dei suoi paludamenti dogmatici per possedere poi in forma non mitica la «verità». Le religioni dunque — come affermavano tutti gli avversari dell'Illuminismo — esprimevano sensu allegorico, tenendo conto dell'intelligenza della massa, quella saggezza antichissima che era la verità in sé, in quanto ogni vera scienza dell'epoca moderna aveva sempre portato ad essa anziché lontano da essa: cosicché tra i più antichi saggi dell'umanità e quelli moderni regnava armonia, anzi identità di vedute, e un progresso delle conoscenze — se di un simile progresso si voleva parlare — riguardava non l'essenza di esse, ma il modo di comunicare tale essenza. Questa concezione della religione e della scienza è totalmente sbagliata; e nessuno oserebbe oggi riconoscersi in essa, se non l'avesse presa sotto le sue ali l'eloquenza di Schopenhauer: questa eloquenza altisonante, che tuttavia raggiunge i suoi uditori solo dopo una generazione. Per quanto certo è che dall'interpretazione religioso-morale dell'uomo e del mondo fornita da Schopenhauer si può ricavare molto per la comprensione del cristianesimo e delle altre religioni, è anche altrettanto certo che egli si è ingannato sul valore della religione per la conoscenza. In questo era egli stesso un troppo docile discepolo dei maestri di scienza del suo tempo, che osannavano tutti al romanticismo e avevano rinnegato lo spirito dell'Illuminismo; se fosse nato nel nostro tempo, non avrebbe assolutamente potuto parlare del sensus allegoricus della religione; avrebbe piuttosto reso onore alla verità, come era solito fare, con le parole: nessuna religione ha ancor mai contenuto, né direttamente né indirettamente, né come dogma né come Parabola, una verità. Infatti ciascuna di esse è nata dall'angoscia e dal bisogno, e si è insinuata nell'esistenza servendosi degli errori della ragione; forse una volta, sentendosi minacciata dalla scienza, ha mendacemente introdotto nel suo sistema una qualche teoria filosofica, perché ve la si potesse ritrovare più tardi: ma questa è un'acrobazia da teologi, che si compie quando una religione già dubita di sé. Queste acrobazie teologiche (che nel cristianesimo, in quanto religione di un'epoca dotta, imbevuta di filosofia, furono usate già molto presto) hanno condotto a quella superstizione del sensus allegoricus, ma ancor più di esse vi ha condotto l'abitudine dei filosofi (soprattutto delle nature ibride, dei filosofi-poeti e dei poeti-filosofeggianti), a considerare come essenza fondamentale dell'uomo tutti i sentimenti che essi trovavano in se stessi, e di attribuire così anche ai loro propri sentimenti religiosi un significativo influsso sulla costruzione dei loro sistemi di pensiero. Poiché i filosofi, sia pur variamente, filosofavano condizionati dalla tradizione di abitudini religiose o almeno sotto l'antica, potente eredità di quel «bisogno metafìsico», essi approdarono a concetti dottrinali che in realtà erano molto simili ai concetti religiosi ebraici o cristiani o indiani — simili come di solito i figli sono simili alla madre: solo che, in questo caso, i padri non si rendevano ben conto di quella maternità, come talvolta accade —, ma, nell'innocenza della loro meraviglia, favoleggiarono di una somiglianza di famiglia fra tutte le religioni e la scienza. In effetti, tra le religioni e la vera scienza non esiste parentela né amicizia, e neppure ostilità: esse vivono su stelle diverse. Una filosofia che faccia rilucere, nell'oscurità delle sue ultime visioni, una coda di cometa religiosa, rende in sé sospetto tutto quanto essa espone come scienza: questo 'tutto' è presumibilmente anch'esso religione, pur se agghindato da scienza. Del resto: se tutti i popoli fossero d'accordo su determinate questioni religiose, ad esempio sull'esistenza di un dio (cosa che, detto per inciso, a questo proposito non si verifica), ciò costituirebbe appunto solo un argomento contrario alle questioni sostenute, ad esempio all'esistenza di un dio: il consensus gentium, e in generale hominum, può giustamente riferirsi solo a una pazzia. Di contro, non esiste affatto un consensus omnium sapientium, riguardo a nessuna cosa, con l'eccezione di cui parlano i versi goethiani:

Tutti i più saggi di ogni tempo

Sorridono, ammiccano e concordano:

Stolto ostinarsi a guarire gli stolti!

Figli della saggezza, considerate i pazzi

appunto da pazzi, come si conviene!

Detto in prosa, e applicandolo al nostro caso: il consensus sapìentium consiste in questo, che il consensus gentium è rivolto a una follia.


 
111.
Origine del culto religioso. — Se ci riportiamo ai tempi in cui la vita religiosa era nel suo massimo rigoglio, vi troviamo una convinzione di base che oggi non condividiamo più, e a causa della quale ci vediamo chiuse una volta per sempre le porte della vita religiosa: tale convinzione riguarda la natura e il rapporto con essa. A quei tempi nulla ancora si sa di leggi naturali: né per la terra né per il cielo esiste ancora una necessità; una stagione, la luce del sole, la pioggia possono venire o anche non venire. Manca in genere ogni concetto di causalità naturale. Quando si rema, non è l'atto del remare che fa muovere la barca, il remare è solo una cerimonia magica, con la quale si costringe un demone a far muovere la barca. Tutte le malattie, e la stessa morte, sono il risultato di influssi magici. L'ammalarsi e il morire non sono mai processi naturali; manca ogni idea di «svolgimento naturale» — solo presso gli antichi greci, dunque in una fase molto tarda dell'umanità, essa comincia ad affacciarsi nel concetto della Moira, che troneggia sugli dèi. Quando uno tira con l'arco, sono sempre presenti una mano e una forza irrazionali; se le sorgenti improvvisamente inaridiscono, si pensa prima d'ogni altra cosa ai demoni sotterranei e alle loro malizie; dev'essere il dardo di un dio, sotto la cui forza irresistibile un uomo improvvisamente si abbatte. In India (secondo Lubbock) il falegname suole offrir sacrifici al suo martello, alla sua ascia e agli altri arnesi di lavoro, e allo stesso modo si comporta il bramino con la penna con cui scrive, il soldato con l'arma che usa sul campo, il muratore con la sua cazzuola, il contadino con il suo aratro. Nell'idea degli uomini religiosi, l'intera natura è una somma di azioni di esseri dotati di conoscenza e volontà, un immenso complesso di atti arbitrari. In relazione a tutto quanto sta fuori di noi, non è permesso concludere che qualcosa sarà in questo modo o in un altro, che qualcosa dovrà avvenire in questo modo o in un altro; quel che è approssimativamente sicuro e calcolabile siamo noi : l'uomo è la regola, la natura è la mancanza di regola — questa proposizione contiene la convinzione fondamentale che domina le culture primordiali, rozze, produttrici di religione. Noi uomini di oggi sentiamo per l'appunto esattamente l'opposto: quanto più ricco l'uomo si sente interiormente, quanto più polifonico è il suo soggetto, tanto più potente agisce su di lui la simmetria della natura; noi tutti riconosciamo con Goethe nella natura il grande mezzo di acquietamento dell'animo moderno, ascoltiamo il battere del pendolo del più grande orologio con una nostalgia di tranquillità, di familiarità e di silenzio, come se di questa simmetria potessimo intriderci e, solo grazie ad essa, giungere al godimento di noi stessi. Allora accadeva il contrario: se ci riportiamo col pensiero alle condizioni rozze e primitive dei popoli, o consideriamo da vicino gli odierni selvaggi, li troviamo determinati nel modo più rigoroso dalla legge, dalla tradizione: l'individuo è quasi automaticamente vincolato da esse, e si muove con l'uniformità di un pendolo. La natura — la non compresa, terribile, misteriosa natura — gli deve apparire come il regno della libertà, dell'arbitrio, della forza superiore, e allo stesso tempo come un grado sovraumano dell'esistenza, come dio. Ora però ogni individuo di simili tempi e condizioni sente come da quegli arbitri della natura dipendano la sua esistenza, il bene suo, della famiglia, dello Stato, il successo di ogni impresa: certi processi naturali debbono intervenire al tempo giusto, altri invece al tempo giusto cessare. In che modo si può esercitare un influsso su queste spaventose incognite, come si può imbrigliare il regno della libertà? questo egli si domanda, e indaga con angoscia: non esiste dunque alcun mezzo per regolare quelle forze con una tradizione, con una legge, così come ne sei regolato tu stesso? La riflessione degli uomini che credono alla magia e ai prodigi mira a imporre una legge alla natura: e, in poche parole, il risultato di questa riflessione è il culto religioso. Il problema che quegli uomini si pongono è intrinsecamente collegato a questo: come può la razza più debole dettar legge alla più forte, determinarla, guidare le sue azioni (in rapporto alla più debole)? Per prima cosa ci si ricorderà del tipo più innocuo di costrizione, quella che si esercita su qualcuno una volta ottenutane la simpatia. Con suppliche e preghiere, con la sottomissione, con l'obbligo di regolari tributi e doni, con lusinghiere glorificazioni è dunque possibile esercitare una costrizione anche sulle forze della natura, in quanto le rendiamo a noi favorevoli: l'amore vincola e viene vincolato. Poi si possono concludere accordi, nei quali ci si obbliga a un determinato comportamento reciproco, si danno pegni e si scambiano giuramenti. Ma molto più importante è un tipo di costrizione più efficace, per mezzo della magia e degli incantesimi. Come l'uomo, con l'aiuto del mago, può nuocere anche a un nemico più forte e lo mantiene in uno stato di paura nei suoi confronti, come l'incantesimo d'amore agisce a distanza, così l'uomo debole crede di poter influire anche sui potenti spiriti della natura. Il mezzo principale di ogni incantesimo è di entrare in possesso di qualcosa che appartenga a qualcuno: capelli, unghie, qualche cibo della sua mensa, persino il suo ritratto, il suo nome. Con questo apparato si può allora procedere all'incantesimo; infatti il presupposto fondamentale è questo: a ogni essere spirituale è proprio qualcosa di corporeo, con l'aiuto del quale si può vincolare lo spirito, nuocergli, distruggerlo; l'elemento corporeo fornisce l'appiglio con cui si può afferrare l'elemento spirituale. Ora, come l'uomo agisce sull'uomo, così egli agisce anche su un qualsiasi spirito della natura: anch'esso, infatti, possiede il suo elemento corporeo per il quale può essere afferrato. L'albero e, paragonato ad esso, il seme da cui è nato: questo misterioso accostamento sembra dimostrare che in ambedue le forme si è incorporato il medesimo spirito, ora piccolo, ora grande. Una pietra che improvvisamente rotola è il corpo in cui agisce uno spirito: se in una plaga solitaria si erge un enorme blocco di pietra, sembra impossibile pensare a una forza umana che l'abbia trascinato sin là, dunque la pietra dev'essersi mossa da sola: essa cioè deve ospitare uno spirito. Tutto quanto abbia un corpo è accessibile all'incantesimo, e dunque anche gli spiriti della natura. Se poi un dio è legato alla sua immagine, si può esercitare una costrizione diretta anche su di lui (negandogli i cibi votivi, flagellandolo, incatenandolo e cose simili). In Cina la gente del popolo, per estorcere a un dio il favore che viene a mancare, lega con corde l'effigie di colui che l'ha abbandonata, la tira giù, la trascina per le strade su mucchi di fango e di immondizie: «Cane di uno spirito, dicono, ti abbiamo fatto abitare in un tempio splendido, ti abbiamo indorato, ti abbiamo nutrito bene, e tu sei così ingrato!». Ancora in questo secolo, in qualche paese cattolico sono state prese analoghe misure coercitive contro immagini di santi e della madonna che, in casi di pestilenza e di siccità, rifiutavano di fare il proprio dovere. Tutti questi rapporti magici con la natura hanno dato vita a innumerevoli cerimonie; e infine, quando la confusione tra queste è diventata troppo grande, ci si affanna a ordinarle, a fissarle in un sistema, cosicché si crede di garantirsi il favorevole svolgimento dell'intero ciclo della natura, e in particolare della grande rivoluzione annuale, svolgendo corrispondentemente tutto un sistema di procedure. Il senso del culto religioso è di determinare ed esorcizzare la natura a vantaggio dell'uomo, dunque di imprimerle una legalità che essa non possiede fin da principio, mentre al giorno d'oggi si vuole conoscere la legalità della natura per adeguarsi ad essa. Insomma, il culto religioso si basa sull'idea dell'incantesimo tra uomo e uomo; e il mago è più antico del prete. Ma, parimenti, esso poggia su altre e più nobili concezioni; presuppone il rapporto di simpatia tra uomo e uomo, l'esistenza della benevolenza, della gratitudine, dell'esaudimento delle suppliche, di patti tra nemici, del conferimento di pegni, del diritto alla protezione della proprietà. Anche a livelli culturali molto bassi, l'uomo non sta di fronte alla natura come uno schiavo impotente, non è necessariamente il suo servo privo di volontà: al livello della religione greca, soprattutto nel rapporto con gli dèi olimpici, si può addirittura pensare alla convivenza di due caste, una più nobile e potente e una meno nobile; ma in un certo senso ambedue sono, quanto a origine, complementari e di una sola specie, non debbono vergognarsi l'una dell'altra. Questo è l'elemento nobile della religiosità greca.


 
112.
Alla vista di alcuni antichi strumenti di sacrificio. — Come alcuni sentimenti vadano perduti per noi, lo si può ad esempio vedere dall'unione del farsesco, e persino dell'osceno, con il sentimento religioso; il sentimento della possibilità di questa mescolanza va scomparendo, e ormai noi capiamo solo storicamente che essa esisteva, nelle feste di Demetra e di Dioniso, nelle feste pasquali e nei misteri cristiani: ma anche noi conosciamo ancora il sublime in unione col burlesco e cose simili, il commovente commisto al ridicolo: cosa, forse, che un tempo a venire non capirà più.


 
113.
Cristianesimo come antichità. — Quando, in un mattino di domenica, sentiamo suonare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è possibile? tutto questo per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere il figlio di Dio! La prova di questa affermazione manca. Senza dubbio, ai nostri tempi la religione cristiana è un'antichità che emerge da un'epoca remotissima, e il fatto che si presti fede a quella affermazione, mentre di solito si esamina con tanto rigore ogni pretesa, è forse il frammento più antico di questa eredità. Un dio che fa figli con una donna mortale; un saggio che esorta a non lavorare più, a non tener più tribunali, ma a pensare alla prossima fine del mondo; una giustizia che accetta l'innocente come capro espiatorio; qualcuno che comanda ai suoi discepoli di bere il suo sangue; preghiere per interventi miracolosi; peccati commessi contro un dio ed espiati da un dio; paura di un al di là, la porta del quale è la morte; il segno della croce come simbolo nel mezzo di un'epoca che non conosce più la condanna e l'umiliazione della croce: quanto orridamente ci alita contro tutto ciò, come dal sepolcro di un passato antichissimo! Dovremmo dunque credere che ancora si crede a questo?


 
114.
Ciò che nel cristianesimo è non greco. — I greci vedevano sopra di sé gli dèi omerici non come padroni, e se stessi sotto di loro non come servi, al modo degli ebrei. In un certo senso, essi vedevano solo l'immagine speculare dei più riusciti esemplari della loro casta, dunque una idealizzazione, non un opposto della loro natura. Ci si sentiva reciprocamente affini, esisteva un interesse reciproco, una sorta di simmachia. L'uomo che si dà tali dèi nutre una nobile opinione di sé, e si pone in un rapporto simile a quello che intercorre tra la piccola e l'alta nobiltà; mentre i popoli italici hanno una vera e propria religione da contadini, con la paura continua di potenze malvagie e capricciose e di spiriti maligni. Scomparsi gli dèi olimpici, anche la vita greca fu più cupa e angosciosa. Il cristianesimo invece schiacciò e spezzò completamente l'uomo, e lo gettò nel profondo di una palude: poi, nel sentimento di una abiezione totale, fece d'un tratto balenare lo splendore della divina misericordia, sicché l'uomo, colto di sorpresa e stordito dalla grazia, proruppe in un grido di estasi e per un istante credette di portare in sé il cielo intero. Su questo morboso eccesso del sentimento, sulla profonda corruzione della mente e del cervello ad esso necessaria, operano tutte le trovate psicologiche del cristianesimo: esso vuole annientare, frantumare, stordire, estasiare — solo una cosa non vuole: la misura, ed è per questo che esso è, nel senso più profondo, barbarico, asiatico, non nobile, non greco.


 
115.
Essere religiosi con vantaggio. — Ci sono persone lucide e abili nel loro lavoro, alle quali la religione sta cucita come un orlo di umanità superiore: queste fanno molto bene a restare religiose, ciò le rende più belle. Tutti coloro che non si intendono di qualche mestiere di armi — e tra le armi vanno annoverate anche lingua e penna — diventano servili: ad essi la religione torna molto utile, perché così la loro servilità prende l'abito della virtù cristiana e ne esce soiprendentemente abbellita. Le persone alle quali la vita quotidiana appare troppo vuota e monotona, facilmente diventano religiose: ciò è comprensibile e scusabile; solo che non hanno alcun diritto di esigere religiosità da coloro per i quali la vita quotidiana non scorre vuota e monotona.


 
116.
Il cristiano comune. — Se il cristianesimo avesse ragione predicando un dio vendicatore, il peccato universale, la predestinazione e il pericolo della dannazione eterna, sarebbe segno di stoltezza e di mancanza di carattere non farsi preti, apostoli o eremiti e non lavorare angosciati e tremanti unicamente alla propria salvezza; non avrebbe senso trascurare il premio eterno per la comodità temporanea. Presupposto che in genere si creda, il cristiano comune è una figura miserevole, un uomo che veramente non sa contare sino a tre e che del resto, per la sua incapacità mentale, non meriterebbe di essere punito così duramente come il cristianesimo gli promette.


 
117.
Dell'intelligenza del cristianesimo. — È un trucco del cristianesimo quello di insegnare la totale indegnità, peccaminosità e spregevolezza dell'uomo a voce così alta, che non sia più possibile disprezzare il prossimo. «Può peccare quanto vuole, non è poi così diverso da me: sono io che, in ogni grado, sono indegno e spregevole», si dice il cristiano. Ma anche questo sentimento ha perso la parte più acuta del suo pungolo, poiché il cristiano non crede alla sua spregevolezza individuale: egli è malvagio come uomo in genere, e si tranquillizza un poco con la frase: siamo tutti della stessa specie.


 
118.
Scambio di persone. — Non appena una religione prevale, ha come avversari tutti quelli che sarebbero stati i suoi primi seguaci.


 
119.
Destino del cristianesimo. — Il cristianesimo è nato per alleviare il cuore; ma ora deve prima opprimerlo, per poterlo poi alleviare. Di conseguenza perirà.


 
120.
La prova del piacere. — L'opinione piacevole viene accolta come vera: questa è la prova del piacere (o, come dice la Chiesa, della forza), di cui tutte le religioni vanno tanto orgogliose, mentre dovrebbero vergognarsene. Se la fede non rendesse beati, non sarebbe creduta: quanto poco varrà essa dunque!


 
121.
Gioco pericoloso. — Chi oggi fa in sé nuovo spazio al sentimento religioso, deve anche lasciarvelo crescere, non ha altra scelta. Allora il suo essere si modifica, privilegia quanto è vicino e connesso all'elemento religioso, e tutta la sfera del giudicare e del sentire si ammanta di nubi, è percorsa da ombre religiose. Il sentimento non può fermarsi: si faccia dunque attenzione.


 
122.
I discepoli ciechi. — Sin quando uno conosce molto bene la forza e la debolezza della sua dottrina, della sua arte, della sua religione, queste hanno ancora una forza assai scarsa. Il discepolo e apostolo che non ha occhi per le debolezze della dottrina, della religione e così via, abbagliato dalla figura del maestro e dall'amore che gli porta, ha di solito, per questi motivi, maggior potere del maestro. Senza i ciechi discepoli, mai l'influsso di un uomo e della sua opera è potuto diventare grande. Contribuire alla vittoria di una conoscenza spesso significa solo affratellarla tanto alla stupidità, che il peso di quest'ultima ottiene la vittoria anche per quella.


 
123.
Distruzione delle chiese. — Non c'è abbastanza religione nel mondo, anche solo per distruggere le religioni.


 
124.
Stato d'innocenza dell'uomo. — Se si è capito come la colpa sia «venuta al mondo», cioè per gli errori della ragione, a causa dei quali gli uomini giudicano il prossimo, e anche se stessi, molto più neri e cattivi di quanto effettivamente non siano; l'intero sentimento ne risulta così alquanto rasserenato, e uomini e mondo si presentano inoltre in una tal gloria di innocenza, che uno ne risente benessere sin nel più profondo di sé. Nella natura, l'uomo è sempre il fanciullo in sé. Questo fanciullo può ben fare, a volte, un sogno triste e angoscioso; ma, quando riapre gli occhi, si rivede sempre in paradiso.


 
125.
Irreligiosità degli artisti. — Omero tra i suoi dèi è tanto a suo agio ed ha, come poeta, una tal confidenza con loro, che in ogni caso dev'essere stato un uomo profondamente irreligioso; con quel che la fede popolare gli recava — una superstizione misera, rozza, in parte spaventevole — si comportava così liberamente, come lo scultore con la sua argilla, dunque con la stessa disinvoltura che possedettero Eschilo e Aristofane e per la quale, in epoca moderna, si distinsero i grandi artisti del Rinascimento come Shakespeare e Goethe.


 
126.
Arte e forza della falsa interpretazione. — Tutte le visioni, le paure, i mancamenti, le estasi del santo sono noti stati di malattia, che soltanto vengono da lui interpretati, in base a radicati errori psicologici e religiosi, in modo affatto diverso, cioè non come malattie. Così, anche il demone di Socrate forse è solo un mal d'orecchi, che egli, secondo il suo prevalente modo di pensiero morale, interpreta diversamente da come si farebbe oggi. Non altrimenti stanno le cose con il delirio e i folli discorsi dei profeti e degli oracoli; è sempre il grado di sapienza, di fantasia, di aspirazione e di moralità nella mente e nel cuore degli interpreti, che ne ha fatto una cosa tanto grande. È tra le opere più grandi di quegli uomini che son detti geni e santi il procurarsi interpreti che li fraintendano per la salvezza dell'umanità.


 
127.
Venerazione della follia. — Poiché si era notato che spesso una eccitazione rendeva la mente più lucida e ispirava idee felici, si ritenne che, con le eccitazioni più intense, si divenisse partecipi delle idee e delle ispirazioni più felici: e così si venerò il folle come saggio e dispensatore di oracoli. Alla base di ciò sta una deduzione errata.


 
128.
Promesse della scienza. — La scienza moderna ha, come scopo, il minor dolore possibile, la vita più lunga possibile — quindi una specie di eterna beatitudine, certo molto modesta in confronto a quel che promette la religione.


 
129.
Generosità proibita. — Nel mondo non esistono abbastanza amore e bontà da potersi permettere di farne dono a esseri immaginari.


 
130.
Il culto religioso continua a vivere nell'animo. — La chiesa cattolica, e prima di essa ogni culto religioso antico, dominava tutta la sfera dei mezzi con i quali l'uomo viene portato a stati d'animo eccezionali e sottratto al freddo calcolo del vantaggio o al puro pensiero razionale. Una chiesa che trema per accenti profondi; appelli cupi, regolari, trattenuti, di una schiera di sacerdoti che involontariamente trasmette la propria tensione alla comunità e le fa tender l'orecchio quasi con angoscia, come se appunto stesse per compiersi un miracolo; il soffio di un'architettura che, in quanto sede di una divinità, si erge nell'indeterminato e in ogni spazio buio fa temere il muoversi di essa: chi vorrebbe restituire agli uomini questi fenomeni, se non si crede più ai presupposti di essi? Tuttavia, i risultati di tutto ciò non sono andati perduti: il mondo interiore degli stati d'animo sublimi, commossi, pieni di presentimenti, profondamente contriti, beati per la speranza, è stato inseminato negli uomini principalmente dal culto; quel che di esso esiste oggi nell'anima fu coltivato allora, quando esso germogliò, crebbe e fiorì.


 
131.
Nostalgie religiose. — Per quanto disabituati ci si creda alla religione, ciò tuttavia non è avvenuto a tal punto che non si provi piacere a imbattersi in sentimenti religiosi e in stati d'animo dal contenuto non intelligibile, ad esempio nella musica; e se una filosofia ci indica la giustezza di certe speranze metafisiche, della profonda pace dell'anima che da esse si può raggiungere, e parla ad esempio di «tutto il sicuro vangelo nello sguardo delle madonne di Raffaello», noi accogliamo tali detti e spiegazioni con sentimento particolarmente lieto: qui per il filosofo è più facile dimostrare che quanto egli vuol dare, corrisponde a quel che un cuore accoglie volentieri. In ciò si nota come gli spiriti liberi meno attenti si scandalizzino veramente solo dei dogmi, ma conoscano molto bene il fascino del sentimento religioso; riesce loro doloroso lasciar perdere quest'ultimo per amore dei primi. La filosofia scientifica deve star ben attenta a non contrabbandare errori in base a quel bisogno — un bisogno che si è creato, e che di conseguenza è anche passeggero —, persino alcuni logici parlano di «presentimenti» delia verità nella morale e nell'arte (ad esempio del presentimento che «l'essenza delle cose è una»): cosa che dovrebbe loro esser proibita. Tra le verità rese accuratamente manifeste e tali cose «presentite» rimane, incolmabile, l'abisso che quelle son dovute all'intelletto e queste al bisogno. La fame non dimostra che, a saziarla, esista un cibo, ma lo desidera. «Presentire» non significa riconoscere che una cosa esiste in un qualsiasi grado, ma ritenerla possibile, per il fatto di desiderarla o di temerla; il presentimento non fa compiere alcun passo avanti nel campo della certezza. — Si crede involontariamente che le parti di una filosofia sfumate di religione siano meglio dimostrate delle altre; ma in fondo è il contrario, solo dentro di sé si prova il desiderio che possa essere così, e che dunque ciò che rende felici sia anche il vero. Questo desiderio ci induce a prendere per buone ragioni cattive.


 
132.
Del bisogno cristiano di redenzione, - A un'attenta riflessione deve essere possibile trovare una spiegazione, che sia libera da mitologia, a quel processo dell'anima del cristiano che vien detto desiderio di redenzione: una spiegazione, dunque, puramente psicologica. In verità, sinora le spiegazioni psicologiche di stati d'animo e fatti religiosi non hanno goduto molto credito, giacché in questo campo conduceva la sua sterile esistenza una teologia sedicente libera: in essa si mirava a priori, come fa supporre lo spirito del suo fondatore. Schleiermacher, al mantenimento della religione e della teologia cristiane; e in questo senso doveva acquistare, nelle analisi psicologiche di «fatti» religiosi, un nuovo fondamento e una nuova occupazione. Senza lasciarci sviare da tali precursori, noi osiamo dare, del suddetto fenomeno, questa interpretazione. L'uomo è consapevole di determinate azioni, che nella usuale gerarchia delle azioni sono collocate molto in basso, anzi egli scopre in sé una tendenza ad azioni del genere, che gli appare immutabile quasi quanto il suo essere. Quanto volentieri si cimenterebbe in quell'altro genere di azioni, che la valutazione generale riconosce come le più alte e nobili; come vorrebbe sentirsi pervaso di quella buona coscienza che segue a un modo non egoistico di pensare! Purtroppo, però, non va oltre questo desiderio: l'insoddisfazione di non poterlo appagare si aggiunge a tutte le altre specie di insoddisfazione che il suo destino in genere, o le conseguenze di quelle azioni dette cattive, han suscitalo in lui; sicché insorge in lui un profondo malessere, ed egli cerca un medico che sia in grado di farlo scomparire con tutte le sue cause. Questo stato non sarebbe vissuto con tanta amarezza, se l'uomo si paragonasse senza imbarazzo agli altri uomini: allora non avrebbe alcun motivo di essere particolarmente insoddisfatto di sé, porterebbe solo la sua parte del generale fardello dell'insoddisfazione e imperfezione umane. Ma egli si paragona con un essere capace solo di quelle azioni dette inegoistiche e che vive nella costante coscienza di un modo disinteressato di pensare: con Dio; ed è per il fatto di guardare in tale limpido specchio che il suo essere gli appare così torbido, così inusualmente sfigurato. Inoltre lo angoscia il pensiero di quello stesso essere, il quale sta davanti alla sua fantasia come giustizia punitrice: in ogni piccola e grande esperienza vissuta crede di riconoscere la sua ira, la sua minaccia, anzi di sentire già i colpi di frusta del suo giudizio e del suo supplizio. Chi lo aiuta in questo pericolo, che con la prospettiva di una durata incommensurabile della pena supera in atrocità ogni altro terrore dell'immaginazione?


 
133.
Prima di descrivere questo stato nelle sue ulteriori conseguenze, vogliamo tuttavia ammettere che l'uomo ci si è venuto a trovare non per sua «colpa» e «peccato», ma per una serie di errori della ragione; che era per un difetto dello specchio se il suo essere gli appariva oscuro e odioso a tal punto, e che quello specchio era opera sua, l'opera molto imperfetta della fantasia e del giudizio umani. In primo luogo, un essere capace unicamente di azioni affatto inegoistiche è ancor più mitico dell'araba fenice; non è nemmeno chiaramente rappresentabile, già per il fatto che, a un esame rigoroso, l'intero concetto di «azione altruistica» va in fumo. Mai uomo ha fatto qualcosa solo per gli altri e senza movente personale; anzi, come dovrebbe poter fare qualcosa che non avesse alcun riferimento con lui, quindi senza intima necessità (la quale certo dovrebbe avere la sua ragione in un bisogno personale)? Come potrebbe l'ego agire senza l'ego! Un dio che fosse invece tutto amore, sarebbe incapace di qualsiasi azione altruistica; e qui dovremmo ricordarci di un pensiero di Lichtenberg, tratto in verità da una sfera meno elevata; «È impossibile che noi sentiamo per gli altri, come si suol dire; noi sentiamo solo per noi. Questa frase suona dura, ma non lo è, solo che la si intenda rettamente. Non si ama né padre né madre né moglie né figlio, bensì i dolci sentimenti che essi suscitano in noi», o, come dice La Rochefoucauld: «Si on croit aimer sa maitresse pour l'amour d'elle, on est bien trompé». Sul motivo poi per cui le azioni d'amore vengono stimate più di altre, ossia non per la loro natura, ma per la loro utilità, si vedano le già menzionate analisi «sull'origine dei sentimenti morali». Ma se un uomo dovesse desiderare di essere tutto amore come quel dio, di fare e di volere tutto per gli altri e niente per sé, ciò sarebbe impossibile già per il fatto che egli deve fare moltissimo per sé, per poter in genere fare qualcosa per amore degli altri. Inoltre ciò presuppone che l'altro sia tanto egoista da continuare ad accettare quel sacrifìcio, quella vita dedicata a lui: sicché gli uomini dell'amore e della dedizione hanno interesse a che continuino a esistere egoisti senza amore e incapaci di sacrificio, e la più alta moralità dovrebbe, per poter sussistere, ottenere a forza l'esistenza dell'immoralità (con il che essa si eliminerebbe da sé). — Inoltre: l'idea di un dio turba e scoraggia sinché vi si crede, ma, su come essa sia nata, allo stato attuale dell'etnologia comparata non può più esistere alcun dubbio: e, se si tien conto della sua origine, ogni fede in essa cade. Al cristiano che paragona la sua natura con quella di Dio, accade come a don Chisciotte, che non stima abbastanza il suo valore perché ha in mente le gesta prodigiose degli eroi dei romanzi cavallereschi: l'unità di misura, nell'uno e nell'altro caso, appartiene al regno della favola. Ma, se cade l'idea di Dio, cade anche il senso del «peccato» come infrazione alle prescrizioni divine, come macchia in una creatura consacrata a Dio. Allora resta probabilmente ancora quel disagio, molto aderente e affine alla paura del castigo della giustizia umana o del disprezzo degli uomini; il disagio dei rimorsi di coscienza, il pungolo più acuminato del senso di colpa è comunque infranto, quando ci si rende conto che con le proprie azioni si è contravvenuto a tradizioni, a canoni e ordinamenti umani, ma non si è compromessa l'«eterna salvezza dell'anima» e il suo rapporto con la divinità. Se infine l'uomo arriva anche ad acquisire la convinzione filosofica della incondizionata necessità e della totale irresponsabilità di tutte le azioni e ad assimilarla nella carne e nel sangue, sparisce anche quell'ultimo residuo di rimorsi.


 
134.
Ora, se il cristiano, come abbiamo detto, è caduto per certi errori, e dunque per un'errata e non scientifica interpretazione delle sue azioni e dei suoi sentimenti, nel senso del disprezzo di sé, dovrà notare con estrema meraviglia come quello stato di disprezzo, di rimorsi di coscienza e in generale di dispiacere, non duri, e come a volte giungano ore in cui tutto ciò è come spazzato via dalla sua anima ed egli si sente nuovamente libero e coraggioso. In verità il piacere di sé, il benessere per la propria forza, insieme con il necessario attutirsi di ogni profonda eccitazione, hanno vinto: l'uomo si ama di nuovo, lo sente — ma proprio questo amore, questa nuova stima di sé gli sembrano incredibili, e in essi può vedere soltanto il discendere del tutto immeritato di uno splendore di grazia dall'alto. Se prima credeva di scorgere in ogni avvenimento ammonizioni, minacce, punizioni e ogni specie di segni dell'ira divina, ora egli interpreta le sue esperienze alla luce della bontà divina: quel fatto gli si presenta come pieno d'amore, quell'altro come una soccorrevole indicazione, quel terzo, e in generale tutta la lieta disposizione del suo animo, come un segno della misericordia divina. Se prima, nel suo stato di disagio, interpretava falsamente soprattutto le sue azioni, ora interpreta falsamente soprattutto le sue eperienze; nel suo stato di consolazione vede l'effetto di una forza che agisce al di fuori di lui, e l'amore del quale in fondo egli ama se stesso gli appare come amore divino; ciò che egli chiama grazia e preludio di redenzione, in realtà è grazia resa a se stesso, redenzione di sé.


 
135.
Dunque: una determinata falsa psicologia, una certa specie di fantasia nell'interpretare i motivi e le esperienze vissute sono il presupposto necessario a che uno diventi cristiano e senta il bisogno di redenzione. Una volta compreso questo errore della ragione e della fantasia, si cessa di essere cristiani.


 
136.
Dell'ascesi e santità cristiane. — Per quanto singoli pensatori si siano sforzati di introdurre, in quelle rare manifestazioni di moralità cui si suol dare il nome di ascesi e santità, un elemento miracoloso contro il quale sarebbe già sacrilegio e profanazione puntare il lume di una spiegazione razionale, altrettanto forte è però a sua volta la tentazione di commettere un tal sacrilegio. Un forte impulso della natura ha condotto in ogni tempo a protestare contro quei fenomeni; la scienza, in quanto è, come abbiamo detto, una imitazione della natura, si permette almeno di elevare protesta contro l'affermata inspiegabilità, anzi inavvicinabilità di essi. Sinora, invero, non le è riuscito: quei fenomeni restano ancor oggi inspiegati, con enorme piacere di quegli ammiratori del moralmente miracoloso di cui sopra. Infatti, parlando in termini generali, l'inesplicato deve restare affatto inesplicabile, e l'inesplicabile del tutto innaturale, sovrannaturale, miracoloso: questo esige l'anima di tutti i religiosi e metafisici (anche degli artisti, quando siano anche pensatori); mentre l'uomo scientifico in tale esigenza vede il «principio del male». La prima considerazione di carattere generale che si formula considerando la santità e l'ascesi è questa, che la loro natura è complicata: infatti quasi dappertutto, nel mondo fisico come in quello morale, si è riusciti con fortuna a ricondurre il preteso fatto miracoloso al fatto complicato, molteplicemente condizionato. Arrischiamoci dunque a isolare dapprima singoli impulsi nell'anima degli asceti e dei santi e a pensarli poi in reciproca connessione.


 
137.
Esiste una opposizione verso se stessi, alle cui più sublimate manifestazioni appartengono alcune forme di ascesi. Certi uomini hanno infatti così gran bisogno di esercitare il proprio potere e la propria avidità di dominio che, in mancanza di altri oggetti, o perché ciò non è loro mai riuscito altrimenti, alla fine si trovano a tiranneggiare determinate parti della propria natura, per così dire sezioni o gradi di se stessi. Così alcuni pensatori professano opinioni che chiaramente non contribuiscono ad aumentare o migliorare la loro reputazione; altri si attirano addirittura il disprezzo altrui, mentre sarebbe loro facile, semplicemente tacendo, rimanere uomini rispettati; altri ritrattano opinioni espresse in precedenza, e non temono d'esser definiti da allora in poi inconseguenti: anzi, si adoperano per questo, e si comportano come quei cavalieri troppo baldanzosi cui il cavallo piace solo quando è imbizzarrito, coperto di sudore e ombroso. Così l'uomo si inerpica per sentieri impervi sui più alti monti, per poter schernire ridendo la sua paura e il tremore delle sue ginocchia; così il filosofo professa vedute di ascesi, umiltà e santità, al cui fulgore la sua stessa immagine risulta atrocemente imbruttita. Questo spezzare se stessi, questo scherno per la propria natura, questo spernere se sperni, cui le religioni hanno dato tanta importanza, è propriamente un grado molto elevato di vanità. Ne fa parte l'intera morale del discorso della montagna: l'uomo prova una vera voluttà nel farsi violenza con pretese eccessive e nel divinizzare poi nella sua anima questo qualcosa che tirannicamente esige. — In ogni morale ascetica, l'uomo adora una parte di sé come Dio, e a tale scopo è costretto a render diabolica la parte che resta.


 
138.
L'uomo non è a tutte le ore ugualmente morale, questo si sa: se si giudica la sua moralità dalla capacità di sacrificio di sé e di risoluzioni grandi e altruistiche (cosa che, se costante e abituale, costituisce la santità), egli è sommamente morale nell'affetto; la più intensa emozione gli arreca motivi affatto nuovi, dei quali, se calmo e distaccato come al solito, egli forse nemmeno si crederebbe capace. Come accade ciò? Probabilmente per la vicinanza di tutto quanto è grande ed eccitante: se l'uomo è portato a una tensione eccezionale, può decidersi sia per una terribile vendetta sia per una rottura terribile del suo bisogno di vendetta. Sotto l'effetto di una potente emozione, egli vuole in ogni caso il grande, il violento, l'immenso, e se per caso nota che il sacrificio di sé io soddisfa altrettanto, o ancor più, del sacrifìcio dell'altro, egli sceglie quello. In effetti, dunque, gli preme soltanto scaricare la sua emozione: allora, per alleviare la sua tensione, egli può ben afferrare le lance dei suoi nemici e affondarsele in petto. Che nel rinnegare se stessi, e non soltanto nel vendicarsi, ci sia qualcosa di grande, potè essere instillato nell'umanità solo da una lunga consuetudine; una divinità che sacrifica se stessa fu il simbolo più evidente ed efficace di questo tipo di grandezza. Come vittoria sul nemico più difficile a vincersi, come subitaneo dominio di un affetto — tale appare questo rinnegamento; e, in tal senso, esso è considerato anche il culmine della moralità. In verità, si tratta solo di uno scambio dell'una concezione con l'altra, mentre l'animo mantiene sempre la stessa altezza, lo stesso livello. Uomini rinsaviti, riavendosi via via dall'affetto, non capiscono più la moralità di quei momenti, ma li sostiene l'ammirazione per tutti coloro che li hanno provati; l'orgoglio li consola, quando l'affetto e la comprensione della loro azione vengono meno. Dunque: in fondo, neppure quegli atti di rinnegamento di sé sono morali, in quanto non sono compiuti unicamente con riguardo agli altri; piuttosto è l'altro che fornisce all'animo molto teso solo un'occasione di scaricarsi, attraverso quel rinnegamento.


 
139.
Anche l'asceta cerca di rendersi la vita facile: ossia, di solito, subordinandosi totalmente a una volontà estranea o a leggi e rituali di carattere generale; pressappoco come il bramino non rimette assolutamente nulla a una decisione propria e si determina in ogni minuto in base a una prescrizione divina. Questa subordinazione è un potente mezzo per divenir padroni di sé: si è occupati, quindi non ci si annoia, e tuttavia non si prova in ciò alcuno stimolo della volontà e delle passioni: ad azione compiuta, manca il senso della responsabilità e, con esso, il tormento del rimorso. Si è rinunciato una volta per tutte a una volontà propria, e questo è più facile che rinunciarvi solo una volta ogni tanto; così come è anche più facile rinunciare completamente a un desiderio che mantenere in esso una misura. Se ci ricordiamo dell'attuale posizione dell'uomo nei confronti dello Stato, troviamo anche qui che l'obbedienza incondizionata è più comoda di quella condizionata. Il santo dunque, con la totale rinuncia alla propria personalità, si facilita la vita, e ci si inganna ammirando in quel fenomeno il più alto eroismo delia moralità. In ogni caso è più difficile affermare la propria personalità senza oscillazioni ed equivoci, che sciogliersi da essa nella maniera suddetta; oltre a tutto, ciò richiede molto più spirito e riflessione.


 
140.
Dopo aver trovato, in molte delle azioni umane più difficili a spiegarsi, la manifestazione di quel piacere dell'emozione in sé, vorrei anche riguardo al disprezzo di sé, che è uno dei contrassegni della santità, come pure negli atti del tormento di sé (fame e flagellazioni, slogamento delle membra, simulazione della pazzia), individuare un mezzo con cui quelle nature combattono l'indebolimento generale del loro desiderio di vita (dei loro nervi): esse si servono delle crudeltà e degli stimoli più dolorosi per emergere, almeno temporaneamente, dal grigiore e dalla noia in cui tanto spesso li precipita la loro grande indolenza spirituale e la già descritta subordinazione a una volontà estranea.


 
141.
Il mezzo più comunemente usato dall'asceta e dal santo per rendersi ancora sopportabile e interessante la vita consiste nel condurre di tanto in tanto una guerra e nell'alternarsi delle vittorie e delle sconfitte. A questo scopo gli occorre un avversario, e lo trova nel cosiddetto «nemico interiore». Egli si serve soprattutto della propria tendenza alla vanità, della propria sete di gloria e di dominio, e inoltre dei propri desideri sensuali, per poter considerare la sua vita come una continua battaglia, e se stesso come un campo di battaglia in cui si affrontano, con alterno successo, spiriti buoni e spiriti cattivi. È noto che la fantasia sessuale viene moderata, anzi quasi soffocata, dalla regolarità dei rapporti sessuali; si scatena invece e divampa con l'astinenza e il disordine nei rapporti. La fantasia di molti santi cristiani era straordinariamente impura; in base alla teoria secondo la quale quei desideri sarebbero stati veri e propri demoni che si scatenavano in loro, essi non se ne sentivano troppo responsabili: a questo sentimento noi dobbiamo la sincerità così istruttiva delle loro confessioni. Era nel loro interesse che questa lotta fosse sempre sostentata in un grado o nell'altro, perché grazie ad essa, come abbiamo detto, riceveva sostentamento la loro monotona vita. Ma, perché la lotta apparisse tanto importante da meritare la costante partecipazione e ammirazione dei non santi, la sensualità dovette essere sempre più diffamata e bollata, e anzi il pericolo dell'eterna dannazione fu tanto strettamente collegato a questa faccenda, che molto probabilmente per intere epoche i cristiani generarono i loro figli con cat: tiva coscienza, cosa che certo recò grave danno all'umanità. E tuttavia, qui la verità sta tutta a testa in giù, il che per essa è particolarmente disdicevole. Il cristianesimo aveva detto: ogni uomo è concepito e generato nel peccato, e nell'insopportabile cristianesimo superlativo di Calderon questo pensiero torna, complicato e involuto, come il più strambo paradosso che ci sia, nei noti versi:

la maggior colpa dell'uomo

è di esser nato.

In tutte le religioni pessimistiche l'atto del concepimento è sentito come cattivo in sé, ma questo sentimento non è affatto comune a tutti gli uomini: persino il giudizio dei pessimisti non è sempre uguale in merito. Empedocle, ad esempio, nulla sa della vergogna, della diabolicità, della colpevolezza insite in ogni fatto erotico; piuttosto, nel grande prato del male egli scorge un'unica apparizione apportatrice di salvezza e di speranza, Afrodite; essa è per lui garanzia che il dissidio non durerà in eterno, e che un giorno consegnerà lo scettro a un demone più mite. I pessimisti cristiani della prassi avevano, come abbiamo detto, interesse a che continuasse a prevalere un'altra concezione; per la solitudine e il deserto spirituale della loro vita occorreva loro un nemico sempre vivo, e universalmente conosciuto, combattendo e sconfiggendo il quale essi potessero continuare a presentarsi, al non santo, come esseri per metà incomprensibili e sovrannaturali. Quando alla fine questo nemico, per il loro sistema di vita e la loro salute rovinata, prendeva la fuga per sempre, essi sapevano subito vedere il loro intimo popolato di nuovi demoni. L'oscillare della bilancia dell'orgoglio e dell'umiltà occupava le loro teste almanaccanti altrettanto bene quanto l'alternarsi di desiderio e di quiete dell'anima. Allora la psicologia non solo serviva a render sospetto l'uomo, ma anche a diffamarlo, flagellarlo, crocifiggerlo: ci si voleva sentire quanto più possibile cattivi e malvagi, si cercava l'angoscia per la salvezza dell'anima, la disperazione nella propria forza. Ogni fatto naturale al quale l'uomo colleghi l'idea di malvagità e di colpa (come ancor oggi, ad esempio, egli suole fare riguardo alle cose erotiche), disturba e offusca la fantasia, rende lo sguardo sfuggente, induce l'uomo a prendersela con se stesso e lo rende insicuro, gli toglie la fiducia in sé. Persino i suoi sogni ne ricevono un sapore di coscienza tormentata. E tuttavia, questo soffrire per ciò che è naturale, è nella realtà delle cose affatto immotivato: è solo la conseguenza di opinioni sopra le cose. È facile comprendere come gli uomini diventino peggiori, definendo cattivo ciò che è inevitabilmente naturale e considerandolo poi sempre in tal modo. L'artificio delle religioni e delle metafìsiche che vogliono l'uomo malvagio e colpevole per natura è quello di rendergli sospetta la natura e di far così diventare cattivo lui stesso: egli impara infatti a sentirsi cattivo, dal momento che non può spogliarsi dell'abito della natura. Dopo aver vissuto a lungo in ciò che è naturale, egli a poco a poco si sente gravato da un tale fardello di colpe, che occorrono potenze sovrannaturali per sollevare quel peso; così fa la sua comparsa quel bisogno di redenzione di cui abbiamo parlato, che corrisponde a una colpevolezza nient'affatto reale, bensì immaginaria. Si scorrano le singole enunciazioni morali dei documenti del Cristianesimo, e in tutte si troverà che le pretese sono esagerate, affinché l'uomo non possa soddisfarle: l'intenzione non è che egli diventi morale, ma che si senta il più possibile in stato di peccato. Se questo sentimento non fosse stato gradito all'uomo, a che scopo avrebbe egli prodotto una tale idea e vi si sarebbe attenuto così a lungo? Come, nel mondo antico, è stata impiegata una smisurata forza di spirito e di inventiva per accrescere con culti festosi la gioia di vivere, così, in epoca cristiana, una quantità di spirito altrettanto smisurata è stata votata a un altro scopo: l'uomo doveva sentirsi in ogni modo peccatore ed essere perciò stimolato, animato, vivificato. Stimolare, animare, vivificare, a ogni costo: non è questa la parola d'ordine di un'epoca stanca, troppo matura, troppo colta? Il circolo di tutti i sentimenti naturali era stato percorso cento volte, l'anima era stanca: e allora il santo e l'asceta inventarono un nuovo genere di stimoli vitali. Si posero davanti agli occhi di tutti, non proprio come modello per molti, ma come spettacolo spaventoso eppure affascinante, rappresentato a quei confini tra mondo e sopramondo ove a quei tempi ciascuno credeva di vedere ora luci celesti, ora il lingueggiare di fiamme sinistre dalle profondità. L'occhio del santo, fisso sul significato, sotto ogni aspetto terribile, della breve vita terrena, sulla vicinanza della estrema sentenza circa nuove infinite distese di vita, questo occhio di bragia in un corpo semidistrutto faceva tremare sin nelle più intime fibre gli uomini dell'antichità; guardare, distogliere rabbrividendo lo sguardo, sentire nuovamente il fascino dello spettacolo, abbandonarsi a esso, saziarsene, sinché l'anima non tremi nell'ardore e nei brividi della febbre — questo fu l'ultimo piacere che l'antichità inventò, una volta divenuta insensibile persino alla vista dei combattimenti di uomini e fiere.


 
142.
Riassumendo quanto abbiamo detto: quello stato d'animo di cui si compiace il santo o chi è sulla via della santità, si compone di elementi che noi tutti conosciamo molto bene; solo che, sotto l'influsso di idee diverse da quelle religiose, essi si mostrano sotto un'altra luce, e sogliono allora sperimentare il biasimo degli uomini altrettanto fortemente di come, adornati della religione e del significato ultimo dell'esistenza, essi possono contare sulla loro ammirazione, anzi sull'adorazione — o potevano almeno contarvi in epoche passate. Il santo ora esercita contro se stesso quell'opposizione che è parente stretta della sete di dominio a ogni costo e dà, anche all'uomo più solitario, il senso del potere; ora la piena del suo sentimento passa dal desiderio di far esplodere le sue passioni a quello di farle crollare, come cavalli selvaggi, sotto la potente pressione di un'anima fiera; ora vuole la cessazione totale di ogni sentimento che disturbi, tormenti, ecciti, un sonno da sveglio, una quiete costante nel grembo di una ottusa indolenza da animale o da pianta; ora cerca la lotta e la attizza in sé, perché la noia gli tende il suo volto sbadigliarne: con crudele disprezzo di sé egli flagella la propria divinizzazione, si compiace della selvaggia rivolta delle sue cupidigie, dell'acuto dolore del peccato, anzi dell'idea della perdizione; sa tendere un laccio al suo affetto, ad esempio a quello dell'estrema sete di dominio, per cui passa all'affetto di un'estrema umiliazione e la sua anima, esasperata dal contrasto, vien scossa e divelta; e infine: quando ha voglia addirittura di visioni, di colloqui con morti o con esseri divini, in fondo è una strana specie di voluttà quella che lui desidera, ma è forse la voluttà in cui sono intrecciate, in un unico nodo, tutte le altre. Novalis, per istinto ed esperienza in fatto di santità, esprime tutto quanto il mistero con ingenua gioia: «È alquanto sorprendente che l'associazione di voluttà, religione e crudeltà non abbia già da molto tempo attratto l'attenzione degli uomini sulla loro intima affinità e comune tendenza».


 
143.
Non ciò che il santo è, ma quel che egli significa agli occhi dei non santi, gli conferisce il suo valore storico universale. Per il fatto che sul suo conto ci si sbagliò, si interpretarono male i suoi stati d'animo e lo si tenne il più possibile separato dagli altri, come qualcosa di assolutamente incomprensibile e stranamente sovrumano — egli acquisì quella forza straordinaria con cui potè dominare la fantasia di interi popoli, di intere epoche. Egli stesso non si conosceva; egli stesso comprendeva i tratti della scrittura dei suoi stati d'animo, delle sue inclinazioni e azioni, secondo un'arte dell'interpretazione stravagante e artificiale quanto l'interpretazione pneumatica della Bibbia. L'elemento eccentrico e morboso della sua natura, quella commistione di povertà spirituale, cattivo sapere, salute rovinata, nervi sovreccitati, rimase nascosto allo sguardo suo e di chi lo osservava. Non fu un uomo particolarmente buono, e tanto meno particolarmente saggio: ma significava qualcosa che, in saggezza e bontà, oltrepassava la misura umana. La fede in lui sosteneva la fede nel divino e nel miracoloso, nel senso religioso di tutta l'esistenza, nell'imminente giorno del giudizio. Nella luce crepuscolare di un sole da fine del mondo, quale risplendeva sui popoli cristiani, l'ombra del santo crebbe sino a diventare enorme: tanto alta, diremmo anzi, che persino nel nostro tempo, che non crede più in Dio, esistono ancora pensatori che credono nel santo.


 
144.
È ovvio che a questo profilo del santo, tracciato sulla media dell'intera specie, se ne possono contrapporre parecchi altri, tali da suscitare sentimenti più gradevoli. Da quella specie emergono singole eccezioni, sia per la grande mitezza e amore verso gli uomini, sia per l'incanto di una straordinaria forza d'azione; altre sono grandemente affascinanti perché certi vaneggiamenti versano torrenti di luce su tutto il loro essere: è il caso ad esempio del celebre fondatore del cristianesimo, che si riteneva l'unigenito di Dio e si sentiva perciò senza peccato; cosicché, con la sua presunzione — che non va giudicata troppo severamente, dato che l'intera antichità brulica di figli di Dio — egli giunse allo stesso traguardo, il senso di totale innocenza, di totale irresponsabilità, che oggi ciascuno può ottenere con la scienza. Parimenti, non ho preso in considerazione i santi indiani, che si trovano a un grado intermedio tra il santo cristiano e il filosofo greco, e non rappresentano perciò un tipo puro: la conoscenza, la scienza — nella misura in cui ne esisteva una —, l'elevarsi al di sopra degli altri uomini attraverso la disciplina logica e l'educazione del pensiero furono ricercati dai buddisti come segno di santità allo stesso modo che le medesime qualità, nel mondo cristiano, vengono respinte e bollate come segno di non santità.


 
PARTE QUARTA. Dall'anima degli artisti e degli scrittori

 
145.
Ciò che è perfetto non sarebbe divenuto. — Davanti a tutto ciò che è perfetto noi siamo avvezzi a trascurare il problema del suo divenire, e ci rallegriamo invece di quanto ci sta di fronte come se fosse spuntato da terra per un colpo di bacchetta magica. Probabilmente in questo noi subiamo ancora gli effetti postumi di un antichissimo sentimento mitologico. Davanti a un tempio greco come quello di Paestum, ad esempio, tuttora noi sentiamo quasi come se un mattino un dio, per gioco, abbia costruito con quegli enormi blocchi la sua abitazione; altre volte, come se un'anima fosse stata introdotta per magia in una pietra e attraverso questa volesse parlare. L'artista sa che la sua opera raggiunge pienamente l'effetto solo quando essa fa credere a una improvvisazione, a una miracolosa istantaneità del suo sorgere; così egli alimenta questa illusione e introduce nell'arte quegli elementi di entusiastica eccitazione, di un disordinato brancolare alla cieca, di sogno a orecchie tese all'inizio della creazione, come mezzi di inganno che predispongano l'anima dello spettatore o dell'ascoltatore a credere all'improvviso scaturire della perfezione. — La scienza dell'arte deve, come ben si capisce, confutare nel modo più deciso questa illusione e indicare le conclusioni errate e i vizi dell'intelletto a causa dei quali esso cade nelle reti dell'artista.


 
146.
Il senso di verità dell'artista. — In rapporto alla conoscenza della verità, l'artista ha una moralità più debole dei pensatore; non vuole assolutamente che lo si privi delle profonde e brillanti interpretazioni della vita, e si ribella ai metodi e ai risultati semplici e freddi. Apparentemente egli lotta per una maggiore dignità e un più alto significato dell'uomo; in effetti, non vuol rinunciare ai presupposti più efficaci della sua arte, ossia al mitico, al fantastico, all'incerto, all'estremo, al senso del simbolico, alla sopravvalutazione della persona, alla credenza nella miracolosità del genio: ritiene dunque il permanere del suo modo di creare più importante della dedizione scientifica al vero in ogni forma, per quanto semplice questa possa apparire.


 
147.
L'arte come evocatrice di morti. — L'arte adempie, tra gli altri, al compito di conservare, di ridare un po' di colore anche a concezioni spente, sbiadite; quando assolve questo compito, essa intesse un legame intorno a epoche diverse e ne fa tornare gli spiriti. Quella che così nasce è invero solo una parvenza di vita, come sopra delle tombe, o come quando ci tornano in sogno morti cari, ma, almeno per qualche istante, il vecchio sentimento si ridesta e il cuore batte con un ritmo ormai dimenticato. Ora, in considerazione di questa generale utilità dell'arte, si deve perdonare all'artista se non si trova nei ranghi più avanzati, tra coloro che illuminano e virilizzano progressivamente l'umanità; per tutta la vita egli è rimasto un fanciullo, un adolescente, fermo al punto in cui il suo impulso artistico lo sopraffece; ma, come è stato accertato, sentimenti dei primi gradi di vita sono più vicini a quelli delle epoche passate che non a quelli del secolo presente. Senza volerlo, suo compito diventa far tornare bambina l'umanità: questa è la sua gloria e il suo limite.


 
148.
Ipoeti come alleviatoti della vita. — I poeti, in quanto anch'essi vogliono alleviare la vita degli uomini, o distolgono lo sguardo dal tormentato presente oppure, con una luce che fanno promanare dal passato, danno a questo nuovi colori. Per poter far ciò, debbono essi stessi essere, per qualche verso, rivolti all'indietro: sicché li si può utilizzare come ponti gettati verso epoche e idee lontanissime, verso religioni o culture estinte o in via di estinzione. Essi sono, propriamente, sempre e necessariamente epigoni. In verità, sui loro sistemi per alleviare la vita c'è da dire qualcosa di sfavorevole: acquietano e sanano solo temporaneamente, solo per il momento, e addirittura trattengono gli uomini dal lavorare a un reale miglioramento delle loro condizioni, eliminando e scaricando con palliativi proprio la passione degli insoddisfatti, i quali sollecitano all'azione.


 
149.
Il lento dardo della bellezza. — La specie più nobile di bellezza non è quella che rapisce improvvisamente, che compie attacchi irruenti e inebrianti (tale bellezza suscita facilmente nausea), ma quella che penetra lentamente, che ci si porta con sé quasi senza accorgercene e che un giorno ci si fa innanzi in sogno, ma che, alla fine, dopo esser stata a lungo e con modestia nel nostro cuore, si impadronisce interamente di noi, ci colma gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia. Di che cosa abbiamo nostalgia alla vista della bellezza? Di essere belli: immaginiamo che a ciò debba accompagnarsi molta felicità. Ma è un errore.


 
150.
Animazione dell'arte. — L'arte alza la testa dove le religioni scompaiono. Essa assume in sé una quantità di sentimenti e stati d'animo prodotti dalla religione, se li ripone in cuore e allora diventa essa stessa più profonda e piena d'anima, sì da poter comunicare elevazione ed entusiasmo, cosa che prima non poteva ancora. La ricchezza del sentimento religioso, accresciutasi sino a diventar fiume, prorompe continuamente e vuol conquistarsi nuovi domini: ma il crescente illuminismo ha scosso i dogmi della religione e ispirato una profonda diffidenza: così il sentimento, respinto dall'illuminismo fuori dalla sfera religiosa, si riversa nell'arte; in singoli casi anche nella vita politica, anzi persino direttamente nella scienza. Ovunque nelle umane aspirazioni si noti una colorazione più fosca e intensa, è lecito supporre che vi siano rimasti attaccati paura degli spiriti, odor d'incenso e ombra di chiesa.


 
151.
Come il metro abbellisce. — Il metro pone un velo sulla realtà; causa una certa artificiosità del discorso e una certa impurità del pensiero; con l'ombra che getta sul pensiero, esso ora nasconde, ora rivela. Come l'ombra è necessaria per abbellire, così il «cupo» è necessario per chiarire. — L'arte rende sopportabile la vista della vita perché pone su di essa il velo del pensiero impuro.


 
152.
Arte dell'anima brutta. — Si pongono all'arte barriere troppo anguste, se si pretende che in essa possa esprimersi solo l'anima ordinata, che si muove nell'equilibrio morale. Come nelle arti figurative, così anche nella musica e nella poesia esiste, accanto all'arte dell'anima bella, anche un'arte dell'anima brutta; e forse proprio ad essa sono meglio riusciti i più potenti effetti dell'arte: spezzare le anime, muovere le pietre e rendere umani gli animali.


 
153.
L'arte rende pesante il cuore del pensatore. — Quanto forte sia il bisogno metafisico, e quanto alla fine anche la natura si renda difficile separarsi da esso, lo si può rilevare dal fatto che anche nello spirito libero, che si sia sbarazzato di ogni metafisica, i più alti effetti dell'arte producono facilmente una risonanza della corda metafisica, da gran tempo ammutolita e anzi spezzata, come ad esempio quando, a un determinato passaggio della nona sinfonia di Beethoven, egli si sente sospeso sopra la terra, in una cattedrale di stelle, con in cuore il sogno dell'immortalità: sembra che intorno gli brillino tutti gli astri, e che la terra sprofondi sempre più in basso. — Se diviene cosciente di questo stato, egli prova una profonda fitta al cuore, e sospira l'uomo che gli riporti l'amata perduta, si chiami essa religione o metafisica. In tali istanti vien messo alla prova il suo carattere intellettuale.


 
154.
Giocare con la vita. — La leggerezza e la frivolezza della fantasia omerica erano necessarie per acquietare e neutralizzare temporaneamente l'animo oltremodo passionale e l'intelligenza troppo acuta dei greci. Quando in essi parla l'intelletto, come aspra e orrenda appare allora la vita! Essi non si illudono, ma circuiscono costantemente la vita di menzogne. Simonide consigliava ai suoi concittadini di prendere la vita come un gioco; la serietà era loro troppo nota come dolore (la miseria degli uomini è anzi il tema su cui gli dèi cosi volentieri sentono cantare), ed essi sapevano che soltanto grazie all'arte la miseria stessa poteva diventare godimento. Come castigo per tali opinioni, essi furono così affetti dal gusto di favoleggiare, che nella vita quotidiana riusciva loro diffìcile tenersi liberi da menzogna e finzione: così come ogni popolo di poeti ha un simile gusto per la menzogna, e oltre a ciò anche l'innocenza di essa. I popoli vicini talvolta trovarono ciò disperante.


 
155.
Fede nell'ispirazione. — Gli artisti hanno interesse a che si creda alle improvvise illuminazioni, le cosiddette ispirazioni; come se l'idea dell'opera d'arte, della poesia, il pensiero base di una filosofìa scendessero giù dal cielo come un raggio di grazia. In realtà, la fantasia del buon artista o pensatore produce continuamente cose buone, mediocri e cattive, ma il suo giudizio, estremamente acuto ed esercitato, rifiuta, sceglie, collega; come ora, dagli appunti di Beethoven, si vede che egli ha messo insieme le melodie più maestose poco alla volta, e in certo qual modo le ha scelte da spunti molteplici. Chi distingue con meno rigore e ama abbandonarsi all'imitazione della memoria, potrà in certi casi diventare un buon improvvisatore; ma, rispetto al pensiero artistico scelto con serietà e fatica, l'improvvisazione artistica sta molto in basso. Tutti i grandi furono grandi lavoratori, instancabili non solo nell'inventare, ma anche nel rifiutare, nel vagliare, nel trasformare, nell'ordinare.


 
156.
Ancora l'ispirazione. — Quando l'energia creativa ha ristagnato per un certo tempo e qualche ostacolo le ha impedito di effondersi, alla fine prorompe così improvvisamente, come se si producesse un'ispirazione improvvisa, senza un preliminare lavoro interiore, dunque un miracolo. Ciò dà luogo alla nota illusione, al cui perdurare, come abbiamo detto, gli artisti sono un po' troppo interessati. Il capitale si è appunto solo accumulato, non è caduto d'un tratto dal cielo. Tale apparente ispirazione esiste del resto anche in altri campi, ad esempio nel campo della bontà, della virtù, del vizio.


 
157.
I dolori del genio e il loro valore. — Il genio artistico vuole recar gioia, ma, quando si trova a un livello molto alto, gli manca facilmente chi ne goda; esso offre cibi che nessuno vuole. Ciò gli conferisce un pathos talvolta ridicolo e commovente insieme; perché, in fondo, esso non ha alcun diritto di costringere gli uomini al godimento. Il suo piffero suona, ma nessuno vuol ballare: può esser tragico, questo? Forse. Infine, come compenso per questa privazione, egli ricava maggior piacere nel creare di quanto non ne abbiano gli altri uomini in qualunque altra forma di attività. Si è esageratamente sensibili alle sue sofferenze perché egli si lamenta in tono più alto, perché la sua bocca è più eloquente; e talvolta i suoi dolori sono realmente molto grandi, ma solo perché sono tanto grandi la sua ambizione, la sua invidia. Il genio della conoscenza, come Keplero e Spinoza, non è di norma così bramoso e non fa tanto scalpore dei suoi dolori e delle sue privazioni, realmente più grandi. Esso può con maggior sicurezza contare sul mondo dei posteri e sbarazzarsi del presente; mentre un artista che faccia lo stesso, gioca sempre una partita disperata, nella quale il suo cuore deve soffrire. In rarissimi casi — quando, in uno stesso individuo, si fondono il genio del sapere, del conoscere e il genio morale — ai dolori già menzionati si aggiunge anche quella specie di dolori che vanno considerati come le più strane eccezioni del mondo: i sentimenti extra- e soprapersonali, rivolti a un popolo, all'umanità, all'intera cultura, a ogni essere che soffre: i quali acquistano il loro valore per il fatto di esser collegati a conoscenze particolarmente difficili e remote (di per sé, la compassione vale poco). — Ma quale criterio, quale bilancia da orafo esiste per misurare la loro autenticità? Non è quasi d'obbligo la diffidenza verso tutti coloro che parlano di sentimenti di questa specie?


 
158.
Destino della grandezza. — A ogni grande fenomeno segue la decadenza, soprattutto nel campo dell'arte. Il modello dell'uomo grande stimola le nature vanitose a un'imitazione esteriore o a superarlo; inoltre, tutti i grandi talenti hanno in sé il destino di schiacciare molte forze e germi più deboli e quasi di diffondere lo squallore nella natura circostante. Nello sviluppo di un'arte, il caso più felice si ha quando molti geni si tengono reciprocamente a freno; in questa lotta, di solito, vien concessa aria e luce anche alle nature più deboli e delicate.


 
159.
L'arte, pericolosa per l'artista. — Quando l'arte si impadronisce prepotentemente di un individuo, lo riporta indietro, alle idee di quei tempi in cui essa era nel massimo splendore: opera dunque in senso involutivo. L'artista si trova a venerare sempre più le emozioni improvvise, crede in dèi e demoni, attribuisce un'anima alla natura, odia la scienza, diventa incostante nei suoi stati d'animo come gli uomini dell'antichità e desidera lo sconvolgimento di tutti i rapporti non favorevoli all'arte, e tutto ciò con l'irruenza e l'irragionevolezza di un bambino. Ora, già di per sé l'artista è un essere rimasto indietro, in quanto è restato fermo al gioco, che è proprio dell'infanzia e della giovinezza: a ciò si aggiunga che egli vien fatto via via regredire verso altri tempi. Alla fine si ingenera un violento antagonismo tra lui e i suoi contemporanei, e una triste fine; così come, a quanto raccontano gli antichi, Omero ed Eschilo finirono col vivere e morire in malinconia.


 
160.
Uomini creati. — Quando si dice che il drammaturgo (e l'artista in genere) crea realmente dei caratteri, questa è una bella illusione ed esagerazione, nella cui esistenza e diffusione l'arte celebra uno dei suoi trionfi involontari, e per così dire eccessivi. In effetti, di un uomo vivo e reale noi capiamo piuttosto poco, e generalizziamo molto superficialmente attribuendogli questo o quel carattere: a questa nostra assai imperfetta posizione rispetto all'uomo si adegua il poeta, facendo diventare uomini (e in questo senso «creando») abbozzi tanto superficiali, quanto superficiale è la nostra conoscenza dell'uomo. C'è molta illusione in questi caratteri creati dagli artisti; non son per nulla corposi prodotti della natura, ma alla stregua degli uomini dipinti, sono un po' troppo sottili, non sopportano di esser guardati da vicino. Quando poi si dice che il carattere del normale uomo vivo si contraddice spesso, e che quello creato dal drammaturgo è l'archetipo seguito dalla natura, si afferma una cosa quanto mai errata. Un uomo reale è qualcosa di affatto necessario (persino in quelle cosiddette contraddizioni), ma non sempre noi riconosciamo questa necessità. L'uomo di cui parla la poesia, il fantasma, vuol significare qualcosa di necessario, ma soltanto per coloro che intendono anche l'uomo reale solo in una rozza, innaturale semplificazione: sicché un paio di tratti forti e insistiti, messi molto in luce e contornati da molta ombra e penombra, soddisfano pienamente le loro esigenze. Essi dunque son pronti a considerare il fantasma come uomo reale, necessario, perché sono abituati a prendere nell'uomo reale un fantasma, un'ombra, un'abbreviazione arbitraria, per il tutto. — Che proprio il pittore, lo scultore, esprimano l'«idea» dell'uomo, è vana fantasticheria e inganno dei sensi; se si afferma una cosa del genere, si è tiranneggiati dall'occhio, che persino del corpo umano vede solo la superficie, l'epidermide; anche il corpo interno appartiene infatti all'idea. L'arte figurativa vuol rendere visibile la superficie dei caratteri; l'arte della parola adopera questa per lo stesso scopo, dà forma al carattere nel suono. L'arte muove dalla naturale ignoranza dell'uomo circa il proprio interno (nel corpo e nel carattere): essa non è fatta per fisici e filosofi.


 
161.
Sopravvalutazione di sé nella fede in artisti e filosofi. — Noi tutti riteniamo che la bontà di un'opera d'arte, di un artista, sia dimostrata quando questo ci prende, ci scuote. Ma prima dovrebbe esser dimostrata la nostra bontà di giudizio e di sentimento, il che non accade. Chi, nel campo delle arti figurative, ha afferrato e scosso più di Bernini, chi ha esercitato un influsso più potente di quel retore post-demostenico che introdusse e fece predominare per due secoli lo stile asiano? Che uno stile predomini per interi secoli nulla prova della sua bontà e della sua durevole validità; per questo non bisogna esser troppo sicuri nella propria buona fede in un qualche artista: essa infatti non è soltanto la fede nella veridicità del nostro sentimento, ma anche nell'infallibilità del nostro giudizio, mentre giudizio, sentimento o anche tutti e due possono esser troppo grossolani o troppo delicati, acuti o rozzi. Anche gli effetti benefici e beatificanti di una filosofìa, di una religione nulla dimostrano della verità di queste; così come la felicità di cui gode il folle per la sua idea fissa, dimostra altrettanto poco della ragionevolezza di quest'idea.


 
162.
Culto del genio per vanità. — Poiché pensiamo bene di noi, ma non per questo ci aspettiamo di poter mai fare l'abbozzo di un quadro di Raffaello o una scena come quella di un dramma shakespeariano, ci convinciamo che una simile capacità sia grandemente meravigliosa, un caso quanto mai raro — oppure, se siamo ancora religiosi, che sia una grazia dall'alto. Così la nostra vanità, il nostro amor proprio incrementano il culto del genio: infatti solo quando è pensato lontanissimo da noi, come un miraculum, esso non ci offende (persino Goethe, privo com'era di invidia, chiamava Shakespeare la sua stella della più remota altezza; e a questo proposito si può ricordare il verso: «non si bramano le stelle»). Ma, a parte queste suggestioni della vanità, l'attività del genio non appare fondamentalmente diversa da quella dell'inventore di meccanismi, dell'astronomo o dello storico, del maestro di tattica. Tutte queste attività si spiegano se ci si rappresenta uomini il cui pensiero è attivo in una direzione, che tutto utilizzano come materiale, che guardano con zelo assiduo alla vita interiore propria e altrui, che dappertutto scorgono esempi e incitamenti, e non si stancano di combinare i loro mezzi. Anche il genio altro non fa che imparare dapprima a porre le pietre, poi a costruire, a cercar sempre materiale e a plasmarlo continuamente. Ogni attività dell'uomo, e non solo del genio, è complicata in modo sorprendente: ma nessuna è un «miracolo». — Da dove viene allora la credenza che il genio sia solo nell'artista, nell'oratore e nel filosofo, e che essi soli sian dotati di «intuizione»? (Con il che si attribuisce loro una sorta di lente miracolosa, mediante la quale guarderebbero direttamente entro P«essenza»!) Evidentemente gli uomini parlano di genio solo là dove gli effetti del grande intelletto riescono loro più gradevoli ed essi, dal canto loro, non vogliono provare invidia. Chiamare qualcuno «divino» è come dir: «Qui non occorre l'emulazione». Inoltre: tutto quanto è finito e perfetto vien guardato con ammirazione, e tutto ciò che è in divenire viene sottovalutato. Ora, nell'opera dell'artista, nessuno può vedere come essa sia divenuta: è questo il suo vantaggio, perché ovunque si possa osservare il farsi di qualcosa, ci si raffredda alquanto. L'arte compiuta della rappresentazione allontana ogni pensiero circa il suo divenire, e tiranneggia come perfezione presente. Per questo gli artisti della rappresentazione son considerati prevalentemente geniali, e non lo sono invece gli uomini della scienza. In realtà, quella stima e quella sottovalutazione sono solo un infantilismo della ragione.


 
163.
La serietà del mestiere. — Non parlate solo di doti naturali, di talenti innati! Si possono citare grandi uomini di ogni specie, che furono poco dotati. Ma essi acquistarono grandezza, divennero «geni» (come si dice), grazie a qualità della cui mancanza nessuno, che ne sia consapevole, parla volentieri: essi avevano tutti quella diligente serietà di mestiere, che innanzitutto impara a formare perfettamente le parti, e solo in seguito osa comporne un gran tutto; essi spendevano in ciò molto tempo, perché provavano maggior piacere nel far bene il piccolo e il secondario, che non nell'effetto di un insieme abbagliante. Per esempio, la ricetta per diventare un buon novelliere è facile a darsi, ma seguirla presuppone qualità sulle quali si è soliti sorvolare, quando si dice: «non ho abbastanza talento». Si facciano cento e più abbozzi di novelle, nessuno lungo più di due pagine, ma talmente chiari che in essi ogni parola sia necessaria; si scrivano ogni giorno aneddoti, finché non si sia imparato a trovare la loro forma più pregnante ed efficace; non ci si stanchi mai di raccogliere e delineare tipi e caratteri umani; soprattutto, si racconti il più spesso possibile, e si ascolti raccontare, aguzzando occhi e orecchie per cogliere l'effetto sui presenti; si viaggi quanto un pittore di paesaggi o un disegnatore di costumi; si estragga dalle singole scienze tutto ciò che, se ben rappresentato, produce effetti artistici; si rifletta infine sui motivi delle azioni umane, senza sdegnare alcuna indicazione per saperne di più, e si faccia notte e giorno collezione di tali cose. In questo molteplice esercizio si facciano passare una decina d'anni; ma quello che allora si creerà nell'officina, potrà anche uscire alla luce del sole. — Come fanno, invece, i più? Non cominciano con la parte, ma con il tutto. Forse una volta hanno la mano felice, destano attenzione, e da allora fanno cose sempre peggiori, per buoni e naturali motivi. — Talvolta, quando mancano ragione e carattere per formare un tale programma di vita artistica, prendono il loro posto il destino e la necessità, e conducono passo passo il futuro maestro attraverso tutte le condizioni del suo mestiere.


 
164.
Rischio e guadagno nel culto del genio. — La credenza in spiriti grandi, superiori, fecondi è legata, non necessariamente ma molto spesso, a quella superstizione, in tutto o in parte religiosa, secondo cui quegli spiriti avrebbero origine sovrumana e possiederebbero doti miracolose, grazie alle quali acquisirebbero le loro conoscenze per vie affatto diverse da quelle degli altri uomini. Si attribuisce loro una visione diretta nell'essenza del mondo, come attraverso un buco nel manto dell'apparenza e si crede che, senza la fatica e il rigore della scienza, grazie a questa prodigiosa veggenza essi possano comunicare qualcosa di decisivo e di definitivo sull'uomo e sul mondo. Sino a che, nel campo della conoscenza, il miracolo troverà ancora chi vi creda, si può forse ammettere che i credenti ne ricavino addirittura un vantaggio, in quanto, subordinandosi incondizionatamente agli spiriti grandi, essi procurano al proprio spirito, per il tempo del suo sviluppo, la miglior disciplina e scuola. Invece è per lo meno problematico che la superstizione del genio, dei suoi privilegi e dei suoi poteri particolari sia di utilità per il genio stesso, una volta che si sia radicata in lui. È ad ogni modo un sintomo pericoloso che l'uomo sia colto da quel brivido di fronte a se stesso, sia esso il famoso brivido cesareo oppure il brivido del genio, di cui stiamo parlando; e che il profumo dei sacrifici, che giustamente si tributa soltanto a un dio, penetri nel cervello del genio, sicché questi comincia a vacillare e a credersi qualcosa di sovrumano. Alla lunga le conseguenze sono: il senso di irresponsabilità, di diritti eccezionali, la convinzione di concedere una grazia per il solo fatto di aver rapporti con gli altri, un'ira folle se si tenta di paragonarlo ad altri quando non addirittura di stimarlo inferiore, e di mettere in evidenza le parti non riuscite della sua opera. Poiché egli cessa di esercitare la critica contro se stesso, dal suo piumaggio finiscono per cadere, l'una dopo l'altra, le piume maestre: quella superstizione scava alle radici della sua forza e, una volta che questa lo abbia abbandonato, può far di lui addirittura un ipocrita. Dunque, per gli spiriti grandi è probabilmente più utile prender chiara coscienza della propria forza e dell'origine di essa, capire cioè quali doti prettamente umane siano confluite in loro, e quali circostanze favorevoli vi abbiano contribuito: dunque, innanzitutto, una persistente energia, la risoluta dedizione a scopi particolari, un grande coraggio personale; e poi la fortuna di un'educazione che ha offerto per tempo i maestri, i modelli e i metodi migliori. Certo, se il loro scopo è quello di produrre il maggior effetto possibile, la mancanza di chiarezza su se stessi e il contributo di quella semifollia han sempre fatto molto; infatti in loro si è sempre ammirata e invidiata proprio quella forza, con la quale rendono gli uomini privi di volontà e li inducono all'illusione che innanzi a loro camminino guide sovrannaturali. Certo, credere che qualcuno possieda doti sovrannaturali eleva ed entusiasma gli uomini: in questo senso la follia ha portato, come dice Platone, le maggiori benedizioni agli uomini. — In rari, singoli casi, questa parte di follia può ben anche essere stata il mezzo che ha permesso di tener insieme una natura del genere, esuberante in ogni direzione: anche nella vita degli individui i deliri, che in sé sono veleno, hanno spesso il valore di rimedi salutari; ma in ogni «genio» che creda alla propria divinità, il veleno finisce per rivelarsi via via che il «genio» invecchia; ci si ricordi ad esempio di Napoleone, il cui genio assurse certamente, proprio grazie alla fede in se stesso e nella sua stella e al conseguente disprezzo per gli uomini, a quella possente unità che lo innalza su tutti gli uomini moderni, finché quella stessa fede si trasformò in un fatalismo quasi folle, gli tolse rapidità e acutezza di visione e divenne la causa della sua decadenza.


 
165.
lì genio e il nulla. — Tra gli artisti, proprio le menti originali, che traggono da se stesse la propria creatività, possono talvolta produrre il vuoto e l'insipidità assoluti, mentre le nature meno indipendenti, i cosiddetti talenti, son ricchi di ricordi di ogni possibile cosa buona e anche in stato di debolezza producono cose passabili. Se invece gli originali vengono abbandonati da se stessi, il ricordo non fornisce loro alcun aiuto: essi diventano vuoti.


 
166.
Il pubblico. — Dalla tragedia il popolo non desidera altro che essere commosso a puntino, per poter finalmente piangere a volontà; invece, l'artista che assiste alla nuova tragedia prova piacere alle trovate ingegnose e agli artifici tecnici, alla trattazione e distribuzione della materia, al nuovo impiego di vecchi motivi, di vecchi pensieri. La sua posizione nei confronti dell'opera d'arte è quella estetica, quella di chi crea; la prima, che considera unicamente la materia, è quella del popolo. Di chi sta in mezzo non è il caso di parlare, egli non è né popolo né artista e non sa cosa vuole: quindi anche il suo godimento è confuso e insignificante.


 
167.
Educazione artistica del pubblico. — Se lo stesso motivo non vien trattato in cento modi diversi da artisti diversi, il pubblico non impara ad andare oltre l'interesse per la materia; ma infine coglierà e godrà persino le sfumature, le delicate, nuove invenzioni nella trattazione di questo motivo, quando cioè lo conoscerà da tempo grazie alle numerose elaborazioni, e non proverà più il fascino della novità, della tensione.


 
168.
L'artista e il suo seguito debbono tenere il passo. — Il progresso da un grado di stile all'altro dev'essere così lento, che a compierlo non siano solo gli artisti, ma insieme ad essi anche gli ascoltatori e gli spettatori, e sappiano esattamente cosa sta succedendo. In caso contrario, si spalanca all'improvviso quel grande abisso tra l'artista, che da una remota altezza crea le sue opere, e il pubblico, che non può più assurgere a quell'altezza e scoraggiato finisce per discendere più in basso. Infatti, se l'artista non eleva più il suo pubblico, questo sprofonda rapidamente; precipita anzi tanto più in basso e tanto più pericolosamente, quanto più in alto il genio lo ha portato, paragonabile all'aquila, dai cui artigli la tartaruga, sollevata sino alle nubi, rovinosamente cade.


 
169.
Origine del comico. — Se si considera che l'uomo, per qualche centinaio di migliaia di anni, fu un animale estremamente esposto alla paura, e che ogni fatto improvviso e inatteso gli imponeva di esser pronto alla lotta e forse alla morte; e che anzi persino in seguito, nei rapporti sociali, ogni sicurezza si basava su ciò che era atteso e tradizionale nel modo di pensare e di agire, non ci si deve meravigliare che, di fronte a tutto quel che nelle parole e negli atti è improvviso, inatteso e sopraggiunge senza pericolo e danno, l'uomo si imbaldanzisca e trapassi nel contrario della paura: l'essere rattrappito e tremante di paura si rialza, si distende — l'uomo ride. Questo passaggio da una momentanea paura a una baldanza di breve durata si chiama il comico. Invece, nel fenomeno del tragico, l'uomo passa rapidamente da una grande e durevole baldanza a una grande paura; ma poiché, tra i mortali, una baldanza grande e durevole è molto più rara delle occasioni di angoscia, nel mondo esiste molto più comico che tragico; si ride molto più spesso di quanto non si sia sconvolti.


 
170.
Ambizione di artisti. — Gli artisti greci, ad esempio i tragici, poetavano per vincere; tutta la loro arte non è pensabile senza gara: la buona Eris esiodea, l'ambizione, dava ali al loro genio. Ora, questa ambizione esigeva innanzitutto che la loro opera mantenesse la massima eccellenza ai loro stessi occhi, così come essi intendevano l'eccellenza, senza cioè tener conto del gusto predominante e dell'opinione generale su quel che in un'opera d'arte è eccellente; così Eschilo e Euripide rimasero a lungo senza successo, sinché infine non ebbero educato per sé giudici d'arte che valutassero la loro opera secondo criteri da loro stessi stabiliti. Essi cercano così la vittoria sui loro rivali in base alla loro stessa valutazione, davanti alla propria giuria, vogliono effettivamente essere più eccellenti; allora esigono che dall'esterno si approvi la loro valutazione, si confermi il loro giudizio. Aspirare agli onori significa in questo caso «farsi superiori e desiderare che così appaia anche in pubblico». Se manca la prima cosa e tuttavia si desidera la seconda, si parla di vanità. Se manca la seconda e non se ne sente la mancanza, si parla di orgoglio.


 
171.
Il necessario nell'opera d'arte. — Coloro che fanno un gran parlare del necessario in un'opera d'arte, esagerano, in majorem artis gloriam se sono artisti, e per ignoranza se sono profani. Le forme di un'opera d'arte, che dan voce ai pensieri di questa e sono quindi il suo modo di parlare, hanno sempre qualcosa di facoltativo, come ogni tipo di linguaggio. Lo scultore può aggiungere alla sua opera molti piccoli tratti oppure tralasciarli: così pure l'interprete, sia esso un attore o, nel campo della musica, un virtuoso o un direttore. Questi molti piccoli tratti e affinamenti un giorno gli fan piacere, un altro no, esistono più per l'artista che per l'arte, perché anch'egli ha talvolta bisogno, nel rigore e nell'autodisciplina che la rappresentazione del pensiero-base richiede, di chicche e giocattoli per non diventare arcigno.


 
172.
Far dimenticare il maestro. — Il pianista che esegue l'opera di un maestro, avrà suonato nel modo migliore se avrà fatto dimenticare il maestro e avrà dato l'impressione di narrare la storia della propria vita o di star vivendo qualcosa proprio in quel momento. Certo: se non è nulla d'importante, chiunque maledirà la verbosità con cui ci avrà raccontato la sua vita. Deve dunque saper catturare la fantasia dell'ascoltatore. Di qui si spiegano, d'altronde, tutte le debolezze e le follie del «virtuosismo».


 
173.
Corriger la fortune. — Nella vita dei grandi artisti vi son casi sfortunati, che costringono ad esempio il pittore ad abbozzare il suo quadro più importante solo come pensiero fugace, e costrinsero ad esempio Beethoven a lasciarci, in alcune grandi sonate (come nella grande sonata in si maggiore), solo l'insufficiente riduzione per pianoforte di una sinfonia. Qui l'artista che vien dopo deve cercare di correggere a posteriori la vita dei grandi: cosa che farebbe ad esempio chi, come maestro di tutti gli effetti orchestrali, risvegliasse alla vita quella sinfonia, votata all'apparente morte del pianoforte.


 
174.
Rimpicciolire. — Ci son cose, fatti e persone che non sopportano di esser trattati secondo un metro ridotto. Non si può rimpicciolire a ninnolo il gruppo del Laocoonte: la grandezza gli è necessaria. Ma molto più raro è che qualcosa di piccolo per natura sopporti di essere ingrandito; per questo ai biografi riuscirà sempre meglio rappresentare come piccolo un uomo grande, che come grande un uomo piccolo.


 
175.
Sensualità nell'arte di oggi. — Spesso gli artisti di oggi commettono un errore di calcolo, se si sforzano di dare alle loro opere un effetto sensuale; infatti gli spettatori o ascoltatori non han più una pienezza di sensi e per mezzo di quell'opera d'arte cadono, contro ogni intenzione dell'artista, in una «santità» del sentimento che è parente stretta della noia. — La loro sensualità comincia forse proprio là dove cessa quella dell'artista, essi quindi si incontrano tutt'al più in un solo punto.


 
176.
Shakespeare come moralista. — Shakespeare ha molto riflettuto sulle passioni, e a molte di esse ha avuto, certo per il suo temperamento, facile accesso (in genere i drammaturghi sono uomini abbastanza cattivi). Ma non sapeva, come Montaigne, parlarne, e metteva in bocca a personaggi appassionati osservazioni sulle passioni; cosa invero contro natura, ma che rende i suoi drammi tanto ricchi di pensiero che tutti gli altri sembran vuoti e facilmente suscitano una generale avversione. — Le sentenze di Schiller (che hanno quasi sempre alla base idee false o insignificanti) sono appunto sentenze da teatro, e come tali producono un forte effetto: mentre quelle di Shakespeare fanno onore al suo modello Montaigne e contengono in forma concisa pensieri del tutto seri, ma proprio per questo troppo lontani e troppo sottili agli occhi del pubblico dei teatri, e quindi inefficaci.


 
177.
Farsi sentire bene. — Non si deve solo saper suonare bene, ma anche farsi sentire bene. Se l'ambiente è troppo vasto, anche nelle mani del più grande maestro il violino emette solo un pigolio; allora si può prendere il maestro per uno strimpellatore qualsiasi.


 
178.
L'incompleto come l'efficace. — Come le figure in rilievo agiscono così fortemente sulla fantasia perché sembrano quasi distaccarsi dalla parete per arrestarsi poi di colpo, come trattenute da qualche parte, così talvolta la incompleta rappresentazione, in rilievo, di un pensiero, di tutta una filosofia, è più efficace di un'esposizione esauriente: si lascia maggior spazio al lavoro dello spettatore, egli viene stimolato a completare la creazione di quanto gli sta davanti in così forte chiaroscuro, a pensarlo sino in fondo e a superare egli stesso quell'ostacolo che gli pareva sino allora impedito di uscir fuori completamente.


 
179.
Contro gli originali. — Se l'arte si riveste della stoffa più lisa, la si riconosce meglio come arte.


 
180.
Spirito collettivo. — Un buono scrittore non possiede solo il proprio spirito, ma anche quello dei suoi amici.


 
181.
Due specie di misconoscimento. — La sfortuna di scrittori chiari e acuti è che li si prende per piatti, e perciò non si dedica loro sforzo alcuno: e la fortuna di quelli oscuri è che il lettore si affatica su di essi e considera merito loro la gioia che la sua diligenza gli procura.


 
182.
Rapporto con la scienza. — Non provano alcun interesse reale per una scienza tutti coloro che cominciano ad appassionarvisi solo quando essi stessi vi hanno fatto delle scoperte.


 
183.
La chiave. — Quell'unico pensiero cui un uomo importante attribuisce grande valore, tra lo scherno e le risa dei mediocri, è per lui una chiave di tesori nascosti, e per gli altri niente più di un ferro vecchio.


 
184.
Intraducibile. — Ciò che in un libro è intraducibile, non è né il meglio né il peggio di esso.


 
185.
Paradossi dell'autore. — I cosiddetti paradossi dell'autore, di cui un lettore si scandalizza, spesso non stanno per niente nel libro dell'autore, ma nella testa del lettore.


 
186.
Spirito. — Gli autori più spiritosi suscitano un sorriso appena percettibile.


 
187.
L'antitesi. — L'antitesi è la stretta porta attraverso la quale più volentieri l'errore si insinua verso la verità.


 
188.
Pensatori come stilisti. — La maggior parte dei pensatori scrivono male perché ci comunicano non soltanto i loro pensieri, ma anche il loro pensarli.


 
189.
Pensieri in poesia. — Il poeta conduce solennemente i suoi pensieri sul carro del ritmo: di solito perché non sanno andare a piedi.


 
190.
Peccato contro lo spirito del lettore. — Quando l'autore rinnega il suo talento solo per farsi uguale al lettore, commette l'unico peccato mortale che quello, nel caso se ne accorga, non gli perdonerà mai. Si può dir altrimenti dell'uomo ogni cosa cattiva: ma nel modo in cui la si dice, bisogna saper consolare di nuovo la sua vanità.


 
191.
Limiti dell'onestà. — Anche allo scrittore più onesto sfugge una parola di troppo, quando vuole arrotondare un periodo.


 
192.
L'autore migliore. — L'autore migliore sarà quello che si vergogna di diventare scrittore.


 
193.
Legge draconiana contro gli scrittori. — Si dovrebbe considerare lo scrittore come un malfattore che solo in rarissimi casi meriti grazia o assoluzione: sarebbe un rimedio contro il moltiplicarsi dei libri.


 
194.
I giullari della cultura moderna. — I giullari delle corti medievali corrispondono ai nostri scrittori d'appendice; sono lo stesso tipo di uomini, semiragionevoli, spiritosi, esagerati, sciocchi, che talvolta servon solo a mitigare con chiacchiere e trovate un'atmosfera carica di pathos, e per coprire con il loro vocìo il rintocco troppo grave e solenne di grandi avvenimenti; una volta al servizio dei prìncipi e della nobiltà, oggi al servizio dei partiti (così come, nel senso e nella disciplina di partito, continua tuttora a vivere buona parte della vecchia sudditanza nel rapporto tra popolo e principe). Ma l'intera classe dei letterati moderni è molto vicina agli scrittori d'appendice: sono i «giullari della cultura moderna», che si giudicano meno severamente se non li si ritiene del tutto responsabili. Considerare il mestiere di scrittore come una professione per la vita dovrebbe giustamente esser visto come una specie di follia.


 
195.
Dietro ai greci. — Oggi è di grande ostacolo per la conoscenza il fatto che, per una secolare esagerazione del sentimento, tutte le parole son diventate fumose e ridondanti. Quel superiore livello di cultura che si assoggetta al dominio (anche se non alla tirannia) della conoscenza, necessita di una grande sobrietà del sentimento e di una forte concentrazione di tutte le parole; in ciò i greci dei tempi di Demostene ci hanno preceduto. Caratteristica di tutti gli scritti moderni è la tensione eccessiva; e in essi le parole, anche quando son scritte con semplicità, vengono sentite ancora troppo eccentricamente. Severa riflessione, stringatezza, freddezza, sobrietà, portate anche volutamente fino al limite, e in genere controllo del sentimento e taciturnità: ecco l'unico rimedio. Del resto, questo modo di scrivere e di sentire oggi esercita, come contrasto, molto fascino: e in ciò si annida per la verità un nuovo pericolo. Infatti, il freddo acuto è stimolante né più né meno di un alto grado di calore.


 
196.
Buoni narratori, cattivi commentatori. — Spesso, nei buoni narratori, una mirabile sicurezza e coerenza psicologica, nella misura in cui si evidenziano nelle azioni dei loro personaggi, contrastano in modo addirittura ridicolo con l'imperizia del loro pensiero psicologico: sicché la loro cultura appare per un momento squisitamente alta, e il momento dopo deplorevolmente bassa. Anche troppo spesso accade che essi spieghino i loro stessi eroi e le loro azioni in modo chiaramente errato — in ciò non v'è dubbio, per quanto inverosimile possa sembrare. Forse il pianista più grande ha riflettuto solo insufficientemente sulle condizioni tecniche e sulla maggiore o minore capacità, utilizzabilità ed educabilità specifiche di ogni dito (etica dattilica), e commette errori grossolani, quando parla di queste cose.


 
197.
Gli scritti dei conoscenti e i loro lettori. — Noi leggiamo gli scritti di coloro che conosciamo (amici e nemici) in due modi, in quanto la nostra conoscenza è lì a sussurrarci continuamente: «Questo è suo, è un segno della sua intima natura, delle sue esperienze, del suo ingegno», e d'altro canto un altro tipo di conoscenza cerca di stabilire quale sia la portata di quell'opera in sé, quale valutazione essa meriti in genere, a prescindere dal suo autore, quale arricchimento del sapere essa comporti. Questi due modi di leggere e di soppesare si disturbano, come è ovvio, a vicenda. Anche una conversazione con un amico produrrà buoni frutti di conoscenza solo quando i due interlocutori penseranno unicamente all'argomento e dimenticheranno di essere amici.


 
198.
Sacrifici ritmici. — I buoni scrittori modificano il ritmo di alcuni periodi unicamente perché non riconoscono ai comuni lettori la capacità di afferrare la cadenza che la frase aveva nella stesura primitiva: perciò li rendono più facili, dando la preferenza a ritmi più conosciuti. — Questa attenzione all'incapacità ritmica dei lettori di oggi ha già strappato molti sospiri, perché molto già le è stato sacrificato. Non succede forse lo stesso ai buoni musicisti?


 
199.
L'incompiuto come attrattiva artistica. — Il non finito è spesso più efficace del finito, soprattutto in un encomio: per i fini di questo occorre appunto una stimolante incompletezza, come elemento irrazionale che simuli davanti alla fantasia dell'ascoltatore un mare e, come una nebbia, nasconda la costa antistante, e dunque la limitatezza dell'oggetto della lode. Se si menzionano i meriti noti di un uomo descrivendoli ampiamente ed esaurientemente, ciò lascia sempre adito al sospetto che quelli siano gli unici meriti. Chi loda compiutamente si pone al di sopra del lodato, sembra quasi dominarlo con lo sguardo. Per questo, la completezza produce l'effetto di indebolire.


 
200.
Accorgimenti nello scrivere e nell'insegnare. — Chi ha scritto una volta e sente in sé la passione dello scrivere, da quasi tutto ciò che fa e che vive apprende solo quanto possa essere comunicato con la scrittura. Non pensa più a se stesso, ma allo scrittore e al suo pubblico: vuole comprendere, ma non per uso proprio. Chi insegna, è per lo più incapace di far qualcosa per il proprio bene, pensa sempre al bene dei suoi scolari, e ogni nuova conoscenza lo allieta solo nella misura in cui egli può trasmetterla ad altri. Egli finisce per considerarsi soltanto come una via del sapere, e in genere come un mezzo, cosicché non prende più sul serio se stesso.


 
201.
Necessari, i cattivi scrittori. — Dovranno sempre esserci i cattivi scrittori, perché corrispondono al gusto delle età non sviluppate e immature; queste hanno le loro esigenze, né più né meno di quelle mature. Se la vita umana fosse più lunga, il numero degli individui diventati maturi sarebbe prevalente, o per lo meno uguale a quello degli immaturi; invece i più muoiono troppo giovani, ossia ci sono sempre molti più intelletti non sviluppati e con cattivo gusto. Essi inoltre desiderano, con il maggior fervore proprio della gioventù, che le loro esigenze vengan soddisfatte, e si creano cattivi autori.


 
202.
Troppo vicino e troppo lontano. — Spesso lettore e autore non si capiscono, per il fatto che l'autore conosce troppo bene il suo tema e lo trova quasi noioso, sicché si risparmia gli esempi, che conosce a centinaia; il lettore invece è estraneo all'argomento e facilmente lo trova mal fondato, se non gli vengono forniti degli esempi.


 
203.
Una ormai scomparsa preparazione all'arte. — Di tutto quel che si faceva al ginnasio, la cosa più preziosa era l'esercitazione nello stile latino; questa era altresì esercitazione all'arte, mentre tutte le altre occupazioni miravano solo al sapere. Anteporre ad essa la composizione in tedesco è barbarie: noi tedeschi non abbiamo infatti uno stile-modello, progressivamente formatosi nella pubblica eloquenza; se però, con la composizione in tedesco, si vuol favorire l'esercitazione del pensiero, è certamente meglio prescindere qui provvisoriamente dallo stile in genere, operando dunque una distinzione tra l'esercizio nel pensiero e quello nell'esposizione. Quest'ultimo dovrebbe riferirsi a una molteplice formulazione di un contenuto dato, e non all'invenzione autonoma di esso. La pura e semplice esposizione di un contenuto dato era il compito dello stile latino, per il quale gli antichi maestri possedevano una finezza d'orecchio ormai scomparsa. Chi una volta imparava a scrivere bene in una lingua moderna, lo doveva a questa esercitazione (oggi si è costretti a farsi scolari dei vecchi francesi). Ma non basta: egli si faceva un'idea dell'altezza e difficoltà della forma in genere, e veniva preparato all'arte per l'unica via giusta: la prassi.


 
204.
Lo scuro e il chiarissimo l'uno accanto all'altro. — Gli scrittori che in generale non sanno dare alcuna chiarezza ai loro pensieri, sceglieranno di preferenza, nel particolare, le espressioni e i superlativi più forti ed esagerati: nasce così un effetto di luce simile a quello di fiaccole per confusi sentieri di bosco.


 
205.
Pittura letteraria. — Si rappresenterà nel modo migliore un oggetto importante se si prenderanno i colori per dipingerlo dall'oggetto stesso, come fa il chimico, e li si userà poi come fa l'artista: facendo nascere il disegno dai confini e dai passaggi di colore. Il dipinto acquista così qualcosa dell'affascinante elemento naturale che rende significativo l'oggetto stesso.


 
206.
Libri che insegnano a danzare. — Ci sono scrittori che, rappresentando l'impossibile come possibile e parlando del morale e del geniale come se l'uno e l'altro fossero solo un capriccio, un arbitrio, producono un senso di baldanzosa libertà, come se l'uomo si mettesse in punta di piedi e dovesse assolutamente danzare per il piacere che sente dentro di sé.


 
207.
Pensieri non giunti a compimento. — Così come non solo l'età adulta, ma anche l'infanzia e la giovinezza hanno un valore in sé e non sono affatto da considerare come passaggi e ponti, anche i pensieri non giunti a compimento hanno il loro valore. Non bisogna perciò tormentare un poeta con sottili interpretazioni, ma compiacersi dell'incertezza del suo orizzonte, come se la via fosse ancora aperta a molti pensieri. Si sta sulla soglia; si aspetta, quasi si dovesse disotterrare un tesoro: è come se si fosse in procinto di fare la fortunata scoperta di un pensiero profondo. Il poeta anticipa qualcosa della gioia di un pensatore che trova un pensiero fondamentale, e ce ne instilla il desiderio, sicché noi cerchiamo di afferrarlo: quello però passa svolazzando sulle nostre teste, ci mostra le sue bellissime ali di farfalla — e tuttavia ci sfugge.


 
208.
Il libro quasi fatto uomo. — Ogni scrittore resta continuamente stupito di come il libro, una volta separatosi da lui, viva di vita propria; per lui è come se da un insetto si fosse separata una parte che continuasse ad andare per la sua strada. Egli forse dimentica quasi del tutto quel libro, forse si eleva al di sopra delle idee che vi ha espresso, forse egli stesso non lo capisce più e ha perso le ali con cui volava quando lo ideò: mentre quello si cerca i suoi lettori, infiamma vite, reca gioia, spaventa, crea nuove opere, diviene anima di propositi e di azioni — insomma: vive come un essere dotato di spirito e d'anima, e tuttavia non è un uomo. La sorte più felice è quella dell'autore che, da vecchio, può dire che tutto quanto c'era in lui di pensieri e sentimenti creatori di vita, fortificanti, nobilitanti, illuminanti, continua a vivere nei suoi scritti, e che lui stesso ormai è solo grigia cenere, mentre il fuoco viene ovunque salvato e diffuso. — Se si considera poi che ogni azione umana, e non solo un libro, diventa in qualche modo motivo di altre azioni, decisioni, pensieri; che tutto ciò che accade è indissolubilmente annodato a tutto ciò che accadrà, si riconosce la sola vera immortalità che esista, quella del movimento: ciò che una volta ha mosso, è racchiuso e reso eterno nella concatenazione totale di tutto ciò che è, come un insetto nell'ambra.


 
209.
Gioia nella vecchiaia. — Il pensatore, e così pure l'artista, che han riposto il meglio di sé nelle loro opere, provano una gioia quasi maligna nel vedere come il tempo lentamente intacchi e distrugga in essi il corpo e lo spirito: è come se da dietro un angolo vedessero un ladro affannarsi intorno al loro forziere e sapessero che quello è vuoto, e che tutti i tesori sono già in salvo.


 
210.
Fertilità tranquilla. — Gli aristocratici nati dello spirito non sono troppo zelanti; le loro creazioni appaiono e cadono dall'albero in una tranquilla sera d'autunno, senza esser ansiosamente desiderate, stimolate, incalzate dal nuovo. L'incessante volontà di creazione è volgare ed è segno di gelosia, di invidia, di ambizione. Se si è qualcosa, non occorre propriamente far nulla — e tuttavia si fa molto. C'è, al di sopra dell'uomo «produttivo», una specie ancora più alta.


 
211.
Achille e Omero. — È sempre come tra Achille e Omero: l'uno ha l'esperienza vissuta, il sentimento, l'altro li descrive. Un vero scrittore dà all'affetto e all'esperienza altrui solo le parole; è artista per indovinar molto dal poco che ha sentito. Gli artisti non sono affatto uomini dalle grandi passioni, ma spesso si fanno passare per tali, credendo inconsapevolmente che si presterà maggior fede alle passioni da loro descritte se la loro vita attesterà un'esperienza in questo campo. Basta solo lasciarsi andare, non controllarsi, dar libero sfogo alla propria ira, ai propri desideri, e subito tutti gridano: com'è pieno di passione! Ma la passione che scava profondamente, che consuma e spesso risucchia l'individuo, è ben altro: chi la prova, certo non la descrive in drammi, in musica o in romanzi. Gli artisti sono spesso individui sfrenati, nella misura in cui appunto non sono artisti: ma questo è un altro discorso.


 
212.
Vecchi dubbi sull'effetto dell'arte. — La compassione e la paura verrebbero realmente, come vuole Aristotele, scaricate dalla tragedia, cosicché l'ascoltatore se ne tornerebbe via più freddo e tranquillo? E le storie di spiriti, renderebbero meno timorosi e superstiziosi? Per alcuni processi fisici, come ad esempio il godimento amoroso, è vero che, con la soddisfazione di un bisogno, sopravviene un'attenuazione e un temporaneo indebolimento dell'istinto. Ma la paura e la compassione non sono, in questo senso, necessità di determinati organi che vogliono esser soddisfatti. E, alla lunga, dalla ripetuta soddisfazione ogni istinto esce rafforzato, nonostante quelle periodiche mitigazioni. Sarebbe possibile che, caso per caso, la compassione e la paura venissero attenuate e scaricate dalla tragedia; ma in complesso esse potrebbero invece aumentare per effetto del tragico, e allora avrebbe ragione Platone a ritenere che la tragedia renda nell'insieme più angosciati ed emotivi. Lo stesso poeta tragico acquisterebbe allora necessariamente una concezione del mondo cupa e angosciata, e un'anima molle, eccitabile, lacrimosa; e concorderebbe con l'opinione di Platone anche il fatto che i poeti tragici, come pure le comunità cittadine che particolarmente se ne dilettano, degenerino in una sempre maggior mancanza di misura e di freno. — Ma che diritto ha la nostra epoca di dare una risposta alla grande domanda di Platone circa l'influsso morale dell'arte? Se anche avessimo l'arte — dove abbiamo l'influsso, un qualsiasi influsso dell'arte?


 
213.
Gioia del nonsenso. — Come può l'uomo godere del nonsenso? Infatti questo avviene nella misura in cui nel mondo si ride; si può anzi dire che quasi ovunque ci sia felicità, c'è la gioia del nonsenso. Il rovesciare l'esperienza nel suo contrario, l'utile nell'inutile, il necessario nell'arbitrario, ma in modo che tale processo non arrechi danno e venga presentato solo per spavalderia, ci diletta, perché ci libera momentaneamente dalla costrizione del necessario, dell'utile, di quanto è conforme all'esperienza, cose cui noi siam soliti guardare come ai nostri inesorabili padroni; noi giochiamo e ridiamo quando ciò che aspettiamo (che normalmente rende tesi e impauriti) si scarica senza danno. È la gioia degli schiavi alle feste dei Saturnali.


 
214.
Nobilitazione della realtà. — Per il fatto che gli uomini vedevano nell'istinto afrodisiaco una divinità, e ne sentivano in sé gli effetti con venerazione e gratitudine, nel corso dei tempi questo affetto si è venuto compenetrando di idee più elevate e ne è stato così effettivamente molto nobilitato. Così alcuni popoli, grazie a quell'arte dell'idealizzazione, delle malattie hanno fatto grandi forze ausiliarie della civiltà: i greci, ad esempio, che nei primi secoli soffrivano di grandi epidemie nervose (del tipo dell'epilessia e del ballo di San Vito), ne trassero lo splendido tipo della baccante. — I greci infatti niente possedevano meno che una robusta salute; il loro segreto fu di adorare come divinità anche la malattia, purché avesse potenza.


 
215.
Musica. — La musica, in sé, non è così importante per la nostra interiorità, così profondamente eccitante da poter essere considerata come il linguaggio immediato del sentimento; ma il suo antichissimo legame con la poesia ha posto tanto simbolismo nel movimento ritmico, nella forza e nella debolezza della tonalità, che noi ora immaginiano che essa parli direttamente alla interiorità e provenga dalla interiorità. La musica drammatica è possibile solo quando l'arte musicale si è impadronita di un campo vastissimo di mezzi simbolici, attraverso la canzone, l'opera e centinaia di tentativi di pittura musicale. La «musica assoluta» è o forma in sé, a uno stadio musicale ancor rozzo, in cui il suono produce gioia attraverso il ritmo e la diversa intensità, oppure è simbolismo delle forme senza poesia, il quale già parla all'intelletto, dopo che le due arti furono unite nel corso di un lungo sviluppo e la forma musicale fu alla fine tutta intessuta di fili di concetti e di sentimenti. Gli uomini che, nello sviluppo della musica, son rimasti indietro, posson sentire in modo puramente formale un pezzo di musica, in cui invece quelli progrediti intendono tutto simbolicamente. In sé, nessuna musica è profonda e piena di significato, essa non parla di «volontà» né di «cosa in sé»; questo l'intelletto potè immaginarlo solo in un'epoca che aveva conquistato al simbolismo musicale tutta la sfera della vita interiore. È stato l'intelletto stesso a introdurre nel suono questo significato: così come ha introdotto, nei rapporti di linee e masse in architettura, un significato che in sé è però affatto estraneo alle leggi meccaniche.


 
216.
Gesti e linguaggio. — Più antica del linguaggio è l'imitazione dei gesti, che avviene spontaneamente e ancor oggi, che si tende in generale a reprimere il linguaggio gestuale e si impara a dominare i propri muscoli, è tanto forte che non possiamo vedere un movimento su un volto senza che si produca una innervazione sul nostro (si può osservare che uno sbadiglio simulato provoca, in chi guarda, uno sbadiglio naturale). Il gesto imitato riconduceva colui che imitava al sentimento che si esprimeva sul volto e sul corpo di chi era oggetto di quell'imitazione. Così si imparò a intendersi: così il bambino ancora impara a capire la madre. In generale, sentimenti dolorosi possono essere stati espressi ben anche con gesti che a loro volta producevano dolore (per esempio strapparsi i capelli, percuotersi il petto, contrarre e torcere violentemente i muscoli facciali). Di contro: i gesti del piacere erano essi stessi piacevoli e si prestavano dunque agevolmente a comunicare l'intesa (il riso come espressione dell'essere solleticati, che è piacevole, serviva a sua volta a esprimere altri sentimenti di piacere). Non appena ci si capì a gesti, potè d'altra parte nascere un simbolismo del gesto: voglio dire, ci si potè accordare su un linguaggio di segni e di suoni, in modo cioè che dapprima si produsse suono e gesto (al quale il primo si aggiungeva simbolicamente), e poi solo il suono. — Sembra che in tempi antichi si sia verificata spesso quella stessa cosa che ancor oggi avviene, davanti ai nostri occhi e orecchi, nello sviluppo della musica: mentre dapprima la musica, senza danza e mimo che la spieghino (linguaggio gestuale), è vuoto rumore, l'orecchio, attraverso una lunga assuefazione a quell'insieme di musica e movimento, viene addestrato all'interpretazione immediata delle figure musicali e giunge infine a un livello di rapida comprensione, in cui non ha più bisogno del movimento visibile e comprende il musicista anche senza di quello. Si parla allora di musica assoluta, cioè di musica in cui tutto vien subito inteso simbolicamente, senza altri ausili.


 
217.
Desensualizzazione dell'arte superiore. — Grazie allo straordinario esercizio cui lo sviluppo artistico della nuova musica ha sottoposto il nostro intelletto, le nostre orecchie si son fatte sempre più intellettuali. Oggi sopportiamo perciò intensità sonore molto più forti, molto più «rumore», perché meglio dei nostri predecessori siamo esercitati ad ascoltare la ragione in esso. In effetti, ora tutti i nostri sensi sono alquanto attutiti, proprio per il fatto che cercano subito la ragione, quindi il «ciò significa», e non più il «ciò è»; e questo ottundimento si rivela ad esempio nell'assoluto predominio della tempera dei toni; oggi, infatti, orecchie che operino ancora sottili distinzioni, ad esempio tra do diesis e re bemolle, sono eccezioni. Da questo punto di vista, il nostro orecchio è stato reso più grossolano. Inoltre è stata conquistata alla musica la parte brutta del mondo, originariamente ostile ai sensi; il potere di questa, specialmente nell'esprimere il sublime, il terribile, il misterioso, si è così sorprendentemente allargato, e la nostra musica fa oggi parlare cose che prima erano morte. Allo stesso modo, alcuni pittori han reso l'occhio più intellettuale e hanno oltepassato di molto quello che prima si chiamava gioia dei colori e delle forme. Anche in questo campo, l'intelletto artistico ha conquistato quella parte del mondo che prima passava per brutta. — Qual è la conseguenza di tutto ciò? Quanto più capaci di pensiero si fanno l'occhio e l'orecchio, tanto più si avvicinano al limite in cui cessano di essere sensibili: il godimento viene trasferito nel cervello, gli stessi organi del senso si ottundono e si indeboliscono, il simbolico subentra sempre più a ciò che è — e per questa via noi perveniamo tanto sicuramente alla barbarie quanto per qualsiasi altra. Intanto si continua a dire: il mondo è più brutto che mai, ma significa un mondo più bello di quanto sia mai stato. Ma quanto più si diffonde e si volatilizza l'ambrato profumo del significato, tanto più rari diventano coloro che ancora lo percepiscono: gli altri finiscono per fermarsi al brutto e cercano di goderne direttamente, cosa che però non riuscirà loro mai. Così esiste in Germania una duplice corrente di evoluzione musicale: qui una schiera di diecimila con pretese sempre più alte e delicate, che sempre più tendon l'orecchio al «ciò significa», e lì la stragrande maggioranza, che diventa ogni anno più incapace di capire il significato anche nella forma della bruttezza sensuale e impara perciò ad afferrare nella musica, con sempre maggior piacere, l'elemento brutto e ripugnante in sé, vale a dire l'elemento bassamente sensuale.


 
218.
La pietra è più pietra di prima. — In generale noi non capiamo più l'architettura, certamente almeno non nel modo in cui capiamo la musica. Siamo cresciuti fuori dal simbolismo delle linee e delle figure, come ci siamo disabituati agli effetti sonori della retorica, e non abbiamo più succhiato sin dal primo istante di vita quella specie di latte materno dell'educazione. In origine, in un edificio greco o cristiano tutto significava qualcosa, in vista cioè di un ordine superiore delle cose: questo senso di un significato inesauribile circondava l'edificio come un velo magico. La bellezza entrava nel sistema solo secondariamente, senza pregiudicare nella sostanza quel sentimento fondamentale del perturbante-sublime, del consacrato dalla magia e dalla vicinanza della divinità; tutt'al più la bellezza mitigava l'orrore, ma questo orrore era dappertutto il presupposto. Che cos'è per noi oggi la bellezza di un edificio? Quello che è il bel volto di una donna priva di spirito: una maschera.


 
219.
Origine religiosa della musica moderna. — La musica ricca di sentimento nasce nel cattolicesimo restaurato dopo il concilio di Trento, con Palestrina, che diede espressione musicale al risveglio di una intima e profondamente commossa spiritualità; più tardi, con Bach, anche nel protestantesimo, nella misura in cui questo, ad opera dei pietisti, fu approfondito e liberato dall'originario carattere dogmatico. Presupposto e preludio indispensabile a questa duplice nascita fu che ci si occupasse di musica come si era fatto nel Rinascimento e nel Prerinascimento, cioè in modo dotto, con quel piacere, al fondo scientifico, per i virtuosismi dell'armonia e dell'arte corale. D'altra parte, anche l'opera fu un precedente necessario: in essa il profano esprimeva la sua protesta contro una musica fredda e troppo dotta, e voleva di nuovo dare a Polimnia un'anima. — Senza quella trasformazione profondamente religiosa della sensibilità, senza la risonanza di un sentimento intimamente commosso, la musica sarebbe rimasta dotta o operistica; lo spirito della Controriforma è lo spirito della musica moderna (perché il pietismo della musica di Bach è anch'esso una specie di controriforma). Tanto grande è il nostro debito verso la vita religiosa. La musica fu il Controrinascimento in campo artistico; di esso fan parte la tarda pittura di Murillo e fors'anche lo stile barocco: in ogni caso più che non l'architettura del Rinascimento o dell'antichità. E ancor oggi potremmo chiederci: se la nostra musica moderna potesse muovere le pietre, le ricomporrebbe in un'architettura antica? Ne dubito molto. Infatti ciò che in questa musica predomina, l'affetto, il piacere degli stati d'animo tesi ed elevati, il voler diventar vivo a ogni costo, il rapido mutare del sentimento, il robusto effetto a rilievo di luce e d'ombra, l'accostamento di estasi e ingenuità, tutto questo ha già una volta dominato nelle arti figurative e creato nuove leggi di stile: ma non fu né nell'antichità né nel periodo del Rinascimento.


 
220.
L'al di là nell'arte. — Non senza profondo dolore si ammette che gli artisti di ogni tempo, nel loro slancio più alto, han portato a celeste trasfigurazione proprio quelle idee che noi oggi riconosciamo come false: essi sono i glorificatori degli errori religiosi e filosofici dell'umanità, né sarebbero potuti esserlo senza la fede nell'assoluta verità di quelli. Ora, se in genere viene a mancare la fede in tale verità, impallidiscono i colori iridati intorno ai limiti ultimi del conoscere e del fantasticare umani: allora non potrà più fiorire quel genere di arte che, come la Divina Commedia, i quadri di Raffaello, gli affreschi di Michelangelo, le cattedrali gotiche, ha come presupposto un significato non soltanto cosmico, ma anche metafisico, degli oggetti dell'arte. Che sia esistita una tale arte, una tale fede di artisti, diventerà una commovente leggenda.


 
221.
La rivoluzione nella poesia. — La rigida costrizione che si imponevano i drammaturghi francesi rispetto all'unità di azione, luogo e tempo, riguardo allo stile, alla costruzione del verso e della frase, alla scelta delle parole e dei pensieri, fu una scuola importante quanto lo fu quella del contrappunto e della fuga nello sviluppo della musica moderna, oppure come le figure gorgiane nell'eloquenza greca. Vincolarsi a tal punto può apparire assurdo; tuttavia non esiste altro mezzo per uscire dal naturalismo se non limitarsi anzitutto nel modo più forte (e forse più arbitrario). Si impara così via via a camminare con grazia anche sugli angusti sentieri che varcano abissi vertiginosi, e si porta con sé, come bottino, la massima agilità di movimento: come la storia della musica dimostra a tutti gli uomini d'oggi. Qui si vede come passo passo i vincoli si allentino, sino a poter infine apparire del tutto caduti: questa apparenza è il risultato più alto di un necessario sviluppo nell'arte. Nella poesia moderna non c'è stato tale felice, progressivo scioglimento da vincoli volontariamente imposti. Lessing ridicolizzò in Germania la forma francese, ossia l'unica forma artistica moderna, e rimandò a Shakespeare; si perse così la continuità di quella liberazione e si fece un salto all'indietro, nel naturalismo — cioè verso gli inizi dell'arte. Goethe cercò di salvarsene con l'imporsi vincoli sempre nuovi, in modi diversi; ma, una volta spezzato il filo dello sviluppo, anche l'uomo più dotato non approda che a una continua sperimentazione. Schiller deve la relativa sicurezza della sua forma al modello, che inconsciamente venerava pur ripudiandolo, della tragedia francese, e si mantenne abbastanza indipendente da Lessing (i cui tentativi drammatici egli notoriamente rifiutava). Agli stessi francesi vennero improvvisamente a mancare, dopo Voltaire, i grandi talenti, che avrebbero potuto indirizzare lo sviluppo della tragedia dalla costrizione a quell'apparenza di libertà; più tardi, seguendo l'esempio tedesco, fecero anch'essi il salto in una specie di rousseauiano stato di natura dell'arte, e sperimentarono. Basta leggere ogni tanto il Maometto di Voltaire per capire che cosa sia andato definitivamente perduto per la cultura europea con la rottura di quella tradizione. Voltaire fu l'ultimo dei grandi drammaturghi a domare con greca misura la sua anima multiforme, all'altezza anche delle più violente tempeste tragiche — egli potè ciò che nessun tedesco ancora poteva, perché la natura del francese è molto più di quella tedesca affine alla natura greca —; fu anche l'ultimo dei grandi scrittori che, nella trattazione del discorso in prosa, avesse orecchio greco, coscienziosità artistica greca e semplicità e grazia greche; così come fu uno degli ultimi uomini capaci di assommare in sé, senza essere incoerenti e vili, la massima libertà di spirito e sentimenti assolutamente non rivoluzionari. Dopo di lui si è affermato in ogni campo lo spirito moderno, con la sua irrequietudine, il suo odio per la misura e il limite, spirito che, scatenato dapprima dalla febbre della rivoluzione, si impose poi da solo le sue briglie, quando lo assalirono la paura e l'orrore di sé — ma le briglie della logica, non più quelle della artistica misura. Grazie alla caduta di quei vincoli noi godiamo per un certo tempo, questo è vero, la poesia di tutti i popoli, tutto quel che è cresciuto in luoghi nascosti, che è primitivo, selvatico, stranamente bello e gigantescamente irregolare, dalla canzone popolare su su fino al «grande barbaro» Shakespeare; gustiamo le delizie del colore locale e del costume d'epoca, sinora sconosciuti a tutti i popoli artistici; profittiamo largamente dei «vantaggi barbarici» del nostro tempo, che Goethe fa valere contro Schiller per porre nella luce più favorevole la mancanza di forma del suo Faust. Ma per quanto ancora? La dirompente marea di poesie di tutti gli stili di ogni popolo dovrà infatti a poco a poco espandersi su tutta la terra, dove ancora sarebbe stata possibile una silenziosa, tranquilla fioritura; tutti i poeti dovranno infatti diventare imitatori e sperimentatori, temerari copisti, per quanto grande sia all'inizio la loro forza. Il pubblico infine, che nei vincoli imposti alla forza immaginativa, nella imperiosa organizzazione di tutti i mezzi dell'arte ha disimparato a vedere l'atto propriamente artistico, dovrà sempre più apprezzare la forza per la forza, il colore per il colore, il pensiero per il pensiero, l'ispirazione per l'ispirazione, e di conseguenza non godrà se non isolatamente gli elementi e le condizioni dell'opera d'arte, e finirà con l'avanzare la naturale pretesa che l'artista debba porgerglieli isolati. Sì, sono stati respinti gli «irragionevoli» vincoli dell'arte francese e greca, ma insensibilmente ci si è abituati a trovare irragionevoli tutti i vincoli, tutte le limitazioni; in tal modo l'arte va incontro alla sua dissoluzione, sfiorando nel frattempo — cosa altamente istruttiva — tutte le fasi dei suoi inizi, della sua infanzia, della sua imperfezione, delle sue arditezze e dei suoi eccessi di una volta: nel suo perire, essa interpreta la sua nascita, il suo divenire. Uno dei grandi del cui istinto ben ci si può fidare, e alla cui teoria null'altro mancò se non una trentina d'anni in più di pratica, Lord Byron, ha detto una volta: «Per quel che riguarda la poesia in generale, più ci rifletto, più mi convinco che siamo tutti senza eccezione su una strada sbagliata. Tutti noi seguiamo un sistema rivoluzionario intrinsecamente errato — e la nostra generazione, o quella che verrà, giungeranno alla stessa convinzione». È questo lo stesso Byron che dice: «Considero Shakespeare il peggior modello, anche se il più straordinario poeta». E, in fondo, non dice la stessa cosa anche il giudizio artistico del Goethe maturo, nella seconda metà della sua vita? — quel giudizio col quale egli acquistò un tale vantaggio su tutta una serie di generazioni, che grosso modo si può affermare che Goethe non abbia ancora esercitato il suo influsso, e che il suo tempo debba ancora venire. Proprio perché la sua natura lo trattenne a lungo sulla scia della rivoluzione poetica, ed egli gustò sino in fondo ogni nuova scoperta, idea, mezzo tecnico che con quella rottura della tradizione fossero stati indirettamente trovati e per così dire dissepolti dalle rovine dell'arte, la sua tarda trasformazione e conversione hanno tanto peso: esse ci dicono che Goethe sentì assai profondamente il desiderio di riconquistare la tradizione dell'arte e di restituire poeticamente alle rovine e alle colonne del tempio rimaste in piedi l'antica completezza e perfezione, almeno con la fantasia dell'occhio, se la forza del braccio doveva rivelarsi troppo debole per costruire là, dove già per distruggere erano state necessarie forze tanto potenti. Così egli visse nell'arte come nel ricordo della vera arte: la sua poesia divenne ausilio del ricordo, della comprensione di epoche artistiche da lungo tempo scomparse. In verità, rispetto alla forza della nuova epoca, le sue esigenze erano inadempibili; ma il dolore che ne derivava fu abbondantemente compensato dalla gioia che esse una volta furono adempiute, e che anche noi possiamo ancora partecipare di questo adempimento. Non individui, ma maschere più o meno idealizzate; non realtà, ma allegorica generalità; caratteri d'epoca, colori locali mitizzati e sfumati sin quasi a diventare invisibili; il sentire presente e i problemi della presente società ridotti alle forme più semplici, spogliati delle loro qualità stimolanti, eccitanti, patologiche, resi inefficaci in ogni senso che non fosse quello artistico; non materia e caratteri nuovi, ma sempre nuova vivificazione e trasformazione di quelli antichi e da tempo abituali: questa è l'arte come Goethe più tardi la intese, e come i greci, e anche i francesi, la praticarono.


 
222.
Che cosa resta dell'arte. — È vero, dati certi presupposti metafisici l'arte ha un valore molto più grande, ad esempio se vige la credenza che il carattere sia immutabile e che l'essenza del mondo si esprima continuamente in tutti i caratteri e in tutte le azioni: allora l'opera dell'artista diventa immagine di ciò che permane eternamente, mentre, per la nostra concezione, l'artista può dare alla sua immagine una validità solo temporanea, perché nel complesso l'uomo è divenuto ed è mutevole, e persino il singolo uomo non è nulla di fisso e di permanente. Così accade anche per un altro presupposto metafisico: posto che il nostro mondo visibile sia solo apparenza, come suppongono i metafisici, l'arte verrebbe ad essere assai vicina al mondo reale: infatti tra il mondo dell'apparenza e il mondo di sogno dell'artista ci sarebbe persino troppa somiglianza; e la residua differenza porrebbe il significato dell'arte al di sopra di quello della natura, in quanto l'arte rappresenterebbe l'uniforme, i tipi e i modelli della natura. Ma questi presupposti sono falsi: ciò ammesso, quale posizione resta ancora all'arte, oggi? Innanzitutto essa ha insegnato per millenni a guardare con interesse e piacere alla vita in ogni sua forma, e a stimolare il nostro sentimento al punto che alla fine esclamiamo: «Sia come sia, la vita è buona!». Questo insegnamento dell'arte, di provar piacere nell'esistenza e di considerare la vita umana come un pezzo di natura, senza lasciarsene troppo coinvolgere, come oggetto di uno sviluppo conforme a leggi, — questo insegnamento è cresciuto dentro di noi e torna ora alla luce come prepotente bisogno di conoscenza. Si potrebbe rinunciare all'arte, ma non per questo si perderebbe la capacità che da essa abbiamo appresa; così come si è rinunciato alla religione, ma non ai potenziamenti e alle elevazioni dell'animo che essa ci ha fatto acquisire. Come l'arte figurativa e la musica rappresentano la misura della ricchezza di sentimento realmente acquistata e accresciuta per mezzo della religione, così, una volta scomparsa l'arte, l'intensità e la molteplicità della gioia di vivere da essa seminate in noi, esigerebbero sempre di essere appagate. L'uomo scientifico è l'ulteriore sviluppo di quello artistico.


 
223.
Tramonto dell'arte. — Come, nella vecchiaia, ci si ricorda della gioventù e si celebrano feste della memoria, così tra non molto l'umanità si troverà, rispetto all'arte, nel rapporto di un commovente ricordo delle gioie della giovinezza. Forse l'arte non è mai stata compresa, prima, con tanta profondità e pienezza d'animo come oggi che la magia della morte sembra circondarla e trasformarla. Si pensi a quella città greca dell'Italia meridionale che in un certo giorno dell'anno celebra ancora le sue feste greche, con rimpianto e tristezza perché sempre più la barbarie straniera trionfa sulle sue usanze; mai l'ellenico è stato così goduto, in nessun luogo questo nettare dorato è stato sorbito con tanta voluttà come tra questi Elleni in via di estinzione. Presto si guarderà all'artista come a una splendida reliquia, e a lui si renderanno onori, quali difficilmente tributiamo ai nostri simili, come a un meraviglioso straniero, dalla cui forza e bellezza dipese la felicità di tempi passati. Il meglio di noi l'abbiamo forse ereditato da sentimenti di epoche antiche, alle quali oggi non possiamo più giungere per via diretta; il sole è già tramontato, ma il cielo della nostra vita arde e risplende tuttora di esso, anche se noi non lo vediamo più.


 
PARTE QUINTA. Indizi di cultura superiore e inferiore

 
224.
Nobilitazione tramite la degenerazione. — La storia insegna che di un popolo si conserva meglio quella stirpe in cui la maggior parte degli individui possiede vivo il senso della comunità che consegue all'uguaglianza dei loro princìpi abituali e indiscutibili, che consegue, dunque, alla loro fede comune. Qui il costume buono e onesto si rafforza, qui si impara la subordinazione dell'individuo e sin dalla prima infanzia si dà in dono al carattere quella fermezza, che vien poi ancora instillata con l'educazione. Il pericolo di queste comunità forti, basate su individui pieni di carattere e di ugual natura, è il progressivo instupidimento, via via accresciuto dall'eredità, che come un'ombra accompagna ogni stabilità. Sono gli individui meno vincolati, molto più insicuri e moralmente più deboli di quelli da cui dipende il progresso spirituale di tali comunità: essi sono gli uomini che tentano cose nuove e molteplici. Innumerevoli sono gli individui di questo tipo che, per la loro debolezza, periscono senza esercitare un influsso molto sensibile; ma in generale, soprattutto quando hanno discendenti, essi indeboliscono l'elemento stabile di una comunità e di tanto in tanto producono in esso una ferita. Proprio in questo punto ferito e più debole viene per così dire inoculato qualcosa di nuovo a tutta la comunità; ma essa dev'essere nell'insieme tanto forte da poter accogliere nel suo sangue e assimilare questo elemento nuovo. Le nature devianti sono della massima importanza ovunque debba prodursi un progresso; ogni progresso deve nell'insieme esser preceduto da un parziale indebolimento. Le nature più forti conservano il tipo, quelle più deboli contribuiscono a farlo evolvere. — Qualcosa di simile avviene per l'individuo singolo: raramente si ha una degenerazione, una mutilazione, persino un vizio e in genere una perdita fisica e morale senza che si produca un vantaggio da un'altra parte. L'uomo malato, ad esempio, in mezzo a una stirpe irrequieta e bellicosa avrà maggiori possibilità di starsene appartato e di diventare più saggio, l'orbo avrà un occhio più acuto, il cieco guarderà più profondamente nel suo intimo e ad ogni modo avrà un orecchio più fino. In questo senso, la famosa lotta per l'esistenza non mi sembra essere l'unico punto di vista dal quale possano spiegarsi il progredire o il rafforzarsi di un uomo o di una razza. È necessario, piuttosto, il concorso di due elementi diversi: in primo luogo l'accrescimento della forza stabile tramite l'unione degli spiriti nella fede e nel sentimento comune; poi la possibilità di realizzare scopi superiori con il presentarsi di nature degeneranti e, in causa loro, di parziali indebolimenti e ferite della forza stabile; proprio la natura più debole, in quanto più libera e delicata, rende in genere possibile qualsiasi progresso. Un popolo che in qualche punto sia debole e poco compatto, ma nell'insieme ancora forte e sano, è in grado di ricevere l'infezione del nuovo e di incorporarla a suo vantaggio. Per l'uomo singolo, il compito dell'educazione suona così: renderlo così stabile e sicuro che egli nel suo tutto non possa più esser deviato dalla sua strada. Allora però l'educatore deve produrgli delle ferite, o utilizzare quelle che il destino gli ha inflitto, e una volta sopraggiunti il dolore e il bisogno, nei punti feriti può anche venir inoculato qualcosa di nuovo e di nobile. Tutta la sua natura accoglierà ciò in sé e ne farà intuire in seguito, nei suoi frutti, l'effetto nobilitante. — Per quanto concerne lo Stato, Machiavelli dice che «la forma dei governi è di scarsissima importanza, benché la gente di mezza cultura la pensi diversamente. Il grande scopo dell'arte del governo dovrebbe essere la durata, che compensa ogni altra cosa, essendo molto più preziosa della libertà». Solo con una durata massima, sicura nelle sue basi e garanzie, è possibile in genere uno sviluppo continuo e una inoculazione nobilitante. Certamente la pericolosa compagna di ogni durata, l'autorità, come sempre si opporrà.


 
225.
Lo spirito libero è un concetto relativo. — Vien detto spirito libero colui che pensa in modo diverso da come ci si aspetterebbe in base alle sue origini, al suo ambiente, al suo ceto sociale e al suo ufficio, o in base alle opinioni dominanti. Egli è l'eccezione, gli spiriti vincolati sono la regola; questi gli rimproverano che i suoi liberi princìpi derivano dalla smania di farsi notare, o addirittura che lasciano supporre azioni libere, azioni cioè incompatibili con la morale vincolata. Talvolta si dice altresì che questi o quei liberi princìpi sian da ricondurre a stravaganza o a ipertensione della mente; ma così parla solo la cattiveria, che non crede essa stessa a quanto dice ma pure vuole, in tal modo, nuocere: poiché la testimonianza della maggiore bontà e acutezza d'intelletto dello spirito libero gli sta normalmente scritta in viso, così leggibile che gli spiriti vincolati la capiscono benissimo. Ma le altre due vie da cui proverrebbe la libertà di spirito sono pensate onestamente; in realtà, anche molti spiriti liberi nascono nell'uno e nell'altro modo. Ma proprio per questo i princìpi cui essi sono giunti per quelle vie potrebbero essere più veri e più fidati di quelli degli spiriti vincolati. Nella conoscenza della verità, quel che importa è che la si possieda, e non già per quale impulso la si sia cercata, per quale via la si sia trovata. Se gli spiriti liberi hanno ragione, allora quelli vincolati hanno torto, e non conta se i primi sian giunti alla verità per immoralità e se gli altri sian rimasti fermi alla non verità per moralità. — Del resto, non appartiene all'essenza dello spirito libero l'avere opinioni più giuste, ma piuttosto l'essersi distaccato dalla tradizione, con fortuna o con insuccesso. Di solito, però, egli avrà dalla sua parte la verità, o almeno lo spirito di ricerca della verità: egli esige motivi, gli altri fede.


 
226.
Origine della fede. — Lo spirito vincolato prende posizione non per qualche motivo, ma per consuetudine; ad esempio è cristiano non perché possieda un'idea sulle varie religioni e abbia scelto tra di esse, è inglese non perché si sia deciso per l'Inghilterra, ma si è trovato davanti il cristianesimo e la qualità di inglese, e li ha accettati senza alcun motivo, come chi, nato in una regione vinicola, diventa bevitore di vino. Più tardi, quando già era cristiano o inglese, forse avrà anche trovato argomenti a favore della sua abitudine; si potranno abbattere questi argomenti, ma non per questo si abbatterà lui o la sua posizione. Si costringa per esempio uno spirito vincolato a esporre le sue ragioni contro la bigamia, e si vedrà se il suo santo zelo per la monogamia si basi su argomenti oppure sull'abitudine. L'abitudine a princìpi intellettuali non motivati vien detta fede.


 
227.
Concludere dalle conseguenze circa fondatezza e infondatezza. — Tutti gli Stati e gli ordinamenti sociali: le classi, il matrimonio, l'educazione, il diritto, tutto questo ripone la propria forza e durata unicamente nella fede che gli spiriti vincolati gli prestano — dunque nell'assenza di motivazioni, o per lo meno nel rifiuto a metterle in questione. Gli spiriti vincolati non lo ammettono volentieri e sentono bene che è un pudendum. Il cristianesimo, che era molto innocente nelle sue trovate intellettuali, non si accorse di questo pudendum, richiese fede e nient'altro che fede, e respinse con passione la ricerca delle motivazioni; esso additava al successo della fede: sentirete presto il vantaggio della fede, spiegava, in grazia sua divenete beati. In effetti, anche lo Stato agisce così, e ogni padre educa in modo simile il proprio figlio: considera questo come vero, gli dice, e sentirai quanto bene fa. Ciò significa però che la verità di un'opinione dovrebbe esser dimostrata dall'utile personale che quella arreca e che l'utilità di una dottrina dovrebbe garantire della sua sicurezza e fondatezza intellettuale. È come se l'accusato dicesse ai giudici: il mio difensore dice la verità, perché state a vedere qual è il risultato del suo discorso: io vengo assolto. — Poiché gli spiriti vincolati possiedono i loro princìpi a causa della loro utilità, suppongono che anche lo spirito libero con le sue opinioni ricerchi il proprio utile e ritenga vero solo quello che gli giova. Ma, giacché sembra giovargli l'opposto di quel che giova ai suoi connazionali o a quelli del suo ceto, questi ritengono che i suoi princìpi sian pericolosi per loro; dicono o sentono: non può aver ragione, perché ci è di danno.


 
228.
Il carattere forte e buono. — La mancanza di indipendenza nelle opinioni, resa istinto dall'abitudine, porta a quel che si chiama la forza di carattere. Se qualcuno agisce in base a pochi motivi, ma sempre agli stessi, le sue azioni acquistano una grande energia; se queste azioni armonizzano con i princìpi degli spiriti vincolati, ottengono riconoscimento e inoltre producono in chi le compie il sentimento della buona coscienza. Pochi motivi, azioni energiche e buona coscienza costituiscono quel che vien detto fermezza di carattere. All'uomo dal carattere forte manca la conoscenza delle molte possibilità e direzioni dell'agire; il suo intelletto non è libero, è vincolato, perché in un determinato caso gli mostra forse solo due possibilità; tra queste esso deve ora necessariamente scegliere, secondo tutta la sua natura, e fa ciò senza difficoltà e indugi, in quanto non deve scegliere tra cinquanta possibilità. L'educazione impartita dall'ambiente vuol rendere ogni uomo non libero, mettendogli davanti agli occhi sempre il minor numero di possibilità. Dai suoi educatori l'individuo viene trattato come se fosse sì qualcosa di nuovo, ma dovesse diventare una ripetizione. Se l'uomo appare dapprima come qualcosa di sconosciuto, di mai esistito, deve esser trasformato in qualcosa di conosciuto, di già esistito. In un bambino si chiama buon carattere il manifestarsi del suo legame verso ciò che è già esistito; e il bambino, mettendosi dalla parte degli spiriti vincolati, mostra per la prima volta il risvegliarsi in lui del senso della comunità; sulla base del quale egli diverrà più tardi utile al suo Stato o al suo ceto.


 
229.
Misura delle cose negli spiriti vincolati. — Gli spiriti vincolati dicono che son giuste quattro specie di cose. Primo: sono giuste tutte le cose che hanno durata; secondo: sono giuste tutte le cose che non ci disturbano; terzo: sono giuste tutte le cose che ci recano vantaggio; quarto: sono giuste tutte le cose per le quali abbiamo fatto sacrifici. Quest'ultimo punto spiega ad esempio perché una guerra, iniziata contro la volontà del popolo, venga poi continuata con entusiasmo non appena sian cadute le prime vittime. — Gli spiriti liberi che difendono la loro causa innanzi al tribunale degli spiriti vincolati, debbono dimostrare che di spiriti liberi ce ne son sempre stati, e dunque che la libertà di spirito ha durata; poi, che non vogliono risultar molesti, e infine che in complesso portano vantaggio agli spiriti vincolati; ma, non potendo convincere gli spiriti vincolati su quest'ultimo punto, a nulla vale l'aver dimostrato il primo e il secondo.


 
230.
Esprit fort. — Paragonato a colui che ha dalla sua parte la tradizione e per agire non ha bisogno di motivi, lo spirito libero è sempre debole, soprattutto nelle azioni; egli conosce infatti troppi motivi e punti di vista, ed ha perciò la mano insicura, maldestra. Quali sono i mezzi per renderlo relativamente forte, sì che possa almeno affermarsi e non perisca inutilmente? Come nasce lo spirito libero (esprit fort)? È questa, in un caso particolare, la questione sul prodursi del genio. Da dove proviene l'energia, la forza inflessibile, la resistenza con cui l'individuo, contrapponendosi alla tradizione, cerca di acquisire una conoscenza affatto individuale del mondo?


 
231.
Il sorgere del genio. — L'ingegnosità con cui il prigioniero cerca i mezzi per liberarsi, il modo in cui sfrutta, con la massima pazienza e sangue freddo, ogni minimo vantaggio, può insegnare di quali strumenti si serva talvolta la natura per creare un genio — parola, questa, che prego intendere senza alcun riferimento mitologico e religioso —: essa lo rinserra in carcere ed eccita all'estremo la sua brama di libertà. O, con un'altra immagine: chi, in un bosco, si sia completamente smarrito e cerchi con straordinaria energia una direzione qualsiasi per uscirne fuori, può talvolta trovare un sentiero nuovo, che nessuno conosce: così nascono i geni di cui si celebra l'originalità. Abbiamo già detto che una mutilazione, una storpiatura, un grave difetto di un organo spesso dan modo a un altro organo di svilupparsi straordinariamente bene, dovendo esso adempiere la sua funzione e un'altra ancora. Di qui spesso si spiega l'origine di alcuni brillanti ingegni. Si applichino questi cenni generali sulla nascita del genio al caso particolare della nascita di uno spirito completamente libero.


 
232.
Ipotesi sull'orìgine del libero pensiero. — Come i ghiacciai ingrossano quando il sole, nelle zone equatoriali, arde sui mari con più violenza di prima, così anche una libertà di pensiero molto forte e irruente può esser segno che da qualche parte è straordinariamente aumentato l'ardore del sentimento.


 
233.
La voce della storia. — In generale la storia sembra dare, sul prodursi del genio, questo insegnamento: maltrattate e tormentate gli uomini, essa grida alle passioni dell'invidia, dell'odio e dell'emulazione, portateli all'estremo, l'uno contro l'altro, popolo contro popolo, e fate ciò per secoli! Allora forse fiammeggerà improvvisa la luce del genio, come da una scintilla liberatasi dalla tremenda energia che in tal modo avrete suscitata; allora la volontà, come un cavallo che si impenna sotto lo sprone del cavaliere, proromperà e balzerà in un altro campo. — Chi arrivasse a conoscere come si produce il genio e volesse anche tradurre in pratica il processo che la natura è solita seguire a tal riguardo, dovrebbe essere esattamente malvagio e privo di riguardi come la natura. — Ma forse abbiamo udito male.


 
234.
Valore del mezzo del cammino. — Forse il prodursi del genio è riservato solo a un periodo limitato dell'umanità. Infatti dal futuro dell'umanità non si può attendere tutto quello che soltanto ben precise condizioni di un qualche passato furono in grado di creare; non, ad esempio, i sorprendenti effetti del sentimento religioso. Anche quest'ultimo ha fatto il suo tempo, e molte cose buone non potranno più venire, perché potevano venire unicamente da esso. Così non esisterà più un orizzonte di vita e di cultura circoscritto dalla religione. Forse persino il tipo del santo è possibile soltanto data una certa prevenzione dell'intelletto, finita la quale anch'esso è finito per sempre, come sembra. E così, il culmine dell'intelligenza forse è stato riservato a un'epoca soltanto dell'umanità: esso si manifestò — e si manifesta, perché viviamo tuttora in quell'epoca—quando una straordinaria energia della volontà, accumulatasi a lungo, si riversò in via eccezionale, tramite l'ereditarietà, su scopi intellettuali. Quel culmine scomparirà quando quella furia e quell'energia non saranno più coltivate e accresciute. Forse l'umanità si avvicina maggiormente ai suoi veri scopi verso la metà del suo cammino, nell'età di mezzo della sua esistenza, più che verso la fine. Forze dalle quali, ad esempio, è condizionata l'arte potrebbero addirittura esaurirsi; il piacere della menzogna, dell'indefinito, del simbolico, dell'ebbrezza, dell'estasi, potrebbe venir disdegnato. Anzi, non appena la vita sarà ordinata in uno Stato perfetto, dal presente non si potrà più ricavare alcun motivo di poesia, e sarebbero solo gli uomini arretrati a desiderare una poetica irrealtà. Essi guarderebbero allora indietro con nostalgia, verso i tempi dello Stato imperfetto, della società semibarbarica, verso i nostri tempi.


 
235.
Genio e Stato ideale in contraddizione. — I socialisti desiderano instaurare il benessere per il maggior numero possibile di persone. Se si giungesse realmente alla stabile patria di questo benessere, allo Stato perfetto, sarebbe distrutto da questo benessere il terreno da cui nasce il grande intelletto, e in genere il grande individuo: cioè la forte energia. Una volta ottenuto questo Stato, l'umanità sarebbe troppo fiacca per poter ancora produrre il genio. Non si dovrebbe allora desiderare che la vita mantenga il suo carattere violento, e che sempre di nuovo si suscitino forze ed energie selvagge? Ora, il cuore generoso e compassionevole vuole appunto l'eliminazione di quel carattere violento e selvaggio; e il cuore più caldo che si possa immaginare lo desidererebbe nel modo più appassionato: mentre proprio da quel selvaggio e violento carattere della vita la sua passione ha tratto il fuoco, il calore, anzi l'esistenza stessa; il cuore più caldo vuole dunque l'eliminazione del suo fondamento, la distruzione di se stesso, il che significa: vuole qualcosa di illogico, non è intelligente. L'intelligenza più alta e il cuore più generoso non possono coesistere in una stessa persona, e il saggio che pronuncia il suo giudizio sulla vita si pone al di sopra anche della bontà, e la riguarda soltanto come cosa di cui tener conto tra le altre in una valutazione complessiva della vita. Il saggio deve opporsi a quegli smodati desideri della bontà inintelligente, perché ciò che gli preme è conservare il suo tipo e far infine sorgere il più alto intelletto; per lo meno non darà il suo contributo alla fondazione dello «Stato perfetto», in quanto in esso c'è posto solo per individui infiacchiti. Cristo invece, che vogliamo per una volta pensare come il cuore più caldo, favorì l'instupidimento degli uomini, si mise dalla parte dei poveri di spirito e arrestò la produzione del sommo intelletto: e ciò fu coerente. Il suo opposto, il saggio perfetto — possiamo ben predirlo — ostacolerà altrettanto necessariamente la produzione di un Cristo. Lo Stato è una intelligente istituzione volta a proteggere gli individui gli uni dagli altri: ma se lo si nobilita troppo, l'individuo finirà col restarne indebolito, anzi dissolto — e verrà dunque vanificato nel modo più radicale lo scopo originario dello Stato.


 
236.
Le zone della cultura. — Si può dire, facendo un paragone, che le epoche della cultura corrispondono alle diverse zone climatiche, solo che stanno l'una dietro l'altra e non l'una accanto all'altra, come le zone geografiche. In confronto alla zona temperata della cultura, nella quale è nostro compito passare, quella precedente fa in complesso l'impressione di un clima tropicale. Contrasti violenti, brusco passaggio dal giorno alla notte, colori caldi e splendenti, venerazione per tutto quanto è improvviso, misterioso, terrificante, rapido prorompere di uragani, e dappertutto un prodigo dilagare delle cornucopie della natura; di contro, nella nostra cultura, un cielo chiaro ma non risplendente, un'aria pura e abbastanza costante, asprezza, talora anche freddo: tale è la contrapposizione delle due zone. Quando là vediamo come le passioni più furenti siano abbattute e spezzate con forza immane da concezioni metafisiche, è come se davanti ai nostri occhi feroci tigri tropicali fossero stritolate nelle spire di mostruosi serpenti; simili avvenimenti mancano al nostro clima spirituale, la nostra fantasia è moderata, e nemmeno in sogno ci si affaccia quello che i popoli antichi vedevano da svegli. Ma non dovremmo noi poterci rallegrare di questo cambiamento, anche ammesso che gli artisti restino sostanzialmente danneggiati dalla scomparsa della cultura tropicale e trovino che noi, i non artisti, siamo un po' troppo disincantati? In questo senso essi hanno bene il diritto di negare il «progresso», perché in effetti è per lo meno dubbio che gli ultimi tre millenni indichino un processo evolutivo nelle arti; e così pure, un filosofo metafisico come Schopenhauer non avrà modo di riconoscere il progresso, qualora consideri gli ultimi quattro millenni dal punto di vista della religione e della filosofia metafisica. Per noi, invece, il fatto stesso che esista una zona di cultura temperata costituisce un progresso.


 
237.
Rinascimento e Riforma. — Il Rinascimento italiano accolse in sé tutte le forze positive alle quali si deve la cultura moderna: vale a dire emancipazione del pensiero, disprezzo per l'autorità, vittoria dell'istruzione sulla superbia della schiatta, entusiasmo per la scienza e per il passato scientifico dell'umanità, liberazione dell'individuo, ardore per la veracità e rifiuto dell'apparenza e del puro e semplice effetto (questo ardore divampò in moltissime personalità artistiche le quali, con altissima purezza morale, nelle loro opere miravano alla perfezione e a nient'altro che alla perfezione); anzi il Rinascimento possiede forze positive che nella nostra cultura moderna non hanno ancora ritrovato tanta potenza. Nonostante le pecche e i vizi, esso fu l'età aurea del nostro millennio. Di contro, la Riforma tedesca si pone come un'energica protesta di spiriti arretrati, non ancor sazi della visione medievale del mondo, che percepivano con profondo malessere — anziché con esultanza, come si converrebbe — i sintomi della sua dissoluzione, lo straordinario appiattimento ed esteriorizzazione della vita religiosa. Con nordica forza e caparbietà essi respinsero gli uomini all'indietro, provocarono la Controriforma, vale a dire un cristianesimo cattolico d'emergenza, con le violenze di uno stato d'assedio, e ritardarono anche di due o tre secoli il pieno risveglio e l'affermazione delle scienze, così come resero impossibile, forse per sempre, la piena compenetrazione e lo sviluppo unitario dello spirito antico con quello moderno. Il grande compito del Rinascimento non potè essere portato a termine; lo impedì la protesta della germaniche, che frattanto era rimasta indietro (e che, nel medioevo, aveva avuto abbastanza buon senso da valicar così spesso le Alpi per la propria salvezza). Fu l'influsso di una straordinaria costellazione politica a far sì che allora Lutero si salvasse e che la sua protesta acquistasse forza: infatti l'imperatore lo proteggeva per sfruttare le sue innovazioni come strumento di pressione sul papa, e dal canto suo anche il papa segretamente lo favoriva, per servirsi dei prìncipi protestanti come contrappeso contro l'imperatore. Senza questo strano concorso di intenzioni, Lutero sarebbe stato bruciato come Huss — e l'aurora dell'Illuminismo sarebbe forse spuntata prima, e con luce più bella di quanto oggi possiamo immaginare.


 
238.
Giustizia verso il dio che diviene. — Quando tutta la storia della cultura si dispiega agli sguardi come una confusa mescolanza di idee nobili e malvagie, vere e false, e alla vista di quei flutti ondeggianti uno prova quasi una sensazione di mal di mare, si comprende quale conforto sia insito nell'idea di un dio che diviene: esso si manifesta via via nei mutamenti e nelle sorti dell'umanità, e non tutto è cieco meccanismo, inutile e insensato interferire di forze. La divinizzazione del divenire è una visione metafisica — come guardare, da un faro, sul mare della storia — in cui ha trovato conforto una troppo storicizzante generazione di dotti; né ci si può adirare di questo, per quanto errata sia quell'idea. Solo chi, come Schopenhauer, nega lo sviluppo, nulla avverte della miseria di questi marosi della storia; perciò, nulla sapendo, nulla intuendo di quel dio che diviene e del bisogno di supporlo, può facilmente dar sfogo alla propria irrisione.


 
239.
I frutti secondo la stagione. — Qualunque miglior futuro si auguri all'umanità, esso sarà anche necessariamente, per qualche verso, un futuro peggiore: poiché è da esaltati credere che un nuovo e più alto livello dell'umanità assommi in sé tutti i pregi dei livelli precedenti e debba ad esempio produrre anche la forma d'arte più elevata. Piuttosto, ogni stagione ha i suoi pregi e il suo fascino ed esclude quelli delle altre. Quanto è cresciuto dalla religione e in vicinanza di essa, non può più crescere, una volta che quella sia distrutta; tutt'al più, sparsi e tardivi germogli potranno condurre ad ingannarsi in proposito, così come fa il ricordo, che talvolta si affaccia, dell'arte antica: condizione, questa, che svela sì il senso di perdita, di mancanza, ma non costituisce una prova della forza dalla quale potrebbe nascere una nuova arte.


 
240.
Crescente severità del mondo. — Quanto più in alto sale la cultura di un uomo, tanto più numerosi sono i campi che si sottraggono allo scherzo, all'irrisione. Voltaire ringraziava il cielo dal più profondo del cuore per aver inventato il matrimonio e la chiesa, ed aver in tal modo così ben provveduto a rallegrarci. Ma lui e il suo tempo, e ancor prima il sedicesimo secolo, hanno irriso questi temi sino in fondo; tutto quel che ancora si può dire scherzando in proposito, giunge in ritardo, e soprattutto è troppo a buon mercato per invogliare dei compratori. Adesso ci si interroga sulle cause, è l'era della serietà. A chi interessa ancora di vedere sotto una luce giocosa la differenza tra realtà e pretenziosa apparenza, tra quel che l'uomo è e quel che vuole rappresentare? Il sentimento di questi contrasti fa ben altro effetto, non appena se ne indaghino le ragioni. Quanto più profondamente uno intende la vita, tanto meno la irriderà; solo che, forse, finirà per irridere la «profondità del suo intendere».


 
241.
Genio della cultura. — Se qualcuno volesse immaginare un genio della cultura, di che natura sarebbe costui? Egli maneggia gli strumenti della menzogna, della prepotenza, dello spregiudicato egoismo con tanta sicurezza, che lo si dovrebbe definire unicamente come un malvagio essere demoniaco; ma i suoi scopi, che qua e là si intrawedono, sono grandi e buoni. È un centauro, a metà bestia, a metà uomo, e per di più ha sul capo ali d'angelo.


 
242.
Educazione miracolosa. — L'interesse per l'educazione diverrà più intenso solo quando si abbandonerà la fede in un dio e nella sua provvidenza: così come l'arte medica potè fiorire soltanto quando si cessò di credere in cure miracolose. Ma per ora tutti continuano a credere nell'educazione miracolosa: dal più gran disordine, dalla confusione degli intenti, dall'avversità delle circostanze si son pur visti crescere gli uomini più fecondi e possenti: come poteva non esserci sotto qualcosa? — Presto si vorrà osservar più da vicino anche questi casi, indagarli più attentamente: di miracoli, però, non se ne scopriranno mai. In circostanze uguali, innumerevoli uomini continuano ad andare in rovina, e il singolo individuo che si salva è di solito diventato più forte, perché grazie a una indistruttibile forza innata ha resistito alle avversità, e ha ancora esercitato e moltiplicato questa forza: ecco come si spiega il miracolo. Un'educazione che non creda più al miracolo dovrà tener conto di tre cose: primo, quanta energia si eredita? secondo, in che modo può venir accesa nuova energia? terzo, in che modo l'individuo può adeguarsi alle così molteplici esigenze della cultura senza che queste lo turbino e mandino in pezzi la sua unicità — insomma, in che modo l'individuo può inserirsi nel contrappunto della cultura pubblica e privata, dirigere la melodia e insieme accompagnare come melodia?


 
243.
Il futuro del medico. — Non esiste oggi professione che consenta una così alta crescita come quella del medico; soprattutto da quando i medici spirituali, i cosiddetti curatori d'anime, non possono più praticare, tra la pubblica approvazione, le loro arti d'esorcismo e ogni persona colta ne prende le distanze. Oggi la più alta formazione intellettuale di un medico non è raggiunta quando questi conosce i metodi migliori e più moderni, li sa applicare e sa trarre quelle rapide conclusioni dagli effetti alle cause per le quali van famosi i diagnostici: oltre a tutto questo, deve possedere un'arte del dire che si adatti a ogni individuo e gli strappi il cuore dal petto, una virilità la cui sola vista fughi la pusillanimità (tarlo di tutti i malati), una duttilità da diplomatico per trattare con quelli che per guarire han bisogno di gioia e con quelli che per motivi di salute debbono (e possono) recar gioia, la finezza di un agente di polizia e di un avvocato nel capire i segreti di un'anima senza tradirli — insomma, a un buon medico oggi son necessari tutti gli artifici e le prerogative professionali di tutte le altre professioni: cosi equipaggiato, è allora in grado di diventare un benefattore per l'intera società, accrescendo le opere buone, la gioia e la fecondità dell'animo, prevenendo i cattivi pensieri, i cattivi propositi, le furfanterie (ripugnante sorgente dei quali è spesso il basso ventre), stabilendo un'aristocrazia del corpo e dello spirito (come propugnatore e ostacolatore di matrimoni), troncando benevolmente tutte le cosiddette pene dell'anima e tutti i rimorsi: solo così da «uomo di medicina» si trasformerà in salvatore, senza però aver bisogno di compiere miracoli: e non avrà neppure bisogno di farsi crocifiggere.


 
244.
In vicinanza della pazzia. — La somma dei sentimenti, delle conoscenze, delle esperienze, ossia il peso totale della cultura, è diventata così grande che oggi il pericolo generale è quello di una sovreccitazione delle forze nervose e intellettuali; anzi, le classi colte dei paesi europei sono completamente nevrotiche, e quasi tutte le loro più grandi famiglie si sono, in qualche loro membro, molto avvicinate alla pazzia. Oggi, è vero, si cerca in tutti i modi di favorire la salute; ma resta soprattutto necessario diminuire quella tensione del sentimento, quell'opprimente fardello di cultura: il che, anche se dovesse ottenersi a costo di gravi perdite, darebbe tuttavia adito alla grande speranza in una nuova rinascita. Al cristianesimo, ai filosofi, ai poeti, ai musicisti dobbiamo una grande quantità di sentimenti profondamente eccitanti: perché non ci soffochino, si deve ridestare lo spirito della scienza, che in complesso rende alquanto freddi e scettici, e soprattutto raggela il flusso ardente della fede in verità ultime e definitive; esso è diventato così impetuoso soprattutto a causa del cristianesimo.


 
245.
Fusione di campana della cultura. — La cultura è nata come una campana, dentro un involucro di materia umile e rozza: la non verità, la violenza, l'espansione illimitata di ogni singolo io, di ogni singolo popolo costituivano questo involucro. È arrivato il momento di toglierlo? Il liquido si è solidificato? gli impulsi buoni e utili, le abitudini dell'animo nobile sono diventati così sicuri e generali che non occorra più appoggiarsi alla metafisica e agli errori della religione, non occorrano più durezza e violenza per creare solidi legami tra uomo e uomo, popolo e popolo? Per rispondere a questa domanda non ci soccorre più il cenno di nessun dio: è il nostro discernimento che deve decidere. È l'uomo stesso che deve prendere in mano il governo terreno dell'uomo, la sua «onnipotenza» deve vegliare con occhi attenti sugli ulteriori destini della cultura.


 
246.
I ciclopi della cultura. — Chi guarda i bacini frastagliati in cui un tempo si formarono ghiacciai, ritiene quasi impossibile che verrà un giorno in cui allo stesso posto si stenderà una valle di prati e boschi, attraversata da ruscelli. Così è anche nella storia dell'umanità; le forze più selvagge aprono la strada, dapprima distruggendo, ma la loro attività tuttavia è necessaria perché in seguito prendano lì dimora dei costumi più miti. Le terrificanti energie — quelle che son chiamate il male — sono i ciclopi architetti e pionieri dell'umanità.


 
247.
Ciclo dell'umanità. — Tutta l'umanità forse è solo una fase dello sviluppo di una determinata specie animale, di durata limitata: sicché l'uomo proviene dalla scimmia e ritornerà scimmia, mentre non c'è nessuno che prenda qualche interesse a questo sorprendente finale della commedia. Come, con il declino della civiltà romana e con la causa principale di esso, la propagazione del cristianesimo, all'interno dell'impero romano si diffuse un generale imbruttimento dell'uomo, così, in un futuro declino della universale civiltà della terra, potrebbe prodursi un imbruttimento molto più grande e alla fine un imbestiamento dell'uomo, sino allo scimmiesco. Proprio perché possiamo renderci conto di questa prospettiva, siamo forse in grado di prevenire una simile fine del futuro.


 
248.
Discorso consolatorio di un progresso disperato. — La nostra epoca fa l'impressione di una situazione transitoria; le vecchie concezioni del mondo, le antiche culture sono ancora in parte presenti e, le nuove, non sono ancora sicure e abituali, e perciò senza compattezza e coerenza. Sembra che tutto diventi caotico, che il vecchio vada perduto, che il nuovo non valga a nulla e diventi sempre più gracile. Ma così accade al soldato che impara a marciare: per un certo tempo è più insicuro e impacciato che mai, perché i suoi muscoli vengono mossi ora secondo il vecchio sistema, ora secondo il nuovo, e nessuno di essi riporta ancora decisamente la vittoria. Noi barcolliamo, ma bisogna non spaventarsene, non cedere magari quanto abbiamo poco prima conquistato. Inoltre, noi non possiamo tornare all'antico, abbiamo bruciato le navi; non ci resta che esser coraggiosi, qualunque cosa accada. Camminiamo, usciamo dunque dal luogo ove siamo! Forse un giorno il nostro comportamento apparirà come progresso; in caso contrario, valga anche per noi, a nostra consolazione, la frase di Federico il Grande: Ah, mon cher Sulzer, vous ne connaissez pas assez cette race maudite, à laquelle nous appartenons.


 
249.
Soffrire del passato della cultura. — Chi abbia chiarito a se stesso il problema della cultura, soffre di un sentimento simile a quello di chi abbia ereditato una ricchezza accumulata con mezzi disonesti, o del principe che governi grazie alla prepotenza dei suoi predecessori. Pensa con tristezza alla sua origine e ora se ne vergogna, ora se ne irrita. L'intera somma di forza, di voglia di vivere e di gioia che egli vota alla sua proprietà si bilancia spesso con una profonda stanchezza: egli non può dimenticare la propria origine. Guarda al futuro con malinconia: i suoi discendenti, lo sa già, soffriranno del passato quanto lui.


 
250.
Maniere. — Le buone maniere scompaiono via via che si indebolisce l'influsso della corte e di un'aristocrazia chiusa: si può chiaramente osservare questa diminuzione di decennio in decennio, se si ha occhio per atti pubblici: questi diventano manifestamente sempre più plebei. Nessuno sa più rendere omaggio e lusingare in modo intelligente; e ne deriva il fatto ridicolo che, quando si debba ossequiare (ad esempio un grande statista o un artista), per imbarazzo e per mancanza di spirito e di grazia si prende in prestito il linguaggio del più profondo sentimento, della sincera e onorata lealtà. Così, gli incontri solenni e ufficiali tra gli uomini appaiono sempre più impacciati ma più pieni di sentimento e lealtà, senza peraltro esserlo. Ma le maniere scenderanno sempre più in basso? Mi sembra piuttosto che esse descrivano una profonda curva e che noi ci stiamo avvicinando al suo punto più basso. Quando la società sarà divenuta più sicura delle sue idee e dei suoi princìpi e questi opereranno formativamente (mentre oggi, le maniere apprese da precedenti fasi formative vengono trasmesse e recepite sempre più debolmente), allora esisteranno maniere, gesti e espressioni del rapporto sociale che dovranno apparire tanto necessari e di naturale semplicità quanto lo saranno quelle intenzioni e quei princìpi. La miglior distribuzione del tempo e del lavoro, l'esercizio ginnico che sarà allora compagno del piacevole ozio, la maggiore e più rigorosa riflessione, che conferirà anche al corpo intelligenza e flessibilità, avranno come risultato tutto ciò. A questo punto potremmo, sorridendo un po' dei nostri dotti, chiederci se essi, che pure vogliono essere i precursori di quella nuova cultura, si distinguano poi effettivamente per maniere migliori. Non è così, benché il loro spirito ne possieda la volontà: ma la loro carne è debole. Nei loro muscoli è ancor troppo radicato il passato della cultura: essi si trovano tuttora in una posizione non libera e sono per metà sacerdoti secolari e per metà precettori alle dipendenze di persone e classi distinte; oltre a ciò, sono resi storpi e torpidi dalla pedanteria scientifica, da metodi invecchiati e privi d'intelligenza. Dunque essi sono ancora, almeno nel corpo e spesso anche per i tre quarti dello spirito, i cortigiani di una cultura vecchia, anzi decrepita, e come tali anch'essi sono decrepiti; il nuovo spirito che a volte rumoreggia in quelle vecchie carcasse serve soltanto a renderli più incerti e timorosi. In loro si aggirano i fantasmi del passato e quelli del futuro: perché stupirsi se essi non fanno il loro migliore viso, se non adottano un comportamento più piacevole?


 
251.
Futuro della scienza. — La scienza procura molta gioia a colui che vi lavora e ricerca; ne dà invece molto poca a chi apprende i suoi risultati. Poiché, tuttavia, tutte le verità importanti della scienza dovranno gradualmente diventare ordinarie e comuni, verrà meno anche quel poco di piacere; così come noi abbiamo da tempo cessato di provar piacere nell'imparare che due più due fa quattro. Ora, se la scienza di per sé procura sempre minor gioia, e toglie invece sempre più gioia col render sospetto il lato consolante della metafisica, della religione e dell'arte, si esaurisce quella grande fonte di piacere alla quale l'uomo deve quasi interamente la sua umanità. Una cultura superiore deve quindi dare all'uomo un doppio cervello, per così dire due camere cerebrali, una per sentire la scienza, l'altra per sentire la non scienza; adiacenti, senza interferenze reciproche, separabili, chiudibili; è un'esigenza di salute. In una zona ci sarà la sorgente di energia, nell'altra il regolatore: il calore verrà fornito da illusioni, parzialità, passioni, e con l'aiuto della scienza conoscitiva si preverranno le cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento. Se questa esigenza di una cultura superiore non verrà rispettata, si può con relativa certezza prevedere quale sarà il corso ulteriore dell'evoluzione umana: l'interesse per la verità verrà a mancare via via che procurerà sempre minor piacere; l'illusione, l'errore, la fantasia, in quanto collegati al piacere, riconquisteranno passo passo il terreno che una volta fu loro; la conseguenza più immediata sarà la rovina delle scienze, un rinnovato sprofondare nella barbarie; l'umanità dovrà ricominciare a tessere la sua trama, dopo averla disfatta nottetempo come Penelope. Ma chi ci garantisce che per questo essa troverà sempre la forza?


 
252.
Piacere del conoscere. — Perché il conoscere, l'elemento del ricercatore e del filosofo, è collegato al piacere? In primo luogo, e soprattutto, perché con esso si diviene consapevoli della propria forza, dunque per lo stesso motivo per cui sono piacevoli gli esercizi ginnici, anche senza spettatori. In secondo luogo perché, nel corso della conoscenza, ci si libera da vecchie idee e dai loro rappresentanti, si riporta su di essi una vittoria, o almeno così si crede. In terzo luogo perché, in seguito a una conoscenza nuova, per piccola che sia, ci sentiamo superiori a tutti, gli unici che a tal proposito sappiano il giusto. Questi tre motivi di piacere sono i principali, ma ne esistono molti altri secondari, a seconda della natura di chi conosce. — Un non disprezzabile elenco ne fornisce, in un luogo in cui non lo si cercherebbe, il mio scritto parenetico su Schopenhauer, delle cui enunciazioni può dirsi soddisfatto ogni sperimentato servitore della conoscenza, anche se forse desidererebbe cancellare la traccia ironica che sembra giacere in quelle pagine.

Infatti se è vero che, perché nasca un dotto, «bisogna che si fondano insieme una quantità di istinti e istintucci molto umani»; se è vero che il dotto è sì un metallo molto nobile, ma nient'affatto puro, e «si compone di una complessa trama di impulsi e stimoli assai vari»: così vale per il nascere e l'essere dell'artista, del filosofo, del genio morale — e come altro suonano i grandi nomi magnificati in quel libro. Tutto l'umano merita, riguardo alla sua genesi, di esser considerato con ironia: per questo nel mondo l'ironia è così superflua.


 
253.
Fedeltà come prova di solidità. — Un segno perfetto della bontà di una teoria si ha quando il suo ideatore per quarant'anni non concepisce sfiducia di sorta nei confronti di essa; ma io sostengo che non è ancora esistito filosofo che non abbia finito per guardare con disprezzo — o almeno con sospetto — alla filosofia da lui ideata in giovinezza. Forse però non ha parlato ad altri di questo suo mutato sentimento, per ambizione oppure — cosa più verosimile nelle nature nobili — per delicato riguardo verso i suoi seguaci.


 
254.
Aumento di ciò che interessa. — Nel corso di una formazione superiore, per l'uomo tutto diviene interessante, egli sa trovar subito il lato istruttivo di una cosa e indicare il punto in cui essa può colmare una lacuna del suo pensiero, o confermare una sua idea. In tal modo la noia svanisce sempre più, e così pure l'eccessiva eccitabilità dell'animo. Alla fine egli si aggira tra gli uomini come un naturalista tra le piante, e percepisce anche se stesso come un fenomeno che stimoli fortemente solo il suo impulso di conoscenza.


 
255.
Superstiziosa credenza nella simultaneità. — Quel che è simultaneo ha un nesso reciproco, si pensa. Un parente muore lontano, e in quello stesso momento noi sogniamo di lui — dunque! Ma innumerevoli parenti muoiono e noi non li sogniamo. È come per i naufraghi che fanno voti; più tardi, nel tempio, le tavole votive di quelli che sono annegati non si vedono. Un uomo muore, una civetta grida, un orologio si ferma, tutto a una certa ora della notte: come potrebbe non esserci un nesso? Una simile confidenza con la natura, quale questo presentimento presuppone, lusinga l'uomo. Questo tipo di superstizione si ritrova, in forma raffinata, negli storici e nei pittori di civiltà, che di fronte a una simultaneità di fatti priva di senso, della quale tuttavia la vita degli individui e dei popoli è così ricca, sogliono provare una sorta di idrofobia.


 
256.
La scienza esercita il potere, non il sapere. — Il pregio di essersi dedicati per qualche tempo e con rigore a una scienza rigorosa, non consiste propriamente nei risultati di essa: questi infatti saranno come una goccia minuscola che si perde nel mare dei dati scientifici. Ma ciò accresce l'energia, la capacità di deduzione, la tenacia nel perseverare; si è imparato a raggiungere in modo adeguato uno scopo. Per questo motivo, in rapporto a tutto quel che si farà in seguito, ha molto valore essere stato una volta un uomo di scienza.


 
257.
Fascino giovanile della scienza. — La ricerca della verità possiede tuttora il fascino di porsi ovunque in forte risalto contro l'errore, divenuto grigio e noioso; questo fascino va perdendosi sempre più. Oggi invero viviamo ancora nell'età giovanile della scienza, e corriamo dietro alla verità come a una bella ragazza; ma che accadrà, se un giorno essa si trasformerà in una donna anziana dallo sguardo arcigno? In quasi tutte le scienze, il principio fondamentale o è stato trovato in tempi recentissimi, o lo si continua tuttora a cercare; ciò è ben altrimenti stimolante che se tutto l'essenziale fosse già stato trovato, e al ricercatore non restasse che una magra spigolatura autunnale (sentimento, questo, che si può conoscere in alcune discipline storiche).


 
258.
La statua dell'umanità. — Il genio della cultura si comporta come Cellini, quando fece la colata del suo Perseo: la massa liquida minacciava di non bastare, e purtuttavia lo doveva: così egli vi gettò dentro chiavi e piatti e tutto quel che gli capitava tra le mani. Allo stesso modo, quel genio butta dentro errori, vizi, speranze, deliri e altre cose di vile e nobile metallo, perché la statua dell'umanità deve venir fuori finita; che importa se, qua e là, si è usato materiale più scadente?


 
259.
Una cultura maschile. — La cultura greca dell'età classica è una cultura maschile. Per quanto concerne le donne, Pericle nel discorso funebre dice tutto con le parole: sono le migliori quando, tra uomini, si parla il meno possibile di loro. — Il rapporto erotico degli uomini con gli adolescenti era, in misura per noi incomprensibile, l'unica, necessaria premessa di ogni educazione virile (press'a poco come da noi, a lungo, ogni superiore educazione delle donne passava solo attraverso l'amore e il matrimonio); in quel rapporto si riversava tutto l'idealismo della forza della natura greca, e probabilmente i giovani non furono mai più trattati con tanta amorevolezza e attenzione, con tanto riguardo al loro bene (virtus) come nel sesto e quinto secolo — dunque secondo il bel detto di Hölderlin, che «il mortale dà il meglio di sé nell'amore». Quanto più altamente si considerava quel rapporto, tanto più in basso scadeva quello con la donna: in esso si considerava il punto di vista del concepimento e del piacere sensuale, null'altro; non c'era alcun rapporto spirituale, e nemmeno un amore vero e proprio. Se inoltre si pensa che le donne venivano escluse anche dalle gare e dagli spettacoli, ad esse non restava altro superiore intrattenimento se non nel culto religioso. — Se peraltro nelle tragedie si rappresentavano Elettra e Antigone, ciò veniva tollerato appunto nell'arte, mentre non lo si ammetteva nella vita: così come noi, oggi, non sopportiamo nulla di patetico nella vita, mentre lo vediamo volentieri nell'arte. — Le donne non avevano altro compito se non quello di generare corpi belli e robusti, nei quali si perpetuasse il più integralmente possibile il carattere del padre, per controbilanciare in tal modo la sovreccitazione nervosa che dilagava in una cultura tanto progredita. Questo mantenne così a lungo relativamente giovane la cultura greca; infatti, nelle madri greche, il genio greco tornava sempre di nuovo alla natura.


 
260.
Pregiudizio in favore della grandezza. — Gli uomini sopravvalutano chiaramente tutto quanto sia grande ed eminente. Ciò deriva dall'idea, più o meno consapevole, secondo cui si trova molto utile che uno riversi tutte le sue forze in un campo e faccia di sé, per così dire, un organo mostruoso. Certamente per l'uomo è più utile e dà più felicità una formazione omogenea delle sue forze; infatti ogni talento è un vampiro che succhia sangue ed energia alle altre forze, e una produzione esagerata può portare quasi alla follia l'uomo più dotato. Anche nel campo dell'arte, le nature estreme attirano troppo l'attenzione; ma è anche necessaria una cultura molto più limitata per lasciarsi avvincere da esse. Gli uomini si sottomettono per abitudine a tutto quello che vuole avere potenza.


 
261.
I tiranni dello spirito. — Solo dove cade il raggio dello spirito, risplende la vita dei greci; altrimenti essa è assai cupa. Ora, i filosofi greci si defraudano proprio di questo mito: non è come se volessero spostarsi dalla luce del sole all'ombra, all'oscurità? Ma nessuna pianta evita la luce; in fondo, quei filosofi cercavano soltanto un sole più chiaro, il mito non era abbastanza puro per loro, non abbastanza luminoso. Trovarono questa luce nella loro conoscenza, in quello che ciascuno di loro chiamava la sua «verità». Allora però la conoscenza aveva uno splendore ancora più grande; era ancora giovane, e ancor poco sapeva di tutte le difficoltà e i pericoli dei suoi sentieri; allora poteva ancora sperare di giungere d'un sol balzo al centro di tutto l'essere, e di risolvere di lì l'enigma del mondo. Questi filosofi possedevano una solida fede in se stessi, nella loro «verità», con la quale sbaragliavano tutti i loro vicini e predecessori; ognuno di essi era un rissoso, violento tiranno. Forse la felicità per il creduto possesso della verità non fu mai tanto grande al mondo, ma nemmeno lo fu la durezza, la presunzione, la tirannia e la malvagità di una tale fede. Essi erano tiranni, quello cioè che ogni greco voleva essere, e che ciascuno era, se solo lo poteva. L'unica eccezione è Solone; nelle sue poesie egli dice come abbia disprezzato la tirannide personale. Ma fece questo per amore della sua opera, per la sua legislazione; ed essere legislatori è una forma sublimata dell'essere tiranni. Anche Parmenide emanò leggi, e così pure Pitagora ed Empedocle; Anassimandro fondò una città. Platone fu il desiderio incarnato di essere il più alto legislatore e fondatore filosofico di Stati; sembra che egli abbia sofferto paurosamente per il fatto che la sua natura non potè realizzarsi, e, verso la fine, il suo animo fu colmo della bile più nera. Quanto più i filosofi greci perdevano in potenza, tanto più soffrivano intimamente di questa biliosità e livore; quando le varie sette presero a propugnare pubblicamente le loro verità, gli animi di tutti questi pretendenti della verità si infangarono totalmente nella gelosia e nell'astio, e nei loro corpi l'elemento tirannico imperversò come un veleno. Questi molti piccoli tiranni avrebbero voluto divorarsi vivi; non era rimasta in loro alcuna scintilla di amore, e troppo poca gioia anche per la loro stessa conoscenza. — Il detto che i tiranni vengono quasi sempre uccisi e che la loro discendenza non vive a lungo, vale in genere anche per i tiranni dello spirito. La loro storia è breve, violenta, il loro influsso si interrompe di colpo. Di quasi tutti i grandi elleni si può dire che sembrano arrivati troppo tardi: di Eschilo, di Pindaro, di Tucidide, di Demostene; a distanza di una generazione, tutto è finito per sempre. È questo l'elemento tempestoso e perturbante della storia greca. Oggi, in verità, si ammira il vangelo della tartaruga. Pensare storicamente significa oggi press'a poco pensare che in ogni tempo si sia fatta la storia col principio: «Il meno possibile nel maggior tempo possibile!». Ah, la storia greca corre cosi in fretta! Mai più si è vissuto in modo tanto prodigo, così senza misura! Non posso convincermi che la storia greca abbia preso quel corso naturale che tanto si decanta in essa. Essi possedevano doti troppo molteplici per poter essere graduali e avanzare passo dopo passo, come la tartaruga nella gara con Achille: ed è così però che si definisce lo sviluppo naturale. Presso i greci si progredisce rapidamente, ma proprio perciò si regredisce così in fretta; il movimento di tutta la macchina è così accelerato che basta una pietra negli ingranaggi per farla saltare. Una pietra del genere fu ad esempio Socrate; in una notte fu distrutto lo sviluppo della scienza filosofica, sino allora così meravigliosamente regolare, benché certo troppo rapido. Non è una domanda oziosa chiedersi se Platone, immune dall'incantesimo di Socrate, non avrebbe trovato un tipo ancora più alto di uomo filosofico, che per noi è perduto per sempre. Par quasi di vedere, nei tempi che lo precedettero, il laboratorio di uno scultore di tali tipi. Il sesto e quinto secolo, tuttavia, sembrano promettere ancor più, e ancor meglio, di quanto non abbiano prodotto: ma ci si fermò alle promesse, agli annunci. Eppure non esiste perdita più grave della perdita di un tipo, di una nuova, sino allora mai scoperta, altissima possibilità di vita filosofica. Persino dei tipi più antichi la maggior parte è male tramandata; tutti i filosofi da Talete a Democrito sono straordinariamente difficili a conoscersi; ma chi riesca a ricostruire queste figure, si aggira tra esemplari del tipo più possente e puro. Certo, questa è una capacità rara, che mancò persino ai greci più tardi che si occuparono dello Studio di quella più antica filosofia; Aristotele, soprattutto, par non avere occhi in testa quando si trova di fronte ai filosofi suddetti. E così sembra quasi che quei magnifici filosofi siano vissuti invano, oppure che abbiano dovuto soltanto preparare le schiere litigiose e loquaci delle scuole socratiche. C'è qui, come abbiamo detto, una lacuna, una frattura nello sviluppo; deve essere successo qualche grande disastro, e l'unica statua in cui si sarebbe riconosciuto il senso e lo scopo di quel grande lavoro preparatorio, si è rotta o è mal riuscita; che cosa sia effettivamente accaduto è rimasto per sempre il segreto di quei laboratori. Quello che accadde tra i greci — che ogni grande pensatore, credendo di possedere la verità assoluta, diventò un tiranno, sicché anche la storia dello spirito ha assunto tra i greci quel carattere violento, precipitoso e pericoloso che caratterizza la loro storia politica — questa sorta di avvenimenti non si è esaurita: cose molto simili sono accadute sin nei tempi più recenti, benché sempre più di rado, e adesso difficilmente con la pura e ingenua coscienza dei filosofi greci. In genere oggi la dottrina contraria e la scepsi parlano infatti troppo potentemente, a voce troppo alta. Il periodo dei tiranni dello spirito è finito. Certo, nelle sfere della cultura superiore dovrà sempre esserci un dominio — ma da ora in poi esso sarà in mano agli oligarchi dello spirito. Nonostante ogni divisione geografica e politica, essi formano una società omogenea, i cui membri si conoscono e si riconoscono, quali che siano le valutazioni positive o negative diffuse dalla pubblica opinione e dai giudizi degli scrittori del giorno e del tempo, che influiscono sulle masse. La superiorità intellettuale, che prima divideva e rendeva nemici, oggi suole unire: come potrebbero gli individui affermare se stessi e nuotare nel mare della vita secondo una linea propria, contro tutte le correnti, se non vedessero qua e là i loro simili vivere nelle stesse condizioni, e non afferrassero la loro mano, sia nella lotta contro il carattere oclocratico della mezza intelligenza e della mezza cultura, sia contro i possibili tentativi di instaurare, influendo sulle masse, una tirannide? Gli oligarchi hanno bisogno gli uni degli altri, trovano gli uni negli altri la loro gioia migliore, capiscono i loro segni distintivi — e tuttavia ciascuno di loro è libero, lotta e vince nel posto che è suo e preferisce perire anziché sottomettersi.


 
262.
Omero. — Il fatto più grande della cultura greca resta pur sempre questo, che Omero sia diventato così presto panellenico. Tutta la libertà umana e spirituale raggiunta dai greci va ricondotta a questo fatto. Ma ciò è anche stato la vera fatalità della cultura greca, perché Omero appiattì, centralizzando, e dissolse i più seri istinti di indipendenza. Di tempo in tempo si elevò dal più profondo dell'ellenicità l'opposizione a Omero; ma egli ne uscì sempre vittorioso. Tutte le grandi potenze intellettuali esercitano, oltre a un'azione liberatrice, anche un'azione oppressiva; ma certo è differente che a tiranneggiare gli uomini sia Omero, o la Bibbia, o la scienza.


 
263.
Talento. — In un'umanità così altamente sviluppata come quella di oggi, ciascuno riceve dalla natura accesso a molti talenti; ciascuno possiede talento innato, ma solo pochi possiedono dalla nascita e ricevono dall'educazione quel grado di tenacia, costanza ed energia con cui si diventa effettivamente un talento, dunque si diventa ciò che si è, ossia: lo si scarica in opere e in azioni.


 
264.
L'uomo di spirito è sopravvalutato o sottovalutato. — Gli uomini non scientifici, ma dotati, apprezzano ogni segno di spirito, sia questo sulla vera o sulla falsa traccia; essi vogliono soprattutto che l'uomo che tratta con loro li intrattenga bene con il suo spirito, li sproni, li infiammi, li trascini alla serietà o allo scherzo e ad ogni modo li preservi dalla noia, come il più efficace amuleto. Le nature scientifiche sanno invece che il dono di avere ogni sorta di idee dev'essere tenuto a freno nel modo più rigoroso dallo spirito della scienza; non ciò che risplende, che è appariscente ed eccita, bensì la verità, spesso non appariscente, è il frutto che egli vuol cogliere dall'albero della conoscenza. A lui, come ad Aristotele, è consentito non distinguere tra «noioso» e «spiritoso», il suo demone lo conduce tanto attraverso il deserto quanto attraverso la vegetazione tropicale, affinché egli trovi ovunque la sua gioia solo in ciò che è reale, durevole e genuino. — Da ciò nasce, in dotti di poca importanza, un disprezzo e sospetto verso l'uomo di spirito in genere, e a loro volta gli uomini di spirito provano spesso antipatia per la scienza: come, ad esempio, tutti gli artisti.


 
265.
La ragione nella scuola. — La scuola non ha compito più importante di quello di insegnare il pensiero rigoroso, il giudizio prudente e la deduzione coerente: pertanto deve prescindere da tutto ciò che non sia utile a questa operazione, come ad esempio dalla religione. Essa può infatti prevedere con una certa sicurezza che, più tardi, l'umana mancanza di chiarezza, l'abitudine e il bisogno allenteranno nuovamente l'arco di un pensiero troppo teso. Ma, sinché dura la sua influenza, essa deve ottenere ciò che nell'uomo è essenziale e distintivo: «Ragione e scienza, la più alta forza dell'uomo», come almeno pensa Goethe. — Il grande naturalista von Baer trova che la superiorità di tutti gli europei sugli asiatici consiste nella capacità, cui i primi sono stati educati, di addurre motivi per ciò che credono, cosa di cui gli asiatici sono totalmente incapaci. L'Europa è andata alla scuola del pensiero coerente e critico, l'Asia non sa ancora distinguere tra verità e poesia e non si rende conto da dove derivino le sue convinzioni, se da osservazione personale e da normale pensiero, oppure da fantasia. — La ragione nella scuola ha fatto dell'Europa l'Europa: nel medioevo essa stava quasi per tornare a essere un pezzo e un'appendice dell'Asia, e per perdere quindi il senso scientifico che essa doveva ai greci.


 
266.
Sottovalutata efficacia dell'insegnamento ginnasiale. — Raramente si ricerca il valore del ginnasio nelle cose che realmente vi si imparano e che ci si porta dietro senza poterle più perdere; lo si cerca invece nelle cose che vi sono insegnate e che lo scolaro apprende di malavoglia, per scrollarsele di dosso il prima possibile. La lettura dei classici — lo ammette ogni persona colta — così come la si pratica dappertutto, è una procedura mostruosa: davanti a giovani che sotto nessun riguardo possiedono la necessaria maturità, e da parte di insegnanti che con ogni parola, e spesso già col loro aspetto, ricoprono di muffa ogni buon autore. Ma il valore che normalmente viene misconosciuto consiste in ciò: questi insegnanti parlano la lingua astratta della cultura superiore, pesante e difficile a comprendersi, che però è un'alta ginnastica per la mente; nel loro linguaggio ricorrono di continuo concetti, termini tecnici, metodi e riferimenti che i giovani non sentono quasi mai parlando con i loro familiari e per strada. Basta che gli allievi sentano, e il loro intelletto viene involontariamente preformato al pensiero scientifico. Da questa disciplina non si può uscire affatto vergini di astrazione, come puri figli della natura.


 
267.
Imparare molte lingue. — Imparare molte lingue riempie la memoria di parole anziché di fatti e di pensieri, mentre la memoria è un serbatoio che in ogni persona può accogliere solo una ben determinata massa di contenuto. Inoltre, imparare molte lingue è dannoso in quanto induce a credere nella propria abilità e di fatto conferisce anche un credito ingannevole nei rapporti con gli altri; nuoce poi anche indirettamente, perché ostacola l'acquisizione di cognizioni più approfondite e il desiderio di guadagnarsi la stima degli uomini in maniera onesta. Infine è la scure posta alle radici di un più fine senso della lingua materna, che viene irreparabilmente danneggiato e condannato. I due popoli che han prodotto gli stilisti più grandi, i greci e i francesi, non imparavano lingue straniere. — Ma, dal momento che i rapporti tra gli uomini diventeranno sempre più cosmopolitici e, per esempio, un commerciante di Londra che si rispetti deve già ora farsi capire, a voce e per iscritto, in otto lingue, l'imparare molte lingue è senz'altro un male necessario; che però, spinto all'estremo, costringerà l'umanità a trovare un rimedio: e in un qualche lontano futuro ci sarà per tutti una nuova lingua, dapprima come lingua commerciale e poi come lingua del commercio spirituale, così sicuramente come un giorno ci sarà la navigazione aerea. A che scopo altrimenti la glottologia avrebbe studiato per un secolo le leggi delle lingue e valutato quel che in ciascuna di esse è necessario, pregevole e riuscito?


 
268.
Per la storia della guerra nell'individuo. — In una singola vita umana che attraversa varie culture, noi troviamo concentrata la lotta che solitamente si svolge tra due generazioni, tra padre e figlio: la vicinanza della parentela acuisce questa lotta, giacché ciascuno dei due partiti vi coinvolge senza riguardi l'intimo, a lui così ben noto, dell'altra parte; e così questa lotta sarà durissima nell'individuo singolo; qui ogni nuova fase calpesterà quella precedente con crudele ingiustizia, misconoscendo i suoi mezzi e i suoi scopi.


 
269.
Un quarto d'ora prima. — Talvolta si trova qualcuno che con le sue idee è al di sopra del suo tempo, ma solo di quel tanto che gli fa anticipare le opinioni volgari del decennio successivo. Egli ha l'opinione pubblica prima che questa sia pubblica, vale a dire: è caduto, un quarto d'ora prima degli altri, in braccio a un'opinione che merita di diventare banale. La sua fama però è di solito molto più rumorosa di quella degli uomini veramente grandi e superiori.


 
270.
L'arte di leggere. — Ogni forte tendenza è unilaterale; assomiglia alla tendenza della linea retta, ed è esclusiva come quella; ossia non tocca molte altre tendenze, come fanno partiti e nature deboli oscillando qua e là; si deve dunque perdonare anche ai filologise sono unilaterali. Ricostruzione ed emendamento dei testi, oltre alla loro spiegazione, attuata in una corporazione per secoli, ora hanno fatto finalmente trovare i giusti metodi; l'intero medioevo fu profondamente incapace di rigorosa interpretazione filologica, cioè della semplice volontà di capire quanto dice l'autore — trovare questi metodi non fu cosa da nulla, non li sottovalutiamo! Ogni scienza ha acquistato solida continuità solo perché l'arte di leggere rettamente, ovvero la filologia, ha toccato il suo punto più alto.


 
271.
L'arte di ragionare. — Il più grande progresso compiuto dagli uomini è di aver imparato a ragionare rettamente. Il che non è affatto cosa tanto naturale, come suppone Schopenhauer quando dice: «Di ragionare son capaci tutti, di giudicare pochi», ma è un'arte appresa di recente e che non si è ancora affermata. Il falso dedurre era nei tempi antichi la regola: e la mitologia di tutti i popoli, la loro magia e superstizione, il loro culto religioso, il loro diritto forniscono materiale inesauribile a conferma di questa proposizione.


 
272.
Anelli annuali della cultura individuale. — La forza e la debolezza della produttività intellettuale non dipendono tanto dalla disposizione ereditaria quanto dal grado di tensione che con quella viene trasmessa. La maggior parte dei giovani colti di trent'anni, giunti a questo primo solstizio della loro vita, tornano indietro e da allora non hanno più voglia di ulteriori rivolgimenti. Perciò, per la salvezza di una cultura in continua crescita, è subito necessaria una nuova generazione, che però a sua volta non andrà molto lontano: infatti, per raggiungere la cultura del padre, il figlio deve consumare quasi tutta l'energia ereditata che il padre possedeva quando lo generò; egli avanza con quel tanto di energia che resta (infatti, poiché in questo caso la strada viene percorsa per la seconda volta, si procede con maggior speditezza; per imparare quanto il padre sapeva, il figlio consuma meno energia). Uomini di grande tensione, come ad esempio Goethe, compiono un cammino quale a stento percorrono quattro generazioni successive; ma proprio per questo essi avanzano troppo rapidamente, sicché gli altri uomini li raggiungono solo nel secolo successivo, e nemmeno del tutto, in quanto le frequenti interruzioni hanno indebolito la compattezza della cultura e la coerenza dello sviluppo. Gli uomini recuperano sempre più rapidamente le consuete fasi della cultura intellettuale acquisita nel corso della storia. Oggi cominciano a entrare nella cultura come fanciulli animati da sentimento religioso e raggiungono forse a dieci anni la massima vivacità di questo sentimento, poi, man mano che si accostano alla scienza, passano a forme più indebolite di esso (panteismo); superano del tutto dio, l'immortalità e cose simili ma soggiacciono alla malia della filosofia metafisica. Anche quest'ultima finisce poi per sembrar loro non degna di fede; l'arte invece sembra promettere sempre più, sicché per un certo tempo la metafisica continua a vivere trasformata in arte oppure come stato d'animo, che si è trasfigurato artisticamente. Ma il senso scientifico si fa sempre più imperioso e porta l'uomo alle scienze naturali e alla storia, ma soprattutto ai severi metodi della conoscenza, mentre l'arte riceve un significato sempre più tenue e modesto. Tutto ciò suole svolgersi al giorno d'oggi entro i primi trent'anni di un uomo. È la ricapitolazione di un compito nel quale l'umanità si è forse affaticata per trentamila anni.


 
273.
Andato indietro, non rimasto indietro. — Chi attualmente comincia ancora il proprio sviluppo muovendo da sentimenti religiosi e, forse per un più lungo tempo, continua poi a vivere nella metafisica e nell'arte, è andato certo un bel pezzo indietro, e comincia la sua gara con gli uomini moderni in condizioni sfavorevoli: apparentemente perde spazio e tempo. Ma, per essersi trattenuto in quelle zone in cui vengono scatenati ardore ed energia, e dove la potenza fluisce ininterrotta come fiume vulcanico da fonte inesauribile, egli avanza poi tanto più rapidamente, solo che si sia allontanato a tempo giusto da quelle regioni; il suo piede è alato, il suo petto ha imparato un respiro più calmo, più lungo e costante. — Egli si è solo fatto indietro onde avere sufficiente spazio per il suo slancio: così, in questo arretrare può persino esserci qualcosa di terribile e minaccioso.


 
274.
Una sezione di noi stessi come oggetto artistico. — È segno di cultura superiore trattenere consapevolmente e tracciare un quadro fedele di determinate fasi dello sviluppo, che gli uomini di poco conto vivono quasi senza pensare e cancellano poi dalla lavagna della loro anima: è il genere superiore di pittura che solo pochi intendono. A tale scopo diviene necessario isolare artificialmente quelle fasi. Gli studi storici forniscono l'attitudine a questa pittura, in quanto ci stimolano continuamente, in occasione di un frammento di storia di un popolo, o della vita di un uomo, a immaginarci un determinato orizzonte di pensieri, una determinata forza di sentimenti, il prevalere di questi, l'arretrare di quelli. Saper rapidamente ricostruire, da motivi dati, questi sistemi di pensiero e di sentimento, così come, da alcune colonne e pezzi di muro casualmente rimasti in piedi, si è capaci di ricostruire l'idea di un tempio: in questo consiste il senso storico. Il risultato più immediato di ciò è che noi intendiamo il nostro prossimo come un tale sistema affatto determinato e come rappresentante di culture diverse, cioè come necessario, ma soggetto a mutamento. E ancora: che nel nostro stesso sviluppo noi possiamo separare delle parti e rappresentarle autonomamente.


 
275.
Cinici ed epicurei. — Il cinico riconosce il nesso tra i dolori accresciuti e più intensi dell'uomo di civiltà superiore e la quantità dei suoi bisogni; comprende dunque che la moltitudine di opinioni sul bello, l'opportuno, il conveniente e il piacevole dovette produrre sorgenti altrettanto ricche di piacere che di dolore. Conformemente a questa sua idea, egli si plasma all'indietro, rinunciando a molte di queste opinioni e sottraendosi a determinate esigenze della cultura; in tal modo acquisisce un senso di libertà e di rafforzamento e a poco a poco, quando l'abitudine gli ha reso tollerabile il suo modo di vivere, prova realmente sentimenti dolorosi più rari e deboli che non gli uomini civilizzati, e si avvicina all'animale domestico; inoltre sente tutto nel fascino del contrasto, e può anche imprecare a suo piacimento: in tal modo ritorna al di sopra della sfera emotiva dell'animale. L'epicureo ha lo stesso punto di vista del cinico; tra lui e quest'ultimo normalmente esiste solo una differenza di temperamento. Inoltre l'epicureo usa la sua cultura superiore per rendersi indipendente dalle opinioni dominanti; si eleva al di sopra di esse, mentre il cinico resta fermo alla negazione. Egli cammina per così dire lungo sentieri senza vento, riparati, in penombra, mentre sopra di lui le cime degli alberi stormiscono nel vento e gli rivelano quanto violentemente sia scosso il mondo là fuori. Il cinico invece si aggira, nudo, nel soffio del vento, e si indurisce sino all'insensibilità.


 
276.
Microcosmo e macrocosmo della cultura. — Le migliori scoperte sulla cultura l'uomo le compie in se stesso, quando trova che in lui agiscono due potenze eterogenee. Posto che uno viva amando le arti figurative e la musica, pur essendo allo stesso tempo trascinato dallo spirito della scienza, e consideri impossibile eliminare questa contraddizione distruggendo una delle due forze e liberando pienamente l'altra, non gli resta che far di sé un edificio di cultura così vasto che possano alloggiarvi ambedue quelle potenze, anche se alle estremità di esso, mentre nel mezzo trovino asilo le potenze intermedie conciliatrici, dotate di forza preponderante, per potere in caso di necessità appianare un insorgente conflitto. Un tale edifìcio di cultura nel singolo individuo avrà però la più grande somiglianza con la cultura costruita in interi periodi, e fornirà su di essa un continuo ammaestramento analogico. Infatti, dovunque si è dispiegata la grande architettura della cultura, suo compito fu di costringere alla concordia potenze tra loro discordi per mezzo di un preponderante assembramento delle altre potenze meno incompatibili, senza tuttavia opprimerle e gettarle in catene.


 
277.
Felicità e cultura. — La vista dei luoghi della nostra fanciullezza ci commuove: la casa col giardino, la chiesa con le tombe, lo stagno, il bosco — rivediamo sempre tutto ciò con sofferenza. Ci invade un senso di compassione verso noi stessi, perché cosa mai non abbiamo sofferto da allora! E qui ogni cosa è ancora così tranquilla, così eterna: solo noi siamo tanto diversi, tanto agitati; troviamo persino qualche persona sulla quale il tempo non ha affilato il suo dente più che su una quercia: contadini, pescatori, boscaioli — sono rimasti gli stessi. Commozione e compassione di sé alla vista della cultura inferiore sono il segno della cultura superiore: dal che discende che quest'ultima non ha in ogni caso recato una maggior felicità. Chi dalla vita vuol cogliere felicità e piacere, eviti sempre la cultura superiore.


 
278.
Similitudine della danza. — Oggi è da considerare come segno decisivo di gran cultura che qualcuno possieda forza e duttilità tali da consentirgli di essere puro e rigoroso nel conoscere, quanto, in altri momenti, anche capace di concedere, per così dire, cento passi di vantaggio alla poesia, alla religione e alla metafisica e di sentirne la forza e la bellezza. Stare tra due esigenze tanto diverse è molto difficile, perché la scienza preme per l'assoluto dominio dei suoi metodi, e se non si cede a questa pressione sorge l'altro pericolo, di vacillare incerti tra due impulsi diversi. Intanto: perché si intraweda, almeno con una similitudine, una possibile soluzione di questa difficoltà, si ricordi che la danza non è la stessa cosa che un fiacco barcollare qua e là tra impulsi diversi. Una cultura elevata assomiglierà a una danza ardita; pertanto, come abbiamo detto, è necessaria molta forza e molta destrezza.


 
279.
Dell'alleviamento della vita. — Un mezzo fondamentale per alleviarsi la vita è di idealizzare tutti i suoi avvenimenti; ma ci si deve ben chiarire, con l'aiuto della pittura, che cosa significhi idealizzare. Il pittore non vuole che lo spettatore guardi troppo minuziosamente, troppo acutamente, lo respinge a una certa distanza perché guardi da là; è costretto a presupporre una ben precisa distanza dello spettatore dal quadro, anzi deve addirittura supporre nello spettatore un determinato grado di acutezza d'occhio; in tali cose non deve assolutamente esitare. Quindi, chiunque voglia idealizzare la sua vita, non deve volerla guardare troppo minuziosamente, e deve sempre relegare il proprio sguardo a una certa distanza. Goethe, ad esempio, conosceva questo artificio.


 
280.
Appesantimento come alleviamento e viceversa. — Molte cose che a un determinato livello dell'uomo costituiscono un aggravio della vita, servono a un livello più alto come alleviamento, perché quegli uomini hanno conosciuto ben più forti aggravi della vita. Così pure accade il contrario: la religione, ad esempio, ha un duplice aspetto, a seconda che uno levi lo sguardo ad essa per farsi sollevare dal suo fardello di pena, o guardi ad essa dall'alto, come a una catena che gli è stata imposta perché non si elevi troppo in alto.


 
281.
La cultura superiore viene necessariamente fraintesa. — Chi ha fissato sul suo strumento due sole corde, come i dotti che, oltre all'impulso del sapere, possiedono solo quello religioso inculcato loro con l'educazione, non comprende uomini che sappiano suonare su più corde. È nell'essenza della cultura superiore, multicorde, essere sempre male interpretata dalla cultura inferiore; come accade, ad esempio, quando l'arte passa per una forma camuffata di religiosità. Anzi, persone soltanto religiose intendono persino la scienza come ricerca del sentimento religioso, così come i sordomuti non sanno che cosa sia la musica, se non un movimento visibile.


 
282.
Lamento. — Sono forse i vantaggi dei nostri tempi a portar con sé una diminuzione, e talora una sottovalutazione, della vita contemplativa. Ma bisogna pur ammettere che la nostra epoca è povera di grandi moralisti, che Pascal, Epitteto, Seneca, Plutarco oggi son poco letti, e che lavoro e solerzia — normalmente al seguito della grande dea salute — sembrano talora imperversare come una malattia. Poiché manca il tempo per pensare e la calma nel pensare, non si prendono più in considerazione quelle idee che esulano dalla norma: ci si limita a odiarle. Nell'enorme acceleramento della vita, occhio e spirito si abituano a vedere e a giudicare a metà o in modo errato, e ognuno assomiglia a quei viaggiatori che fan la conoscenza di un paese o di un popolo dal treno. Un atteggiamento autonomo e cauto della conoscenza è disprezzato quasi come una sorta di follia; lo spirito libero è screditato, soprattutto dai dotti, che nella sua arte di considerare le cose sentono mancare la propria precisione e diligenza da formiche e lo relegherebbero volentieri in un singolo cantuccio della scienza; mentre quello ha il compito, ben più alto e diverso, di comandare da una posizione isolata su tutto l'esercito degli uomini di scienza e di dottrina e di indicare loro le vie e le mete dalla cultura. — Un lamento come questo che abbiamo appena intonato, avrà probabilmente il suo tempo e un giorno ammutolirà da solo, per un potente ritorno del genio della meditazione.


 
283.
Principale difetto degli uomini attivi. — Agli uomini attivi di solito fa difetto l'attività più alta: voglio dire quella individuale. Essi sono attivi come funzionari, commercianti, dotti, cioè come esseri generici, non come uomini affatto determinati, singoli, unici; sotto questo punto di vista sono pigri. È la disgrazia degli attivi, il fatto che la loro attività sia quasi sempre un po' insensata. Non si può ad esempio chiedere, al banchiere che ammucchia denaro, lo scopo di quella sua incessante attività: essa è insensata. Gli attivi rotolano come rotola la pietra, con meccanica stupidità. Tutti gli uomini si dividono, in ogni tempo e anche oggi, in schiavi e liberi: chi infatti non ha per sé i due terzi della sua giornata, è uno schiavo, qualunque cosa sia, politico, commerciante, funzionario, dotto.


 
284.
A favore degli oziosi. — Come segno del fatto che la vita contemplativa è meno apprezzata, oggi i dotti gareggiano con gli uomini attivi in una sorta di frettoloso godimento, così che sembrano apprezzare questo modo di godere più di quello che è propriamente adatto a loro e che in effetti è molto più grande. I dotti si vergognano dell'otium. Invece, l'ozio e l'oziare sono nobili cose. — Se l'ozio è veramente il padre dei vizi, esso dunque si trova almeno nelle immediate vicinanze di ogni virtù; l'uomo ozioso è comunque migliore di quello attivo. Non crederete però che con ozio e oziare io mi riferisca a voi, perdigiorno?


 
285.
L'irrequietezza moderna. — Avvicinandosi sempre di più a occidente, l'agitazione moderna si fa sempre più grande, sicché agli americani gli abitanti dell'Europa sembrano amanti della pace e della bella vita, mentre anch'essi ronzano e si agitano come uno sciame di api e vespe. Questa agitazione diventa così grande, che la cultura superiore non può più maturare i suoi frutti: è come se le stagioni si susseguissero troppo rapidamente. Per mancanza di calma la nostra civiltà sfocia in una nuova barbarie. Mai come oggi gli attivi, cioè gli irrequieti, hanno goduto di tanta considerazione. Perciò una delle necessarie correzioni da apportare al carattere dell'umanità è di rafforzare largamente l'elemento contemplativo. Certo ogni individuo, che nel cuore e nella mente sia calmo e costante, ha già il diritto di credere di possedere non solo un buon temperamento, ma una virtù di utilità generale, e di adempiere, preservando questa virtù, a un compito superiore.


 
286.
In che senso l'uomo attivo è pigro. — Io credo che, su ogni cosa sulla quale sia possibile avere opinioni, ciascuno debba possedere un'opinione propria, in quanto egli stesso è qualcosa di particolare e di irrepetibile, che assume, rispetto a tutte le altre cose, una posizione nuova e mai esistita prima. Ma la pigrizia che giace in fondo all'anima dell'uomo attivo gli impedisce di macinar la farina del suo sacco. — Con la libertà delle opinioni è come con la salute: entrambe sono individuali, né si può enunciare, su nessuna delle due, un concetto di validità generale. Quello di cui un individuo necessita per la sua salute, per un altro può esser motivo di malattia, e alcuni mezzi e vie per la libertà dello spirito possono essere, per nature più altamente sviluppate, vie e mezzi per la non-libertà.


 
287.
Censor vitae. — L'alternarsi di amore e di odio caratterizza a lungo la situazione interiore di colui che vuole arrivare a giudicar liberamente sulla vita; egli non dimentica, e tutto addebita alle cose, sia il bene che il male. Alla fine, quando l'intera lavagna della sua anima sarà completamente scritta da esperienze, egli non disprezzerà né odierà l'esistenza, ma nemmeno la amerà, e starà al di sopra di essa, ora con l'occhio della gioia, ora con quello della tristezza, e il suo animo sarà come la natura, ora estivo, ora autunnale.


 
288.
Successo secondario. — Chi vuole seriamente diventare libero, durante questo processo perderà, senza alcuno sforzo, la tendenza a difetti e vizi; anche l'ira e il fastidio lo assaliranno sempre più di rado. La sua volontà nulla infatti desidera con più premura del conoscere e del mezzo a ciò necessario, vale a dire: la condizione durevole nella quale egli è più capace di conoscere.


 
289.
Valore della malattia. — L'uomo che giace a letto ammalato arriva talvolta a capire che di solito sono il suo ufficio, i suoi affari o la sua società a farlo ammalare e ad avergli tolto ogni capacità di riflettere su se stesso; egli raggiunge questa saggezza per l'ozio cui la malattia lo costringe.


 
290.
Sentimento in campagna. — Se sull'orizzonte della propria vita non si hanno linee ferme e tranquille simili a quelle di monti e boschi, anche l'intima volontà dell'uomo diventa irrequieta, distratta e avida come la natura dell'abitante della città: egli non ha né dà felicità.


 
291.
Accortezza degli spiriti liberi. — Uomini di sentimenti liberi, che vivono solo della conoscenza, si troveranno presto ad aver raggiunto lo scopo esteriore della loro vita, la posizione definitiva nei confronti della società e dello Stato, e si sentiranno ad esempio ben soddisfatti di una piccola carica o di una sostanza che basti appunto a vivere; infatti essi regoleranno la propria esistenza in modo che nessun grande mutamento dei beni esterni né alcun sovvertimento dell'ordine politico possano coinvolgere la loro vita. In tutte queste cose essi spendono la minore energia possibile, per potersi immergere, con tutta la forza così risparmiata, e per così dire con un lungo respiro, nell'elemento del conoscere. Così possono sperare di immergersi in profondità e di guardare anche sul fondo. Di un avvenimento, un tale spirito prenderà solo un lembo: non ama le cose in tutta l'ampiezza e prolissità delle loro pieghe, poiché non vuole lasciarsene coinvolgere. — Anch'egli conosce i giorni feriali della mancanza di libertà, della dipendenza, dell'asservimento. Ma di tempo in tempo deve giungere anche per lui una domenica di libertà, altrimenti non sopporterà la vita. È possibile che anche il suo amore per gli uomini sia cauto e di breve respiro, perché egli vuole abbandonarsi al mondo delle inclinazioni e della cecità solo quel tanto necessario al fine della conoscenza. Deve confidare che il genio della giustizia dirà qualcosa a favore del suo discepolo e protetto, se voci accusatóri dovessero chiamarlo privo d'amore. — C'è, nel suo modo di vivere e di pensare, un raffinato eroismo, che disdegna di offrirsi alla grande ammirazione delle masse, come fa il suo più rozzo fratello, e suole andare silenzioso per il mondo e via dal mondo. Quali che siano i labirinti che attraversa, gli scogli tra i quali si è talvolta tormentato il suo corso, se torna alla luce prosegue chiaro, lieve e quasi senza rumore per la sua via, e lascia che la luce del sole giochi sin nel suo profondo.


 
292.
Avanti. — E con ciò, avanti sulla strada della saggezza, di buon passo e con fiducia! Comunque tu sia, servi a te stesso come fonte di esperienza! Sbarazzati del malcontento sul tuo essere, perdonati il tuo io, giacché in ogni caso hai in te una scala dai cento gradini, sulla quale puoi salire verso la conoscenza. L'epoca in cui con rincrescimento ti senti precipitato, ti chiama beato per questa fortuna; ti grida che sarai ancora partecipe di esperienze alle quali uomini di epoche più tarde dovranno forse rinunciare. Non disprezzare di essere stato ancora religioso; valuta appieno quale genuino accesso tu abbia ancora avuto all'arte. Forte appunto di queste esperienze, non puoi tu percorrere con maggior consapevolezza enormi tratti del cammino dell'umanità passata? Non sono forse cresciuti proprio su quel terreno che a volte tanto ti spiace, sul terreno del pensiero impuro, molti dei frutti più splendidi della vecchia cultura? Non si può diventar saggi, se non abbiamo amato arte e religione come madre e nutrice. Ma si deve guardare al di là di esse, sapersene svezzare; se si rimane in loro balìa, non le si può comprendere. Così pure ti debbono essere familiari la storia e il cauto gioco con i piatti della bilancia: «da una parte — dall'altra». Torna indietro, calcando le orme sulle quali l'umanità fece il suo grande, doloroso cammino nel deserto del passato: così apprenderai nel modo più sicuro in quale direzione l'umanità futura non dovrà o non potrà più andare. E mentre con tutte le tue forze vorrai spiare in anticipo in quale nodo il futuro sarà ancora annodato, la tua vita acquisterà valore di strumento e mezzo per la conoscenza. È in mano tua far sì che tutto quel che hai vissuto: tentativi, vie false, errori, illusioni, passione, amore e speranza, si dissolvano nel tuo fine senza resti. Questo fine è di diventare tu stesso una necessaria catena di anelli della cultura, e di concludere da questa necessità alla necessità del cammino della cultura universale. Quando il tuo sguardo sarà divenuto forte abbastanza da vedere il fondo dell'oscuro pozzo del tuo essere e delle tue conoscenze, allora forse, nel suo specchio, per te saranno visibili anche le lontane costellazioni delle culture di domani. Credi che una vita simile, con uno scopo simile, sia troppo faticosa e priva di vantaggi? Allora non hai ancora imparato che non esiste miele più dolce della conoscenza, e che le nubi minacciose della desolazione dovranno esser per te la mammella da cui mungere latte per il tuo ristoro. Solo quando sarà sopraggiunta la vecchiaia capirai veramente come tu abbia ascoltato la voce della natura, di quella natura che per mezzo del piacere domina il mondo: la stessa vita che ha il suo culmine nella vecchiaia, ha il suo culmine anche nella saggezza, in quel mite splendore solare di una costante letizia dello spirito: l'una e l'altra, vecchiaia e saggezza, tu le incontri su un solo versante della vita: così ha voluto la natura. Allora è tempo, né c'è motivo di adontarsene, che si avvicini la nebbia della morte. Verso la luce — il tuo ultimo movimento; un giubilo della conoscenza — il tuo ultimo grido.


 
PARTE SESTA. L'uomo nel rapporto con gli altri

 
293.
Benevola finzione. — Spesso, nei rapporti con gli uomini, è necessario fingere benevolmente di non indovinare i motivi delle loro azioni.


 
294.
Copie. — Non di rado si incontrano copie di uomini importanti; come per i quadri, i più preferiscono le copie agli originali.


 
295.
L'oratore. — Si può parlare nel modo più appropriato, e tuttavia far sì che tutti gridino il contrario: cioè quando non si parla a tutti.


 
296.
Mancanza di confidenza. — La mancanza di confidenza tra amici è un errore che non può esser criticato senza diventare irreparabile.


 
297.
Sull'arte di regalare. — Dover rifiutare un dono solo perché non è stato offerto nel modo giusto esaspera contro il donatore.


 
298.
Il più pericoloso uomo di partito. — In ogni partito c'è chi enunciandone con troppa credulità i princìpi, spinge gli altri alla defezione.


 
299.
Consigliere del malato. — Chi dà consigli a un malato, acquista su di lui un senso di superiorità, sia che questi vengano accettati sia che vengano respinti. Per tale motivo malati irritabili e orgogliosi odiano i consiglieri più della malattia.


 
300.
Doppia specie di uguaglianza. — La brama di uguaglianza può manifestarsi sia nel desiderio di abbassare tutti al proprio livello (sminuendo, relegando, facendo lo sgambetto), sia in quello di elevarsi con tutti (riconoscendo, aiutando, rallegrandosi dei successi altrui).


 
301.
Contro l'imbarazzo. — Il mezzo migliore per aiutare persone molto imbarazzate e tranquillizzarle consiste nel lodarle decisamente.


 
302.
Predilezione per singole virtù. — Non attribuiamo particolarmente valore al possesso di una virtù finché non ci accorgiamo che essa manca totalmente al nostro avversario.


 
303.
Perché si contraddice. — Spesso si contraddice un'opinione mentre in realtà ci è solo sgradito il tono in cui essa è stata manifestata.


 
304.
Fiducia e confidenza. — Chi di proposito cerca di ottenere la confidenza di un'altra persona, di solito non è sicuro di possederne la fiducia. Chi è sicuro della fiducia, dà poco valore alla confidenza.


 
305.
Equilibrio dell'amicizia. — Talvolta, nel nostro rapporto con un'altra persona, il giusto equilibrio dell'amicizia ritorna se sul nostro piatto della bilancia mettiamo qualche granello di torto.


 
306.
I medici più pericolosi. — I medici più pericolosi son quelli che, da attori nati, imitano con perfetta arte illusionistica il medico nato.


 
307.
Quando sono opportuni iparadossi. — Talvolta, per conquistare a una tesi persone di spirito, bisogna presentargliela solo sotto forma di mostruoso paradosso.


 
308.
Come si conquistano persone coraggiose. — Si convincono persone coraggiose a compiere un'azione, presentandola loro più pericolosa di quanto non sia.


 
309.
Gentilezze. — Se una persona non ci piace, le facciamo una colpa delle gentilezze che essa ci rende.


 
310.
Far aspettare. — Un mezzo sicuro per irritare la gente e metterle in testa cattivi pensieri è quello di farla aspettare a lungo. Ciò rende immorali.


 
311.
Contro i confidenziali. — Persone che ci regalano la loro piena fiducia credono con ciò di aver diritto alla nostra. Il loro è un ragionamento sbagliato; i regali non conferiscono alcun diritto.


 
312.

 
312.
Mezzo di risarcimento. — Spesso, a colui al quale abbiamo recato danno, basta dare l'occasione di ridere un po' di noi per procurargli una soddisfazione personale e anzi disporlo benevolmente nei nostri confronti.


 
313.
Vanità della lingua. — Sia che l'uomo tenga nascosti i suoi vizi e le sue cattive qualità, sia che li ammetta apertamente, in ambedue i casi la sua vanità desidera trarne vantaggio: si osservi solo quanto sottilmente egli distingua davanti a chi nascondere quelle qualità e davanti a chi mostrarsi aperto e sincero.


 
314.
Riguardoso. — Non voler offendere nessuno, non voler nuocere a nessuno può indicare sia una mentalità giusta, sia una mentalità pavida.


 
315.
Essenziale per discutere. — Chi non sa mettere in ghiaccio i suoi pensieri, non deve cacciarsi nel calore della disputa.


 
316.
Compagnia e presunzione. — Sapendosi sempre tra uomini di merito, si disimpara l'arroganza; lo star soli fomenta la superbia. I giovani sono presuntuosi perché frequentano i loro simili, i quali non sono nulla, ma vogliono significare molto.


 
317.
Motivo dell'attacco. — Non si attacca soltanto per far male a qualcuno, per vincerlo, ma forse anche semplicemente per conoscere la propria forza.


 
318.
Adulazione. — Le persone che, con l'adularci, vogliono addormentare la nostra prudenza nei nostri rapporti con loro, usano un mezzo pericoloso, per così dire un sonnifero che, quando non fa dormire, tiene tanto più svegli.


 
319.
Buon scrittore di lettere. — Chi non scrive libri, ma pensa molto e vive poco in compagnia, di solito è un buono scrittore di lettere.


 
320.
Il più brutto. — C'è da chiedersi se uno che abbia molto viaggiato abbia trovato nel mondo zone più brutte che sul viso umano.


 
321.
I compassionevoli. — Le nature compassionevoli, sempre pronte a correr in aiuto nella disgrazia, raramente sono anche quelle che nella gioia si rallegrano: se gli altri son felici esse non hanno niente da fare, sono superflue, non si sentono in possesso della loro superiorità e perciò facilmente mostrano malcontento.


 
322.
Parenti di un suicida. — I parenti del suicida gli fanno una colpa di non esser rimasto in vita per riguardo alla loro reputazione.


 
323.
Prevedere ingratitudine. — Chi regala qualcosa di grande non riscuote gratitudine; infatti, chi ha ricevuto il dono ha già troppo peso nell'accettarlo.


 
324.
In una compagnia senza spirito. — Nessuno ringrazia l'uomo di spirito per la sua cortesia di adeguarsi a una compagnia nella quale non sia gentile mostrarsi spiritosi.


 
325.
Presenza di testimoni. — Dietro un uomo caduto in acqua ci si tuffa tanto più volentieri se si è in presenza di persone che non osano farlo.


 
326.
Tacere. — Il modo più sgradevole di replicare a una polemica è per ambedue le parti quello di adirarsi e tacere: infatti chi attacca interpreta spesso il silenzio come segno di disprezzo.


 
327.
Il segreto dell'amico. — Sono pochi coloro che, trovandosi in imbarazzo perché in una conversazione mancano gli argomenti, non tradiscono gli affari più segreti dei loro amici.


 
328.
Umanità. — L'umanità delle celebrità dello spirito consiste, trattando con persone non celebri, nell'avere torto in maniera gentile.


 
329.
Imbarazzato. — Persone che in società non si sentono sicure sfruttano ogni occasione per mostrare apertamente a un loro vicino, al quale siano superiori, questa superiorità, ad esempio punzecchiandolo.


 
330.
Grazie. — A un animo delicato pesa il sapere qualcuno tenuto a dirgli grazie; a un animo rozzo pesa il sapersi obbligato a dir grazie a qualcuno.


 
331.
Segno di estraniamento. — Il più forte segno di estraniamento di idee tra due persone si ha quando ambedue si dicono cose ironiche senza che né l'una né l'altra ne notino l'ironia.


 
332.
Presunzione e meriti. — La presunzione che si accompagna al merito offende ancor più della presunzione in uomini privi di merito: infatti il merito già di per sé è offensivo.


 
333.
Pericolo nella voce. — Talvolta, in una conversazione, il suono della nostra voce ci imbarazza e ci porta ad affermare cose che non corrispondono affatto alle nostre idee.


 
334.
In conversazione. — Che, nella conversazione, si dia prevalentemente ragione o torto all'interlocutore, è pura questione di abitudine: sia l'una che l'altra cosa hanno senso.


 
335.
Paura del prossimo. — Noi temiamo l'umore ostile del prossimo perché abbiamo paura che, in tale disposizione, egli penetri i nostri segreti.


 
336.
Distinguere per mezzo del biasimo. — Persone di grande riguardo distribuiscono persino il loro biasimo come segno di distinzione. Vogliono farci notare con quanta premura si occupino di noi. Prendendo alla lettera questo biasimo e difendendocene, noi le fraintendiamo totalmente; così facendo le irritiamo e ce le estraniamo.


 
337.
Fastidio per la benevolenza altrui. — Ci sbagliamo sul grado in cui ci crediamo odiati, temuti: infatti è vero che noi conosciamo bene il grado della nostra divergenza da una persona, da un indirizzo, da un partito, ma questi ci conoscono molto superficialmente e perciò anche ci odiano solo superficialmente. Spesso ci imbattiamo in una benevolenza che non sappiamo spiegarci: ma se la comprendiamo, essa ci offende, in quanto dimostra che non siamo presi abbastanza sul serio.


 
338.
Incrociarsi di vanità. — Quando si incontrano due persone la cui vanità è ugualmente grande, esse riportano poi, l'una dell'altra, una cattiva impressione, perché ciascuna delle due era così preoccupata dell'impressione che voleva suscitare nell'altra, che questa non ha fatto alcuna impressione su di lei; alla fine ambedue riconoscono che i loro sforzi sono stati vani e ciascuna ne dà la colpa all'altra.


 
339.
Bizzosità come buon segno. — Lo spirito superiore si compiace delle mancanze di tatto, delle arroganze e anzi dell'ostilità che i giovani ambiziosi gli manifestano; sono le bizzosità dei cavalli focosi, che non hanno ancora portato cavaliere e che presto tuttavia saranno così orgogliosi di portarlo.


 
340.
Quando è consigliabile tenersi il torto. — Si fa bene ad accettare senza obiezioni le accuse che ci vengono rivolte, anche se ci fan torto, quando chi ce le muove vedrebbe da parte nostra un torto ancora più grande se lo contraddicessimo o addirittura lo confutassimo. Certo, con questo sistema uno può aver sempre torto o sempre ragione, e diventare alla fine, con la miglior coscienza del mondo, il più insopportabile tiranno e seccatore; e quel che vale per il singolo individuo, può accadere anche in intere classi sociali.


 
341.
Troppo poco onorato. — Persone che nutrono un'alta opinione di sé e alle quali si è mostrata meno considerazione di quanta se ne aspettassero, cercano a lungo di ingannare se stesse e gli altri in proposito, e diventano psicologi cavillosi, per dimostrare che l'altro invece le ha sufficientemente onorate: se non raggiungono lo scopo, se il velo dell'illusione si strappa, esse si abbandonano a una collera tanto maggiore.


 
342.
Riecheggiano, nel discorso, stati primitivi. — Nel modo in cui oggi, in società, gli uomini enunciano le loro affermazioni, spesso si riconosce l'eco dei tempi in cui essi si destreggiavano con le armi meglio che con qualsiasi altra cosa: ora maneggiano le loro affermazioni come tiratori che puntano il fucile, ora si crede di udire il sibilo e il tintinnar delle lame; e alcuni lasciano cadere un'affermazione con lo strepito di un grosso randello. — Le donne invece parlano come chi sia stato per millenni al telaio, o abbia lavorato con l'ago o sia stato bambino con i bambini.


 
343.
Il narratore. — Chi racconta qualcosa lascia facilmente capire se racconta perché il fatto lo interessa, o perché con quella narrazione vuol rendersi interessante. In quest'ultimo caso egli esagererà, farà uso di superlativi e cose del genere. Allora, di solito, egli racconterà male, perché non tanto porrà mente alla cosa quanto i se stesso.


 
344.
Chi legge ad alta voce. — Chi legge ad alta voce poesie drammatiche fa qualche scoperta sul proprio carattere: trova che in alcune scene e atmosfere la sua voce è più naturale che in altre, per esempio nel patetico o nello scurrile, mentre forse, nella vita di tutti i giorni, egli non aveva solo avuto l'occasione di mostrare pathos o scurrilità.


 
345.
Una scena da commedia che accade nella vita. — Qualcuno trova un'opinione arguta su un argomento e vuole esprimerla in società. Ora, nella commedia, si ascolterebbe e si vedrebbe come egli cerchi a vele spiegate di arrivare al punto e di pilotare la compagnia là dove sia possibile far cadere la sua osservazione: come egli spinga continuamente il discorso verso una sola meta, perda talvolta la direzione e la riconquisti, e infine trovi il momento: quasi gli manca il fiato — ed ecco che uno della compagnia gli toglie l'osservazione di bocca. Ora che farà? Andrà contro la sua stessa opinione?


 
346.
Scortese senza volerlo. — Quando qualcuno senza volerlo tratta scortesemente un altro, per esempio non lo saluta perché non lo riconosce, questo fatto lo rode, benché egli non abbia nulla da rimproverare al proprio animo; lo addolora la cattiva opinione prodotta nell'altro, o teme le conseguenze di un malumore, oppure gli dispiace di aver offeso l'altro — dunque possono destarsi vanità, paura o compassione, e forse anche tutte queste cose insieme.


 
347.
Capolavoro di tradimento. — Manifestare, verso chi sta cospirando con noi, l'offensivo sospetto di essere da lui traditi, e questo proprio nel momento in cui ci si accinge a tradire, è un capolavoro di malvagità, in quanto coinvolge personalmente l'altro e lo costringe a comportarsi per qualche tempo in modo aperto e tale da non destar sospetti: sicché il vero traditore si è procurato mano libera.


 
348.
Offendere ed essere offesi. — È molto più piacevole offendere e poi chiedere scusa che essere offesi e concedere il perdono. Chi fa la prima cosa, dà segno di potenza e poi di buon carattere. L'altro, se non vuol passare per disumano, deve in ogni caso perdonare; e questa costrizione diminuisce il piacere per l'umiliazione dell'altro.


 
349.
Nella disputa. — Se si confuta un'opinione altrui e contemporaneamente se ne sviluppa una propria, di solito la costante attenzione all'opinione dell'altro sposta la naturale posizione della nostra: essa appare più voluta, più dura, forse un po' esagerata.


 
350.
Accorgimento. — Chi vuole ottenere da un altro qualcosa di difficile, in genere non deve affrontare la cosa come un problema, ma esporre semplicemente il suo piano, come se fosse l'unica possibilità; e se nell'occhio dell'avversario balena l'obiezione, l'opposizione, deve saper immediatamente interromperlo e non dargli tempo.


 
351.
Rimorsi dopo ricevimenti. — Perché, dopo abituali riunioni in società, proviamo rimorso? Perché abbiamo preso alla leggera cose importanti; perché parlando di certe persone, non ci siamo espressi del tutto sinceramente o perché abbiamo taciuto quando dovevamo parlare; perché all'occasione non ci siamo alzati e non ce ne siamo andati — insomma, perché in quella società ci siamo comportati come se le appartenessimo.


 
352.
Si vien giudicati in modo sbagliato. — Chi sta sempre attento a come vien giudicato, sempre prova contrarietà. Infatti già quelli che ci sono più vicini (che «ci conoscono meglio») ci giudicano in modo errato. Persino buoni amici si lascian talvolta sfuggire, in una parola invidiosa, la propria irritazione nei nostri confronti; e, se ci conoscessero bene, sarebbero nostri amici? I giudizi degli indifferenti fanno molto male, perché suonano così spregiudicati, quasi oggettivi. Se poi ci accorgiamo che uno che ci è ostile conosce bene quanto noi un lato di noi che vogliamo tenere segreto, quant'è grande allora il nostro dispetto!


 
353.
Tirannia del ritratto. — Artisti e uomini politici che da tratti isolati compongono rapidamente un'immagine completa di un uomo o di un fatto, sono per lo più ingiusti, perché in seguito esigono che il fatto o l'uomo siano realmente come essi li hanno raffigurati; pretendono addirittura che uno sia dotato, scaltro o ingiusto così come vive nella loro rappresentazione.


 
354.
Il parente come migliore amico. — I greci, che sapevano tanto bene che cos'è un amico — essi soli, tra tutti i popoli, possiedono una svariata, profonda e filosofica trattazione dell'amicizia; sicché ad essi per primi, e sino ad ora per ultimi, l'amico è apparso come un problema - degno di soluzione —, questi stessi greci han designato i parenti con un'espressione che è il superlativo della parola «amico». Non riesco a spiegarmelo.


 
355.
Onestà misconosciuta. — Se qualcuno, conversando, cita se stesso («dissi allora», «son solito dire»), la cosa sembra presunzione, mentre spesso ha un'origine affatto opposta, per lo meno di onestà, che non vuole adornare e azzimare quell'istante con idee che appartengono a un momento precedente.


 
356.
Il parassita. — È indice di una totale mancanza di un nobile modo di sentire il fatto che uno preferisca vivere in dipendenza, a spese altrui, solo per non dover lavorare, spesso con un astio segreto verso coloro da cui dipende. — Tale disposizione è più frequente fra le donne che fra gli uomini, e anche molto perdonabile (per motivi storici).


 
357.
Sull'altare della riconciliazione. — Ci sono circostanze in cui otteniamo una cosa da un altro solo a patto di offenderlo e rendercelo nemico: il sentimento di avere un nemico lo tormenta tanto, che egli sfrutta volentieri il primo segno di una più mite disposizione d'animo per riconciliarsi, e sull'altare della riconciliazione sacrifica quella cosa alla quale prima teneva tanto da non volerla dare a nessun costo.


 
358.
Pretendere compassione è segno di presunzione. — Ci sono persone che, quando si adirano e offendono gli altri, innanzitutto pretendono che uno non se ne abbia a male, e poi che le si compianga per essere soggette a parossismi così violenti: tanto grande è l'umana presunzione.


 
359.
Ami. — «Ogni uomo ha il suo prezzo»: non è vero. Ma per ciascuno si trova un amo a cui farlo abboccare. Così, se si vogliono conquistare certe persone a una causa, occorre solo darle lo splendore di una cosa umanitaria, nobile, caritatevole, altruista — e a quale causa non lo si potrebbe dare? — È lo zuccherino e la leccornia della loro anima; per altri ci sono cose diverse.


 
360.
Comportamento di fronte alla lode. — Quando buoni amici lodano una persona intelligente, questa spesso mostrerà di rallegrarsene per cortesia e benevolenza, ma in realtà la cosa le è indifferente. Il suo vero essere è affatto inerte di fronte a ciò, e non può esser mosso d'un passo dal sole o dall'ombra in cui si trova; ma, con la lode, gli uomini vogliono procurare un piacere e si rattristerebbero se non ci si rallegrasse della loro lode.


 
361.
L'esperienza di Socrate. — Se si è diventati maestri in una cosa, di solito proprio per questo si è rimasti dei perfetti pasticcioni nelle altre; ma si crede esattamente il contrario, come già sperimentò Socrate. Questo è l'inconveniente che rende sgradevole il frequentare dei maestri.


 
362.
Mezzi di abbrutimento. — Nella lotta con la stupidità, anche gli uomini più giusti e miti finiscono per diventare brutali. Così facendo seguono forse la giusta linea di difesa; infatti alla fronte ottusa spetta di diritto, come argomento, il pugno serrato. Ma poiché, come s'è detto, il carattere di quegli uomini è mite e giusto, con questi mezzi di legittima difesa essi soffrono più di quanto non facciano soffrire.


 
363.
Curiosità. — Se non ci fosse la curiosità, poco si farebbe per il bene del prossimo. Ma essa si insinua, con il nome di dovere o di compassione, nella casa dello sventurato e del bisognoso. Forse persino nel tanto decantato amore materno c'è un bel po' di curiosità.


 
364.
Errore di calcolo in società. — Uno desidera essere interessante per i suoi giudizi, un altro per le sue simpatie e antipatie, un terzo per le sue conoscenze, un quarto per il suo isolamento — e tutti quanti sbagliano i conti. Infatti, colui davanti al quale si rappresenta quello spettacolo, ritiene di esser lui l'unico spettacolo degno di nota.


 
365.
Duello. — A favore di tutte le questioni d'onore e dei duelli c'è da dire che, se uno è dotato di una sensibilità così irritabile da non voler vivere se questo o quello dice o pensa di lui questa o quella cosa, egli ha diritto di far risolvere la questione dalla morte dell'uno o dell'altro. Sul fatto che egli sia così irritabile non c'è da discutere: in ciò siamo eredi del passato, della sua grandezza come dei suoi eccessi, senza i quali non è mai esistita grandezza. Ora, se esiste un codice d'onore che fa valere il sangue al posto della morte, sicché dopo un regolare duello l'animo si sente sollevato, questo fatto è un gran beneficio, perché altrimenti troppi uomini sarebbero in pericolo. — Una simile istituzione educa inoltre gli uomini a una maggior prudenza nelle loro espressioni e rende possibili i rapporti con loro.


 
366.
Nobiltà e gratitudine. — Un animo nobile sentirà volentieri l'obbligo della gratitudine e non sfuggirà timoroso alle occasioni di contrarre obblighi; così pure, sarà poi pacato nelle manifestazioni di gratitudine; mentre animi più bassi recalcitrano a ogni obbligo e poi, nell'esprimere la loro riconoscenza, sono esagerati e troppo zelanti. Quest'ultima cosa accade anche a persone di umile origine o di condizione inferiore; un favore reso loro appare ad esse come un prodigio di clemenza.


 
367.
Le ore dell'eloquenza. — L'uno, per parlar bene, ha bisogno di qualcuno decisamente e notoriamente superiore a lui, l'altro può trovar libertà di eloquio e felici giri di parole solo di fronte a uno cui egli sia superiore; in entrambi i casi il motivo è lo stesso: ciascuno di loro parla bene solo se parla sans gène, l'uno perché, di fronte a chi gli è superiore, non sente il pungolo della concorrenza, della gara, e l'altro per la stessa ragione nei confronti di chi gli è inferiore. C'è però un tutt'altro tipo di uomini, che parlano bene solo se parlano in competizione, con l'idea di vincere. Quale dei due tipi è più ambizioso, quello che parla bene sotto lo stimolo dell'ambizione o quello che, per lo stesso motivo, parla male o non parla affatto?


 
368.
Talento per l'amicizia. — Tra gli uomini che possiedono una particolare inclinazione per l'amicizia, si distinguono due tipi. Il primo è in continua ascesa, e per ciascuna fase della sua evoluzione trova l'amico adatto. Gli amici che in tal modo egli si conquista raramente sono in connessione tra loro, e talvolta anzi sono in contrasto e in opposizione, in relazione al fatto che le fasi ulteriori della sua evoluzione superano o pregiudicano quelle precedenti. Un uomo del genere può esser scherzosamente definito una scala. — Il secondo tipo è rappresentato da chi esercita un'attrazione su caratteri e inclinazioni molto diversi, sicché conquista un'intera cerchia di amici; per questo motivo, però, essi entrano da sé in rapporti amichevoli tra loro, nonostante le diversità. Un tale uomo può esser definito un cerchio: in lui infatti dev'essere in qualche modo preformata quell'affinità di nature e disposizioni tanto diverse. Del resto, in più di un uomo il dono di avere buoni amici è molto più grande del dono di essere un buon amico.


 
369.
Tattica nel colloquio. — Dopo aver parlato con qualcuno, si deve dire il più gran bene di lui se si è avuto occasione di mostrargli, in tutto il loro splendore, il proprio spirito e la propria amabilità. Di questa tattica si servono uomini intelligenti che vogliono accattivarsi il favore di qualcuno e che, intrattenendosi con lui, gli porgono le migliori occasioni per una bella battuta e cose del genere. Si potrebbe pensare a un divertente colloquio tra due persone molto intelligenti, che vogliono riuscirsi simpatiche a vicenda e che, conversando, si lanciano le belle occasioni, senza che nessuno dei due le raccolga: sicché in complesso la conversazione si svolgerebbe senza spirito e amabilità, poiché l'uno lascerebbe all'altro l'occasione di mostrar spirito e amabilità.


 
370.
Sfogo del malumore. — L'uomo al quale non riesce qualcosa preferisce addebitare questo suo insuccesso alla cattiva volontà di un altro anziché al caso. La sua irritazione si mitiga al pensiero che alla base della cattiva riuscita vi sia una persona e non una cosa; infatti di una persona ci si può vendicare, mentre bisogna ingoiare le nequizie del caso. Per questo motivo le persone che circondano un principe sono solite, se a costui è mal riuscito qualcosa, indicargli un sol uomo come probabile causa, e sacrificarlo nell'interesse di tutta la corte; altrimenti il malumore del principe si sfogherebbe su tutti loro, giacché nemmeno lui può prendersi vendetta sulla dea del destino.


 
371.
Assumere il colore dell'ambiente. — Perché simpatia e avversione sono così contagiose che non si può star a contatto di una persona che le sente fortemente senza colmarsi, come un vaso, dei pro e contro di quella? In primo luogo, astenersi totalmente da un giudizio è molto difficile, e talvolta addirittura intollerabile per la nostra vanità; la cosa assume allora il colore della povertà di pensiero e di sentimento, del timore o della mancanza di virilità; e così veniamo trascinati almeno a prender partito, forse addirittura contro l'opinione del nostro ambiente, se tale posizione meglio solletica il nostro orgoglio. Di solito però — e questo è il secondo punto — non ci accorgiamo affatto di passare dall'indifferenza alla simpatia o all'avversione, ma ci abituiamo gradualmente ai particolari sentimenti del nostro ambiente e, poiché è tanto gradevole armonizzare e intendersi, presto indossiamo i contrassegni e i colori di partito di questo ambiente.


 
372.
Ironia. — L'ironia è opportuna soltanto come mezzo pedagogico, da parte di un maestro che tratta con allievi di qualsiasi specie: scopo di essa è provocare umiliazione e vergogna, ma di quella specie salutare che risveglia buoni propositi e ci induce a dimostrare rispetto e gratitudine, come a un medico, a chi ci ha così trattati. L'ironico simula ignoranza, e tanto abilmente che gli allievi che si intrattengono con lui ne son tratti in inganno e, nel loro credere in buona fede di saperne di più, divengono sfacciati e si scoprono in ogni modo; perdono ogni ritegno e si mostrano come sono — sino al momento in cui il lume che essi tenevano puntato in faccia al maestro fa ricadere i suoi raggi su di loro, in maniera assai umiliante. Dove non ci sia un rapporto come quello tra maestro e allievi, l'ironia è una mancanza di garbo, una passione volgare. Tutti gli scrittori ironici contano sullo sciocco genere di uomini che amano sentirsi superiori, insieme con l'autore, su tutti gli altri, e lo considerano veicolo della loro presunzione. — Del resto l'abitudine all'ironia, come pure al sarcasmo, guasta il carattere, e a poco a poco conferisce un senso di maligna superiorità: si finisce per assomigliare a un cane mordace che, oltre che a mordere, abbia imparato anche a ridere.


 
373.
Presunzione. — Da nulla bisogna guardarsi come dal crescere di quell'erbaccia che si chiama presunzione e che ci rovina ogni buon raccolto; infatti c'è presunzione nella cordialità, nelle manifestazioni di stima, nella benevola confidenza, nella carezza, nel consiglio amichevole, nell'ammissione di errori, nella compassione per gli altri; se tra esse cresce quest'erba, tutte queste belle cose suscitano avversione. Il presuntuoso, vale a dire colui che vuol significare più di quel che è o di quel che viene considerato, sbaglia sempre i suoi conti. Ottiene, è vero, il successo di un momento, in quanto gli uomini di fronte ai quali si mostra presuntuoso, di solito gli tributano, per paura o per comodità, la quantità di onori che egli pretende; ma se ne vendicano duramente, sottraendo dal valore che sino allora gli attribuivano quel di più che egli ha preteso. Nulla gli uomini si fan pagare più caro dell'umiliazione. Il presuntuoso può render tanto meschino e sospetto, agli occhi altrui, il suo merito grande e effettivo, che lo si calpesta con piedi polverosi. — Persino un contegno orgoglioso possiamo permettercelo solo quando siamo sicurissimi di non essere fraintesi e di non passare per arroganti, ad esempio con gli amici o con le mogli. Infatti, nel rapporto umano, non c'è follia più grande che attirarsi la fama di presuntuosi; è ancor peggio del non saper mentire per cortesia.


 
374.
Dialogo. — Il dialogo è la conversazione perfetta, perché tutto quello che l'uno dice riceve il suo particolare colore, il suo suono, il gesto che l'accompagna, in stretta considerazione dell'altro con il quale si parla, dunque in maniera analoga a quanto succede per la corrispondenza epistolare, nella quale uno stesso individuo esprime il proprio animo in dieci modi diversi, a seconda della persona a cui scrive. Nel dialogo la rifrazione dei raggi del pensiero è una sola, ed è prodotta dall'interlocutore nel quale, come in uno specchio, vogliamo veder riflessi nel modo più bello possibile i nostri pensieri. Ma che succede con due, tre o più interlocutori? Il colloquio perde necessariamente la sua finezza individualizzante, le diverse attenzioni si incrociano, si neutralizzano; la frase che va bene per l'uno non corrisponde alla sensibilità dell'altro. Perciò l'uomo, nel parlare con più persone, è costretto a ritrarsi in se stesso, a presentare i fatti come sono, ma a togliere alle cose quella giocosa atmosfera di umanità che fa della conversazione una delle cose più piacevoli del mondo. Basta ascoltare il tono in cui le persone son solite parlare rivolgendosi a interi gruppi; è come se il basso fondamentale di ogni loro discorso fosse: «Questo sono io, questo dico io, e voi pensate quel che vi pare». È questo il motivo per cui donne intelligenti lasciano per lo più un'impressione strana, penosa, scostante, in chi le conosce in società: è il parlare a molti, in presenza di molti, che priva il loro spirito di ogni amabilità e mostra soltanto, in una luce stridente, il loro consapevole basarsi su se stesse, la loro tattica e l'intenzione di riportare un pubblico successo: mentre le stesse donne, in un dialogo, ridiventano femminili e ritrovano la grazia del loro spirito.


 
375.
Gloria postuma. — Sperare nel riconoscimento in un lontano futuro ha senso unicamente se si presuppone che l'umanità rimanga sostanzialmente immutata e che ogni grandezza debba esser sentita come tale non soltanto in un'epoca, ma in tutte. Ma questo è un errore; l'umanità si trasforma sensibilmente in ogni suo sentimento e giudizio su ciò che è bello e buono; è fantasticheria ritenere di essere un miglio avanti e che tutta l'umanità segua la nostra via. Inoltre: un dotto misconosciuto può oggi sicuramente contare sul fatto che la sua scoperta verrà fatta anche da altri e che, nel migliore dei casi, più tardi uno storico gli riconoscerà che anche lui già sapeva questo e quello, ma non era stato capace di render credibili le sue affermazioni. L'essere misconosciuti viene sempre interpretato dai posteri come una mancanza di forza. — Insomma, non bisogna pronunciarsi tanto facilmente in favore di un superbo isolamento. Esistono del resto delle eccezioni; ma di solito sono i nostri errori, le nostre debolezze e follie a impedire che vengano riconosciute le nostre grandi qualità.


 
376.
Sugli amici. — Rifletti un poco tra te e te quanto diversi siano i sentimenti e quanto discordanti le opinioni persino tra conoscenti intimi; come persino le stesse opinioni nella testa dei tuoi amici assumano posizione e forza affatto diversa che nella tua; in quanti svariati modi si presenti l'occasione per malintesi, per separazioni ostili. Dopo di che dirai a te stesso: quanto insicuro è il terreno su cui posano tutti i nostri legami e le nostre amicizie, quanto vicini sono i freddi acquazzoni e le intemperie, quanto è isolato ogni uomo! Se uno comprende questo, e comprende inoltre che tutte le opinioni, il loro genere e la loro forza sono, nei suoi simili, altrettanto necessari e irresponsabili che le loro azioni, se acquista occhio per questa intima necessità delle opinioni che nasce dall'inestricabile intreccio di carattere, occupazione, talento, ambiente, — si libererà forse dall'aspro e amaro sentimento con cui quel saggio gridò: «Amici, non ci sono amici!». Piuttosto egli ammetterà: sì, ci sono amici, ma a portarli a te fu l'errore, illusione su di te; e per restare tuoi amici, debbono aver imparato a tacere; infatti questi rapporti umani poggiano quasi sempre sul fatto che qualcosa non vien detto, anzi neppure sfiorato; ma se queste pietruzze cominciano a rotolare, l'amicizia le segue e va in pezzi. Esistono uomini che non resterebbero mortalmente feriti se apprendessero che cosa i loro più fidati amici sanno in fondo su di loro? Conoscendo noi stessi e considerando il nostro stesso essere come una sfera mutevole di opinioni e stati d'animo (imparando così a disprezzarci un po'), ci riportiamo in equilibrio con gli altri. È vero, abbiamo buoni motivi per stimar poco ciascuno dei nostri conoscenti, siano essi pure i più grandi; ma altrettanti ne abbiamo per rivolgere questo sentimento contro di noi. — E così, sopportiamoci a vicenda, dato che sopportiamo noi stessi; e forse verrà per ciascuno anche quell'ora lieta in cui gridare:

«Amici, non ci sono amici!» gridò il saggio morente.

«Nemici, non ci sono nemici!» grido io, il pazzo vivente.


 
PARTE SETTIMA. La donna e il bambino

 
377.
La donna perfetta. — La donna perfetta è un tipo di umanità più alto dell'uomo perfetto, e anche qualcosa di molto più raro. La zoologia offre un mezzo per rendere verosimile questa proposizione.


 
378.
Amicizia e matrimonio. — Il migliore amico avrà anche la moglie migliore, perché un buon matrimonio si basa sulla disposizione all'amicizia.


 
379.
Sopravvivenza dei genitori. — Le dissonanze irrisolte nel rapporto tra carattere e sentimento dei genitori riecheggiano nel carattere del figlio, e costituiscono la storia delle sue sofferenze interiori.


 
380.
Dalla madre. — Ciascuno porta in sé un'immagine della donna ricevuta dalla madre: questa lo porta a rispettare le donne o a disprezzarle o ad essere in genere indifferente nei loro confronti.


 
381.
Correggere la natura. — Se non si ha un buon padre, bisogna procurarselo.


 
382.
Padre e figli. — I padri han molto da fare per riparare al fatto di avere dei figli.


 
383.
Errore delle donne distinte. — Le donne distinte pensano che una cosa non esista, se non se ne può parlare in società.


 
384.
Una malattia degli uomini. — Contro la malattia, tipica degli uomini, del disprezzo di sé, il rimedio più sicuro è l'amore di una donna intelligente.


 
385.
Un tipo di gelosia. — Le madri provano facilmente gelosia nei confronti degli amici dei figli, se questi hanno particolari successi. Di solito, nel proprio figlio, una madre ama più se stessa che il figlio.


 
386.
Ragionevole irragionevolezza. — Giunto alla maturità della vita e dell'intelligenza, un uomo è colto dal sentimento che suo padre ebbe torto a generarlo.


 
387.
Bontà materna. — Ci son madri che han bisogno di figli felici e rispettati, altre invece di figli infelici: altrimenti non possono mostrare la loro bontà materna.


 
388.
Sospiri diversi. — Alcuni mariti hanno sospirato sul rapimento delle loro mogli; i più perché nessuno le voleva rapire.


 
389.
Matrimoni d'amore. — I matrimoni fatti per amore (i cosiddetti matrimoni d'amore) hanno per padre l'errore e per madre la necessità (il bisogno).


 
390.
Amicizia femminile. — Le donne possono benissimo far amicizia con un uomo, ma perché questa amicizia si mantenga occorre un pizzico di antipatia fìsica.


 
391.
Noia. — Molte persone, e in particolare le donne, non conoscono la noia perché non hanno mai imparato a lavorare ordinatamente.


 
392.
Un elemento dell'amore. — In ogni specie di amore femminile è presente anche qualcosa dell'amore materno.


 
393.
L'unità di luogo e di dramma. — Se i coniugi non vivessero insieme, buoni matrimoni sarebbero più frequenti.


 
394.
Abituali conseguenze del matrimonio. — Ogni rapporto che non eleva abbassa, e viceversa; per questo di solito gli uomini scendono un po' quando si sposano, mentre le donne vengono alquanto innalzate. Uomini troppo spirituali hanno tanto bisogno del matrimonio quanta è la resistenza che vi fanno, come a una disgustosa medicina.


 
395.
Insegnare a comandare. — I bambini di famiglia modesta debbono venir educati al comando, così come gli altri bambini all'obbedienza.


 
396.
Volersi innamorare. — Fidanzati messi insieme dalla convenienza spesso si sforzano di innamorarsi, per sottrarsi al rimprovero di freddo e calcolatore utilitarismo. Così pure, coloro che per il loro vantaggio si volgono al cristianesimo, si sforzano di diventare veramente pii; in tal modo la mimica religiosa riesce loro più facile.


 
397.
Nessun arresto nell'amore. — Un musicista che ami il tempo lento interpreterà gli stessi pezzi musicali sempre più lentamente. Così pure, in nessun amore v'è arresto.


 
398.
Pudore. — Con la bellezza, nelle donne cresce in genere anche il pudore.


 
399.
Matrimonio di buona durata. — Un matrimonio nel quale ciascuno dei due coniugi vuole, tramite l'altro, attingere uno scopo individuale, si mantiene bene, ad esempio quando la moglie vuol diventare famosa per mezzo del marito, e il marito popolare per mezzo della moglie.


 
400.
Natura proteiforme. — Le donne per amore si trasformano realmente nell'immagine sotto la quale vivono nella mente dell'uomo che le ama.


 
401.
Amore e possesso. — Per lo più le donne amano un uomo importante in modo da volerlo tutto per sé. Lo terrebbero volentieri recluso, se a ciò non si opponesse la loro vanità: questa vuole che l'uomo appaia importante anche di fronte agli altri.


 
402.
Prova dì un buon matrimonio. — La bontà di un matrimonio si dimostra se esso per una volta sopporta una «eccezione».


 
403.
Mezzo per indurre tutti a tutto. — Si può snervare e indebolire chiunque con inquietudini, paure, sovraccarico di lavoro e di pensieri, in modo tale che egli non si opponga più a una cosa che appare complicata, ma ceda ad essa — i diplomatici e le donne lo sanno.


 
404.
Onorabilità e onestà. — Quelle ragazze che vogliono procurarsi una sistemazione per tutta la vita solo con le loro attrattive giovanili, e alle quali la scaltrezza viene ancor più suggerita da madri astute, vogliono quel che volevano le etère, solo che sono più intelligenti e meno oneste di quelle.


 
405.
Maschere. — Ci sono donne che, per quanto la si cerchi in loro, non hanno interiorità, ma sono semplici maschere. È da compiangere l'uomo che si impegola con questi esseri spettrali, necessariamente insoddisfacenti, ma proprio questi esseri possono eccitare al massimo il desiderio dell'uomo: egli cerca la loro anima — e continua a cercare.


 
406.
Matrimonio come un lungo dialogo. — Nel concludere un matrimonio, ci si deve chiedere: credi che potrai conversare bene con questa donna fino alla vecchiaia? Nel matrimonio tutto il resto è transitorio; è il dialogo che occupa la maggior parte del tempo della convivenza.


 
407.
Sogni di ragazze. — Ragazze inesperte si lusingano con l'idea che stia a loro poter rendere felice un uomo; più tardi imparano che ciò significa, né più né meno, disprezzare un uomo, supponendo che gli basti una ragazza per essere felice. La vanità delle donne esige che un uomo sia qualcosa di più che un marito felice.


 
408.
Estinzione di Faust e Margherita. — Secondo l'osservazione molto sagace di un dotto, gli uomini colti della Germania di oggi somigliano a un miscuglio di Mefistofele e Wagner, ma non somigliano per nulla a Faust, che i loro nonni (almeno in gioventù) sentivano agitarsi in loro. Dunque, per continuare questa affermazione, a loro non si addicono le Margherite per due motivi. E, non essendo più desiderate, esse vanno estinguendosi, a quanto pare.


 
409.
Ragazze come ginnasiali. — Che per nulla al mondo si estenda la nostra istruzione ginnasiale alle ragazze, quell'istruzione che spesso fa, di giovani intelligenti, avidi di sapere e focosi, copie dei loro maestri!


 
410.
Senza rivali. — In un uomo, le donne notano facilmente se la sua anima è già presa; vogliono essere amate senza rivali, e gli rimproverano gli scopi della sua ambizione, i suoi compiti politici, la sua scienza e la sua arte, se egli è appassionato di queste cose. Tranne che egli non brilli in questi campi— allora sperano, in caso di una relazione amorosa con lui, che si accresca anche il loro splendore; se le cose stanno così, favoriscono l'amante.


 
411.
L'intelletto femminile. — L'intelletto delle donne si manifesta come totale padronanza, presenza di spirito, sfruttamento di tutti i vantaggi. Come loro qualità fondamentale, esse lo trasmettono ai figli, e il padre vi aggiunge il fondo più oscuro della volontà. Il suo influsso determina per così dire il ritmo e l'armonia con cui dovrà svolgersi la nuova vita; ma la melodia di essa proviene dalla donna. — Detto per coloro che sanno far conto di qualcosa: le donne hanno l'intelletto, gli uomini l'animo e la passione. Il che non è in contraddizione con il fatto che gli uomini con il loro intelletto vadano tanto più lontano: essi possiedono gli impulsi più profondi, più prepotenti, e sono questi che trasportano tanto lontano il loro intelletto, il quale in sé è qualcosa di passivo. Spesso le donne si meravigliano in segreto della grande venerazione che gli uomini tributano al loro sentimento. Se gli uomini, nella scelta di una sposa, cercano soprattutto un essere profondo, ricco di sentimento, e le donne invece un essere intelligente, pronto e brillante, in fondo si vede chiaramente come l'uomo cerchi l'uomo idealizzato, e la donna la donna idealizzata, dunque non un complemento, ma un perfezionamento delle proprie doti.


 
412.
Conferma di un giudizio di Esiodo. — Un segno dell'avvedutezza delle donne è che esse hanno saputo quasi dappertutto farsi mantenere, come fuchi nell'alveare. Si rifletta tuttavia quale sia il significato originario di ciò, e perché gli uomini non si facciano mantenere dalle donne. Certamente perché la vanità e l'ambizione maschili sono maggiori dell'avvedutezza femminile; infatti le donne, assoggettandosi, hanno saputo tuttavia assicurarsi il vantaggio preponderante, anzi il dominio. Persino la cura dei figli potè in origine essere sfruttata dall'accortezza femminile come pretesto per sottrarsi il più possibile al lavoro. Ancor oggi, se realmente svolgono un'attività, per esempio come governanti, le donne sanno farne molto scalpore: sicché gli uomini sogliono valutar dieci volte tanto il merito di questa loro attività.


 
413.
I miopi sono innamorati. — Talvolta bastano già occhiali più forti per guarire un innamorato; e chi avesse un'immaginazione così potente da figurarsi un viso, una figura invecchiati di vent'anni, passerebbe forse la vita tranquillo.


 
414.
L'odio nelle donne. — Quando odiano, le donne sono più pericolose degli uomini. Innanzitutto perché, una volta destatosi in loro un sentimento ostile, non le frena alcun pensiero di equità, ma lasciano crescere indisturbato il loro odio sino alle estreme conseguenze; inoltre perché sono avvezze a trovare le piaghe (che sono di ogni uomo, di ogni partito) e a scavarvi dentro; e in questo le serve splendidamente la loro intelligenza affilata come un pugnale (mentre gli uomini, alla vista delle ferite, son portati al riserbo, alla generosità e spesso alla conciliazione).


 
415.
Amore. — L'idolatria di cui le donne circondano l'amore è in fondo e per sua origine una trovata della loro astuzia, in quanto, con tutte quelle idealizzazioni dell'amore, esse accrescono il proprio potere e si rendono sempre più desiderabili agli occhi dell'uomo. Ma, con la secolare abitudine a valutare esageratamente l'amore, è successo che esse son cadute nella loro stessa rete e hanno dimenticato l'origine di tutto ciò. Son esse oggi le illuse, ancor più degli uomini, e pertanto soffrono anche di più della disillusione che quasi necessariamente farà la sua comparsa nella vita di ogni donna — nella misura in cui esse abbiano in genere abbastanza intelligenza e fantasia per illudersi e restare deluse.


 
416.
Sull'emancipazione delle donne. — Possono le donne in genere essere giuste, dal momento che son tanto abituate a amare, a provare immediata simpatia o avversione? Per questo si lasciano conquistare più spesso dalle persone che non dalle cause; ma se abbracciano una causa ne diventano subito partigiane, rovinandone in tal modo l'effetto puro e innocente. Sorge così un pericolo non trascurabile quando si affida loro la politica o singole branche della scienza (per esempio la storia). Infatti, che ci sarebbe di più raro di una donna la quale sapesse realmente che cos'è la scienza? Le migliori tra loro nutrono addirittura in cuore un segreto disprezzo per essa, come se per qualche motivo le fossero superiori. Forse tutto ciò cambierà, ma per ora è così.


 
417.
L'ispirazione nel giudizio delle donne. — Quegli improvvisi giudizi sul pro o sul contro che le donne son solite dare, quelle fulminee illuminazioni dei rapporti personali per il prorompere delle loro simpatie e antipatie, insomma, le prove della femminile ingiustizia sono state circonfuse dagli uomini innamorati di uno splendore, come se tutte le donne avessero ispirazioni di saggezza, anche senza il tripode delfico e la corona d'alloro: e, anche a distanza di tempo, le loro sentenze vengono interpretate e adattate come oracoli della sibilla. Ma se si considera che di ogni persona, di ogni cosa, può dirsi qualcosa a favore ma anche a sfavore, e che nessuna cosa ha solo due facce, ma tre e anche quattro, è piuttosto difficile, con quei giudizi improvvisi, sbagliare su tutta la linea; si potrebbe anzi dire che la natura delle cose è fatta in modo tale che le donne hanno sempre ragione.


 
418.
Farsi amare. — Poiché, tra due persone che amano, di solito una ama e l'altra è amata, è sorta la credenza che in ogni rapporto amoroso vi sia una misura costante di amore: quanto più uno ne strapperebbe per sé, tanto meno ne resterebbe per l'altra persona. Eccezionalmente accade che la vanità convinca ciascuno dei due di essere lui quello che deve essere amato; e così tutti e due vogliono farsi amare, il che dà luogo, soprattutto nel matrimonio, a scene tra il comico e l'assurdo.


 
419.
Contraddizioni nella testa delle donne. — Essendo le donne tanto più soggettive che oggettive, nella sfera dei loro pensieri vengono ad accordarsi tendenze logicamente contrastanti: e le donne sogliono appunto entusiasmarsi di volta in volta per i rappresentanti di queste tendenze e ne accettano globalmente i sistemi, tuttavia in modo che si generi un punto morto ovunque, più tardi, una nuova personalità prenderà il sopravvento. Forse può accadere che, nella testa di una donna anziana, l'intera filosofia consista unicamente di questi punti morti.


 
420.
Chi soffre di più?— Dopo un dissidio e una lite personale tra un uomo e una donna, una parte soffre moltissimo all'idea di aver fatto male all'altra; questa invece soffre moltissimo all'idea di non averne fatto abbastanza, per cui con lacrime, singhiozzi ed espressioni sconvolte procura di appesantirgli il cuore anche dopo.


 
421.
Occasione di generosità femminile. — Se per una volta ci si trasporta col pensiero al di sopra delle esigenze della morale si potrebbe ben considerare se ragione e natura non destinino l'uomo a più matrimoni successivi, all'inarca così: a ventidue anni egli sposa una ragazza maggiore di lui, che gli sia superiore spiritualmente e moralmente e possa guidarlo attraverso i pericoli dei vent'anni (ambizione, odio, disprezzo di sé, passioni di ogni genere). Più tardi l'amore di costei diverrebbe affatto materno, e non solo essa sopporterebbe, ma favorirebbe nel modo più salutare che l'uomo, giunto ai trent'anni, iniziasse un rapporto con una ragazza giovanissima, di cui prenderebbe egli stesso in mano l'educazione. Il matrimonio è un'istituzione necessaria per i vent'anni; utile, ma non necessaria, per i trenta; è spesso dannoso per la vita successiva e favorisce l'involuzione spirituale dell'uomo.


 
422.
Tragedia dell'infanzia. — Accade forse non di rado che uomini dalle aspirazioni alte e nobili debbano superare la lotta più dura nell'infanzia: o perché debbono affermare i propri sentimenti contro un padre dall'animo meschino, dedito all'apparenza e alla menzogna, o perché, come lord Byron, debbono vivere in lotta con una madre puerile e irascibile. Se si è provato qualcosa di simile, nella vita non potremo mai consolarci di sapere chi sia veramente stato il nostro nemico più grande e pericoloso.


 
423.
Stoltezza di genitori. — Gli errori più grossolani nel giudicare un uomo son compiuti dai suoi stessi genitori: è un fatto, ma come si spiega? Forse i genitori hanno troppa esperienza del figlio e non riescono più a farne un tutto unico? Si osserva che coloro che viaggiano tra popoli stranieri colgono bene i tratti comuni e distintivi di un popolo solo nei primi tempi della loro permanenza; quanto più lo conoscono, tanto più disimparano a vedere in esso il tipico e caratteristico. Non appena vedon bene da vicino, i loro occhi cessano di veder bene da lontano. Forse i genitori sbagliano a giudicare il proprio figlio per non essergli stati abbastanza lontani? — Una spiegazione affatto diversa potrebbe essere la seguente: gli uomini non son soliti riflettere su quanto sta molto vicino, intorno a loro, ma semplicemente lo accettano. Forse è l'abituale mancanza di riflessione dei genitori a far sì che, una volta costretti a pronunciarsi sui loro figli, diano giudizi così sbagliati.


 
424.
Dal futuro del matrimonio. — Quelle nobili donne di liberi sentimenti che si pongono come compito l'educazione e l'elevazione del sesso femminile, non debbono trascurare un punto di vista: il matrimonio inteso in senso più elevato, come amicizia spirituale di due esseri di sesso diverso, cioè come lo si spera dal futuro, concluso allo scopo di procreare ed educare una nuova generazione — un matrimonio del genere, che adopera il fatto sensuale per così dire solo come mezzo raro e occasionale per uno scopo più grande, ha forse bisogno, com'è da temersi, di un ausilio naturale, del concubinato. Se infatti, per motivi di salute dell'uomo, la moglie deve essere anche l'unica fonte di soddisfazione del bisogno sessuale, già nella scelta di una moglie influirà in modo determinante un punto di vista errato, contrario agli scopi cui accennavamo: il conseguimento di una discendenza sarà casuale, e un'educazione riuscita quanto mai improbabile. Una buona moglie, che debba essere amica, collaboratrice, generatrice, madre, capofamiglia, amministratrice, e anzi debba forse presiedere separatamente dal marito ad affari e uffici propri, non può essere nello stesso tempo concubina: ciò significherebbe in genere chiederle troppo. Così, in futuro, potrebbe verificarsi il contrario di quello che accadeva in Atene ai tempi di Pericle: gli uomini, che avevano allora nelle mogli non molto più che delle concubine, si volgevano anche alle Aspasie, perché desideravano le attrattive di una compagnia che sollevasse il cuore e la mente, quale solo la grazia e la prontezza di spirito femminili sanno creare. Tutte le istituzioni umane, come il matrimonio, consentono soltanto un modesto grado di idealizzazione pratica, altrimenti si rendono subito necessari rimedi grossolani.


 
425.
L'epoca dello Sturm und Drang delle donne. — Nei tre o quattro paesi civilizzati d'Europa, con qualche secolo di educazione si potrà fare delle donne tutto quel che si vorrà, persino uomini, non certamente dal punto di vista sessuale, ma comunque in ogni altro senso. Grazie a un simile intervento esse acquisteranno la forza e la virtù degli uomini, ma ne dovranno accettare anche le debolezze e i vizi: tanto, come abbiamo detto, si potrà ottenere. Ma come affronteremo lo stato di transizione che questo processo comporterà e che durerà anche un paio di secoli, durante i quali le follie e le ingiustizie femminili, loro antichissime doti, ancora prevarranno su quanto le donne avranno acquisito e appreso? Sarà, questo, il tempo in cui la collera sarà la vera passione maschile, la collera perché su ogni arte e scienza dilagherà la palude di un inaudito dilettantismo, la filosofia sarà condannata a morte attraverso chiacchiere sconclusionate, la politica diventerà più fantastica e partigiana che mai e la società sarà in piena dissoluzione, perché le custodi degli antichi costumi saran divenute ridicole a se stesse e si sforzeranno sotto ogni rapporto di stare al di fuori del costume. Se infatti le donne nel costume possedevano la loro forza maggiore, una volta che avranno rinunciato a esso, a che dovranno appigliarsi per riottenere un potere altrettanto forte?


 
426.
Spirito libero e matrimonio. — Vivranno gli spiriti liberi con le donne? In generale credo che essi, simili agli uccelli vaticinatori dell'antichità, come pensatori e predicatori di verità del presente, debbano preferire volar soli.


 
427.
Felicità del matrimonio. — Tutto ciò che è abituale tesse intorno a noi una ragnatela che diventa sempre più solida: e presto ci accorgiamo che i fili son diventati lacci, e che noi stessi vi stiamo in mezzo come il ragno che vi si è impigliato e deve nutrirsi del suo stesso sangue. Per questo lo spirito libero odia ogni regola e abitudine, tutto quel che ha durata ed è definitivo, per questo strappa sempre di nuovo, con dolore, la rete che lo avvolge: - benché, in seguito a ciò, egli debba soffrire di molte grandi e piccole ferite. — Poiché, quei fili deve strapparli via da sé, dal suo corpo, dalla sua anima. Egli deve imparare ad amare dove prima odiava, e viceversa. Anzi, per lui non dev'essere impossibile neppure seminare denti di drago dove prima aveva riversato le cornucopie della sua bontà. Da questo si può capire se egli sia fatto per la felicità coniugale.


 
428.
Troppo vicino. — Se viviamo troppo vicini a qualcuno, è come se continuassimo a toccare a mani nude una bella incisione: un giorno ci troveremo in mano solo un pezzo di carta sporca. Anche l'anima di un uomo, a toccarla troppo spesso, diventa logora, o almeno ci appare tale: non ne rivedremo più il disegno e la bellezza primitivi. A frequentare con troppa confidenza donne e amici si perde sempre; e talvolta si perde la perla della propria vita.


 
429.
La culla dorata. — Lo spirito libero trarrà sempre un respiro di sollievo una volta che si sia finalmente deciso a scrollar da sé quella cura e quell'attenzione materna di cui le donne lo circondano. Che male potrà fargli un soffio d'aria più rigida, da cui con tanta ansia lo si preservava, che cosa significano un reale svantaggio, una perdita, un incidente, una malattia, un indebitamento, una seduzione in più o in meno nella sua vita, paragonati alla schiavitù della culla dorata, del flabello di penne di pavone e della sensazione oppressiva di dovere, oltretutto, esser riconoscente di venir accudito e viziato come un lattante? Per questo il latte offertogli dal sentimento materno delle donne intorno a lui può tanto facilmente trasformarsi in fiele.


 
430.
Volontario capro espiatorio. — In nessun altro modo le donne di valore alleviano meglio la vita dei loro mariti, qualora essi siano grandi e famosi, se non diventando ricettacolo dello sfavore generale e dell'occasionale malumore degli altri. Ai loro grandi uomini i contemporanei perdonano molti errori e follie, e persino atti di grossolana ingiustizia, solo che trovino qualcuno da poter maltrattare e sacrificare, come un vero e proprio capro espiatorio sul quale sfogare il proprio animo. Non di rado una donna trova in sé l'ambizione di offrirsi a tale sacrificio, e allora l'uomo può esser certamente molto contento — qualora cioè sia tanto egoista da accettare vicino a sé un tale volontario parafulmini, paratempesta e parapioggia.


 
431.
Piacevoli nemici. — La naturale inclinazione delle donne a un'esistenza e a rapporti calmi, uniformi, felicemente armoniosi, il loro influsso balsamico e calmante sul mare della vita lavorano involontariamente contro l'intimo impulso eroico dello spirito libero. Senza accorgersene le donne si comportano come se a un mineralogista si togliessero le pietre dal sentiero su cui cammina, perché non vi inciampi — mentre egli è uscito apposta per inciamparvi.


 
432.
Dissonanza di due consonanze. — Le donne vogliono servire, e trovano in questo la loro felicità; lo spirito libero non vuol essere servito, e trova in questo la sua felicità.


 
433.
Santippe. — Socrate trovò la moglie che gli serviva — ma non l'avrebbe cercata se l'avesse conosciuta bene: neppure l'eroismo di quello spirito libero si sarebbe spinto tanto lontano. In effetti Santippe lo spinse sempre più nella professione che gli era propria, rendendogli inabitabile e sgradevole il focolare domestico: gli insegnò a vivere per le strade e in qualsiasi luogo si potesse chiacchierare e oziare, e fece così di lui il maggior dialettico ateniese di strada: il quale, alla fine, dovette paragonarsi alla briglia molesta posta da un dio sul collo del bel cavallo Atene, per non farlo star quieto.


 
434.
Cieche per la distanza. — Come le madri hanno veramente sensi e occhi solo per i dolori evidenti e palesi dei loro figli, così le mogli di uomini che aspirano in alto non hanno cuore di vedere i loro mariti soffrire, languire ed essere disprezzati — mentre forse tutto questo non solo è segno della giusta scelta di vita, ma è già garanzia che i loro grandi scopi prima o poi dovranno essere raggiunti. Le donne intrigano sempre in segreto contro l'anima superiore dei loro mariti: vogliono ingannarla sul suo futuro, a favore di un presente comodo e indolore.


 
435.
Potenza e libertà. — Per grande che sia l'onore tributato dalle donne ai loro mariti, esse tuttavia onorano ancor più i poteri e le idee riconosciuti dalla società: da millenni sono avvezze a inchinarsi, le mani giunte sul petto, di fronte a tutto ciò che domina, e disapprovano ogni ribellione al pubblico potere. Per questo si attaccano come un freno, senza averne la minima intenzione ma piuttosto come per istinto, alle ruote di chi aspira all'indipendenza e alla libertà di spirito, e rendono talvolta ì loro mariti estremamente impazienti, soprattutto se questi si dicono che in fondo è l'amore che le spinge a ciò. Disapprovare i mezzi delle donne e onorarne magnanimamente i motivi — questa è la condotta degli uomini e, abbastanza spesso, la loro disperazione.


 
436.
Ceterum censeo. — È ridicolo che una società di nullatenenti decreti l'abolizione del diritto di successione, e non meno ridicolo è che persone senza figli lavorino alla legislazione pratica di un paese: sulla loro nave non hanno abbastanza zavorra per poter veleggiare sicuri nell'oceano del futuro. Ma appare altrettanto insensato che colui che ha scelto come suo compito la conoscenza più universale e la valutazione dell'intera esistenza, si accolli problemi di carattere personale: famiglia, sostentamento, sicurezza, tutela di moglie e figli, e metta davanti al suo telescopio quel velo opaco attraverso il quale può passare appena qualche raggio delle lontane costellazioni. Giungo così anch'io all'affermazione che nelle questioni della più alta natura filosofica tutti gli sposati sono sospetti.


 
437.
Da ultimo. — Esistono varie specie di cicuta, e di solito il destino trova l'occasione di portare alle labbra dello spirito libero una coppa di questo veleno — per «punirlo», come poi dirà il mondo. Che fanno allora le donne intorno a lui? Grideranno, si lamenteranno e forse turberanno il quieto tramonto del pensatore: come fecero nella prigione di Atene. «Critone, di' a qualcuno di portar via queste donne!», disse infine Socrate.


 
PARTE OTTAVA. Uno sguardo allo Stato

 
438.
Chiedere la parola. — Il carattere demagogico e l'intenzione di influire sulle masse sono oggi comuni a tutti i partiti politici: essi tutti sono costretti, a causa di questa intenzione, a trasformare in grandi affreschi di stupidità i loro princìpi e a dipingerli sulle pareti. Non c'è più nulla da fare, anzi è superfluo persino muovere un dito contro questo fenomeno; infatti in questo campo vale quanto dice Voltaire: quand la populace se mèle de raisonner, tout est perdu. Dacché ciò è accaduto, ci si deve rassegnare alla nuova situazione, come ci si rassegna quando un terremoto ha sconvolto i vecchi confini, la configurazione del terreno e ha cambiato il valore della proprietà. Inoltre: se oggi, in ogni politica, si tratta di render la vita tollera-bile al maggior numero possibile di uomini, questi uomini dovranno pur determinare anche che cosa intendano per vita tollerabile; se presumono di possedere l'intelligenza necessaria per trovare i mezzi atti allo scopo, a che servirebbe dubitarne? Ora, essi vogliono essere finalmente gli artefici della propria felicità e infelicità; e se questo sentimento di autodeterminazione, l'orgoglio per quelle quattro o cinque idee che hanno in testa e che vanno esponendo, rende loro effettivamente la vita così piacevole da far loro sopportare volentieri le fatali conseguenze della loro limitatezza: c'è poco da obiettare, premesso che questa limitatezza non vada tanto in là da pretendere che tutto in questo senso diventi politica e che ognuno viva e operi secondo questi criteri. Innanzitutto, cioè, dev'essere più che mai consentito ad alcuni di astenersi dalla politica e di farsi un po' da parte: anch'essi son spinti a ciò dal piacere dell'autodeterminazione; e vi può andar congiunto anche un pizzico dell'orgoglio nel tacere, quando a parlare sono in troppi o anche solo in molti. Inoltre bisogna perdonare a questi pochi se non danno tanta importanza alla felicità dei molti, e qui inten-diamo popoli o strati di popolazione, e si permettono qua e là un'espres-sione ironica; infatti la loro serietà sta altrove, la loro felicità è un'altra cosa, il loro fine non può star chiuso in una goffa mano che abbia solo cinque dita. Giungerà infine — cosa che sarà concessa loro con gran difficoltà, ma che tuttavia dovrà esser concessa — di tempo in tempo un momento in cui essi usciranno dal loro silenzioso isolamento e metteranno nuovamente alla prova la forza dei loro polmoni: allora si chiameranno Fun l'altro come degli smarriti in un bosco, per farsi riconoscere e per incoraggiarsi a vicenda; e certamente verranno dette ad alta voce cose che suoneranno male alle orecchie cui non sono destinate. — Subito dopo il bosco tornerà silenzioso, così silenzioso che si potrà nuovamente percepire con chiarezza il sibilo, il ronzio e il battito d'ali degli innumerevoli insetti che vivono dentro, sopra e sotto di esso.


 
439.
Cultura e casta. — Una cultura superiore può nascere solo dove esistono due diverse caste sociali: quella di chi lavora e quella di chi ozia, di chi è capace di vero ozio; o, con un'espressione più forte, la casta del lavoro nella costrizione e quella del lavoro libero. Quando si tratta di creare una cultura superiore, il punto di vista della distribuzione della felicità non è essenziale; ad ogni modo, tuttavia, la casta di chi ozia è quella più capace di soffrire, quella che soffre di più, il suo gusto per l'esistenza è minore, il suo compito più grande. Ma se si verificherà uno scambio tra le due caste, tale che le famiglie e gli individui più ottusi e meno intelligenti della casta superiore vengano trasferiti a quella inferiore, e a loro volta gli uomini più liberi di questa ottengano l'accesso alla casta superiore, si giungerà a una situazione oltre la quale si vedrà solo il mare aperto di desideri indefiniti. — Così ci parla la dileguantesi voce del tempo antico: ma dove ci sono ancora orecchie per ascoltarla?


 
440.
Di sangue. — Quello che uomini e donne di sangue hanno in più rispetto agli altri e conferisce loro un indiscutibile diritto a una valutazione superiore, sono due arti, sempre più accresciute dall'eredità; l'arte di saper comandare e l'arte della fiera obbedienza. Ora, ovunque il comando sia affare di ogni giorno (come nel gran mondo del commercio e dell'industria), nasce qualcosa che assomiglia a quelle stirpi «di sangue», ma manca quel nobile contegno nell'obbedire che in quelle è eredità di condizioni feudali, e che nel nostro clima culturale non vuole più attecchire.


 
441.
Subordinazione. — La subordinazione, tanto apprezzata in uno Stato militare e burocratico, presto sarà per noi incredibile come lo è già diventata la tattica serrata dei gesuiti; e se questa subordinazione non sarà più possibile, non si potranno più ottenere molti dei suoi effetti più stupefacenti, e il mondo ne risulterà impoverito. Essa è destinata a scomparire perché sta scomparendo il suo fondamento: la fede nell'autorità assoluta, nella verità definitiva; persino negli Stati militari a produrla non basta la costrizione fisica, ma occorre l'adorazione ereditaria di fronte alla sovranità come di fronte a qualcosa di sovrumano. — In situazioni di maggior libertà, ci si sottomette solo condizionatamente, in seguito a un patto reciproco, quindi con tutte le riserve dell'interesse personale.


 
442.
Eserciti nazionali. — Il maggior vantaggio degli eserciti nazionali, oggi tanto magnificati, consiste nel dispendio di uomini di altissima civiltà; in generale essi esistono solo con il favore di tutte le circostanze — con quanta parsimonia e cautela li si dovrebbe usare, dato che occorrono grandi spazi di tempo per creare le circostanze fortuite atte a produrre cervelli così delicatamente organizzati! Ma, come i greci si scatenarono sul sangue greco, così fanno oggi gli europei sul sangue europeo; e ad essere sacrificati son quasi sempre gli uomini di elevata educazione, quelli che garantiscono una discendenza buona e numerosa: infatti in battaglia si trovano in prima linea, come comandanti, e a causa della loro maggiore ambizione si espongono al pericolo più degli altri. — Oggi che esistono ben altri e maggiori compiti che non patria e honor, il rozzo patriottismo dei romani è qualcosa di disonesto oppure un segno di arretratezza.


 
443.
Speranza come presunzione. — Il nostro ordinamento sociale si dissolverà lentamente, come hanno fatto tutti gli ordinamenti che l'hanno preceduto non appena sugli uomini rifulsero con ardore rinnovato i soli di nuove idee. Desiderare questa dissoluzione si può solo se si spera: e sperare si può ragionevolmente solo qualora si attribuisca a sé e ai propri simili una forza, nel cuore e nella mente, maggiore di quella posseduta dai rappresentanti degli ordinamenti attuali. Di solito questa speranza sarà dunque un atto di presunzione, una sopravvalutazione.


 
444.
Guerra. — A sfavore della guerra si può dire che rende stolto il vincitore, e malvagio il vinto. A suo favore, che con questi due effetti essa rende barbari, e perciò più naturali; è il sonno e l'inverno della cultura, e l'uomo ne esce più forte per il bene e per il male.


 
445.
A servizio del principe. — Per poter agire libero da ogni riguardo, uno statista farà bene a svolgere la sua opera non per sé, ma per un principe. L'occhio dello spettatore resterà abbagliato dallo splendore di questo totale disinteresse, e non vedrà le insidie e le durezze che l'opera dello statista comporterà.


 
446.
Una questione di potenza, non di diritto. — Per gli uomini che in ogni cosa guardano alla superiore utilità, non esiste nel socialismo, nel caso esso sia realmente la rivolta delle vittime di un'oppressione millenaria contro i loro oppressori, alcun problema di diritto (con la ridicola, molle domanda: «Sino a che punto si deve cedere alle sue pretese?»), bensì unicamente un problema di potenza («Sino a che punto si possono utilizzare le sue pretese?»); dunque come per una forza naturale, ad esempio il vapore, il quale o viene costretto dall'uomo, come dio delle macchine, a servirlo oppure, in caso di difetti alla macchina, ossia di errori nel calcolo umano per costruirla, manda in pezzi macchina e uomo. Per risolvere la questione del potere, bisogna sapere quale sia la forza del socialismo, e sotto quale forma esso possa venire usato come una potente leva entro il gioco attuale delle forze politiche; in determinate circostanze bisognerebbe persino far di tutto per rafforzarlo. — Di fronte a ogni grande forza — sia pure la più pericolosa — l'umanità deve pensare a farne uno strumento dei suoi scopi. — Il socialismo si conquista un diritto solo quando tra le due potenze, i rappresentanti del vecchio e quelli del nuovo, sembra delinearsi un conflitto, e quando un calcolo avveduto sulla maggior conservazione e compatibilità possibili fa nascere dall'una parte e dall'altra il desiderio di un contratto. Senza contratto non v'è diritto. Sinora, però, nel campo di cui abbiamo parlato non ci sono né guerre né contratti, e dunque nemmeno diritti, nemmeno un «dovere».


 
447.
Utilizzare la minima disonestà. — La forza della stampa consiste nel fatto che ogni individuo che vi lavora sente pochissimi obblighi e costrizioni. Di solito esprime la sua opinione, ma talvolta anche non la esprime, per giovare al suo partito o alla politica del suo paese o infine a se stesso. Questi piccoli delitti di disonestà, oppure forse solo di disonesto riserbo, non son gravi da sopportare per il singolo, ma hanno conseguenze straordinarie, essendo commessi da molti contemporaneamente. Ciascuno di costoro si dice: «Per servigi così trascurabili io vivo meglio, posso trovare di che campare; se manco di questi piccoli riguardi, mi rendo impossibile». Poiché, da un punto di vista morale, è pressoché indifferente scrivere una riga in più o in meno, per di più forse anche senza firma, chi possiede denaro e influenza può fare di qualunque opinione l'opinione pubblica. Chi sa che quasi tutti gli uomini sono deboli nelle piccolezze e vuol servirsi di loro ai propri fini, è sempre un uomo pericoloso.


 
448.
Protestare in tono troppo aito. — Per il fatto che una situazione di emergenza (per esempio le malversazioni di un'amministrazione, la corruttibilità e i favoritismi di corporazioni intellettuali e politiche) vien dipinta a tinte molto forti, questa rappresentazione perde il suo effetto su persone capaci di riflettere, ma agisce tanto più fortemente su quelle che non riflettono (e che sarebbero rimaste indifferenti a un'esposizione precisa e misurata). Poiché tuttavia queste ultime, significativamente, costituiscono una notevole maggioranza e possiedono volontà più forte e più irruente gusto dell'azione, quella esagerazione dà luogo a inchieste, punizioni, promesse e riorganizzazioni. — Per questo è utile esagerare rappresentando situazioni di emergenza.


 
449.
Apparenti stregoni della politica. — Come la gente del popolo suppone segretamente che chi s'intende del tempo e lo prevede con un giorno d'anticipo faccia il tempo, così persino gente istruita e dotta, con uno sperpero di fede superstiziosa, crede opera dei grandi statisti tutti gli importanti mutamenti e congiunture che si sono verificati durante il loro governo, solo che sia dimostrato che essi ne sapevan qualcosa prima degli altri e che in base a quello avevano fatto i loro calcoli: anch'essi, dunque, vengono presi per stregoni — e questa credenza non è il loro meno importante strumento di potere.


 
450.
Nuovo e vecchio concetto di governo. — Distinguere tra governo e popolo come tra due separate sfere di potenza — l'una più forte ed elevata, l'altra più debole e umile — le quali abbiano trattato e siano giunte a un accordo, è una parte di sentimento politico ricevuta per eredità, che nella maggior parte degli Stati corrisponde tuttora esattamente alla definizione storica dei rapporti di forza. Quando per esempio Bismarck definisce la forma costituzionale come un compromesso tra governo e popolo, parla in base a un principio che ha nella storia la sua ragione (e proprio perciò anche quel pizzico di irragionevolezza senza il quale niente di umano può esistere). Ora bisogna invece imparare — in base a un principio che scaturisce unica-mente dalla testa e che deve ancora fare storia — che il governo non è che un organo del popolo e non un provvido, venerabile «sopra» in rapporto a un «sotto» abituato all'umiltà. Prima di accettare questa definizione del concetto di governo, sino ad ora astorica e arbitraria, anche se più logica, se ne considerino le conseguenze: infatti il rapporto tra popolo e governo è il rapporto più forte ed esemplare sul cui modello involontariamente si configurano quelli tra insegnante e allievo, padrone di casa e servitù, padre e famiglia, generale e soldato, maestro e apprendista. Oggi, sotto l'influsso della forma più diffusa di governo, quella costituzionale, tutti questi rapporti vanno lievemente modificandosi: diventano compromessi. Ma quanto dovranno trasformarsi e spostarsi, cambiare nome e natura, una volta che quel nuovissimo principio si sarà impadronito di tutti i cervelli! — per la qual cosa dovrebbe occorrere ancora un secolo. In questo campo nulla è più auspicabile della prudenza e di un lento sviluppo.


 
451.
Giustizia come richiamo dipartito. — Nobili rappresentanti (anche se non proprio molto sagaci) della classe dominante possono ben ripromettersi: vogliamo trattare gli uomini da uguali, riconoscere loro uguali diritti. In questo senso una mentalità socialista, fondata sulla giustizia, è possibile; ma, come s'è detto, solo all'interno della classe dominante, che in questo caso esercita la giustizia a prezzo di sacrifici e di rinunce. Di contro, esigere l'uguaglianza dei diritti, come fanno i socialisti della casta assoggettata, non è affatto qualcosa che scaturisce dalla giustizia, bensì dall'avidità. — Se a una belva si avvicinano pezzi di carne sanguinolenta per poi allontanarglieli di nuovo, sino a che quella alla fine ruggisce, pensate che quel ruggito voglia dire giustizia?


 
452.
Proprietà e giustizia. — Quando i socialisti dimostrano che tra gli uomini d'oggi la distribuzione della proprietà è la conseguenza di infinite ingiustizie e violenze e in summa rifiutano ogni vincolo verso uno stato di cose dai fondamenti così iniqui, essi vedono solo un lato della questione. Tutto il passato della cultura antica si basa sulla violenza, sulla schiavitù, sull'inganno, sull'errore; ma non possiamo decretare la scomparsa di noi stessi, eredi di tutte quelle situazioni, anzi concrezioni di tutto quel passato, né dobbiamo desiderare di isolarne una parte. La disposizione all'ingiustizia si annida anche nell'animo dei non possidenti: non sono migliori dei possidenti, né hanno alcun privilegio morale, perché una volta i loro antenati sono stati possidenti. Non occorrono nuove violente suddivisioni, ma graduali trasformazioni del modo di pensare: in tutti deve farsi più grande la giustizia e più debole l'istinto di sopraffazione.


 
453.
Il pilota delle passioni. — Lo statista produce pubbliche passioni per trar profitto dalle passioni contrarie che in tal modo si ridestano. Per fare un esempio: uno statista tedesco sa bene che la chiesa cattolica non vorrà mai avere gli stessi piani della Russia e che preferirebbe allearsi con i Turchi piuttosto che con quella; e sa pure che un'alleanza tra Francia e Russia sarebbe pericolosa per la Germania. Ora, se riuscirà a fare della Francia il luogo e il centro della chiesa cattolica, avrà stornato per lungo tempo questo pericolo. Avrà perciò interesse a mostrare odio per i cattolici e a trasformare, con ostilità di ogni sorta, gli assertori dell'autorità papale in un'appassionata forza politica, che sarà avversa alla politica tedesca e dovrà naturalmente fondersi con la Francia, avversaria della Germania; il suo scopo sarà la cattolicizzazione della Francia, tanto necessariamente quanto Mirabeau vedeva nella decattolicizzazione la salvezza della sua patria. Uno Stato vuole dunque l'oscuramento di milioni di cervelli di un altro Stato, per trarre da questo oscuramento il proprio vantaggio. È la stessa concezione per la quale si appoggia la forma repubblicana di governo nello Stato vicino — le désordre organisé, come dice Mérimée — in quanto si suppone che essa renda il popolo più debole, più diviso e inadatto alla guerra.


 
454.
I pericolosi tra gli spiriti della sovversione. — Si dividano coloro che mirano a un sovvertimento della società in quelli che vogliono ottenere qualcosa per sé e in quelli che vogliono qualcosa per i loro figli e nipoti. Questi ultimi sono i più pericolosi; infatti hanno la fede e la buona coscienza del disinteresse. I primi li si può tacitare: la società dominante è abbastanza ricca e accorta per farlo. Il pericolo insorge quando i fini diventano impersonali; i rivoluzionari mossi da un interesse impersonale possono considerare tutti i difensori dell'ordine vigente come mossi da interesse personale e sentirsi quindi superiori a loro.


 
455.
Valore politico della paternità. — Se l'uomo non ha figli, non possiede un pieno diritto di dir la sua sui bisogni di un singolo Stato. Nei figli bisogna aver rischiato, con gli altri, quanto si ha di più caro: solo questo lega strettamente allo Stato; bisogna tener presente la felicità dei propri discendenti, e quindi innanzitutto avere discendenti, per prender parte giusta e naturale a tutte le istituzioni e alla loro trasformazione. Lo sviluppo di una morale superiore dipende dal fatto che uno abbia figli; ciò lo rende meno egoista, o meglio: allarga il suo egoismo nel senso della durata e gli fa perseguire con serietà scopi che vanno oltre la durata della sua vita individuale.


 
456.
Orgoglio per gli antenati. — Si può essere orgogliosi a buon diritto di una serie ininterrotta di antenati buoni, giù giù sino al padre — ma non della serie; questa infatti la possiede chiunque. La vera nobiltà di nascita è discendere da antenati buoni; una sola interruzione di questa catena, cioè un antenato cattivo, vanifica questa nobiltà. A chi parla della propria nobiltà bisogna chiedere: «Non hai, tra i tuoi antenati, nessun uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio, crudele?». Se, con coscienza e cognizione di causa, quello può rispondere di no, si aspiri alla sua amicizia.


 
457.
Schiavi e operai. — Che noi attribuiamo maggior valore al soddisfacimento della vanità che a ogni altro bene (sicurezza, impiego, piaceri di ogni sorta) è dimostrato in un grado ridicolo dal fatto che ognuno (a prescindere da ragioni politiche) desidera l'abolizione della schiavitù e aborre oltre ogni limite dal ridurre gli uomini in questa condizione: mentre ognuno deve dirsi che gli schiavi vivono sotto ogni rapporto più sicuri e felici dell'operaio moderno, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del «lavoratore». Si protesta in nome della «dignità umana»: ma è, per dirla schiettamente, quella cara vanità che considera come la sorte più dura il non essere equiparati, l'esser considerati pubblicamente inferiori. — Il cinico non la pensa così, poiché disprezza gli onori: così Diogene fu, per un certo tempo, schiavo e precettore.


 
458.
Spiriti direttivi e loro strumenti. — Vediamo molti statisti, e in genere tutti coloro che per l'attuazione dei loro disegni sono costretti a servirsi di molti uomini, procedere ora in un modo ora nell'altro: o scelgono con grande finezza e attenzione gli uomini adatti e lasciano poi loro una libertà relativamente ampia, sapendo che la natura di questi prescelti li porterà proprio là dove essi vogliono; oppure scelgono male, ossia prendono quello che capita loro sottomano, ma da ogni argilla plasmano qualcosa di utile ai loro fini. Questo secondo tipo è più violento, e desidera anche strumenti più docili; di solito la sua conoscenza degli uomini è molto scarsa, e il suo disprezzo per essi maggiore che negli spiriti menzionati prima, ma in genere la macchina che costruiscono lavora meglio di quella che esce dall'officina degli altri.


 
459.
Necessità del diritto arbitrario. — I giuristi disputano se in un popolo debba vincere un diritto più sistematicamente pensato o un diritto di più facile comprensione. Il primo, che ha nel diritto romano il suo modello più alto, al profano appare incomprensibile, e quindi non come espressione del suo sentimento del diritto. I diritti nazionali, ad esempio quelli germanici, erano rozzi, superstiziosi, illogici, in parte sciocchi, ma corrispondevano a ben precisi costumi e sentimenti nazionali ereditari. — Ma laddove il diritto, come presso di noi, non è più tradizione, esso può essere solo imposto, solo costrizione; nessuno di noi possiede più un senso ereditario del diritto, per cui deve accontentarsi di diritti arbitrari, che sono l'espressione della necessità che esista un diritto. Il diritto più logico è comunque quello più accettabile, perché più imparziale: anche ammesso che, in ogni caso, l'unità di misura minima nel rapporto tra delitto e pena sia stabilita arbitrariamente.


 
460.
Il grand'uomo della massa. — La ricetta per quello che la massa chiama un grand'uomo è presto data. In ogni circostanza le si procuri qualcosa che le torni molto gradito, o le si metta prima in testa che questo o quello sarebbe molto gradevole, e poi glielo si dia. Ma non subito, a nessun costo: bensì lo si ottenga, o si faccia finta di ottenerlo, a gran fatica. La massa deve aver l'impressione che ci sia una volontà possente, anzi indomabile; o almeno deve sembrare che ci sia. Tutti ammirano una volontà forte, perché nessuno la possiede e ognuno si dice che, se la possedesse, per lui e per il suo egoismo non esisterebbero più limiti. Se poi si vede che una volontà tanto forte, invece di prestar orecchio alla voce della sua cupidigia, procura qualcosa di molto gradito alla massa, la si ammira molto di più e ci si ripromette da essa molto bene. Per il resto, egli possiederà tutte le caratteristiche della massa: quanto meno essa si vergognerà innanzi a lui, tanto più egli sarà popolare. Dunque: sia violento, invidioso, predatore, intrigante, adulatore, strisciante, tronfio, tutto sempre a seconda dei casi.


 
461.
Principe e dio. — Per molti aspetti gli uomini si comportano con i loro prìncipi in modo simile a come si comportano con il loro dio; del resto anche il principe fu per molti aspetti il rappresentante del dio, o almeno il suo gran sacerdote. Questa quasi inquietante disposizione all'adorazione, al timore e alla soggezione è divenuta ed è molto più debole, ma talvolta si riaccende e si attacca a persone potenti in genere. Il culto del genio è un'eco di questa venerazione dei prìncipi-dèi. Ovunque ci si adoperi per elevare singoli uomini a un livello sovrumano, sorge anche la tendenza a immaginarsi interi strati della popolazione come più rozzi e bassi di quanto in realtà non siano.


 
462.
La mia utopia. — In un ordinamento sociale migliore, il lavoro pesante e le necessità della vita dovranno essere affidati a chi ne soffre di meno, dunque al più ottuso, procedendo gradualmente fino a quello che possiede più alta sensibilità per le specie più elevate e sublimate di sofferenza, e perciò continua a soffrire persino quando la vita gli è alleviata al massimo.


 
463.
Illusione nella dottrina del sovvertimento. — Ci sono esaltati politici e sociali che incitano con focosa eloquenza a sovvertire tutti gli ordinamenti, nella fede che allora si innalzerà subito, per così dire da solo, il più superbo tempio di bella umanità. In questo pericoloso sogno risuona ancora la superstizione di Rousseau, che crede a una miracolosa, originaria ma per così dire sepolta bontà dell'umana natura, e fa ricadere ogni colpa di quel seppellimento sulle istituzioni della civiltà nel campo della società, dello Stato, dell'educazione. Purtroppo si sa, per esperienza storica, che ogni sovvertimento del genere porta a una nuova resurrezione delle energie più selvagge, degli orrori e degli eccessi, da gran tempo sepolti, di epoche remote: e che dunque un sovvertimento può essere sì una sorgente di forza in un'umanità infiacchita, ma mai più un ordinatore, un architetto, un artista, un perfezionatore della natura umana. — Non la natura moderata di Voltaire, incline a sistemare in un ordine, a purificare, a ricostruire, ma le appassionate follie e mezze verità di Rousseau hanno ridestato lo spirito ottimistico della rivoluzione, contro il quale io grido: «Ecrasez l'infämel». A lungo esso ha tenuto lontano lo spirito dell'Illuminismo e dello sviluppo progressivo: vediamo — ciascuno per conto proprio — se è possibile farlo tornare!


 
464.
Misura. — La piena risolutezza nel pensiero e nell'indagine, dunque il libero pensiero divenuto qualità del carattere, rende moderati nell'azione: infatti indebolisce la cupidiglia, convoglia a sé molta energia per volgerla a favore di scopi spirituali e mostra la parziale utilità o l'inutilità e pericolosità di tutti i cambiamenti improvvisi.


 
465.
Resurrezione dello spirito. — Al capezzale della politica, di solito un popolo torna giovane e ritrova il suo spirito, che aveva progressivamente perso nel cercare e nell'affermare la propria potenza. La cultura deve le sue conquiste più alte alle epoche politicamente deboli.


 
466.
Opinioni nuove nella casa vecchia. — Al rovesciamento delle opinioni non segue immediatamente quello delle istituzioni; le nuove opinioni restano a lungo ad abitare nella casa, fattasi deserta e inospitale, delle loro precorritrici, e la conservano per scarsità di alloggi.


 
467.
Scuola. — Nei grandi Stati la scuola sarà tutt'al più mediocre, per lo stesso motivo per cui, nelle grandi cucine, nel migliore dei casi si cucina mediocremente.


 
468.
Corruzione innocente. — In tutte le istituzioni nelle quali non spiri l'aria pungente della pubblica critica, cresce come un fungo una innocente corruzione (per esempio nelle corporazioni e nei senati dei dotti).


 
469.
I dotti come politici. — Ai dotti che diventano politici di solito viene assegnato il comico ruolo di essere la buona coscienza di una politica.


 
470.
Il lupo nascosto dietro la pecora. — Quasi ogni politico si trova ad avere, in determinate circostanze, tanto bisogno di un uomo onesto, da irrompere come un lupo affamato nell'ovile: non, però, per divorare il montone rubato, ma per nascondersi dietro il suo dorso lanoso.


 
471.
Periodi felici. — Un'epoca di felicità non è possibile in quanto gli uomini vogliono desiderarla, ma non averla e ciascuno, quando per lui giungono i giorni buoni, impara addirittura a invocare inquietudine e miseria. Il destino degli uomini è predisposto per istanti felici — ogni vita ne ha — ma non per periodi felici. Tuttavia, nella fantasia umana essi continueranno a esistere come l'«al di là dei monti», come retaggio degli avi; infatti l'idea di un'epoca felice la si è ricavata, da tempi remoti, da quello stato in cui l'uomo, dopo l'immane fatica della caccia e della guerra, si abbandona al riposo, distende le membra e sente frusciare intorno a sé le ali del sonno. L'uomo sbaglia se immagina, secondo quell'antica abitudine, di poter anche partecipare, dopo interi periodi di miseria e fatica, a uno stato di felicità di corrispondente intensità e durata.


 
472.
Religione e governo. — Sino a che lo Stato o, più chiaramente, il governo si saprà delegato a tutore di una moltitudine incapace, e nei suoi riguardi soppeserà la questione se mantenere o eliminare la religione, esso con ogni probabilità si deciderà sempre per il mantenimento della religione. Infatti la religione placa l'animo dell'individuo nei tempi di perdita, di privazione, di paura, di sfiducia, dunque là dove il governo si sente incapace di far direttamente qualcosa per lenire le sofferenze spirituali del privato cittadino: ma persino in occasione di calamità generali, inevitabili e per il momento ineluttabili (carestie, crisi finanziarie, guerre), la religione assicura il contegno tranquillo, di attesa e di fiducia, della massa. Dove la persona intelligente vedrà le necessarie o casuali carenze del governo statale o le pericolose conseguenze di interessi dinastici, e si sentirà spinta a ribellarsi, il non intelligente crederà di scorgere il dito di Dio e si sottometterà alle disposizioni che vengono dall'alto (nel qual concetto si fondono di norma i sistemi umani e divini di governo); in tal modo viene tutelata la pace civile all'interno e la continuità dello sviluppo. La potenza, che sta nell'unità del sentimento popolare e in opinioni e fini uguali per tutti, viene salvaguardata e sancita dalla religione, tranne i rari casi in cui un clero non può accordarsi sul prezzo con il potere statale ed entra in lotta con esso. Di solito lo Stato saprà trarre i preti dalla sua parte, perché ha bisogno dell'educazione privatissima e nascosta da quelli impartita alle anime e sa apprezzare quei servitori che apparentemente ed esteriormente rappresentano interessi affatto diversi. Senza l'apporto dei preti, neppure oggi una potenza può diventare «legittima», e Napoleone lo comprese. — Così, governo assoluto e tutorio e scrupoloso mantenimento della religione vanno necessariamente insieme. Peraltro qui bisogna presupporre che le persone e le classi governanti siano informate dell'utilità che viene loro dalla religione, e si sentano superiori ad essa, nella misura in cui la strumentalizzano: perciò di qui trae origine il libero pensiero. — Ma che cosa accadrà quando comincerà a penetrare quella concezione affatto diversa dell'idea di governo, quale viene insegnata negli stati democratici? quando nel governo altro non si vedrà che lo strumento della volontà popolare, nessun sopra in confronto a un sotto, ma semplicemente una funzione dell'unico sovrano, il popolo? In questo caso anche il governo non potrà che assumere, nei confronti della religione, lo stesso atteggiamento che ha il popolo; ogni propagazione di spirito illuminato dovrà trovare eco sino nei suoi rappresentanti, e l'utilizzazione e lo sfruttamento degli impulsi e conforti religiosi a fini politici non saranno tanto facili (tranne nel caso in cui potenti capipartito non esercitino temporaneamente un influsso simile a quello del dispotismo illuminato). Ma se lo Stato non potrà più trarre alcun utile dalla religione, o se il popolo in materia di religione nutrirà opinioni troppo molteplici per consentire al governo un'azione unitaria e omogenea nei provvedimenti religiosi, si dovrà inevitabilmente ricorrere alla soluzione di trattare la religione come un affare privato e di rimetterla alla coscienza e all'abitudine di ciascuno. La prima conseguenza sarà che il sentimento religioso apparirà rafforzato, in quanto i suoi moti nascosti e repressi, ai quali lo Stato volontariamente o involontariamente non aveva concesso respiro, ora proromperanno e si dilateranno all'estremo; più tardi si vedrà la religione invasa dalle sètte e si vedrà pure che, quando se ne fece una cosa privata, furon seminati denti di drago. Lo spettacolo della lotta, l'ostile messa a nudo di tutte le debolezze delle confessioni religiose non lasceranno infine altra via d'uscita, se non che ogni persona migliore e più dotata faccia dell'irreligiosità la sua causa privata: e questo atteggiamento si impadronirà anche dell'animo dei governanti e, quasi contro la loro volontà, darà ai loro provvedimenti un carattere antireligioso. Non appena ciò accadrà, l'atteggiamento degli uomini ancor mossi da religiosità, i quali prima adoravano lo Stato come qualcosa di semisacro o di interamente sacro, si farà decisamente antistatale; essi spieranno i provvedimenti del governo, cercheranno di impedirli, intralciarli, disturbarli il più possibile, e con l'ardore della loro opposizione spin-geranno i partiti avversi, quelli irreligiosi, a un entusiasmo pressoché fanatico per lo Stato; al che contribuirà segretamente il fatto che in questi circoli gli animi, una volta separatisi dalla religione, avvertiranno un vuoto e cercheranno nella dedizione allo Stato un surrogato, una specie di riempitivo. Dopo queste lotte di transizione, che potranno durare a lungo, si deciderà finalmente se i partiti religiosi saranno abbastanza forti da ritornare alla vecchia situazione e girare all'indietro la ruota: nel qual caso lo Stato cadrà in mano a un dispotismo illuminato (forse meno illuminato e più timoroso di prima) — oppure se si affermeranno i partiti non religiosi e nel corso di alcune generazioni, per mezzo della scuola e dell'educazione, scalzeranno e alla fine renderanno impossibile la propagazione dei loro avversari. Allora però anche in loro si spegnerà quell'entusiasmo per lo Stato: diverrà sempre più manifesto che con quell'adorazione religiosa per la quale lo Stato era un mistero, una fondazione sovrumana, sarà stato scosso anche il rapporto di venerazione e pietà verso di esso. Da allora in poi gli individui ne vedranno solo la parte che potrà riuscir loro utile o dannosa, e premeranno con tutti i mezzi per acquistare influsso su di esso. Ma presto questa concorrenza diventerà troppo grande, gli uomini e i partiti cambieranno troppo rapidamente, e troppo ferocemente si spingeranno l'un l'altro giù dal monte, non appena ne avranno raggiunta la sommità. A tutte le misure prese dal governo mancherà la garanzia della durata: e si rifuggirà da quelle imprese che, per dar frutti maturi, debbono crescere lentamente per decenni e per secoli. Nessuno sentirà più altro obbligo verso una legge, se non quello di doversi momentaneamente piegare alla forza che l'ha introdotta: ma subito ci si adopererà per minarla con una nuova forza, con il formare una nuova maggioranza. Alla fine — possiamo affermarlo con certezza — la sfiducia verso tutto quanto attenga al governo, la convinzione dell'inanità e del logorio di queste lotte meschine spingeranno gli uomini a una decisione affatto nuova: di abolire l'idea di Stato, eliminare la contrapposizione tra «pubblico e privato». Le società private assorbiranno via via gli affari dello Stato; persino il residuo più tenace che resterà della vecchia attività del governare (per esempio quella volta a garantire i privati dai privati) finirà per esser svolta da imprenditori privati. Il disprezzo, la decadenza e la morte dello Stato, la liberazione della persona privata (mi guardo bene dal dire: dell'individuo) sono la conseguenza del concetto di Stato democratico; questa è la sua missione. Se esso avrà adempiuto al suo compito — il quale, come tutto ciò che è umano, ha in sé molta ragione e molta sragione — se saranno state superate tutte le ricadute nella vecchia malattia, sarà stata aperta una nuova pagina nel libro di favole dell'umanità, nella quale si leggeranno ogni sorta di storie singolari e forse anche qualcosa di buono. — Per riassumere quanto s'è detto: l'interesse di un governo-tutore e l'interesse della religione procedono insieme, sicché, se quest'ultima comincia a venir meno, ne vien scosso anche il fondamento dello Stato. La fede in un ordinamento divino delle cose politiche, in un mistero che circonda l'esistenza dello Stato, è di origine religiosa: se la religione scompare, lo Stato perde inevitabilmente il suo antico velo isiaco e non suscita più alcun timore reverenziale. Osservata da vicino, la sovranità popolare serve a scacciare dal campo di questi sentimenti sin l'ultimo tocco di incanto e di superstizione; la democrazia moderna è la forma storica della decadenza dello Stato. — La prospettiva aperta da questa sicura decadenza non sarà del tutto infelice: di tutte le doti umane, le meglio sviluppate sono l'accortezza e l'egoismo; se lo Stato non soddisferà più le esigenze di queste forze, non subentrerà il caos, ma sullo Stato prevarrà un'invenzione più adeguata. Quante forze organizzatrici l'umanità non ha già visto morire: per esempio quella della comunità di stirpe, la quale per millenni fu molto più potente della forza della famiglia, e anzi già esisteva e ordinava prima che quella nascesse. Noi stessi vediamo farsi sempre più pallido e impotente l'importante concetto di diritto e di forza della famiglia, che una volta predominava ovunque giungesse la romanità. Così, una generazione futura vedrà anche lo Stato perdere d'importanza in singole regioni della terra — un'idea alla quale molti uomini del presente non possono pensare senza paura e orrore. Lavorare alla diffusione e alla realizzazione di quest'idea è certo un'altra cosa: si deve nutrire un'opinione assai presuntuosa della propria ragione e capire la storia solo a metà, per porre sin d'ora mano all'aratro — mentre nessuno ancora può mostrare i semi che dovranno poi essere sparsi sulla terra sconvolta. Confidiamo dunque «nell'accortezza e nell'egoismo degli uomini», perché lo Stato continui ancora a esistere a lungo, e perché vengano respinti i tentativi di distruzione da parte di gente superficiale, troppo zelante e precipitosa!


 
473.
Il socialismo e i suoi mezzi. — Il socialismo è il fantastico fratello minore dell'ormai superato dispotismo, di cui vuol diventare erede; le sue aspirazioni son dunque reazionarie nel senso più profondo. Esso desidera infatti una pienezza di potere statale quale solo il dispotismo ha posseduto, anzi supera tutto il passato nella sua aspirazione all'annientamento formale dell'individuo: il quale gli si presenta come un ingiustificato lusso di natura, che dev'essere corretto e trasformato in un adeguato organo della comunità. A causa della sua parentela, esso compare sempre in prossimità di un eccessivo dispiegamento di potere, come l'antico, tipico socialista Platone alla corte del tiranno siciliano; desidera (e a volte favorisce) il cesareo Stato forte di questo secolo, in quanto, come abbiamo detto, ne vorrebbe diventare l'erede. Ma neppure questa eredità basterebbe ai suoi scopi: esso ha bisogno della più umile e mai vista sottomissione di tutti i cittadini di fronte allo Stato assoluto; e, poiché non può più contare nemmeno sulla vecchia pietà religiosa verso lo Stato, ma deve piuttosto lavorare incessantemente, senza volerlo, all'eliminazione di essa — in quanto cioè lavora all'eliminazione di tutti gli Stati esistenti — può sperare di esistere solo qua e là, per breve tempo, per mezzo del più violento terrorismo. Perciò si prepara in segreto a un dominio del terrore e alle masse semiignoranti ficca in testa come un chiodo la parola «giustizia», per privarle totalmente dell'intelletto (dopo che questo ha già abbastanza sofferto a causa della mezza cultura) e procurar loro la buona coscienza per il gioco cattivo che dovranno giocare. — Il socialismo può servire a insegnare molto brutalmente ed efficacemente il pericolo insito in ogni accumulazione di potere statale, e in questo senso a ispirare sfiducia nei confronti dello Stato stesso. Quando la sua voce roca irromperà nel grido di battaglia: «Quanto più Stato possibile!», questo grido in un primo momento sarà più rumoroso che mai; ma presto proromperà, con forza tanto maggiore, il grido opposto: «Quanto meno Stato possibile!».


 
474.
Lo Stato teme lo sviluppo dello spirito. — Come ogni forza politica organizzatrice, la polis greca era esclusiva e diffidente verso ogni sviluppo intellettuale, e il suo possente impulso fondamentalmente si rivelò quasi unicamente volto a ostacolarla e paralizzarla. Nell'educazione non voleva ammettere né storia né divenire; l'educazione stabilita per legge dallo Stato doveva vincolare e mantenere ogni generazione a uno stesso livello. Più tardi neanche Platone desiderò diversamente per il suo Stato ideale. L'educazione si sviluppò dunque nonostante la polis: certo quest'ultima vi contribuì indirettamente e senza volerlo, stimolando al massimo l'ambizione del singolo, sicché questi, una volta intrapresa la strada della formazione intellettuale, la seguiva sino in fondo. Contro ciò non bisogna appellarsi al panegirico di Pericle: è solo una grande ottimistica chimera sulla presunta necessaria connessione tra polis e cultura ateniese; immediatamente prima che su Atene calasse la notte (la peste e la rottura della tradizione), Tucidide la fece risplendere ancora una volta, come un radioso tramonto nel quale dimenticare la brutta giornata che l'aveva preceduto.


 
475.
L'uomo europeo e la distruzione delle nazioni. — Il commercio e l'industria, lo scambio di libri e di corrispondenza, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutare di luogo e di paese, l'attuale vita nomade di tutti coloro che non possiedono terra — queste circostanze comportano necessariamente un indebolimento, e infine la distruzione delle nazioni, almeno di quelle europee: sicché da tutte queste, in seguito ai continui incroci, dovrà nascere una razza mista, quella dell'uomo europeo. Oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, opera in senso contrario a questa meta la separazione delle nazioni dovuta alle ostilità nazionali, ma il processo di commistione continua lentamente a svolgersi, nonostante le temporanee controcorrenti: del resto questo nazionalismo artificiale è tanto pericoloso quanto lo è stato il cattolicesimo artificiale, essendo, per sua natura, un violento stato d'emergenza e d'assedio imposto da pochi su molti, il quale per riscuotere credito ha bisogno di astuzia, di menzogna e di violenza. Non l'interesse dei molti (dei popoli), come si dice, ma soprattutto l'interesse di determinate dinastie regnanti, e poi di determinate classi commerciali e sociali spinge a questo nazionalismo; una volta compreso ciò, bisogna solo dichiararsi senza timore buoni europei, e operare con i fatti alla fusione delle nazioni: e in questo possono esser d'aiuto i tedeschi, con la loro vecchia e dimostrata qualità di interpreti e mediatori di popoli. — Tra parentesi: l'intero problema degli ebrei si presenta solo all'interno di Stati nazionali, in quanto qui il loro dinamismo e la loro superiore intelligenza, il capitale di spirito e volontà accumulato di generazione in generazione a una lunga scuola di sofferenze, son destinati ovunque a prevalere in misura tale da suscitare invidia e odio, sicché oggi in quasi tutte le nazioni — quanto più esse tornano ad assumere atteggiamenti nazionalistici — va diffondendosi il malcostume letterario di portare al macello gli ebrei come capri espiatori di ogni possibile male pubblico e interno. Non appena non sia più questione di conservare le nazioni, ma di creare una razza mista europea il più possibile robusta, l'ebreo sarà un ingrediente utile e desiderabile quanto ogni altro residuo nazionale. Qualità sgradevoli, e anche pericolose, le possiede ogni nazione, ogni individuo; è crudeltà pretendere che l'ebreo faccia eccezione. In lui quelle qualità possono essere pericolose e ripugnanti in misura particolare; e il giovane finanziere ebreo è forse la più repellente invenzione della razza umana in genere. Tuttavia vorrei sapere quanto, in un calcolo complessivo, non si debba perdonare a un popolo che, non senza colpa di tutti noi, ha avuto la storia più dolorosa di tutti, e al quale dobbiamo l'uomo più nobile (Cristo), il saggio più puro (Spinoza), il libro più possente e la legge morale più efficace del mondo. Inoltre: nei tempi più bui del medioevo, quando le nubi asiatiche si distesero pesanti sull'Europa, furono liberi pensatori, dotti e medici ebrei a tener stretto il vessillo dei lumi e dell'indipendenza spirituale sotto la più dura costrizione personale, e a difendere l'Europa dall'Asia; e si deve ai loro sforzi se alla fine potè riportare nuovamente vittoria una spiega-zione del mondo più naturale, più conforme alla ragione e comunque non mitica, e se rimase intatto quell'anello di cultura che oggi ci unisce all'antichità greco-romana. Se il cristianesimo ha fatto di tutto per orientalizzare l'Occidente, l'ebraismo ha contribuito in maniera essenziale a occidentalizzarlo sempre di nuovo; il che, in un certo senso, equivale a fare del compito e della storia d'Europa una continuazione di quella greca.


 
476.
Apparente superiorità del Medioevo. — Il Medioevo mostra nella chiesa un istituto con un fine universale, comprendente in sé tutta l'umanità e inoltre tale da servire quelli che, presumibilmente, sono gli interessi più alti di essa; in confronto i fini degli Stati e delle nazioni che la storia moderna ci indica fanno una misera impressione; appaiono meschini, bassi, materiali, limitati nello spazio. Ma questa diversa impressione sulla fantasia non deve certo determinare il nostro giudizio; poiché quell'istituto universale rispondeva a bisogni fittizi, basati sulla finzione, che esso doveva creare dove ancora non esistevano (bisogno di redenzione); i nuovi istituti soccorrono invece a necessità reali, e verrà un tempo in cui sorgeranno istituti che serviranno alle necessità vere, comuni a tutti gli uomini, e getteranno nell'ombra e nella dimenticanza quel fantastico prototipo, la chiesa cattolica.


 
477.
Indispensabile la guerra. — È vana esaltazione e vezzo da anime belle aspettarsi dall'umanità ancora molto (o addirittura: solo allora molto) quando essa avrà disimparato a fare la guerra. Per ora non conosciamo altro mezzo per comunicare a popoli che si stanno infiacchendo, con la forza e la sicurezza con cui lo fa ogni grande guerra, quella rude energia del campo militare, quell'odio profondo e impersonale, quel sangue freddo omicida accompagnato da buona coscienza, quel generale ardore nella distruzione organizzata del nemico, quella fiera indifferenza per grosse perdite, per l'esistenza propria e degli amici, quella scossa sorda e sconvolgente dell'anima: dai torrenti e dai fiumi che di qui prorompono, trascinando con sé pietre e immondizie e mandando in rovina campi di delicate culture, saranno poi fatti girare con nuova forza, in circostanze favorevoli, gli ingranaggi delle officine dello spirito. La cultura non può fare assolutamente a meno delle passioni, dei vizi e delle malvagità. — Quando i romani, all'epoca dell'impero, furono stanchi di guerre, cercarono di acquistare nuova forza con le cacce, le lotte dei gladiatori e le persecuzioni dei cristiani. Gli inglesi moderni, che sembrano in complesso avere anch'essi rinunciato alla guerra, ricorrono a un altro mezzo per recuperare le forze che vanno scomparendo: a quelle pericolose esplorazioni, alle traversate, alle scalate intraprese, si dice, a scopi scientifici, ma in realtà per riportare indietro da avventure e pericoli di ogni sorta una forza più grande. Di tali surrogati della guerra se ne potranno ancora trovare molti, ma forse proprio grazie ad essi si comprenderà sempre meglio che un'umanità così altamente civilizzata e perciò necessariamente fiacca, come quella dell'Europa moderna, ha bisogno non soltanto di guerre, ma delle guerre più grandi e terribili — cioè di temporanee ricadute nella barbarie — per non perdere, nei mezzi della cultura, la sua cultura e la stessa sua esi-stenza.


 
478.
Laboriosità nel nord e nel sud. — La laboriosità nasce in due modi affatto diversi. Nel sud gli artigiani diventano laboriosi non per desiderio di guadagno, ma per la continua richiesta degli altri. Poiché c'è sempre qualcuno che vuol far ferrare un cavallo, far riparare un carro, il fabbro è laborioso. Se non venisse nessuno, se ne andrebbe a gironzolare per il mercato. Nutrirsi non è molto difficile, in un paese fertile; per questo avrebbe bisogno solo di una piccolissima quantità di lavoro, e comunque non di laboriosità; e alla fine chiederebbe l'elemosina e sarebbe contento. — La laboriosità degli operai inglesi ha invece dietro di sé il guadagno: essa ha coscienza di sé e dei suoi fini, e con il possesso vuole il potere, e con il potere la maggior libertà e distinzione individuale possibile.


 
479.
Ricchezza come origine della nobiltà di sangue. — La ricchezza produce necessariamente un'aristocrazia della razza, giacché consente di scegliere le donne più belle, di assumere i maestri migliori, concede all'uomo pulizia, tempo per gli esercizi fisici e soprattutto lo preserva dall'abbrutimento del lavoro manuale. In questo senso essa crea tutte le condizioni perché, dopo alcune generazioni, gli uomini si muovano, e persino agiscano, con garbo e distinzione: ossia una maggior libertà d'animo, l'assenza di quanto è meschino e miserevole, dell'umiliazione di fronte a chi dà il pane, del risparmio del centesimo. — Proprio queste qualità negative sono per un giovane il più ricco dono della fortuna; un uomo poverissimo che possieda sentimenti delicati di solito si rovina, non fa progressi e non ottiene nulla, la sua razza non è vitale. — A questo punto però va considerato che la ricchezza produce effetti pressoché uguali, sia che uno possa spendere trecento talleri l'anno, sia che ne possa spendere trentamila: dopo non c'è più nessuna progressione sostanziale di circostanze favorevoli. Ma possedere di meno, chieder l'elemosina da piccoli e umiliarsi è terribile: benché possa essere il giusto punto di partenza per chi cerca fortuna nello splendore delle corti, nella sottomissione a personaggi potenti e influenti, o per chi vuol diventare un capo della chiesa (insegna a insinuarsi inchinati nei cunicoli del favore).


 
480.
Invidia e pigrizia in direzione diversa. — I due partiti avversari, quello socialista e quello nazionale — quale che sia il loro nome nei vari paesi d'Europa — son degni l'uno dell'altro: le forze motrici sono in ambedue l'invidia e la pigrizia. In un campo si vuol lavorare il meno possibile con le mani, e nell'altro il meno possibile con la testa; in quest'ultimo si odia e si invidia l'individuo che si distingue, che si fa da sé, che non vuol farsi allineare allo scopo di un'azione di massa; nel primo invece si odia e si invidia la classe sociale migliore, esteriormente più favorita, il cui vero compito, la produzione dei massimi beni della civiltà, rende interiormente la vita tanto più difficile e dolorosa. Se poi si riesce a fare dello spirito dell'azione di massa lo spirito delle classi sociali più elevate, le schiere socialiste hanno perfettamente ragione di voler livellare anche esteriormente tra sé e quelle, dato che interiormente, nel cervello e nel cuore, sono già livellate tra loro. — Vivete da uomini superiori e continuate ad agire nell'interesse della cultura superiore — e tutto quanto vive in essa riconoscerà il vostro diritto, e l'ordinamento sociale, di cui siete la cima, sarà immune da ogni cattivo sguardo e da ogni attacco!


 
481.
Grande politica e suoi svantaggi. — Come un popolo non subisce i danni più gravi, che guerra e preparazione alla guerra comportano, nelle spese di guerra, nel ristagno di industria e commercio, e neppure nel mantenimento di un esercito permanente — per grandi che possano tuttora essere questi danni, per i quali otto Stati europei spendono annualmente da due a tre miliardi —, bensì nel fatto che anno per anno un numero straordinario di uomini tra i più capaci, forti e laboriosi viene sottratto alle sue occupa-zioni e professioni per fare il soldato; così un popolo che si accinge a fare una grande politica e ad assicurarsi un ruolo decisivo tra gli Stati più potenti non subisce i danni più gravi là dove normalmente li si trova. È vero che, da quel momento in poi, una quantità dei migliori talenti viene di continuo sacrificata sull'«altare della patria» o dell'ambizione nazionale, mentre prima a questi talenti, ora inghiottiti dalla politica, si aprivano altri ambiti di azione. Ma oltre a queste pubbliche ecatombi, e in fondo molto più orribile di esse, si svolge uno spettacolo che si replica di continuo in centomila atti contemporaneamente: ogni uomo capace, laborioso, intelligente e pieno di zelo di un tale popolo voglioso di politici allori, vien preso da questa voglia e non appartiene più interamente come prima alla sua causa: i problemi e le cure ogni giorno nuove del bene pubblico inghiottiscono un tributo quotidiano del capitale di cuore e di mente di ogni cittadino: la somma di tutti questi sacrifici e perdite di energia e lavoro individuale è così enorme, che il rigoglio politico di un popolo si porta appresso quasi di necessità un impoverimento e un infiacchimento intellettuale, un minore rendimento in opere che richiedono grande concentrazione e unilateralità. Da ultimo possiamo chiederci: varrà poi la pena, tutta questa fioritura e grandiosità dell'insieme (che pure si manifesta solo come paura degli altri Stati di fronte al nuovo colosso e come agevolazione, estorta ai paesi stranieri, della prosperità nazionale dei commerci e dei traffici), se a questo fiore della nazione, grossolano e scintillante di colori, dovranno esser sacrificate tutte le piante e i virgulti più nobili, delicati e spirituali, di cui il suo terreno era stato sino allora così ricco?


 
482.
E, detto ancora una volta. — Opinioni pubbliche — pigrizie private.


 
PARTE NONA. L'uomo solo con se stesso

 
483.
Nemiche della verità. — Le convinzioni sono nemiche della verità più pericolose delle menzogne.


 
484.
Mondo a rovescio. — Si critica più aspramente un pensatore quando enuncia una proposizione a noi sgradevole; eppure sarebbe più ragionevole farlo quando la sua proposizione ci è gradita.


 
485.
Ricco di carattere. — Un uomo appare ricco di carattere molto più spesso perché segue sempre il suo temperamento, che non perché segue sempre i suoi princìpi.


 
486.
L'unica cosa necessaria. — Una cosa bisogna avere: o uno spirito lieve per natura o uno spirito reso lieve dall'arte e dal sapere.


 
487.
La passione per le cause. — Chi volge la sua passione alle cause (scienze, bene dello Stato, interessi culturali, arti), sottrae molto fuoco alla sua passione per le persone (anche se queste rappresentano quelle cause, come gli uomini politici, i filosofi e gli artisti rappresentano le loro creazioni).


 
488.
La calma nell'azione. — Come una cascata, precipitando, si fa più lenta e fluttuante, così il grande uomo d'azione suole agire con più calma di quanto non lasciasse supporre il suo irruente desiderio prima dell'azione.


 
489.
Non troppo profondamente. — Persone che comprendono una cosa in tutta la sua profondità raramente le rimangono fedeli per sempre. Esse hanno appunto portato alla luce il fondo, e c'è sempre molto di brutto da vedervi.


 
490.
Illusione degli idealisti. — Tutti gli idealisti immaginano che la causa che essi servono sia essenzialmente migliore di ogni altra al mondo, e non vogliono credere che, se la loro causa deve prosperare, ha bisogno dello stesso maleodorante concime necessario a tutte le altre imprese umane.


 
491.
Autoosservazione. — L'uomo possiede difese molto buone contro se stesso, contro perlustrazioni e assedi da parte sua, e di solito non recepisce di sé che le opere esterne. La fortezza vera e propria gli è inaccessibile, addirittura invisibile, a meno che amici e nemici non facciano i traditori e non ve lo introducano per una via segreta.


 
492.
La giusta professione. — Gli uomini raramente persistono in una professione che non credano, o di cui non si convincano, essere in fondo più importante di ogni altra. Lo stesso accade alle donne con i loro amanti.


 
493.
Nobiltà di sentimento. — La nobiltà di sentimento è fatta in gran parte di benevolenza e assenza di sfiducia, e contiene dunque proprio quelle cose, sulle quali uomini avidi e di successo si esprimono così volentieri con superiorità e scherno.


 
494.
Meta e cammino. — Molti si ostinano sulla strada intrapresa, pochi sulla meta.


 
495.
Ciò che indigna in un modo di vivere individuale. — Tutte le regole di vita molto individuali irritano gli uomini verso chi le adotta; si sentono umiliati, come esseri ordinari, dal trattamento fuori dell'ordinario che quello si concede.


 
496.
Prerogativa della grandezza. — È prerogativa della grandezza rendere molto felici con piccoli doni.


 
497.
Involontaria nobiltà. — L'uomo si comporta con involontaria nobiltà se si è abituato a non voler niente dagli uomini e a dare loro sempre.


 
498.
Condizione dell'eroismo. — Se uno vuol diventare eroe, prima il serpente dev'essersi trasformato in drago, altrimenti gli manca il nemico adatto.


 
499.
Amico. — La gioia comune, e non il dolore comune, fa l'amico.


 
500.
Sfruttare flusso e riflusso. — Quando si persegue la conoscenza, si deve saper sfruttare quella corrente interiore che ci trascina verso una cosa, e poi anche quella che, dopo un certo tempo, ci spinge via da essa.


 
501.
Gioia di sé. — «Gioia della cosa», si dice: ma in realtà è gioia di sé per mezzo di una cosa.


 
502.
Il modesto. — Chi è modesto verso le persone, si mostra tanto più arrogante verso le cose (città, Stato, società, epoca, umanità). È questa la sua vendetta.


 
503.
Invidia e gelosia. — Invidia e gelosia sono le pudenda dell'anima umana. Il paragone può forse essere continuato.


 
504.
L'ipocrita più distinto. — Non parlare affatto di sé è un'ipocrisia quanto mai distinta.


 
505.
Scontentezza. — La scontentezza è una malattia fisica che non si elimina affatto rimuovendo semplicemente le cause di essa.


 
506.
Rappresentanti della verità. — Non quando dire la verità è pericoloso, ma quando è noioso, si trova più raramente chi la sostenga.


 
507.
Ancor più fastidiose dei nemici. — Le persone del cui comportamento simpatico non siamo pienamente convinti, mentre un motivo qualsiasi (per esempio la gratitudine) ci obbliga a mantenere da parte nostra l'apparenza di una incondizionata simpatia, son quelle che ci tormentano la fantasia molto più dei nostri nemici.


 
508.
La libera natura. — Stiamo tanto più volentieri nella libera natura in quanto essa non nutre opinioni di sorta nei nostri confronti.


 
509.
Ciascuno è superiore in qualcosa. — Nelle relazioni civili ciascuno si sente superiore a un altro in almeno una cosa: su ciò si basa il generale benvolere, in quanto ciascuno può esser d'aiuto in determinate circostanze e quindi può farsi aiutare senza vergogna.


 
510.
Motivi di consolazione. — In un caso di morte, per lo più si ha bisogno di motivi di conforto non tanto per alleviare l'intensità del dolore quanto per scusare il fatto di sentirsi tanto facilmente consolati.


 
511.
Ifedeli alla convinzione. — Chi ha molto da fare, mantiene quasi inalterate le sue idee generali e i suoi punti di vista. Così pure chiunque lavori al servizio di un'idea: non esaminerà più l'idea stessa, non ne avrà il tempo: anzi è contro il suo interesse ritenerla ancora discutibile.


 
512.
Moralità e quantità. — La superiorità morale di un uomo rispetto a un altro spesso consiste nel semplice fatto che i suoi scopi sono quantitativamente più grandi. L'occuparsi di cose piccole costringe l'altro in una cerchia ristretta.


 
513.
La vita come risultato della vita. — Per quanto l'uomo possa espandersi con la sua conoscenza e apparirsi obiettivo, alla fine non ne ricaverà altro che la propria biografia.


 
514.
La ferrea necessità. — La ferrea necessità è una cosa che gli uomini nel corso della storia scoprono non essere né ferrea né necessaria.


 
515.
Dall'esperienza. — L'irrazionalità di una cosa non è affatto una ragione contro la sua esistenza, ma piuttosto una condizione di questa.


 
516.
Verità. — Oggi nessuno muore di verità mortali: ci sono troppi antidoti.


 
517.
Idea fondamentale. — Non esiste alcuna armonia prestabilita tra il favorire la verità e il bene dell'umanità.


 
518.
Destino umano. — Chi pensa profondamente sa di aver sempre torto, comunque agisca e giudichi.


 
519.
Verità come Circe. — L'errore ci ha reso da animali uomini; sarebbe la verità in grado di far nuovamente dell'uomo un animale?


 
520.
Pericolo della nostra civiltà. — Apparteniamo a un'epoca la cui civiltà rischia di andare in rovina ad opera dei mezzi della civiltà.


 
521.
Grandezza significa: imprimere una direzione. — Nessun fiume è grande e ricco di per sé, ma è il fatto di ricevere e convogliare in sé tanti affluenti a renderlo tale. Ciò vale anche per ogni grandezza dello spirito. Importa solo questo: che uno imprima la direzione che poi tanti affluenti dovranno seguire, e non che uno possieda sin dall'inizio capacità grandi o piccole.


 
522.
Coscienza debole. — Uomini che parlano della propria importanza per l'umanità, nel tener fede a patti e a promesse possiedono, in rapporto alla comune rettitudine borghese, una coscienza debole.


 
523.
Voler essere amati. — Pretendere di essere amati è la presunzione più grande.


 
524.
Disprezzo per gli uomini. — Il segno più inequivocabile di disprezzo per gli uomini è di considerare ciascuno solo come mezzo per il proprio fine, o non considerarlo affatto.


 
525.
Seguaci per contraddizione. — Chi ha reso gli uomini furiosi nei suoi confronti, si è sempre anche conquistato un partito in suo favore.


 
526.
Dimenticare le esperienze. — Chi pensa molto, e in modo obiettivo, dimentica facilmente le sue esperienze personali, ma non i pensieri che queste han suscitato.


 
527.
Attenersi a un'opinione. — L'uno si attiene a un'opinione perché immagina di esserci giunto da solo, l'altro perché l'ha appresa con fatica ed è fiero di averla compresa: ambedue, dunque, per vanità.


 
528.
Fuggire la luce. — La buona azione sfugge la luce con altrettanto timore della cattiva azione: questa teme che, con il riconoscimento, venga il dolore (come castigo), e quella che, con il riconoscimento, sparisca il piacere (ossia quel puro piacere di sé, che cessa non appena vi si venga ad aggiungere una soddisfazione della vanità).


 
529.
La lunghezza della giornata. — Quando c'è molto da infilarci, un giorno ha mille tasche.


 
530.
Genio dei tiranni. — Quando nell'anima si desta una incoercibile voglia di affermarsi tirannicamente e alimenta senza posa il fuoco, persino una capacità modesta (in politici, artisti) diventa poco a poco una forza naturale quasi irresistibile.


 
531.
La vita del nemico. — Chi vive della lotta contro un nemico, ha interesse a che questo rimanga in vita.


 
532.
Più importante. — Si considera la cosa non spiegata e oscura più importante di quella spiegata e chiara.


 
533.
Valutazione dei servigi resi. — I servigi che qualcuno ci rende li stimiamo secondo il valore che egli vi annette, e non secondo quello che essi hanno per noi.


 
534.
Infelicità. — La distinzione insita nell'infelicità (come se sentirsi felici fosse segno di piattezza, di modestia, di ordinarietà) è così grande, che di solito si protesta se qualcuno ci dice: Ma com'è felice, Lei!


 
535.
Fantasia della paura. — La fantasia della paura è quel maligno, scimmiesco coboldo che salta sulle spalle dell'uomo proprio nel momento in cui questi deve portare il carico più pesante.


 
536.
Valore degli avversari insulsi. — Talvolta si rimane fedeli a una causa soltanto perché quelli che la avversano non cessano di essere insulsi.


 
537.
Valore di una professione. — Una professione rende spensierati; in ciò consiste la sua più grande benedizione. Essa infatti è una salvaguardia, dietro la quale è consentito ritirarsi quando si è assaliti da pensieri e preoccupazioni di ordine generale.


 
538.
Talento. — Il talento di parecchi uomini sembra minore di quanto non sia, perché essi si sono sempre imposti compiti troppo grandi.


 
539.
Gioventù. — La gioventù non è piacevole: in essa infatti non è possibile o non è ragionevole essere produttivi in un senso qualsiasi.


 
540.
Fini troppo grandi. — Chi si prefigge pubblicamente fini troppo grandi e poi si rende conto in segreto di essere troppo debole per essi, di solito non ha nemmeno la forza sufficiente per ritrattarli pubblicamente, e allora diventa inevitabilmente ipocrita.


 
541.
Nella corrente. — Forti acque trascinano con sé molte pietre e arbusti, spiriti forti molte teste stupide e confuse.


 
542.
Pericoli della liberazione spirituale. — Nella liberazione spirituale di un uomo, seriamente intesa, anche le sue passioni e le sue voglie sperano in segreto di trarne vantaggio.


 
543.
Incarnazione dello spirito. — Quando un uomo pensa molto e con intelligenza, non solo il suo volto, ma anche il suo corpo acquistano un aspetto intelligente.


 
544.
Veder male e sentir male. — Chi vede poco, vedrà sempre meno; chi sente male, sentirà sempre qualcosa in più.


 
545.
Godimento di sé nella vanità. — Il vanitoso non vuole tanto eccellere, quanto sentirsi eccellente; per questo non sdegna alcun mezzo per ingannare e raggirare se stesso. Quel che gli sta a cuore non è l'opinione degli altri, ma la sua opinione sulla loro opinione.


 
546.
Eccezionalmente vanitoso. — L'uomo solitamente pago di sé è eccezionalmente vanitoso e sensibile alla gloria e alla lode quando è fisicamente malato. Nella misura in cui perde se stesso, deve cercare di riguadagnarsi dall'esterno, attraverso l'opinione degli altri.


 
547.
Gli «spiritosi». — Chi cerca lo spirito non ha spirito.


 
548.
Cenno ai capipartito. — Quando si riesce a indurre gli uomini a pronunciarsi pubblicamente per qualcosa, per lo più li si è anche indotti a pronunciarsi per essa nel loro intimo; da allora essi vogliono esser trovati coerenti.


 
549.
Disprezzo. — Al disprezzo altrui l'uomo è più sensibile che a quello che gli viene da se stesso.


 
550.
Corda della gratitudine. — Ci sono anime servili che esagerano talmente la riconoscenza per i benefici ricevuti da strozzarsi con la corda della gratitudine.


 
551.
Trucco del profeta. — Per indovinare in anticipo come agiranno uomini ordinari, bisogna supporre che impiegheranno sempre la minima quantità di spirito per liberarsi da una situazione sgradevole.


 
552.
L'unico diritto dell'uomo. — Chi devia dalla tradizione, è vittima dell'inusitato; chi rimane nella tradizione, è lo schiavo di essa. Rovinati si resta in ogni caso.


 
553.
Al di sotto della bestia. — Quando l'uomo urla dal ridere, supera in volgarità ogni bestia.


 
554.
Mezzo sapere.— Chi parla poco una lingua straniera, prova in ciò maggior piacere di chi la parla bene. Il piacere è di chi sa a metà.


 
555.
Soccorrevolezza pericolosa. — Esistono persone che voglion render pesante la vita agli uomini per nessun altro motivo se non quello di offrir poi loro le proprie ricette per alleviarla, per esempio il proprio cristianesimo.


 
556.
Zelo e coscienziosità. — Lo zelo e la coscienziosità sono spesso antagoniste, per il fatto che lo zelo vuol cogliere dall'albero i frutti ancora acerbi, e la coscienziosità ve li lascia invece troppo a lungo, sino a che cadono e si disfanno.


 
557.
Render sospetti. — Cerchiamo di renderci sospetti quegli uomini che non possiamo soffrire.


 
558.
Mancano le circostanze. — Molti uomini aspettano per tutta la vita l'occasione di esser buoni a modo loro.


 
559.
Mancanza di amici. — La mancanza di amici fa supporre invidia o presunzione. Alcuni debbono i loro amici solo alla fortunata circostanza di non avere alcun motivo di invidia.


 
560.
Pericolo nella molteplicità. — Con una capacità in più spesso si è più insicuri che con una in meno: come il tavolo si regge meglio su tre piedi che su quattro.


 
561.
Di modello per gli altri. — Chi vuol dare un buon esempio, deve aggiungere alla sua virtù un granello di follia: allora si imita, e nello stesso tempo ci si eleva su colui che viene imitato: cosa che agli uomini piace.


 
562.
Essere bersaglio. — I cattivi discorsi degli altri su di noi spesso non si riferiscono propriamente a noi, ma sono l'espressione di un'ira, di un malumore che han tutt'altro motivo.


 
563.
Facilmente rassegnati. — Si soffre poco per i desideri insoddisfatti, se si è esercitata la propria fantasia a rendere brutto il passato.


 
564.
In pericolo. — Si rischia maggiormente di essere investiti quando si è appena evitata una vettura.


 
565.
Il ruolo a seconda della voce. — Chi è costretto a parlare in tono più alto di quello a lui solito (per esempio quando parla a un mezzo sordo o davanti a un vasto uditorio), di solito esagera le cose che ha da dire. — Qualcuno diventa cospiratore, maligno pettegolo, intrigante, solo perché la sua voce meglio si adatta a un sussurro.


 
566.
Amore e odio. — Amore e odio non sono ciechi, ma accecati dal fuoco che portano in sé.


 
567.
Osteggiati con vantaggio. — Gli uomini che non possono render pienamente evidenti al mondo i loro meriti, cercano di suscitare una forte ostilità. Hanno così il conforto di pensare che sia questa a frapporsi tra i loro meriti e il riconoscimento di essi — e che anche qualcun altro la pensi così: il che è molto vantaggioso per la loro reputazione.


 
568.
Confessione. — Si dimentica la propria colpa quando la si è confessata a un altro, ma di solito è l'altro a non dimenticarla.


 
569.
Contentezza di sé. — Il vello d'oro della contentezza di sé protegge dalle bastonate, non dalle punture.


 
570.
Ombre nella fiamma. — La fiamma non è così chiara a se stessa quanto agli altri che essa illumina: così pure il saggio.


 
571.
Opinioni proprie. — La prima opinione che ci viene in mente quando all'improvviso siamo interrogati su qualcosa, di solito non è la nostra, m;i solo quella corrente, della nostra casta, della nostra posizione, della nostra origine; le opinioni proprie raramente vengono alla superficie.


 
572.
Orìgine del coraggio. — L'uomo comune è coraggioso e invulnerabile come un eroe quando non vede il pericolo, quando non ha occhi per esso. Viceversa, l'eroe ha l'unico punto vulnerabile alle spalle, quindi là dove non ha occhi.


 
573.
Perìcolo del medico. — Bisogna esser nati per il proprio medico, altrimenti del proprio medico si perisce.


 
574.
Strana vanità. — Chi con sfrontatezza ha previsto per tre volte il tempo senza sbagliare, in fondo alla sua anima crede un poco alle sue doti profetiche. Noi facciamo valere lo strano e l'irrazionale quando ciò lusinga la stima che abbiamo di noi stessi.


 
575.
Professione. — Una professione è la spina dorsale della vita.


 
576.
Pericolo dell'influenza personale. — Chi sente di esercitare una grande influenza interiore su di un altro, deve lasciargli briglie completamente sciolte, e anzi vedere volentieri, e magari provocare, occasionali dissensi: in caso contrario si farà inevitabilmente un nemico.


 
577.
Far valere l'erede. — Chi ha fondato con spirito altruistico qualcosa di grande, provvedere ad educarsi degli eredi. È segno di una natura tirannica e bassa vedere degli avversari in tutti i possibili eredi della nostra opera, e vivere in stato di difesa contro di loro.


 
578.
Mezzo sapere. — Il mezzo sapere riporta più vittorie di un sapere completo: conosce le cose come più semplici di quanto non siano, e rende pertanto la sua opinione più accessibile e convincente.


 
579.
Inadatto come uomo dipartito. — Chi pensa molto, non è adatto a esser uomo di partito: troppo presto penserà se stesso attraverso il partito.


 
580.
Cattiva memoria. — Il vantaggio della cattiva memoria è che si godono più volte le stesse buone cose per la prima volta.


 
581.
Arrecarsi dolore. — L'indelicatezza di pensiero è spesso segno di un'intima irrequietezza che vuol essere stordita.


 
582.
Martiri. — Il discepolo di un martire soffre più del martire.


 
583.
Vanità arretrata. — La vanità di quegli uomini che non avrebbero bisogno di esser vani è l'abitudine, accresciuta, rimasta loro dal tempo in cui non avevano ancora il diritto di credere in se stessi, e andavano elemosinando questa fede dagli altri in moneta spicciola.


 
584.
Punctum saliens della passione. — Chi è in procinto di farsi prendere dall'ira o da un forte sentimento d'amore, raggiunge un punto in cui l'anima è piena come un vaso: tuttavia deve aggiungersi ancora una goccia d'acqua, la buona volontà per la passione (che di solito vien detta anche la cattiva). È necessario solo questo puntolino, poi il vaso trabocca.


 
585.
Pensiero di malumore. — Avviene per gli uomini come per le carbonaie nel bosco: solo quando i giovani han finito di ardere e sono carbonizzati come quelle, diventano utili. Sinché esalano fumo e vapore sono forse più interessanti, ma inutili e anche troppo spesso scomodi. — L'umanità adopera senza scrupoli ogni individuo come materiale per alimentare le sue grandi macchine: ma allora, a che scopo le macchine, se tutti gli individui (cioè l'umanità) servono soltanto a mantenerle? Macchine fini a se stesse — è questa l'umana commedia?


 
586.
La lancetta della vita. — La vita è fatta di rari, isolati momenti di estrema significatività e di innumerevoli intervalli nei quali, nel migliore dei casi, aleggiano intorno a noi le ombre di quei momenti. L'amore, la primavera, ogni bella melodia, i monti, la luna, il mare, tutto parla completamente al cuore una volta sola: se pure riesce mai a diventar parola. Infatti molti uomini non hanno affatto quei momenti e sono essi stessi intervalli e pause nella sinfonia della vita reale.


 
587.
Attaccare o intervenire. — Spesso facciamo l'errore di avversare vivacemente una corrente o un partito o un'epoca perché ci capita di vederne soltanto il lato più esteriore, il loro rattrappimento o i «difetti delle loro virtù», che vi sono necessariamente connessi, — forse perché noi stessi vi abbiamo partecipato in modo preponderante. Allora volgiamo loro le spalle e cerchiamo una direzione opposta; ma la cosa migliore sarebbe cercare, o sviluppare in se stessi, gli aspetti buoni e forti. Certo occorrono uno sguardo più acuto e una volontà migliore per promuovere lo sviluppo di quanto è incompleto e in divenire, che non per guardarlo e rinnegarlo nella sua completezza.


 
588.
Modestia. — Esiste una vera modestia (cioè il riconoscere che non siamo opera nostra); e bene essa si addice allo spirito grande, perché egli può comprendere il pensiero della totale irresponsabilità (anche per il bene che egli crea). Non si odia l'immodestia del grande in quanto egli sente la propria forza, ma perché vuole sperimentare tale forza solo ferendo gli altri, trattandoli altezzosamente e stando a vedere sino a che punto essi sopportano. Di solito ciò dimostra addirittura una insufficiente sicurezza nella propria forza e fa così dubitare gli uomini della sua grandezza. Pertanto l'immodestia, dal punto di vista della prudenza, è decisamente da sconsigliare.


 
589.
Il primo pensiero della giornata. — Il modo migliore per iniziare bene ogni giornata è quello di svegliarsi pensando se in questo giorno non si possa dar gioia ad almeno una persona. Se questo valesse a sostituire l'abitudine religiosa alla preghiera, i nostri simili trarrebbero vantaggio da questo cambiamento.


 
590.
Presunzione come ultimo conforto. — Se si interpreta una disgrazia, la propria carenza intellettuale, la propria malattia in modo da vedere in ciò una predestinazione, una prova o una misteriosa punizione per azioni commesse in precedenza, ci si rende interessante il proprio essere e ci si innalza nell'immaginazione al di sopra dei propri simili. Il peccatore orgoglioso è una figura nota a tutte le sètte religiose.


 
591.
Vegetazione della felicità. — Immediatamente accanto al dolore del mondo, e spesso sul suo terreno vulcanico, l'uomo ha posto i suoi piccoli giardini di felicità. Che si guardi alla vita con l'occhio di chi dall'esistenza vuole soltanto la conoscenza, o di chi si arrende e si rassegna, o di chi si rallegra per la difficoltà superata, ovunque si vedrà che vicino al male è sbocciata un po' di felicità — e una felicità tanto maggiore, quanto più il terreno era vulcanico; sarebbe però ridicolo affermare che questa felicità giustifichi lo stesso dolore.


 
592.
La strada degli antenati. — Fa cosa ragionevole chi sviluppi ulteriormente in sé il talento per cui suo padre e suo nonno hanno speso fatica, e non lo volga in qualcosa di completamente nuovo; altrimenti si priva della possibilità di giungere alla perfezione in un qualsiasi mestiere. Per questo il proverbio dice: «Per quale strada devi cavalcare? per quella dei tuoi antenati».


 
593.
Vanità e ambizione come educatrici. — Sino a che uno non è ancora diventato strumento della generale utilità umana, può tormentarlo l'ambizione; ma, una volta raggiunto quel fine, quando egli lavorerà necessariamente come una macchina per il bene di tutti, allora può sopravvenire la vanità; essa, quando l'ambizione avrà terminato in lui il lavoro pesante (quello di renderlo utile), lo renderà umano nelle piccole cose, più sociale, più sopportabile, più indulgente.


 
594.
Novellini della filosofìa. — Non appena si è assimilata la saggezza di un filosofo, si va per le strade con la sensazione di essere diversi, di esser diventati dei grandi uomini; giacché ci si imbatte solo in gente che ignora quella saggezza, e dunque si ha da pronunciare su tutto un giudizio nuovo e mai sentito: per il fatto di saper riconoscere un codice, oggi si pensa di potersi anche atteggiare a giudice.


 
595.
Piacere dispiacendo. — Gli uomini che preferiscono essere in vista e con ciò riuscire sgraditi, desiderano la stessa cosa di coloro che non vogliono essere in vista e piacere, solo che lo desiderano in un grado molto più alto e in modo indiretto, mediante un gradino che sembra allontanarli dallo scopo. Vogliono influsso e potenza, e mostrano pertanto la propria superiorità, persino in modo che essa risulti sgradevole; sanno infatti che chi sia finalmente giunto alla potenza, piace in tutto quel che fa e dice, e che persino quando dispiace sembra tuttavia ancora piacere. — Anche lo spirito libero, e così pure il credente, vogliono potenza, per piacere un giorno per mezzo di essa; se, a causa della loro dottrina, li minaccia la cattiva sorte, la persecuzione, il carcere, l'esecuzione capitale, essi gioiscono al pensiero che in tal modo la loro dottrina verrà incisa e impressa a fuoco sull'umanità; lo prendono come un mezzo doloroso ma potente, benché ad effetto ritardato, per giungere comunque alla potenza.


 
596.
Casus belli e simili. - Il principe che, dopo aver deciso di portar guerra al vicino, escogita un casus belli, somiglia al padre che attribuisce a suo figlio una madre che da allora in poi dovrà esser considerata tale. E, quasi tutti i pubblicizzati motivi delle nostre azioni, non sono forse altrettante madri del genere?


 
597.
Passione e diritto. — Nessuno parla del suo diritto con maggior passione di chi in fondo all'animo ne dubita. Traendo la passione dalla sua parte, egli vuole stordire la ragione e i suoi dubbi: ottiene così la buona coscienza e, con essa, il successo presso i suoi simili.


 
598.
Artificio di chi rinuncia. — Chi protesta contro il matrimonio, alla maniera dei preti cattolici, cercherà di intenderlo nella sua accezione più bassa e volgare. Così pure, chi respinge da sé la stima dei contemporanei, nutrirà di essa un basso concetto; in tal modo gli sarà facile privarsene e lottare contro di essa. Del resto, chi in complesso rinuncia molto, facilmente sarà indulgente con se stesso nelle cose piccole. Sarebbe possibile che chi è superiore all'approvazione dei contemporanei, non voglia tuttavia negarsi la soddisfazione di piccole vanità.


 
599.
Età della presunzione. — Il vero periodo della presunzione cade, per gli uomini d'ingegno, tra i ventisei e i trent'anni; è l'epoca della prima maturità, con un forte residuo di acerbità. In base a quel che ci si sente dentro si pretende da persone, che ne vedono poco o niente, onore e riverenza, e ci si vendica del fatto che questi sentimenti a tutta prima non si manifestino, con quello sguardo, quel gesto arrogante, quel tono di voce che un occhio e un orecchio fino riconoscono in tutte le produzioni di quell'età, siano esse poesia, filosofia, pittura o musica. Uomini più avanzati negli anni e più esperti ne sorridono e ricordano commossi quella bella età, in cui ci si adira contro il destino di essere tanto e di sembrare tanto poco. Più tardi si sembra realmente di più — ma si è perduta forse la buona fede di essere molto: si rimanga dunque, per tutta la vita, degli inguaribili pazzi di vanità.


 
600.
Illusorio eppure solido. — Come, per costeggiare un abisso o per traversare un profondo torrente su una trave, si ha bisogno di una ringhiera, non per tenersi ad essa — che infatti crollerebbe subito insieme con noi — ma per suscitare per l'occhio l'immagine della sicurezza, così da giovani si ha bisogno di persone che inconsapevolmente ci rendano il servizio di quella ringhiera. Esse, è vero, non ci aiuterebbero se realmente volessimo appoggiarci a loro in un grande pericolo, ma ci danno la sensazione tranquillizzante di una protezione vicina (per esempio padri, maestri, amici, come sono di solito tutti e tre).


 
601.
Imparare ad amare. — Si deve imparare ad amare, a esser buoni, sin dalla giovinezza; se l'educazione e il caso non ci forniscono alcuna occasione di esercitare questi sentimenti, la nostra anima si inaridisce, e non riesce neppure a capire quelle delicate invenzioni di uomini amorevoli. Così pure, anche l'odio dev'essere appreso e alimentato, se si vuol diventare dei bravi odiatori: altrimenti anche il seme di esso gradualmente si atrofizzerà.


 
602.
La rovina come ornamento. — Coloro che passano attraverso molte trasformazioni intellettuali, mantengono dagli stati precedenti alcune idee e abitudini che poi emergono, nel loro nuovo pensare e agire, come frammenti di una inspiegabile antichità e di grigie mura: spesso a ornamento di tutto il paesaggio.


 
603.
Amore e onore. — L'amore desidera, la paura evita. In ciò sta il fatto che non si può essere amati e insieme onorati dalla stessa persona, almeno nello stesso spazio di tempo. Infatti chi onora riconosce la potenza, ossia la teme: il suo atteggiamento è di riverenziale timore. L'amore non riconosce invece potenza di sorta, nulla che separi, che differenzi, che sovraordini o subordini. Poiché l'amore non onora, gli uomini ambiziosi sono, in segreto o apertamente, refrattari a essere amati.


 
604.
Pregiudizio per gli uomini freddi. — Gli uomini che prendono fuoco rapidamente si raffreddano presto, e sono perciò nel complesso poco attendibili. Per questo esiste, per tutti coloro che sono sempre freddi o che a tali si atteggiano, il favorevole pregiudizio che siano persone particolarmente degne di fiducia e attendibili: li si scambia per quelli che prendono fuoco lentamente e lo mantengono a lungo.


 
605.
Quel che è pericoloso nelle opinioni libere. — Un sia pur lieve contatto con le libere opinioni provoca un'irritazione, una specie di prurito; se ad esse si cede ancor di più, si comincia a stuzzicare quelle zone, e alla fine si forma una ferita aperta e dolorosa, ossia: la libera opinione prende a tormentarci nella posizione che abbiamo nella vita, nei nostri rapporti umani.


 
606.
Desiderio di profondo dolore. — La passione, quando è passata, si lascia dietro un'oscura nostalgia di sé e, prima di scomparire del tutto, ci lancia uno sguardo seducente. Dunque deve pur esserci stata una sorta di piacere nell'esser colpiti dalla sua sferza. Paragonati ad essa, i sentimenti più moderati ci sembrano insulsi; a quanto pare, a un fiacco piacere si preferisce pur sempre un forte dolore.


 
607.
Malumore verso gli altri e verso il mondo. — Quando; come tanto spesso accade, sfoghiamo sugli altri il malumore che in realtà proviamo contro noi stessi, in fondo cerchiamo di offuscare e ingannare il nostro giudizio: vogliamo motivare questo malumore a posteriori con gli errori e i difetti degli altri, e perdere così di vista noi stessi. — Gli uomini rigorosamente religiosi, che sono giudici implacabili di se stessi, in genere han detto molto male dell'umanità: un santo che riservi a sé i peccati e agli altri le virtù, non è mai vissuto: come pure colui che, secondo il precetto di Buddha, nasconda agli uomini la sua parte buona e mostri loro solo quella cattiva.


 
608.
Scambio di causa ed effetto. — Inconsciamente noi cerchiamo i princìpi e le dottrine che si confanno al nostro temperamento, sicché alla fine sembra che siano stati quei princìpi e quelle dottrine a produrre il nostro carattere e a conferirgli tenuta e sicurezza: mentre è accaduto esattamente il contrario. Del nostro pensiero e del nostro giudizio si fa in seguito, come sembra, la causa del nostro essere: ma in effetti è il nostro essere la causa per cui noi pensiamo e giudichiamo in un certo modo. — E che cosa ci induce a questa quasi inconsapevole commedia? La pigrizia e la comodità e, non da ultimo, il desiderio della nostra vanità di esser ritenuti in tutto e per tutto consistenti, unitari nell'essere e nel pensiero: ciò infatti procura stima, dà fiducia e potenza.


 
609.
Età e verità. — I giovani amano quel che è interessante e singolare, non importa che sia vero o falso. Gli spiriti più maturi amano nella verità quanto in essa è interessante e singolare. Le menti perfettamente mature amano infine la verità anche laddove essa appare modesta e semplice e annoia l'uomo ordinario, perché hanno osservato come essa sia solita esprimere con l'aria della semplicità il suo più alto contenuto spirituale.


 
610.
Gli uomini come cattivi poeti. — Come i cattivi poeti nella seconda metà del verso cercano il pensiero in funzione della rima, così gli uomini nella seconda parte della vita, divenuti più paurosi, sono soliti cercare le azioni, le posizioni e le relazioni che si adattino a quelle della loro vita precedente, sicché esteriormente tutto si trovi in bella armonia: ma la loro vita non è più dominata e determinata sempre di nuovo da un forte pensiero: al suo posto subentra bensì l'intenzione di trovare una rima.


 
611.
Noia e gioco. — Il bisogno ci costringe al lavoro, con i proventi del quale noi soddisfacciamo il bisogno; il continuo insorgere dei bisogni fa sì che ci abituiamo al lavoro. Ma nei momenti di pausa in cui i bisogni sono soddisfatti e per così dire dormono, ci assale la noia. Che cos'è questa? È l'abitudine al lavoro in genere, che ora si impone come nuovo bisogno e va ad aggiungersi agli altri; essa sarà tanto più forte quanto più uno è avvezzo al lavoro, e forse addirittura quanto più uno ha sofferto dei bisogni. Per sfuggire alla noia, l'uomo lavora oltre i suoi normali bisogni oppure inventa il gioco, vale a dire quel lavoro che non deve tacitare nessun altro bisogno se non quello di lavorare. Chi è stanco del gioco e non è spinto a lavorare da nuovi bisogni, è talvolta assalito dal desiderio di una terza condizione, che stia al gioco come il librarsi al danzare, come il danzare al camminare — di beato e tranquillo esser mossi: è la visione che artisti e filosofi hanno della felicità.


 
612.
Quel che si impara dai ritratti. — A osservare una serie di ritratti di se stessi, dai tempi dell'ultima fanciullezza sino a quelli della maturità, si scopre con piacevole sorpresa che l'uomo assomiglia più al fanciullo che all'adolescente: che dunque probabilmente, in corrispondenza con questo fatto, è subentrata nel frattempo una temporanea alienazione del carattere fondamentale, che è stata poi riassorbita dalla forza complessiva accumulata dall'uomo. A questa constatazione corrisponde l'altra, secondo cui tutti i forti influssi delle passioni, dei maestri, degli avvenimenti politici, che nell'età giovanile ci spingono in varie direzioni, appaiono più tardi ricondotti a una misura fissa: certamente essi continuano a vivere e ad operare in noi, ma il sentimento e l'opinione fondamentali hanno tuttavia il predominio e li utilizzano sì come fonti di energia, ma non più come regolatori, come accade a vent'anni. Così, anche il pensiero e il sentimento dell'uomo appaiono di nuovo più conformi a quelli della sua infanzia — e questo fatto interiore si manifesta in quello esteriore di cui dicevamo.


 
613.
Tono di voce dell'età. — Il tono in cui i giovani parlano, lodano, biasimano, fanno poesia, dispiace a chi è più adulto, perché è troppo alto, e allo stesso tempo opaco e indistinto come un suono sotto una volta, che riceve dal vuoto la sua grande forza sonora; infatti quasi tutto quello che i giovani pensano non scaturisce dalla pienezza della loro natura, ma è risonanza, eco di quel che è stato detto, lodato o biasimato intorno a loro. Ma poiché in loro i sentimenti (di simpatia e di avversione) hanno risonanza molto più forte dei motivi che li determinano, quando essi li esprimono ad alta voce si produce quel tono opaco e rimbombante che è segno di mancanza o di povertà di motivazioni. Il tono dell'età più matura è austero, breve, moderatamente alto ma, come tutto quello che è chiaramente articolato, arriva molto lontano. La vecchiaia infine conferisce spesso al tono una certa mitezza e indulgenza, e per così dire lo indebolisce: in alcuni casi, però, lo inacidisce anche.


 
614.
Uomini arretrati e uomini precorritori. — Il carattere sgradevole, che è pieno di diffidenza, che prova invidia per ogni successo del suo competitore e del suo prossimo ed è violento e collerico contro le opinioni divergenti, mostra di appartenere a un livello precedente di cultura, e di essere dunque un residuo: infatti il suo rapporto con gli uomini era giusto e adeguato in un'epoca in cui vigeva il diritto del più forte: è un uomo rimasto indietro. Un altro carattere, che partecipa alla gioia altrui, si fa amici dappertutto, sente amore per tutto quanto cresce e diviene, gode insieme con gli altri dei loro onori e successi e non si arroga la prerogativa di essere il solo a conoscere la verità ed è anzi pieno di un'umile diffidenza — questo è un uomo che precorre, che aspira a una cultura umana superiore. Il carattere sgradevole proviene dai tempi in cui le rudimentali fondamenta dei rapporti umani erano ancora da costruire, l'altro vive sul piano più alto di tali rapporti, il più lontano possibile dalla belva selvaggia che infuria e urla nei sotterranei, rinchiusa sotto le fondamenta della cultura.


 
615.
Consolazione per gli ipocondriaci. — Se talvolta un grande pensatore è assalito dall'ipocondria, e si tormenta, dica per consolarsi: «È la tua grande forza, quella di cui cresce e si nutre questo parassita; se essa fosse minore, avresti meno da soffrire». Così può dire anche lo statista, quando l'invidia e il sentimento di vendetta, e in genere l'umore del bellum omnium contra omnes, per il quale egli, come rappresentante di una nazione, deve certamente avere una forte disposizione, si intrufola anche nei suoi rapporti personali e gli rende la vita difficile.


 
616.
Estraneo al presente. — Ha grandi vantaggi l'estraniarsi per una volta in forte misura dal proprio tempo, ed essere per così dire trascinati via dalla sua sponda, nell'oceano delle passate concezioni del mondo. Guardando di lì verso la costa, per la prima volta se ne coglie la conformazione complessiva e, quando ci si riawicina ad essa, si ha il vantaggio di intenderla nel suo insieme meglio di coloro che non l'hanno mai abbandonata.


 
617.
Seminare e raccogliere sui difetti personali. — Uomini come Rousseau sono capaci di sfruttare le proprie debolezze, lacune e vizi per così dire come concime del loro ingegno. Quando egli lamenta la corruzione e la depravazione della società come incresciosa conseguenza della cultura, alla base di questo sta un'esperienza personale, la cui amarezza dà acredine alla sua condanna generale e avvelena gli strali con cui egli colpisce; egli innanzitutto si scarica come individuo, e medita un rimedio che sia direttamente vantaggioso per la società, ma lo sia, indirettamente e mediante essa, anche per lui.


 
618.
A vere spirito filosofico. — Di solito ci si sforza di acquisire, per tutte le situazioni e gli avvenimenti della vita, un solo atteggiamento dell'animo, un solo genere di idee — e questo vien detto avere uno spirito eminentemente filosofico. Ma, per l'arricchimento della conoscenza, può avere più valore non uniformarsi a quel modo, ma ascoltare la voce sommessa delle diverse situazioni della vita: esse portano con sé le loro proprie idee. Così, non considerandosi come individui unici, rigidi e invariabili, si partecipa in modo conoscitivo alla vita e all'essere di molti.


 
619.
Nel fuoco del disprezzo. — Si compie un nuovo passo verso l'indipendenza quando si osa manifestare opinioni ritenute infamanti per colui che le nutre; allora anche gli amici e i conoscenti sogliono impaurirsi. Anche attraverso questo fuoco deve passare una natura dorata; dopo, essa apparterrà ancora di più a se stessa.


 
620.
Sacrificio. — In caso di scelta, si preferisce un sacrificio grande a uno piccolo: infatti di un sacrificio grande ci ripaghiamo ammirando noi stessi, cosa che col piccolo non ci è possibile.


 
621.
Amore come accorgimento. — Chi vuole veramente conoscere qualcosa di nuovo (un uomo, un fatto, un libro), farà bene ad accoglierlo con tutto l'amore possibile, a distogliere rapidamente lo sguardo da tutto quanto in esso gli sembri ostile, urtante, falso, anzi a dimenticarlo: così da dare, per esempio all'autore di un libro, il massimo vantaggio e addirittura desiderare col cuore che batte che, come in una gara, egli giunga alla meta. Così facendo si penetra fino al cuore, fino al punto motore di quella cosa nuova: e ciò significa appunto conoscerla. Arrivati a ciò, l'intelletto farà poi le sue restrizioni; quella sopravvalutazione, quel momentaneo arresto del pendolo critico erano appunto solo l'accorgimento per carpire l'anima di una cosa.


 
622.
Pensare troppo bene e troppo male del mondo. — A pensare troppo bene, o troppo male, delle cose, si ha sempre il vantaggio di ricavarne un piacere più alto: infatti, nutrendone un preconcetto troppo favorevole, si ripone di solito nelle cose (esperienze vissute) più dolcezza di quanta esse ne contengano realmente. Un'opinione preconcetta troppo sfavorevole causa una piacevole delusione: quanto c'era, nelle cose, di gradevole in sé, viene accresciuto dalla piacevolezza della sorpresa. — Un temperamento tetro farà del resto, in ambedue i casi, l'esperienza opposta.


 
623.
Uomini profondi. — Coloro che ripongono la loro forza nell'approfondimento delle impressioni — di solito li si chiama uomini profondi — sono relativamente calmi e risoluti di fronte a ogni cosa improvvisa: infatti in un primo momento l'impressione è ancora superficiale, e diventa profonda solo in seguito. Cose e persone attese da tempo eccitano però al massimo simili nature e, quando finalmente si presentano, le rendono pressoché incapaci di conservare presenza di spirito.


 
624.
Rapporti con il se stesso più aito. — Ciascuno ha la sua giornata buona, in cui trova il se stesso più alto; e la vera umanità esige di valutare ognuno solo in base a questo stato, e non in base ai giorni feriali della non libertà e dell'asservimento. Si deve, per esempio, valutare e onorare un pittore secondo la visione più alta che egli potè contemplare e rappresentare. Ma gli uomini stessi intrattengono rapporti molto diversi con questo loro superiore se stesso, e spesso recitano se stessi, in quanto in seguito continuano a imitare quel che essi sono in quei momenti. Alcuni vivono in un timore reverenziale per il loro ideale e vorrebbero rinnegarlo: temono il loro se stesso superiore perché, quando parla, parla in tono molto esigente. Esso inoltre possiede una spettrale libertà di venire e andare a suo piacere; perciò è spesso detto un dono degli dèi, mentre in realtà qualsiasi altra cosa è dono degli dèi (del caso): quello invece è l'uomo stesso.


 
625.
Uomini solitari. — Alcuni uomini sono tanto abituati a viver soli con se stessi, che non si paragonano affatto con gli altri, ma con animo ilare e tranquillo, tra buoni colloqui con se stessi, e persino con riso, continuano a intessere il monologo della loro vita. Ma se li si porta a confrontarsi con gli altri, essi tendono a sottovalutare ossessivamente se stessi, tanto che debbono esser costretti a imparare nuovamente solo dagli altri una buona e giusta opinione di sé: e anche da questa opinione appresa vorranno sempre detrarre e togliere qualcosa. — Pertanto a certi uomini bisogna concedere la loro solitudine e non essere così sciocchi, come tanto spesso accade, da compiangerli per questo.


 
626.
Senza melodia. — Ci sono uomini ai quali si confà a tal punto un costante fondarsi in se stessi e un armonioso ordinarsi di tutte le loro capacità, che ad essi ripugna ogni attività volta a un fine. Assomigliano à una musica composta soltanto di lunghi accordi armonici, senza che si affacci mai neppur l'ombra di una melodia mossa e articolata. Ogni movimento che venga dall'esterno serve solo a restituir subito alla barca il suo nuovo equilibrio sul lago di un'armoniosa consonanza. Di solito gli uomini moderni provano un'estrema impazienza quando si imbattono in nature del genere, che non diventano nulla, senza che di esse si possa dire che non sono nulla. Ma, in certi stati d'animo, la loro vista provoca la singolare domanda: a che scopo in genere la melodia? perché non ci basta che la vita si rispecchi quietamente in un lago profondo? — Nel Medioevo tali nature erano più frequenti che ai giorni nostri. Come è raro incontrare ancora qualcuno capace di vivere così lieto e tranquillo con se stesso anche nella mischia, e che dica a se stesso, come Goethe: «Il bene è la quiete profonda in cui vivo e cresco contro il mondo, e acquisto quello che né col fuoco né col ferro esso potrà mai togliermi»!


 
627.
Vita ed esperienze. — Se si osserva come taluni sanno servirsi delle loro esperienze vissute — delle loro insignificanti, quotidiane esperienze vissute — tanto che queste diventano un campo che fruttifica tre volte l'anno; mentre altri — e quanti! — pur travolti dai marosi delle vicende più eccitanti, delle più molteplici correnti di tempo e di popolo, rimangono sempre leggeri, sempre a galla, come sughero: alla fine si è tentati di suddividere l'umanità in una minoranza («minimanza») di persone capaci di trar molto dal poco, e in una maggioranza di coloro che col molto sanno fare poco; anzi ci si imbatte in quegli stregoni alla rovescia i quali, invece di creare il mondo dal nulla, del mondo fanno un nulla.


 
628.
Serietà nel gioco. — A Genova, verso il crepuscolo, udii giungere da una torre un lungo scampanio: non voleva finire, e risuonava come non fosse mai sazio di sé, sopra il brusio dei vicoli, nel cielo vespertino e nell'aria di mare, così pauroso e insieme così infantile, così malinconico. Allora mi ricordai delle parole di Platone, e all'improvviso le sentii in cuore: tutto l'umano, nel suo insieme, non merita di esser preso sul serio; eppure...


 
629.
Sulla convinzione e sulla giustizia. — Difendere in un secondo momento, una volta raffreddati e rinsaviti, quanto si dice, si promette, si decide nella passione — questa pretesa è uno dei fardelli più pesanti che opprimano l'umanità. Dover riconoscere, per tutto il tempo che verrà, le conseguenze dell'ira, della divampante vendetta, dell'entusiastica dedizione, può indurre a tanto maggior rancore verso questi sentimenti, quanto più ad essi si vota da ogni parte, e soprattutto da parte degli artisti, un culto idolatrico. Costoro alimentano, come hanno sempre fatto, l'apprezzamento delle passioni; ed esaltano, è vero, anche le terribili soddisfazioni della passione che uno prende su se stesso, quegli impeti di vendetta con il loro corteo di morte, mutilazioni, esilio volontario, e quella rassegnazione del cuore spezzato. In ogni caso: tengono desta la curiosità verso le passioni, ed è come se intendessero dire: «Senza passioni non avete vissuto proprio niente». Per aver giurato fedeltà, forse a un essere del tutto immaginario come un dio, per aver dato il proprio cuore a un principe, a un partito, a una donna, a un ordine sacerdotale, a un artista, a un pensatore, in uno stato di cieca illusione che ci rapiva e ci faceva apparire quegli esseri come degni di ogni venerazione, di ogni sacrificio, si è ora indissolubilmente vincolati? Anzi, non abbiamo allora ingannato noi stessi? Non era quella una promessa ipotetica, con la seppur tacita presupposizione che quegli esseri, ai quali ci consacravamo, fossero realmente come apparivano alla nostra immaginazione? Siamo tenuti a restar fedeli ai nostri errori, anche rendendoci conto che con questa fedeltà danneggiamo il nostro io superiore? — No, non esiste nessuna legge, nessun dovere di questo tipo; noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà, sacrificare di continuo i nostri ideali. Da un periodo della vita all'altro non passiamo senza provocare queste pene del tradimento e senza soffrirne noi stessi. Sarebbe forse necessario che, per sottrarci a questi dolori, dovessimo guardarci dai ribollimenti del nostro sentimento? Il mondo non diverrebbe allora troppo desolato, troppo spettrale per noi? Chiediamoci piuttosto se questi dolori per un cambiamento di convinzione siano necessari, oppure se non dipendano da un'opinione e da una valutazione errate. Perché si ammira chi rimane fedele alla sua convinzione e si disprezza colui che la muta? La risposta, temo, sarà questa: perché ognuno presume che a indurre a tale mutamento siano soltanto motivi di ordinaria utilità o il timore personale. Cioè: in fondo si crede che nessuno cambierà le sue opinioni sinché queste gli saranno di vantaggio o almeno non lo danneggeranno. Ma se è così, ciò depone a sfavore dell'importanza intellettuale di tutte le convinzioni. Esaminiamo una volta come nascano le convinzioni, e vediamo se esse non siano troppo sopravvalutate: ne verrà che anche il cambiamento delle convinzioni viene in ogni caso misurato con un criterio errato, e che noi sinora abbiamo troppo sofferto di questo cambiamento.


 
630.
La convinzione è la fede di possedere, in un qualche punto della conoscenza, la verità assoluta. Questa fede presuppone dunque che esistano verità assolute; così pure, che siano stati trovati quei metodi perfetti per giungere ad esse; e infine, che chiunque possieda convinzioni faccia uso di quei metodi perfetti. Tutte e tre queste enunciazioni dimostrano subito che l'uomo delle convinzioni non è l'uomo del pensiero scientifico; ci sta davanti nell'età dell'innocenza teoretica ed è un bambino, per quanto egli possa essere cresciuto. Ma interi millenni sono vissuti con quelle premesse puerili, e da queste sono sgorgate le più possenti fonti di energia dell'umanità. Gli innumerevoli uomini che si sacrificarono per le proprie convinzioni, pensavano di farlo per la verità assoluta. E in questo ebbero tutti torto: probabilmente non si è ancora sacrificato nessun uomo per la verità; per lo meno, l'espressione dogmatica della sua fede non sarà stata scientifica, oppure lo sarà stata solo a metà. Ma in realtà si voleva aver ragione perché si riteneva di dovere aver ragione. Farsi portar via la propria fede significava forse compromettere la beatitudine eterna. In un'occasione di tale estrema importanza la «volontà» era il finanche troppo udibile suggeritore dell'intelletto. Il presupposto di ogni credente di qualsivoglia tendenza era di non poter essere confutato; se gli argomenti di confutazione si dimostravano molto forti, gli restava pur sempre da calunniare la ragione in genere, e forse persino da inalberare il «credo quia absurdum est» come vessillo del più spinto fanatismo. Non è la lotta delle opinioni che ha reso la storia cosi violenta, ma la lotta della fede nelle opinioni, cioè la lotta delle convinzioni. Eppure, se tutti coloro che nutrivano un così alto concetto della loro convinzione, le votavano sacrifici di ogni sorta e per servirla non risparmiavano onore, corpo e vita, avessero dedicato solo la metà di quella forza a esaminare con quale diritto si attenevano a questa o a quella convinzione e per quale strada vi erano giunti: come apparirebbe pacifica la storia dell'umanità! Quanto più di conosciuto vi sarebbe! Ci sarebbero state risparmiate tutte le crudeli scene di persecuzione degli eretici di ogni sorta, per due motivi: in primo luogo perché gli inquisitori avrebbero inquisito innanzitutto in se stessi e si sarebbero liberati dalla presunzione di difendere la verità assoluta; e poi perché gli eretici stessi non avrebbero più prestato partecipazione alcuna, dopo averle analizzate, a proposizioni così mal fondate come sono quelle di tutti i settari e «ortodossi» religiosi.


 
631.
Dai tempi in cui gli uomini erano avvezzi a credere al possesso della verità assoluta, proviene un profondo disagio nei confronti di ogni posizione scettica o relativistica su qualsiasi problema della conoscenza; per lo più si preferisce votarsi incondizionatamente a una convinzione posseduta da persone autorevoli (padre, amico, maestro, principe) e, non facendolo, si prova una sorta di rimorso. È una tendenza quanto mai comprensibile, e le sue conseguenze non danno alcun diritto di muovere vivaci rimproveri contro lo sviluppo della ragione umana. A poco a poco, però, lo spirito scientifico deve far maturare nell'uomo la virtù della prudente astensione, quella saggia moderazione, più conosciuta nella sfera della vita pratica che in quella della vita teoretica, che per esempio Goethe ha rappresentato in Antonio, come oggetto di amarezza per tutti i Tasso, cioè perle nature non scientifiche e inattive allo stesso tempo. L'uomo della convinzione ha in sé un diritto a non comprendere l'uomo del pensiero prudente, il teoretico Antonio; l'uomo scientifico invece non ha alcun diritto di biasimare l'altro per questo; lo domina con lo sguardo e sa inoltre, in determinati casi, che quello si aggrapperà ancora a lui, come Tasso finisce per fare con Antonio.


 
632.
Chi non è passato attraverso diverse convinzioni, ma resta fermo alla fede nelle cui reti restò impigliato la prima volta, in ogni caso è, proprio per questa immutabilità, un rappresentante di culture arretrate; conformemente a tale mancanza di educazione (che presuppone sempre una educabilità), è duro, irraggiungibile, ostinato, inclemente, un eterno sospettoso, un senza scrupoli, che ricorre a ogni mezzo per imporre la propria opinione, non essendo in grado di comprendere che debbono esistere opinioni diverse; da questo punto di vista egli è forse una fonte di energia, e in i culture troppo libere e rilassate è addirittura salutare, ma solo in quanto incita fortemente a opporgli resistenza: poiché in tal modo il delicato prodotto della nuova cultura, costretta a lottare contro di lui, diviene anch'esso forte.


 
633.
Noi siamo ancora essenzialmente gli stessi uomini del tempo della Riforma: e come non potrebbe esser così? Ma il fatto che non ci permettiamo più certi mezzi per far prevalere la nostra opinione ci distacca da quel periodo e dimostra che apparteniamo a una cultura superiore. Chi, alla stregua degli uomini della Riforma, continua a combattere e abbattere opinioni con sospetti e accessi di collera, rivela chiaramente che, se fosse vissuto in altri tempi, avrebbe bruciato i suoi avversari, e che se fosse vissuto come oppositore della Riforma, sarebbe ricorso a tutti i mezzi dell'Inquisizione. Questa Inquisizione a quei tempi aveva un senso, poiché non significava altro che il generale stato d'assedio che dovette essere imposto su tutto il regno della Chiesa e che, come ogni stato d'assedio, giustificava il ricorso a mezzi estremi, con la premessa cioè (che oggi non condividiamo più con gli uomini di allora) che, nella Chiesa, si possedesse la verità e si dovesse salvaguardare questa verità a ogni costo, con ogni sacrificio, per la salvezza dell'umanità. Oggi invece non si concede più a nessuno così facilmente il possesso della verità: i rigorosi metodi di ricerca hanno diffuso sufficiente diffidenza e prudenza, sicché chiunque difenda con violenza di parole e di atti un'opinione, viene guardato come un nemico della nostra cultura attuale o almeno come uno rimasto indietro. In effetti: il pathos di possedere la verità vale oggi molto poco in confronto a quello, certo più blando e sommesso, della ricerca della verità, che mai si stanca di imparare di nuovo e di provare di nuovo.


 
634.
Del resto, la stessa ricerca metodica della verità è il risultato di quei tempi in cui le convinzioni si combattevano reciprocamente. Se l'individuo non avesse tenuto alla sua «verità», cioè al suo aver ragione, non esisterebbero metodi di ricerca; invece, con l'eterna lotta dei vari pretendenti alla verità assoluta si avanzò passo passo, per trovare quei princìpi incontestabili in base ai quali esaminare la validità di quelle pretese e comporre la contesa. Dapprima si decise in base all'autorità, più tardi ci si criticò a vicenda sulle vie e sui mezzi con i quali la pretesa verità era stata trovata; in mezzo ci fu un periodo in cui si trassero le conseguenze della proposizione avversaria e forse le si trovò dannose e apportatrici d'infelicità: dal che doveva poi risultare per il giudizio di ognuno che la convinzione dell'avversario conteneva un errore. Infine il conflitto personale tra i pensatori ha talmente affinato i metodi, che realmente fu possibile scoprire delle verità, e che sono stati svelati agli occhi di tutti gli errori dei metodi precedenti.


 
635.
In complesso i metodi scientifici sono un risultato della ricerca importante almeno quanto qualsiasi altro risultato: sulla conoscenza del metodo si basa infatti lo spirito scientifico e, ove quei metodi andassero perduti, tutti i risultati della scienza non potrebbero impedire un rinnovato dilagare della superstizione e dell'insensatezza. Le persone di spirito possono imparare quanto vogliono dai risultati della scienza: dalla loro conversazione, e soprattutto dalle ipotesi in essa contenute, si noterà sempre che mancano di spirito scientifico: non possiedono quell'istintiva diffidenza verso gli erramenti del pensiero la quale, in seguito a un lungo esercizio, ha messo radici nell'anima di ogni uomo scientifico. In genere ad esse basta trovare su una cosa un'ipotesi qualsiasi per entusiasmarsene e pensare che con ciò sia fatto tutto. Per esse, possedere un'opinione già significa diventarne fanatici e riporsela da allora in poi in cuore come convinzione. Di fronte a una cosa non spiegata, si riscaldano per la prima idea che vien loro in mente e che assonagli a una spiegazione: dal che si producono di continuo, soprattutto nel campo della politica, le peggiori conseguenze. — Per questo oggi ciascuno dovrebbe aver imparato sin dalle basi almeno una scienza: allora saprebbe che cosa sia un metodo e quanto necessaria sia la massima riflessione. Questo è un consiglio da dare soprattutto alle donne, che oggi sono le vittime senza scampo di tutte le ipotesi, soprattutto quando queste fanno un'impressione di ricchezza di spirito, fascino, vitalità, vigore. Anzi, a ben guardare, si nota che la grandissima parte di tutte le persone colte desidera tuttora da un pensatore convinzioni e nient'altro che convinzioni, e che solo una piccola minoranza vuole certezza. Quelle vogliono esser fortemente trascinate per ottenere così anch'esse un aumento di forza; queste poche possiedono quell'interesse oggettivo che prescinde da vantaggi personali, anche da quello dell'aumento di forza prima menzionato. Su quella classe, di gran lunga preponderante, si fa conto ovunque il pensatore si comporti e si definisca come genio, dunque si atteggi a uomo superiore al quale spetti l'autorità. Il genio di quella specie, in quanto attizza l'ardore delle convinzioni e suscita sfiducia contro lo spirito prudente e modesto della scienza, è un nemico della verità, per quanto possa invece ritenersene l'ammiratore.


 
636.
Esiste a dire il vero una specie affatto diversa di genialità, quella della giustizia; e non posso assolutamente decidermi a considerarla inferiore a una qualsiasi genialità filosofica, politica e artistica. È nella sua natura evitare con sincera indignazione tutto ciò che abbaglia e turba il giudizio sulle cose; di conseguenza essa è nemica delle convinzioni, poiché vuol dare a ciascuno il suo — sia esso una cosa viva o morta, reale o immaginaria —, e per questo deve proprio conoscerlo; perciò pone ogni cosa nella luce migliore, e le gira attorno con occhi attenti. Alla fine darà persino alla sua avversaria, la cieca o miope «convinzione» (come la chiamano gli uomini; per le donne si chiama «fede») — quel che è della convinzione — per amore della verità.


 
637.
Dalle passioni nascono le opinioni; la pigrizia dello spirito le fossilizza in convinzioni. Ma chi si sente di spirito libero, instancabilmente vitale, può impedire con un continuo mutamento questa fossilizzazione; e se nell'insieme è addirittura uno che pensando getta palle di neve, in testa in genere non avrà opinioni, ma solo certezze e ben soppesate possibilità. — Ma noi, che siamo nature miste e ora siamo bruciati dal fuoco, ora raffreddati dallo spirito, vogliamo inginocchiarci innanzi alla giustizia come innanzi all'unica dea che riconosciamo sopra di noi. Il fuoco che è in noi di solito ci rende ingiusti e, nel senso di quella dea, impuri; mai dobbiamo, in questo stato, toccare la sua mano, mai allora cade su di noi il grave sorriso del suo compiacimento. Noi la veneriamo come l'Iside velata della nostra vita; vergognosi le porgiamo il nostro dolore come ammenda e sacrificio, quando il fuoco ci arde e vuole divorarci. È lo spirito che ci preserva dal bruciare e carbonizzarci completamente; di tanto in tanto ci strappa all'altare sacrificale della giustizia o ci avvolge in un tessuto di amianto. Allora, liberati dal fuoco, procediamo, portati dallo spirito, di opinione in opinione, attraverso l'alternarsi dei partiti, come nobili traditori di tutte le cose che in genere possono esser tradite — e tuttavia senza senso di colpa.


 
638.
Il viandante. — Chi sia giunto anche solo relativamente alla lioertà della ragione, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante, — anche se non un viaggiatore diretto verso un'ultima meta, che non c'è. Ma egli ben vuole guardare, e tener gli occhi aperti su tutto quel che veramente accade nel mondo; per questo non gli è consentito unire troppo strettamente il suo cuore a nessuna cosa particolare; dev'esserci in lui stesso qualcosa di nomade, che gioisca del mutamento e della provvisorietà. Certo, per un tale uomo giungeranno cattive notti, in cui sarà stanco e troverà chiusa la porta della città che dovrebbe offrirgli riposo; e forse, oltre a ciò, il deserto giungerà sino a quella porta, come in Oriente, e gli animali da preda urleranno ora lontano ora vicino, e si leverà un forte vento, e i ladri gli ruberanno le bestie da tiro. Allora la notte terribile calerà per lui sul deserto come un secondo deserto, e il suo cuore sarà stanco di peregrinare. Ma quando si leverà il sole del mattino, rosseggiante come una divinità della collera, la città si aprirà, e nel volto degli abitanti egli vedrà forse ancor più deserto, sporcizia, inganno, insicurezza che davanti alle porte — e il giorno sarà quasi peggiore della notte. Questo potrà ben succedere una volta al viandante; ma poi giungeranno a ricompensarlo i gioiosi mattini di altri paesi e di altri giorni, in cui già nel grigiore della luce egli vedrà passar danzando accanto a sé, nella nebbia dei monti, gli sciami delle Muse, e in cui poi, quando silenzioso, nell'armonia mattutina dell'anima, egli passeggerà sotto gli alberi, dalle vette e dai recessi delle fronde gli cadranno intorno solo cose belle e chiare, dono di tutti quegli spiriti liberi che stanno sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, come lui, nel loro modo ora gioioso ora meditabondo, sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri dell'alba, essi meditano come mai il giorno possa avere, tra il decimo e il dodicesimo tocco, un volto così puro, così trasparente, così serenamente radioso: — essi cercano la filosofia del mattino.


 
Tra amici. Un epilogo

 
1.
È bello tacere insieme,

Più bello, ridere insieme, —

Sotto il lenzuolo di seta del cielo,

Appoggiati al muschio e al faggio

Ridere bene e forte con gli amici

Scoprendo i denti bianchi.

Se ho fatto bene, meglio tacere;

Se ho fatto male — meglio ridere

E fare sempre peggio,

Fare peggio, rider peggio,

Sinché non scenderemo nella fossa.

Amici! Sì! Così deve andare? —

Amen! E arrivederci!


 
2.
Nessuna scusa! Nessun perdono!

Concedete voi lieti, voi liberi di cuore

A questo libro irragionevole

Orecchio, cuore e asilo!

Credetemi, amici, non a maledizione

Si volse per me la mia irragionevolezza!

Quel che io trovo, quel che io cerco —

È mai stato in qualche libro?

Onorate in me la corporazione dei matti!

Imparate da questo libro per matti

Come la ragione venga — «alla ragione»!

Allora, amici, così deve andare? —

Amen! E arrivederci!


 

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